Il metodo adhyāropāpavāda dell’Advaita Vedānta[1]
Traduzione e note di D. K. Aśvamitra
1. La natura di Brahman
Brahman, ossia la Realtà assoluta priva di qualsiasi
attributo che possa determinarla, non può essere espresso come se fosse un
oggetto né con parole né con pensieri della mente.
Infatti tutte le relazioni che riguardano soggetto e oggetto (grāhagrāhakabhāva) e quelle che si riferiscono a qualsiasi azione, agente e risultato dell’azione (kriyākārakaphalabhāva), sono essenzialmente l’unico Ātman. Un testo, citato frequentemente da Śaṃkara, afferma:
Infatti tutte le relazioni che riguardano soggetto e oggetto (grāhagrāhakabhāva) e quelle che si riferiscono a qualsiasi azione, agente e risultato dell’azione (kriyākārakaphalabhāva), sono essenzialmente l’unico Ātman. Un testo, citato frequentemente da Śaṃkara, afferma:
Quando per il conoscitore di Ātman ogni cosa è diventata l’unico Ātman, allora cosa si potrebbe vedere e con che cosa, cosa si potrebbe annusare e con che cosa, cosa si potrebbe gustare e con che cosa, cosa si potrebbe udire e con che cosa, cosa si potrebbe pensare e con che cosa, cosa si potrebbe toccare e con che cosa, cosa si potrebbe conoscere e con che cosa? (BU IV.55.15.)
È evidente che dal punto di vista metafisico non può
esistere alcun mondo composto da molteplicità né che sia distinto
dall’Assoluto, come talora si riscontra negli Śāstra e nell’insegnamento
magistrale. Di conseguenza Śrī Gauḍapāda dichiara:
[L’idea] che il multiforme universo esista effettivamente, dovrebbe essere già bandito prima di raggiungere il Vedānta. Questa dualità [tra mondo manifestato e Brahman] è solo una apparenza paragonabile a una illusione di magia. In verità esiste solo la non dualità.
La distinzione (in cui talvolta ci si imbatte negli Śāstra)
deve scomparire poiché si tratta dell’opinione degli ignoranti. La descrizione
delle distinzioni è soltanto uno strumento d’insegnamento in quanto, allorché
si conosce la Realtà, non esiste affatto alcuna dualità. (MāUGK I.17-18.)
2. Il metodo di insegnamento ideato dalle Upaniṣad
La natura dell’Ātman non duale ha bisogno perciò di
uno strumento adatto per rendere comprensibile ai cercatori la Verità assoluta.
Questo strumento deve attribuire deliberatamente alcune caratteristiche
empiriche alla Realtà; e quando la Verità è capita, esso servirà ad abrogare
tutte le caratteristiche che le sono state attribuite. Śrī Gauḍapāda
così lo attesta:
1. Poiché, in ragione dell'incomprensibilità della natura (di Brahman) il testo “Questo Sé è ciò che è stato descritto come Neti neti” nega tutto ciò che è stato spiegato in precedenza [come mezzo per conoscerLo], ne deriva che l’Ātman non-nato esiste [al di là degli attributi che gli sono sovrapposti]. (MāUGK III.26.)
Qui Gauḍapāda fa riferimento alla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad
in cui s’insegna il Brahman per mezzo della formula “né questo né questo” (BU
II.3.6). Anche in altre parti della stessa Upaniṣad si trova la
negazione delle caratteristiche attribuite [all’assoluto][2].
In ognuno di quei testi c’è sempre la medesima affermazione:
2. Questo è l’Ātman descritto con il “Neti neti”, che non è oggettivabile perché non può mai essere oggetto; non si deteriora perché non può mai deteriorarsi; è incontaminato perché non può mai essere contaminato; è illimitato perché non può essere sofferente né può essere ferito. (BU III.9.26.)
Gauḍapādācārya intende dire che, con questa ripetuta negazione
di attributi sovrapposti, [la Śruti insegna che] il Non-nato si rivela
spontaneamente, in quanto la Realtà non può essere oggettivata. Śaṃkarācārya
afferma che questo strumento appartiene alla tradizione primordiale. Nel suo
commentario alla Bhagavad Gītā, che è una fedele ripetizione dalla Śvetāśvatara
Upaniṣad (III.16), scrive:
3. Perfino l’apparenza, dovuta all’attribuzione di caratteristiche limitanti, è stata descritta come se appartenesse al[l’Ātman] conoscibile, in modo tale che la Sua esistenza può così diventare intelligibile, com’è detto nello Śloka che comincia con: “Provvisto ovunque di mani e di piedi”. Ciò è in accordo con quanto dicono quegli esperti della tradizione: “Per mezzo della sovrapposizione volontaria e la sua conseguente rimozione può essere spiegato ciò che è libero da ogni caratteristica limitante.” (BhGŚBh XIII.13.)
