"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 25 marzo 2019

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 17. L’evoluzione postuma dell’essere umano

René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

17. L’evoluzione postuma dell’essere umano

Fin qui abbiamo esaminato la costituzione dell’essere umano e i differenti stati di cui è suscettibile finché sussiste come composto dei diversi elementi che abbiamo distinto in questa costituzione, vale a dire per tutta la durata della sua vita individuale. 
Su questo punto è necessario insistere: gli stati che sono veramente propri all’individuo come tale, vale a dire non soltanto lo stato grossolano o corporeo, per il quale ciò è evidente, ma anche lo stato sottile (a condizione s’intende di comprendervi solamente le modalità extra-corporee dello stato umano integrale, e non gli altri stati individuali dell’essere), sono propriamente ed essenzialmente stati dell’uomo vivente. Ciò non significa dover ammettere che lo stato sottile cessa nell’istante stesso della morte corporea, e per il solo fatto che essa ha luogo; in seguito vedremo che allora si produce, al contrario, un passaggio dell’essere nella forma sottile, ma questo passaggio costituisce soltanto una fase transitoria nel riassorbimento delle facoltà individuali dal manifestato al non-manifestato, fase la cui esistenza si spiega naturalmente con il carattere intermedio che già abbiamo riconosciuto allo stato sottile. È vero che ci si può tuttavia trovare a dover considerare in un certo senso, e per lo meno in certi casi, un prolungamento, anzi, un prolungamento indefinito dell’individualità umana, che bisognerà necessariamente riferire alle modalità sottili, cioè extracorporee, di questa individualità; ma tale prolungamento non è affatto la stessa cosa dello stato sottile quale esisteva durante la vita terrena. Bisogna rendersi conto, infatti, che, sotto la stessa denominazione di «stato sottile», si è obbligati a comprendere modalità assai differenti ed estremamente complesse, anche se ci limitiamo a prendere in considerazione solamente le possibilità propriamente umane; perciò abbiamo avuto cura, fin dal principio, di avvertire che questa denominazione doveva sempre essere intesa in rapporto allo stato corporeo preso come punto di partenza e termine di paragone, sicché essa acquista un senso preciso soltanto se la si contrappone allo stato corporeo o grossolano, che, da parte sua, ci appare sufficientemente definito di per se stesso, perché è quello nel quale noi ci troviamo adesso. Si sarà potuto anche notare che, fra i cinque involucri del «Sé», ce ne sono tre considerati come costitutivi della forma sottile (mentre uno solo corrisponde a ciascuno degli altri due stati condizionati di Âtmâ; di questi, infatti, uno è in realtà soltanto una modalità particolare e determinata dell’individuo, e l’altro è uno stato essenzialmente unificato e «non-distinto»); ciò è inoltre una prova evidente della complessità dello stato nel quale il «Sé» ha questa forma per veicolo, complessità che bisogna sempre ricordare se si vuol comprendere ciò che se ne potrà dire secondo i diversi punti di vista da cui verrà considerato.
