"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 2 dicembre 2018

René Guénon L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 11. Le differenti condizioni di Âtmâ nell’essere umano

René Guénon 
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

11. Le differenti condizioni di Âtmâ nell’essere umano

Affronteremo ora lo studio delle differenti condizioni dell’essere individuale, il quale risiede nella forma vivente, che, come abbiamo spiegato più sopra, comprende da una parte la forma sottile (sûkshma-sharîra o linga-sharîra) e dall’altra quella grossolana o corporea (sthûla-sharîra).
Quando parliamo di queste condizioni, non intendiamo affatto la condizione speciale che, secondo quanto abbiamo già detto, è propria di ciascun individuo e lo distingue da tutti gli altri, né l’insieme delle condizioni limitative che definisce ciascuno stato d’esistenza, considerato in particolare; si tratta invece esclusivamente dei diversi stati o, se si preferisce, delle diverse modalità di cui è suscettibile, in via del tutto generale, uno stesso essere individuale, qualunque esso sia. Queste modalità possono sempre, nel loro insieme, essere ricollegate allo stato grossolano e a quello sottile, dei quali il primo è limitato alla sola modalità corporea, e il secondo comprende il resto dell’individualità (gli altri stati individuali non sono qui in discussione, poiché consideriamo in particolare lo stato umano). Ciò che è al di là di questi due stati non appartiene più all’individuo come tale: alludiamo a ciò che si potrebbe chiamare lo stato «causale», cioè a quello che corrisponde al kârana-sharîra e che di conseguenza è di ordine universale e informale. Con questo stato «causale», d’altronde, se non siamo più nel dominio dell’esistenza individuale, siamo però ancora in quello dell’Essere; bisogna dunque considerare anche, di là dall’Essere, un quarto stato principiale, assolutamente incondizionato. Metafisicamente, tutti questi stati, anche quelli che propriamente appartengono all’individuo, sono riferiti ad Âtmâ, vale a dire alla personalità, perché questa sola costituisce la realtà profonda dell’essere, e perché ogni stato di tale essere sarebbe puramente illusorio se si pretendesse di separarlo dalla personalità. Gli stati dell’essere, quali che siano, non rappresentano nient’altro che le possibilità di Âtmâ; perciò si può parlare delle diverse condizioni in cui si trova l’essere come se fossero in realtà condizioni di Âtmâ, benché in se stesso Âtmâ non ne sia per nulla modificato, né cessi in alcun modo per questo di essere incondizionato, così come non diviene mai manifestato, pur essendo il principio essenziale e trascendente della manifestazione in tutte le sue modalità.
Tralasciando per il momento il quarto stato, sul quale ritorneremo in seguito, elenchiamo i primi tre: lo stato di veglia, che corrisponde alla manifestazione grossolana; lo stato di sogno, che corrisponde alla manifestazione sottile; il sonno profondo, che è lo stato «causale» e informale. A questi tre stati, ne viene talora aggiunto un altro, quello della morte, e un altro ancora, il deliquio estatico, considerato come intermedio (sandhyâ)[1] fra il sonno profondo e la morte, così come il sogno è intermedio fra la veglia e il sonno profondo.[2] Tuttavia, questi ultimi due stati, in genere, non sono enumerati a parte, poiché non sono essenzialmente distinti da quello del sonno profondo, stato extra-individuale in realtà, come abbiamo spiegato poc’anzi, nel quale l’essere rientra ugualmente nella non-manifestazione, o per lo meno nell’informale, «l’anima vivente (jîvâtmâ) ritirandosi in seno allo Spirito Universale (Âtmâ) per la via che conduce al centro stesso dell’essere, là dove è la dimora di Brahma».[3]
Per una descrizione dettagliata di questi stati, basta riferirsi al testo della Mândûkya Upanishad, di cui abbiamo già citato l’inizio, a eccezione però di una frase, la primissima, che è la seguente: «Om, questa sillaba (akshara)[4] è tutto ciò che è; segue la sua spiegazione». Il monosillabo sacro Om, nel quale si esprime l’essenza del Vêda,[5] è considerato qui il simbolo ideografico di Âtmâ; e come questa sillaba, composta di tre caratteri (mâtrâ, i caratteri sono a, u e m, e i primi due si contraggono in o),[6] ha quattro elementi, di cui il quarto, che è il monosillabo stesso considerato sinteticamente nel suo aspetto principiale, è «non-espresso» da un carattere (amâtra), poiché è anteriore a ogni distinzione all’interno dell’«indissolubile» (akshara), così Âtmâ ha quattro condizioni (pâda), di cui la quarta non è in verità una condizione particolare, ma è Âtmâ considerato in Se stesso, in modo assolutamente trascendente e indipendentemente da ogni condizione, che perciò non è suscettibile di alcuna rappresentazione. Esporremo ora in successione ciò che nel testo a cui ci riferiamo viene detto in merito a ciascuna di queste quattro condizioni di Âtmâ, cominciando dall’ultimo grado della manifestazione, per poi risalire fino allo stato supremo, totale e incondizionato.



[1] La parola sandhyâ (derivata da sandhi, punto di contatto o di congiunzione fra due cose) serve anche, in un’accezione più comune, a indicare il crepuscolo (del mattino o della sera), considerato parimenti come intermedio fra il giorno e la notte; nella teoria dei cicli cosmici, designa l’intervallo fra due Yuga.
[2] Su questo stato, cfr. Brahma-Sûtra, 3° Adhyâya, 2° Pâda, sûtra 10.
[3] Brahma-Sûtra, 3° Adhyâya, 2° Pâda, sûtra 7 e 8.
[4] La parola akshara, nella sua accezione etimologica, significa «indissolubile» o «indistruttibile»; se la sillaba è designata con questa parola, è perché si ritiene che essa (e non il carattere alfabetico) costituisca l’unità primitiva e l’elemento fondamentale del linguaggio; ogni radice verbale è d’altronde sillabica. La radice verbale è chiamata in sanscrito dhâtu, parola che significa propriamente «seme», perché, per le possibilità di modificazioni multiple che comporta e racchiude in Sé, è veramente il seme dal cui sviluppo nasce tutto quanto il linguaggio. Si può dire che la radice sia l’elemento fisso e invariabile della parola, che rappresenta la sua natura fondamentale immutabile, e al quale vengono poi ad aggiungersi elementi secondari e variabili, che rappresentano accidenti (in senso etimologico) o modificazioni dell’idea principale.
[5] Cfr. Chhândogya Upanishad, 1° Prapâthaka, 1° Khanda, e 2° Prapâthaka, 23° Khanda; Brihad-Âranyaka Upanishad, 5° Adhyâya, 1° Brâhmana, shruti 1.
[6] In sanscrito la vocale o è infatti formata dall’unione di a e u, così come la vocale ê è formata dall’unione di a e i. Anche in arabo, le tre vocali a, i e u sono considerate le sole fondamentali e veramente distinte.

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