3. Alcuni esempi del metodo
Non si deve supporre che ciò che denominiamo adhyāropa sia
completamente irreale o che sia un’ipotesi conveniente alla speculazione
logica. Dal punto di vista empirico ha una sua certa realtà[3].
Ma ciò che è più importante è che può essere usato anche per rendere più
comprensibile la verità ultima.
a) È noto l’esempio della relazione causale tra l’argilla e
le sue produzioni. In questo modo le Upaniṣad dimostrano che nella vita
empirica ciò che si ritiene sia un effetto, in realtà non è diverso dalla
causa. L’esempio è prodotto per spiegare la relazione causale tra Brahman e
l’Universo.
b) Gli stati empirici di coscienza[4]
e il corpo grossolano, i soffi vitali, la mente ecc., sono anch’essi usati per
rivelare la vera natura dell’Ātman nell’ottica advitīya.
c) La Māṇḑūkya Upaniṣad, per esempio, menziona lo
stato di veglia come attributo sovrapposto all’Ātman e afferma che il
vero Ātman è il Testimone (Sākṣin) dell’intero universo contenuto
in quello stato. L’ego della coscienza rivolta verso gli oggetti
esterni, i sensi e le altre componenti incluse nell’aggregato individuale,
assieme a tutti i fenomeni oggettivi, vale a dire all’intero panorama del
mondo, costituiscono la sovrapposizione sulla realtà del Testimone che nella Śruti
è chiamato Vaiśvānara. Similmente l’intero stato di sogno è
attribuito allo stesso Testimone che è allora denominato Taijasa, mentre
il medesimo Sākṣin, in associazione con il sonno profondo, è noto come Prājña.
Poiché il Sākṣin è immutabile, mentre gli attributi che gli sono
associati sono mutevoli, questo stesso Testimone considerato in sé e per sé è
chiamato il “Quarto” (Caturtha) per distinguerlo dai tre “Ātman relativi”.
Così, passando da adhyāropa, o sovrapposizione degli stati sul Sākṣin,
alla fase di apavāda, cioè alla loro negazione, arriviamo al vero Ātman
non duale. Naturalmente ciascuno degli stati, essendo dipendente dall’Ātman
reale, è irreale dal punto di vista metafisico o paramārtha.
d) Lo stesso dicasi dei cinque involucri (kośa) del
Sé, come sono insegnati nella Taittirīya Upaniṣad. Gauḍapāda dichiara:
Oltre ai (cinque) kośa, a partire da annamaya (composto di cibo) che nella Taittirīya sono stati illustrati successivamente come “Ātman”, al di là da essi c’è il loro Jīva, il loro Sé vivente, che abbiamo spiegato per mezzo dell’esempio dell’etere. (MāUGK III.11.)
Infatti Śrī Gauḍapāda aveva già spiegato nei
versi precedenti che jīvātman è realmente una sola cosa con Paramātman,
anche se il jīva può apparire multiforme a causa delle associazioni
condizionanti, come il corpo, i prāṇa ecc. A questo proposito egli ha
ricordato come lo stesso etere-spazio (ākāśa) appaia molteplice e
multiforme quando è associato ad accidenti condizionanti, come giare, brocche,
vasi ecc., il cui singolo spazio interno non è diverso dallo spazio universale.
Nella citazione di cui sopra, l’ācārya vuol dire che annamaya, prāṇamaya
(fatto di soffio vitale), manomaya (fatto di mente), vijñānamaya (fatto
d’intelletto) e ānandamaya (fatto di beatitudine)[5],
sono dei semplici involucri considerati solo provvisoriamente come “Sé”, al
fine di condurre il cercatore a intuire il vero Ātman al di là di loro.
Una volta superata l’idea che l’individualità sia il jīvātman, questo è
alla fine riconosciuto essere realmente il Sé supremo.
4. Il riconoscimento di questo metodo da parte dei Sūtra
Che l’autore dei Vedānta Sūtra[6]
(Bādarāyaṇa) abbia riconosciuto questo metodo può essere dedotto dal modo in cui
presenta l’esegesi delle Upaniṣad. Per esempio, anzitutto egli definisce
Brahman come la causa dell’origine, mantenimento e dissoluzione dell’Universo (VS
I.1.2). In secondo luogo, prosegue dicendo che Brahman non è solamente la
causa efficiente dell’Universo, ma ne è anche la causa materiale.
Brahman deve essere considerato anche come la causa materiale, cosicché l’enunciato iniziale e la spiegazione della Śruti non possono essere contraddetti. (VS I.4.23.)