Dobbiamo ora affrontare la questione di quella che viene di solito chiamata l’«evoluzione postuma» dell’essere umano, vale a dire delle conseguenze che derivano per questo essere dalla morte o, per meglio precisare come intendiamo la parola, dalla dissoluzione di quel composto di cui abbiamo parlato e che costituisce la sua individualità attuale. Occorre d’altronde notare che, quando questa dissoluzione è avvenuta, l’essere umano propriamente detto non esiste più, poiché è essenzialmente questo composto che costituisce l’uomo individuale; il solo caso in cui è ancora possibile chiamarlo umano, in un certo senso, è quando, dopo la morte corporea, l’essere resta in qualcuno di quei prolungamenti dell’individualità a cui alludevamo, perché, in tal caso, benché questa individualità non sia più completa sotto il profilo della manifestazione (ormai le manca infatti lo stato corporeo, poiché le possibilità che vi corrispondono hanno compiuto l’intero ciclo del loro sviluppo), alcuni dei suoi elementi psichici o sottili sussistono, in un certo qual modo, senza dissolversi. Negli altri casi, l’essere non può più venir considerato umano, poiché, dallo stato per il quale questo nome viene usato, è passato a un altro stato, che può essere individuale oppure no; così, l’essere che prima era umano non lo è più ed è diventato qualcos’altro, così come, con la nascita, esso era divenuto umano, passando da un altro stato a quello che adesso è il nostro. Del resto, se si prendono la nascita e la morte nel senso più generale, vale a dire come cambiamenti di stato, ci si rende conto immediatamente che si tratta di modificazioni che si corrispondono analogicamente, essendo l’inizio e la fine di un ciclo d’esistenza individuale; anzi, quando si lascia il punto di vista peculiare a uno stato determinato per considerare il concatenamento dei diversi stati fra loro, ci si accorge che, in realtà, sono fenomeni rigorosamente equivalenti, perché la morte a uno stato è allo stesso tempo la nascita in un altro. In altre parole, la stessa modificazione è una morte o una nascita secondo lo stato o il ciclo d’esistenza in rapporto al quale la si considera, poiché si tratta propriamente del punto comune ai due stati, o del passaggio dall’uno all’altro; e ciò che è vero qui per stati differenti lo è anche, a un altro grado, per modalità diverse di uno stesso stato, se si considerano queste modalità come elementi che costituiscono, con lo sviluppo delle loro possibilità rispettive, altrettanti cicli secondari che si integrano nell’insieme di un ciclo più vasto.[1] Infine, è necessario aggiungere espressamente che la «specificazione», nel senso da noi dianzi attribuito alla parola, cioè di appartenenza a una specie definita, quale la specie umana ‑ che impone a un essere certe condizioni generali, le quali ne costituiscono la natura specifica ‑, è valida solamente in uno stato determinato, e non può estendersi di là da questo stato; è impossibile che sia altrimenti, dal momento che la specie non è affatto un principio trascendente rispetto allo stato individuale, ma appartiene esclusivamente al dominio di questo, essendo di per sé sottomessa alle condizioni limitative che lo definiscono; perciò l’essere che è passato a un altro stato non è più umano, poiché non appartiene più in alcun modo alla specie umana.[2]
Dobbiamo inoltre fare delle riserve sull’espressione «evoluzione postuma», che potrebbe facilmente dare luogo a diversi equivoci; prima di tutto, dato che la morte è concepita come la dissoluzione del composto umano, è evidente che la parola «evoluzione» non può essere qui intesa nel senso di uno sviluppo individuale, poiché, al contrario, si tratta di un riassorbimento dell’individualità nello stato non-manifestato;[3] dal punto di vista particolare dell’individuo sarebbe dunque piuttosto un’«involuzione». Etimologicamente, infatti, le parole «evoluzione» e «involuzione» non significano nulla più e nient’altro che «sviluppo» e «inviluppo»;[4] ma sappiamo bene che, nel linguaggio moderno, la parola «evoluzione» ha ricevuto comunemente tutt’altra accezione, che ne ha fatto quasi un sinonimo di «progresso». Abbiamo già avuto occasione di chiarire sufficientemente il nostro pensiero su queste idee recentissime di «progresso» o di «evoluzione», che, gonfiandosi oltre ogni ragionevole misura, sono riuscite a deformare completamente la mentalità occidentale attuale: non vi ritorneremo sopra. Ricorderemo soltanto che non si può parlare plausibilmente di «progresso» che in modo del tutto relativo, avendo sempre cura di precisare sotto quale aspetto lo si intende ed entro quali limiti lo si considera; ridotto a queste proporzioni, non ha più niente in comune con quel «progresso» assoluto di cui si è cominciato a parlare verso la fine del XVIII secolo, e che i nostri contemporanei volentieri fregiano del nome di «evoluzione», secondo loro più «scientifico». Il pensiero orientale, come il pensiero dell’Occidente antico e medioevale, non può ammettere la nozione di «progresso» che nel senso relativo da noi indicato, vale a dire come un’idea del tutto secondaria, di portata estremamente limitata e senza alcun valore metafisico, poiché è tra quelle che possono riferirsi solamente a possibilità di ordine particolare e non possono essere trasposte oltre certi limiti. Il punto di vista «evolutivo» non è suscettibile di universalizzazione, né si può concepire l’essere vero come qualche cosa che si «evolve» fra due punti definiti, o che «progredisce», anche indefinitamente, in una determinata direzione; tali concezioni sono interamente sprovviste di ogni significato e proverebbero una completa ignoranza dei dati più elementari della metafisica. Si potrebbe tutt’al più parlare, in un certo modo, di «evoluzione» per l’essere nel senso di un passaggio a uno stato superiore; ma bisognerebbe inoltre fare una riserva che conservasse al termine la sua relatività: infatti, per l’essere considerato in sé e nella sua totalità, non si può mai parlare di «evoluzione» o di «involuzione», in qualsiasi senso si vogliano intendere queste parole, poiché la sua identità essenziale non è mai alterata dalle modificazioni particolari e contingenti che pregiudicano soltanto l’uno o l’altro dei suoi stati condizionati.
