René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
22. La liberazione finale
La «Liberazione» (Moksha o Mukti), vale a dire l’affrancamento definitivo dell’essere, il fine supremo al quale tende, di cui abbiamo ultimamente parlato, differisce assolutamente da tutti gli stati che tale essere ha potuto attraversare per pervenirvi; infatti, essa è l’ottenimento dello stato supremo e incondizionato, mentre tutti gli altri stati, anche se elevatissimi, sono sempre condizionati, ossia sottomessi a certe limitazioni che li definiscono, che li fanno essere ciò che sono, e che propriamente li costituiscono come stati determinati.
Questo vale tanto per gli stati sopra-individuali quanto per quelli individuali, benché le loro condizioni siano diverse; lo stesso grado dell’Essere puro, che è di là da ogni esistenza nel senso proprio della parola, vale a dire di là da ogni manifestazione sia informale che formale, tuttavia implica ancora una determinazione che, anche se primordiale e principiale, è pur sempre una limitazione. Ogni cosa, in tutte le modalità dell’Esistenza universale, sussiste solo grazie all’Essere, e l’Essere sussiste di per Sé; esso determina tutti gli stati di cui è il principio, e non è determinato che da se stesso; ma determinarsi da sé è ancora essere determinato, dunque in qualche modo limitato, per cui non è possibile attribuire l’Infinità all’Essere, che non va affatto considerato come il Principio Supremo. Da ciò si può vedere l’insufficienza metafisica delle dottrine occidentali, alludiamo a quelle stesse nelle quali vi è tuttavia una parte di metafisica vera;[1] fermandosi all’Essere, sono incomplete, anche teoricamente (per non parlare della realizzazione, che esse non contemplano in alcun modo); inoltre, come di solito accade in casi simili, hanno la pessima tendenza a negare ciò che le oltrepassa, vale a dire proprio ciò che è più importante dal punto di vista della metafisica pura.
Questo vale tanto per gli stati sopra-individuali quanto per quelli individuali, benché le loro condizioni siano diverse; lo stesso grado dell’Essere puro, che è di là da ogni esistenza nel senso proprio della parola, vale a dire di là da ogni manifestazione sia informale che formale, tuttavia implica ancora una determinazione che, anche se primordiale e principiale, è pur sempre una limitazione. Ogni cosa, in tutte le modalità dell’Esistenza universale, sussiste solo grazie all’Essere, e l’Essere sussiste di per Sé; esso determina tutti gli stati di cui è il principio, e non è determinato che da se stesso; ma determinarsi da sé è ancora essere determinato, dunque in qualche modo limitato, per cui non è possibile attribuire l’Infinità all’Essere, che non va affatto considerato come il Principio Supremo. Da ciò si può vedere l’insufficienza metafisica delle dottrine occidentali, alludiamo a quelle stesse nelle quali vi è tuttavia una parte di metafisica vera;[1] fermandosi all’Essere, sono incomplete, anche teoricamente (per non parlare della realizzazione, che esse non contemplano in alcun modo); inoltre, come di solito accade in casi simili, hanno la pessima tendenza a negare ciò che le oltrepassa, vale a dire proprio ciò che è più importante dal punto di vista della metafisica pura.