Questo sūtra afferma che gli enunciati degli Śāstra
per insegnare il Brahman, ossia che conoscendo Brahman si conosce ogni
cosa, saranno in accordo con la natura delle cose purché Brahman sia
considerato anche come causa materiale. L’esempio dell’argilla, della pepita
d’oro o della forbice[7]
sarebbe valido solo in questo caso. In terzo luogo egli respinge la realtà
dell’effetto nel sūtra che segue:
L’effetto non è altro che la sua causa, perché i testi dichiarano che si tratta solamente di un gioco di parole. (VS II.1.14.)
Questo sūtra nega ogni causalità[8],
perché si rifà al testo che stabilisce che l’effetto è solo un gioco di parole,
come pure i testi che dichiarano che tutto l’Universo è realmente Brahman.
Come quarto punto [Gauḍapāda] accenna al metodo nel seguente
sūtra:
(Pradhāna, cioè Prakṛti, non è la causa) anche perché non c’è alcun testo che indichi la sua negazione[9]. (VS I.1.8.)
Questo sūtra dice che la Śruti quando dichiara
“l’Essere (Sat) è l’Ātman” e “tu sei Quello” (ChU VI.8.7),
non abroga ciò che segue per timore che venga preso sul serio. Perciò questo Sat
non è Pradhāna. Śaṃkara spiega il senso di questo sūtra in
questo modo:
Se con la parola Sat s’intendesse Pradhāna, che non è affatto il Sé di tutto, e se si volesse alludere solo [a Pradhāna] nei testi “Quello è il Sé, tu sei Quello” allora (il padre)[10], intendendo insegnare l’Ātman nel senso primario della parola, avrebbe dovuto dire qualcosa che esprimesse la sua negazione [che si trattava di Pradhāna], nel timore che il figlio, ignorante della realtà dell’Ātman, potesse credere a ciò, dopo aver ascoltato il suo insegnamento. (BSŚBh I.1.8.)
Secondo Śaṃkara, è evidente che per Bādarāyaṇa il metodo
utilizzato dalla Śruti di insegnare un Ātman sempre “più
sottile”, indica un Ātman “più grossolano” per poi di negarlo al fine di
condurre il cercatore all’Ātman vero[11].
Questo si riferisce ovviamente a Brahman considerato come causa nella fase di adhyāropa,
allo scopo poi di negarlo in un secondo tempo. Citiamo un altro esempio dove il
nostro metodo è chiaramente riconosciuto da Bādarāyaṇa:
Non può esserci un’attribuzione duale nemmeno nella [Sua apparente] condizione limitata, perché ovunque (si insegna che Esso è sempre senza alcun attributo). (VS III.2.11.)
Questo aforisma nega categoricamente che Brahman possa
essere concepito come se fosse dotato di caratteristiche particolari, anche
qualora sia in apparenza associato a degli attributi condizionanti. Śaṃkara
scrive:
Una cosa non può mai mutare la propria natura a causa di una qualsiasi associazione condizionante che gli si sovrapponga. […] Un cristallo perfettamente incolore, non può essere considerato colorato, perché ha addossato un fiore rosso ecc. Perché l’erronea idea che il cristallo non è trasparente è un mero errore. (BSŚBh III.2.11.)
Qui si deve rispondere a un’obiezione: “Se il metodo
tradizionale d’interpretazione deve essere seguito rigorosamente, allora, nel
caso dei diversi tipi di meditazione ingiunti nella Śruti, sono dunque
insegnate forme differenti di Brahman? Da una parte, per esempio, s’insegnano i
quattro quarti (pāda) di Brahman (ChU III.18.2); altrove (Praśna
Upaniṣad, VI.1) si parla del Brahman diviso in sedici digiti (kalā);
e ancora si trova il “Brahman descritto come composto di meriti (vāmāni)
(ChU IV.15.3); oppure, quando è chiamato Vaiśvānara, ha come
corpo i tre mondi (ChU V.18.2), e così via. Come può essere che Brahman
sia del tutto diverso da quelle caratteristiche quando è condizionato dai suoi
attributi? A ciò risponde Bādarāyaṇa:
Se si obietta che (Brahman non può essere privo di caratteristiche) sulla base delle differenze (riportate in numerose Śruti, rispondiamo:) non è così perché le Śruti negano queste differenti attribuzioni una per una. (VS III.2.12)
Portiamo a esempio la seguente citazione:
Il Puruṣa che è in terra, che illumina ogni cosa, immortale in ogni cosa, che risiede in ogni uomo dotato di corpo, che illumina ovunque, immortale ovunque, è sempre il medesimo, vale a dire l’Ātman. (BU II.5.1)
Inoltre, così si esprimono soltanto i seguaci di alcune sette (śākha). (VS 3.2.13)
A questo punto Śaṃkara spiega come, nella Kāṭhaka Upaniṣad,
la Śruti stigmatizzi chi considera la differenza reale e come la Śvetāśvatara
Upaniṣad (I.12) insegni che il Sé di chi sperimenta, l’oggetto che deve
essere sperimentato e Īśvara che induce tale esperienza, siano tutti l’unico
Brahman non duale. I più importanti sūtra dei Vedānta Sūtra
riguardano questo argomento (adhikaraṇa) di riflessione:
1. Brahman è realmente senza alcuna caratteristica; perché (i testi) che lo insegnano hanno questo come scopo principale. (VS III.2.14.)