Un’altra riserva è ancora necessaria per l’uso della parola «postumo»: è soltanto dal punto di vista particolare dell’individualità umana, e in quanto essa è condizionata dal tempo, che si può parlare di ciò che ha luogo «dopo la morte», e anche di ciò che è avvenuto «prima della nascita», per lo meno se s’intende conservare alle parole «prima» e «dopo» quel significato cronologico che hanno ordinariamente. In se stessi, questi stati, se sono al di fuori del dominio dell’individualità umana, non sono in alcun modo temporali, né possono, di conseguenza, essere situati cronologicamente; e ciò è vero anche per quegli stati che possono avere fra le loro condizioni una certa modalità di durata, vale a dire di successione, dal momento che non si tratta più di una successione temporale. Lo stato non manifestato è poi evidentemente libero da ogni successione, perciò le idee di anteriorità e di posteriorità, anche intese nella loro accezione più vasta, non possono assolutamente applicarvisi; e a questo riguardo si può osservare che, anche durante la vita, l’essere non ha più nozione del tempo quando la sua coscienza sia uscita dal dominio individuale, come nel sonno profondo o nel deliquio estatico: finché l’essere è in questi stati, che sono in realtà non-manifestati, il tempo per lui non esiste più. Resterebbe da esaminare il caso in cui lo stato «postumo» è un semplice prolungamento dell’individualità umana: in verità, questo prolungamento può essere situato nella «perpetuità», vale a dire nell’indefinitezza temporale, o, in altre parole, in un modo di successione che è ancora nel tempo (poiché non si tratta di uno stato sottomesso a condizioni diverse da quelle del nostro), ma in un tempo che non ha più comune misura con quello nel quale si svolge l’esistenza corporea. D’altronde, dal punto di vista metafisico, un tale stato non ci interessa particolarmente poiché, al contrario, dobbiamo esaminare essenzialmente, dallo stesso punto di vista, la possibilità di uscire dalle condizioni individuali, e non quella di permanervi indefinitamente; se però dobbiamo parlarne, è soprattutto per tener conto di tutti i casi possibili, e anche perché, come vedremo in seguito, questo prolungamento dell’esistenza umana riserva all’essere una possibilità di raggiungere la «Liberazione» senza passare per altri stati individuali. Comunque sia, e tralasciando quest’ultimo caso, possiamo dire che se si parla di stati non-umani situandoli «prima della nascita» e «dopo la morte», è in primo luogo perché così essi appaiono in rapporto all’individualità; bisogna d’altro canto aver molta cura di specificare che non è l’individualità che passa in questi stati o li percorre successivamente, poiché sono stati che si pongono al di fuori del suo dominio e che non la concernono in quanto individualità. D’altra parte, vi è un senso nel quale le idee di anteriorità e di posteriorità sono utilizzabili al di fuori di ogni prospettiva legata a una successione temporale o d’altro genere: alludiamo a quell’ordine, allo stesso tempo logico e ontologico, nel quale i diversi stati si concatenano e si determinano l’un l’altro; se uno stato è così la conseguenza di un altro, si potrà dire che è ad esso posteriore, usando in tale modo di parlare lo stesso simbolismo temporale che serve a esprimere tutta la teoria dei cicli, quantunque, metafisicamente, vi sia perfetta simultaneità fra tutti gli stati, dato che un punto di vista di successione effettiva si applica soltanto all’interno di uno stato determinato.