L’acquisizione o, per meglio dire, il possesso di stati superiori, quali che siano, non è dunque che un risultato parziale, secondario e contingente; benché questo risultato possa apparire immenso se paragonato allo stato individuale umano (e soprattutto a quello corporeo, il solo di cui gli uomini ordinari abbiano il possesso effettivo durante la loro esistenza terrena), non è men vero che, in se stesso, è rigorosamente nulla rispetto allo stato supremo, poiché il finito, pur divenendo indefinito in virtù delle estensioni di cui è suscettibile, vale a dire con lo sviluppo delle proprie possibilità, resta sempre nulla rispetto all’Infinito. Un tale risultato non vale dunque, nella realtà assoluta, che a titolo di preparazione all’Unione, vale a dire che è ancora soltanto un mezzo e non un fine; considerarlo un fine vuol dire rimanere nell’illusione, poiché tutti gli stati in discussione, fino all’Essere incluso, sono anch’essi illusori nel senso da noi definito fin dal principio. Inoltre, in ogni stato in cui rimanga una qualche distinzione, cioè in tutti i gradi dell’Esistenza, ivi compresi quelli che non appartengono all’ordine individuale, l’universalizzazione dell’essere non può essere effettiva; persino l’unione con l’Essere Universale, nel modo in cui si compie nella condizione di Prâjna (o nello stato postumo che corrisponde a questa condizione), non è l’«Unione» nel senso pieno della parola; se lo fosse, il ritorno a un ciclo di manifestazione, anche nell’ordine informale, non sarebbe più possibile. È vero che l’Essere è al di là di ogni distinzione, poiché la prima distinzione è quella fra l’«essenza» e la «sostanza», o fra Purusha e Prakriti, eppure Brahma, in quanto Îshwara o Essere Universale, è detto savishêsha, vale a dire «che implica la distinzione», poiché ne è il principio determinante immediato; solo lo stato incondizionato di Âtmâ, oltre l’Essere, è prapancha-upashama, «senza traccia alcuna di sviluppo della manifestazione». L’Essere è uno, o meglio è la stessa Unità metafisica; ma l’Unità racchiude in sé la molteplicità, poiché la produce con il solo dispiegarsi delle sue possibilità; perciò nell’Essere stesso è possibile considerare una molteplicità di aspetti, che ne sono altrettanti attributi o qualificazioni, sebbene questi aspetti non siano in realtà affatto distinti al suo interno se non in quanto li concepiamo come tali; eppure è necessario che essi siano in qualche modo presenti in esso, perché ci sia possibile concepirveli. Si potrebbe dire anche che ciascun aspetto si distingue dagli altri sotto un certo rispetto, quantunque nessuno si distingua veramente dall’Essere, e tutti siano l’Essere stesso;[2] vi è dunque una specie di distinzione principiale, che non è una distinzione nel senso in cui questa parola è usata per l’ordine della manifestazione, ma ne è la trasposizione analogica. Nella manifestazione, la distinzione implica una separazione; questa, d’altra parte, non è niente di positivo in realtà, poiché non è che una forma di limitazione;[3] l’Essere puro è invece al di là della «separatività». Così, quello che è al grado dell’Essere puro è «non-distinto», se si intende la distinzione (vishêsha) nel senso in cui la comportano gli stati manifestati; eppure, in un altro senso, c’è ancora qualche cosa di «distinto» (vishishta): nell’Essere, tutti gli esseri (intendiamo le loro personalità) sono «uno» senza fondersi, e sono distinti senza essere separati.[4] Di là dall’Essere non si può più parlare di distinzione, neppure principiale, quantunque non si possa neanche dire che vi sia confusione; siamo di là dalla molteplicità, ma anche di là dall’Unità; nell’assoluta trascendenza di questo stato supremo, non è più possibile usare alcuno di questi termini, neanche per trasposizione analogica, perciò è necessario ricorrere a una parola di forma negativa, quella di «non-dualità», secondo quanto abbiamo spiegato precedentemente; la stessa parola «Unione» è indubbiamente imperfetta, poiché evoca l’idea di unità, ma tuttavia siamo obbligati a conservarla per tradurre la parola Yoga, non avendone altre a nostra disposizione nelle lingue occidentali.