2. (La Śruti) dice anche che Esso è assolutamente della natura della (pura Coscienza). (VS III.2.16.)
Secondo Śaṃkara la Śruti allusa nell’ultima citazione
è: “Egli è interamente cosciente in tutto” (BU IV.5.13)
La Śruti Lo descrive (semplicemente negandogli ogni forma estranea [BU II.3.6]) e così è anche descritto nella Smṛti (BhG XIII.12). (VS III.2.17.)
Śaṃkara si riferisce al racconto vedāntico in cui Bhādhva
insegna a Bāśkali[12]
in totale silenzio; e si riferisce alla narrazione del Mahābhārata dove,
dopo aver mostrato la sua forma universale, Nārāyaṇa ammonì Nārada[13]
a non pensare che egli avesse davvero una forma.
Il lettore a partire da ora dovrà convincersi che Bādarāyaṇa
sosteneva seriamente che le Upaniṣad usano il metodo dell’adhyāropāpavāda
ovunque trattano della reale natura di Brahman privo d’attributi.
OṂ TAT SAT
* Dal sito Veda Vyāsa Maṇḍala: www.vedavyasamandala.com
[1]
Tratto da The Upanishadic approach to Reality, Holenarsipur, Adhyatma
Prakasha Karyalaya, 1997, pp. 44-54.
[2]
BU III.9.26; IV.2.4; IV.4.22 [N.d.T.].
[3]
Il Vedānta riconosce una realtà empirica quando essa presenta una certa
utilità all’esistenza empirica. Per esempio l’acqua estingue la sete. L’acqua
dunque è utile e perciò, a suo livello, ha una sua realtà empirica (vyāvahārika
sattā). Invece l’acqua del miraggio non ha alcuna utilità, perché non
appaga la sete, perciò la sua realtà è esclusivamente apparente (prātibhāsika
sattā). Ciò contraddice tutti quei critici superficiali che sostengono che
l’Advaita afferma l’“irrealtà del mondo” [N.d.T.].
[4]
Le avasthā empiriche, vale a dire lo stato di veglia e quello di sogno.
Lo stato di sonno profondo (suṣupti) appare come se fosse una avasthā
empirica al limitato intelletto (buddhi) umano, mentre in realtà,
essa non è altro da Caturtha [N.d.T.].
[5]
Ognuno di questi involucri è chiamato Ātman all’unico scopo di
contraddire l’idea che il kośa precedente debba essere considerato come
“il Sé”. [Così, per esempio, l’uomo volgare identifica il Sé con il proprio
corpo (annamayakośa). Ma quando si riesce a distaccare dal corpo
considerandolo altro da Sé, allora provvisoriamente i sensi sembrano essere il
“Sé” del corpo; e di seguito, la mente sembra essere il “Sé” dei sensi e così
via.]
[6]
Più noti con il titolo di Brahma Sūtra.
[7]
Il vasellame di varie forme altro non è che argilla; i gioielli di vario uso e
foggia altro non sono che oro; la forbice, il coltello e la spada altro non sono
che ferro [N.d.T.].
[8]
Proprio perché il vasellame è pura apparenza, mentre la sostanza reale è
l’argilla, così l’effetto è pura apparenza sovrapposta alla causa, la quale
soltanto è reale [N.d.T.].
[9]
Perciò la causa non può essere che l’Ātman. Questa affermazione,
nondimeno, non è ancora perfettamente metafisica, poiché, quando si è compreso
che l’effetto non è diverso dalla causa, non c’è più né effetto né causa, ma
solo il Brahman non duale. Cfr, Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, Dottrina
e Metodo dell’Advaita Vedānta, Aprilia, NovaLogos, 2015, pp. 50-59
[N.d.T.].
[10]
Menzione di uno degli insegnamenti fondamentali del Vedānta esposto dal
padre Uddālaka al figlio Śvetaketu. BU VI.8.1-VI.16.3 [N.d.T.].
[11]
Il presente riferimento a Bādarāyaṇa allude alla dottrina dei cinque kośa.
L’Ātman appare via via sempre più sottile man mano che ci si allontana
dall’involucro grossolano fatto di cibo, finché, libero di tutti i kośa appare
nella sua natura “sottilissima”, ossia metafisica, di Paramātman. Allo
stesso modo si applica il viveka vedāntico, quando si rimuove
progressivamente la propria identificazione con il corpo ecc. V. nota 5
[N.d.T.].
[12]
BSŚBh III.2.17.
[13]
Ibid.
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