Dopo aver detto tutto ciò affinché non si fosse tentati di attribuire all’espressione «evoluzione postuma», se si tiene a usarla in mancanza di un’altra più adatta e per conformarsi a certe abitudini, una importanza e un significato che in realtà non ha né potrebbe avere, iniziamo lo studio del problema al quale essa si riferisce, e la cui soluzione, d’altronde, risulta quasi immediatamente da tutte le considerazioni che precedono. L’esposizione che seguirà è tratta dai Brahma-Sûtra[5] e dai loro commenti tradizionali (e con ciò intendiamo soprattutto quello di Shankarâchârya), ma dobbiamo avvertire che non si tratta di una traduzione letterale; qualche volta ci capiterà di riassumere il commento[6] e altre volte anche di commentarlo a nostra volta, perché, diversamente, il riassunto resterebbe quasi incomprensibile, come assai spesso avviene quando si interpretano i testi orientali.[7]




[1] Queste considerazioni sulla nascita e sulla morte valgono d’altronde tanto dal punto di vista «macrocosmico» quanto da quello «microcosmico»; sebbene non sia possibile adesso soffermarci su di esse, si potrà senza dubbio intravederne le conseguenze per quel che concerne la teoria dei cicli cosmici.
[2] Beninteso, in tutto questo la parola «umano» è da noi usata solamente nel suo senso proprio e letterale, in cui essa si applica soltanto all’uomo individuale; non si tratta affatto della trasposizione analogica che rende possibile la concezione dell’«Uomo Universale».
[3] Non si può d’altronde dire che si tratti di una distruzione dell’individualità, poiché, nel non-manifestato, le possibilità che la costituiscono sussistono in principio in modo permanente, come tutte le altre possibilità dell’essere; tuttavia, poiché l’individualità è tale solo quando è nella manifestazione, si può ben dire che, rientrando nel non-manifestato, essa davvero svanisce o cessa comunque di esistere come individualità: è però «trasformata», non annientata (poiché ciò che è non può cessare d’essere).
[4] In questo senso, ma soltanto in questo, si potrebbero applicare tali parole alle due fasi che si distinguono in ogni ciclo d’esistenza, come precedentemente abbiamo accennato.
[5] 4° Adhyâya, 2º, 3° e 4° Pâda. Il 1º Pâda di questo 4° Adhyâya è dedicato all’esame dei mezzi della Conoscenza Divina, i cui risultati saranno esposti in quel che segue.
[6] Colebrooke ha dato un riassunto di questo genere nei suoi Essais sur la Philosophie des Hindous (IVe Essai), ma la sua interpretazione, quantunque non deformata da pregiudizi sistematici quali si riscontrano troppo frequentemente in altri orientalisti, è estremamente difettosa dal punto di vista metafisico, per l’incomprensione pura e semplice di questo punto di vista stesso.
[7] Faremo notare a questo proposito che, in arabo, la parola tarjumah significa allo stesso tempo «traduzione» e «commento», poiché l’una è considerata inseparabile dall’altro; il suo equivalente più esatto sarebbe dunque «spiegazione» o «interpretazione». Si può anche dire, quando si tratta di testi tradizionali, che una traduzione in lingua volgare, per essere intelligibile, deve corrispondere esattamente a un commento fatto nella lingua stessa del testo; la traduzione letterale da una lingua orientale in una occidentale è generalmente impossibile, e più ci si sforza di attenersi rigorosamente alla lettera, più si rischia di allontanarsi dallo spirito; ma, disgraziatamente, i filologi sono incapaci di capirlo.

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