Dal momento che tutti gli stati, con le loro possibilità, sono necessariamente compresi nell’assoluta totalità dell’essere ‑ anche se, lo ripetiamo, vanno considerati soltanto come risultati secondari, anzi, «accidentali», non come finalità di per se stessi ‑, la «Liberazione», insieme con le facoltà e i poteri che essa in qualche modo comporta «per sovrappiù», può essere ottenuta dallo Yogî (o meglio da colui che diviene tale appunto perché l’ha ottenuta) con l’aiuto delle regole indicate nello Yoga-Shâstra di Patanjali. Può inoltre essere facilitata dalla pratica di certi riti,[5] come pure di diversi modi particolari di meditazione (hârda-vidyâ o dahara-vidyâ);[6] è però chiaro che tutti questi metodi sono solamente preparatori e non hanno, a dire il vero, niente di essenziale, poiché «l’uomo può acquisire la Conoscenza Divina anche senza osservare i riti prescritti (per ognuna delle diverse categorie umane, in conformità ai loro rispettivi caratteri, e specialmente per i diversi âshrama o periodi regolari della vita);[7] si trovano infatti nel Vêda molti esempi di persone che hanno trascurato di compiere riti di questo genere (la cui funzione è paragonata dallo stesso Vêda a quella di un cavallo da sella, che aiuta un uomo a raggiungere più facilmente e più rapidamente la sua meta, ma senza il quale egli può raggiungerla lo stesso) o che non hanno potuto compierli, e che tuttavia, in virtù della loro attenzione sempre concentrata e fissata sul Brahma Supremo (ciò che costituisce la sola preparazione realmente indispensabile), hanno acquisito la vera Conoscenza che Lo concerne (e che perciò è anch’essa chiamata “suprema”)».[8]
La Liberazione è dunque effettiva solo nella misura in cui implica essenzialmente la perfetta Conoscenza di Brahma; inversamente, questa Conoscenza, per essere perfetta, presuppone necessariamente la realizzazione di ciò che abbiamo chiamato l’«Identità Suprema». Perciò, la Liberazione e la Conoscenza totale e assoluta sono invero la stessa cosa; se si dice che la Conoscenza è il mezzo della Liberazione, si deve aggiungere che il mezzo e il fine sono qui inseparabili, poiché la Conoscenza racchiude in se stessa il suo frutto, contrariamente a quanto avviene per l’azione;[9] del resto, in questo ambito, una distinzione come quella fra mezzo e fine non può più essere che un semplice modo di dire, inevitabile, senza dubbio, quando si vogliono esprimere queste cose in linguaggio umano, nella misura in cui sono esprimibili. Se dunque la Liberazione è considerata come una conseguenza della Conoscenza, occorre però precisare che essa ne è una conseguenza rigorosamente immediata; Shankarâchârya lo dice molto chiaramente: «Non vi è altro mezzo per ottenere la Liberazione completa e finale che la Conoscenza; solo questa infatti scioglie i vincoli delle passioni (e di tutte le altre contingenze a cui è sottomesso l’essere individuale); senza la Conoscenza, la Beatitudine (Ânanda) non può essere ottenuta. L’azione (karma, comunque si voglia intendere questa parola, nel suo senso generale o riferita specialmente al compimento dei riti), non essendo opposta all’ignoranza (avidyâ),[10] non può allontanarla; ma la Conoscenza dissipa l’ignoranza come la luce le tenebre. Allorché l’ignoranza che nasce dalle affezioni terrene (e da altri vincoli analoghi) è allontanata (e quando con essa è scomparsa ogni illusione), il “Sé” (Âtmâ), per il suo splendore, brilla lontano (attraverso tutti i gradi dell’esistenza) in uno stato indiviso (penetrando tutto e illuminando la totalità dell’essere), come il sole diffonde la sua luce quando la nuvola è dispersa».[11]
Uno dei punti più importanti è il seguente: l’azione, quale che sia, non può in alcun modo liberare dall’azione; in altre parole essa non può portare risultati che all’interno del proprio dominio, quello dell’individualità umana. Perciò non è con l’azione che si può superare l’individualità, considerata d’altronde qui nella sua estensione integrale, poiché non sosteniamo affatto che le conseguenze dell’azione siano limitate alla sola modalità corporea; si può applicare a questo riguardo ciò che abbiamo detto precedentemente a proposito della vita, che in effetti è inseparabile dall’azione. Da ciò consegue immediatamente che la «salvezza», nel senso religioso in cui gli Occidentali intendono la parola, essendo il frutto di certe azioni,[12] non può essere assimilata alla Liberazione, ed è tanto più necessario dichiararlo espressamente e insistervi, in quanto gli orientalisti fanno continuamente confusione fra l’una e l’altra.[13] La «salvezza» è propriamente il conseguimento del Brahma-Loka; preciseremo anche che per Brahma-Loka bisogna intendere qui esclusivamente la dimora di Hiranyagarbha, poiché gli aspetti più elevati del «Non-Supremo» oltrepassano le possibilità individuali. Ciò si accorda perfettamente con la concezione occidentale dell’«immortalità», che è soltanto un prolungamento indefinito della vita individuale trasposta nell’ordine sottile, e che dura fino al pralaya; e tutto ciò, come abbiamo già spiegato, non rappresenta che una tappa nel processo di krama-mukti; inoltre la possibilità di un ritorno a uno stato di manifestazione (d’altronde sopra-individuale) non è definitivamente eliminata per l’essere che non ha oltrepassato questo grado. Per procedere oltre e liberarsi interamente dalle condizioni di vita e di durata inerenti all’individualità, non c’è altra via che quella della Conoscenza, che può essere o «non-suprema», e allora conduce a Îshwara,[14] oppure «suprema», e allora dà immediatamente la Liberazione. In quest’ultimo caso, non è neppure più necessario prevedere, alla morte, un passaggio attraverso diversi stati superiori, ma ancora transitori e condizionati: «Il “Sé” (Âtmâ, poiché ora non può più trattarsi di jîvâtmâ, essendo svanita ogni possibile distinzione e “separatività”) di colui che ha raggiunto la perfezione della Conoscenza Divina (Brahma-Vidyâ), e che ha, di conseguenza, ottenuto la Liberazione finale, ascende, lasciando la sua forma corporea (e senza attraversare stati intermedi), alla Luce Suprema (spirituale) che è Brahma, e a Lui si identifica in maniera conforme e indivisa, come l’acqua pura, mescolandosi con il lago limpido (senza tuttavia perdervisi in alcun modo), diviene in tutto conforme a esso».[15]
[1] Alludiamo dunque soltanto a dottrine filosofiche dell’antichità e del Medioevo, poiché i punti di vista della filosofia moderna sono la negazione stessa della metafisica; e questo è vero sia per le concezioni a carattere «pseudo-metafisico» sia per quelle in cui la negazione è espressa francamente. Naturalmente, quanto diciamo qui vale soltanto per le dottrine conosciute nel mondo «profano» e non concerne le tradizioni esoteriche dell’Occidente, che, per lo meno quando hanno avuto un carattere veramente e pienamente «iniziatico», non potevano essere così limitate, ma dovevano invece essere metafisicamente complete sotto il duplice aspetto della teoria e della realizzazione; queste tradizioni però sono sempre state conosciute da una élite incomparabilmente più ristretta di quella dei paesi orientali.
[2] Nella teologia cristiana, ciò può applicarsi alla concezione della Trinità: ogni persona divina è Dio, senza essere le altre persone. Nella filosofia scolastica, si potrebbe dire la stessa cosa per i «trascendentali», ognuno dei quali è coestensivo all’Essere.
[3] Negli stati individuali, la separazione è determinata dalla presenza della forma; negli stati non-individuali, deve essere determinata da un’altra condizione, poiché questi stati sono informali.
[4] Ciò spiega appunto la principale differenza fra il punto di vista di Râmânuja, che mantiene la distinzione principiale, e quello di Shankarâchârya, che la oltrepassa.
[5] Questi riti sono del tutto paragonabili a quelli a cui i Musulmani danno il nome generale di dhikr; essi si fondano principalmente, come già abbiamo spiegato, sulla scienza del ritmo e delle sue corrispondenze in tutti gli ordini. Dello stesso genere sono anche, nella dottrina peraltro in parte eterodossa dei Pâshupata, le pratiche chiamate vrata (voto) e dwâra (porta); sotto forme differenti, tutto ciò è in fondo identico o per lo meno equivalente allo Hatha-Yoga.
[6] Chhândogya Upanishad, 8º Prapâthaka.
[7] D’altronde, l’uomo che ha raggiunto un certo grado di realizzazione è chiamato ativarnâshramî, vale a dire di là dalle caste (varna) e dagli stadi dell’esistenza terrena (âshrama); nessuna delle distinzioni ordinarie si applica più a un tale essere, poiché ha effettivamente superato i limiti dell’individualità, anche se non è ancora pervenuto al risultato finale.
[8] Brahma-Sûtra, 3° Adhyâya, 4° Pâda, sûtra 36-38.
[9] Inoltre, l’azione e il suo frutto sono entrambi transitori e «momentanei»; mentre la Conoscenza è permanente e definitiva, come il suo risultato, che non può essere distinto dalla Conoscenza stessa.
[10] Certuni vorrebbero tradurre avidyâ o ajnâna con «nescienza» anziché con «ignoranza»; confessiamo di non comprendere chiaramente la ragione di questa sottigliezza.
[11] Âtma-Bodha (Conoscenza del Sé).
[12] La comune espressione faire son salut [«salvarsi», letteralmente: «fare la propria salvezza»] è dunque perfettamente esatta.
[13] Oltramare, specialmente, traduce Moksha con «salvezza» da un capo all’altro delle sue opere, e non sembra neppure sospettare, non diciamo la differenza reale che qui abbiamo indicata, ma neanche la semplice possibilità di una inesattezza in tale assimilazione.
[14] Vi è appena bisogno di dire che la teologia, quando anche comportasse una realizzazione capace di renderla veramente efficace, invece di restare semplicemente teorica, come di fatto è (a meno che non si voglia ritenere che tale realizzazione sia costituita dagli «stati mistici», il che è vero solo parzialmente e sotto certi aspetti), sarebbe sempre interamente compresa nella Conoscenza «non-suprema».
[15] Brahma-Sûtra, 4° Adhyâya, 4° Pâda, sûtra 1-4.
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