René Guénon, Studi sull’Induismo
Recensioni di libri sull’Induismo III
Recensioni di libri sull’Induismo pubblicati dal 1929 al 1950 sulla rivista «Le Voile d’Isis», diventata «Études Traditionnelles» nel 1937
1937
C. Kerneiz: Le Hatha-Yoga, ou l’art de vivre selon l’Inde mystérieuse
E. Techoueyres: À la recherche de l’Unité; essais de philosophie médicale et scientifique
Paul Brunton: A Hermit in the Himalaya
Henri-L. Mieville: Vers une Philosophie de l’Esprit ou de la Totalité
Shrî Aurobindo: Aperçus et Pensées.
Jean Herbert: Quelques grands penseurs de l’Inde moderne.
Jean Marquès-Rivière: L’Inde secrète et sa magie
1937
C. Kerneiz: Le Hatha-Yoga, ou l’art de vivre selon l’Inde mystérieuse (Parigi, Éditions Jules Tallandier). Questo libro è più «sensato» di quanto non siano generalmente le pubblicazioni occidentali che hanno la pretesa di trattare dello stesso argomento: contiene riflessioni giustissime sull’inutile agitazione della vita moderna; gli esercizi che indica sono fra quelli che per lo meno non presentano nessun serio pericolo; e, su questioni come quella del regime alimentare, dà prova di una moderazione che contrasta felicemente con certe esagerazioni anglosassoni... Solo che tutto questo non è affatto lo Hatha-Yoga; se si vuole, è qualcosa che trae ispirazione dai suoi metodi, fino a un certo punto, ma per applicarli a fini totalmente diversi. In effetti, lo Hatha-Yoga non è per nulla un’«arte di vivere»; esso è uno dei modi di preparazione al vero Yoga, vale a dire alla realizzazione metafisica, e se può produrre taluni effetti di tipo fisiologico non è che se li prefigga come scopi, non più di quanto miri, come altri hanno immaginato, a provocare lo sviluppo di «poteri» psichici: tutte queste cose sono soltanto «accidenti» nel senso più esatto della parola. Il che vuol dire che esso non deve essere assolutamente considerato come una specie di «terapeutica»; del resto la miglior prova di ciò è che una delle condizioni rigorosamente richieste per coloro che vogliano intraprenderne la pratica è che siano in stato di perfetta salute. Notiamo d’altronde, a tal proposito, un errore sul significato stesso del termine hatha: è vero che esso vuol dire «forza», ma nel senso di «sforzo» e addirittura di «violenza» in una accezione accostabile a quella della parola evangelica: «Il Regno dei Cieli è dei violenti»; e contiene inoltre ben altre cose, poiché, simbolicamente, ha è il Sole e tha è la Luna, con tutte le loro corrispondenze; è quindi fuor di dubbio che siamo molto lontani dalla fisiologia, dall’igiene e dalla terapeutica... Ed è un altro errore ancora quello di pensare che lo Hatha-Yoga, qual esso è realmente, possa rivolgersi a coloro che non sono in nessun modo ricollegati alla tradizione indù; qui, così come per tutto ciò che non è solo semplice teoria, è implicita una questione di trasmissione regolare, che assume un’importanza essenziale. È ovvio che tale questione non ha da intervenire quando ci si proponga, come in questo caso, soltanto scopi del tutto estranei alla conoscenza tradizionale, ma, ripetiamo ancora una volta, allora non si tratta più di Hatha-Yoga, e non ci si deve fare illusioni al proposito; non è nostra intenzione insistere ulteriormente sull’argomento, ma ci è parso che queste poche precisazioni non sarebbero state inutili per rimettere un po’ a posto le cose.
E. Techoueyres: À la recherche de l’Unité; essais de philosophie médicale et scientifique (Parigi, Librairie J.-B. Baillière et Fils). Il primo di questi «saggi», il quale dà il titolo al volume, porta questo sottotitolo piuttosto significativo: «Les aspirations de l’âme hindoue et les tendances de la science occidentale contemporaine»; è perciò uno di quei tentativi di accostamento dei quali abbiamo detto spesso quanto siano illusori. Qui, per di più, il tentativo si accompagna a un abbaglio totale circa la natura delle dottrine indù: l’autore vede in esse soltanto «filosofia», «ricerca» e «pensiero» puramente umano, i quali egli crede tendano agli stessi scopi della scienza profana; occorre dire che sembra esser stato indotto in questo errore da quello che chiama «il pensiero moderno e sincretistico dell’India», vale a dire dagli scritti di alcuni autori intaccati dalle idee occidentali, autori che di indù hanno soltanto l’origine. È un libro che contiene molte confusioni, delle quali alcune un po’ strane, come quelle che consistono nel prendere il «mentale» per lo «spirito», nel credere che il «cuore», per gli Indù, rappresenti, come per gli Occidentali moderni, il sentimento, e, cosa ancor più grave, nel vedere nell’India una «filosofia del divenire» che «comunica strettamente con le idee di William James e di Bergson»! Degli altri «saggi», che sono dedicati soprattutto a questioni di «metodologia» scientifica, diremo solo pochissimo: nel loro insieme essi sono di ispirazione molto «bergsoniana»; certo, non è facendo una confusione di tutto che si arriva all’unità; occorre al contrario saper mettere ogni cosa: al suo posto, e gli stessi «antagonismi» non sono per nulla un «errore», a patto che si confini la loro portata nella sfera a cui realmente si applicano; ma come si può capire la vera unità quando non si concepisce nulla al di là del «divenire»?
Paul Brunton: A Hermit in the Himalaya (Londra, Leonard and Co.). Questo nuovo libro di Paul Brunton è in certo qual modo il diario di un «ritiro» da lui fatto nella zona dell’Himalaya, nei pressi della frontiera indo-tibetana, dopo aver cercato invano di ottenere un’autorizzazione per il soggiorno in Tibet. Non c’è da pensare di trovarvi una qualsiasi unità: le descrizioni della regione e i racconti di incidenti diversi e di conversazioni con qualche raro visitatore si mescolano a riflessioni sugli argomenti più svariati; il tutto, però, si legge gradevolmente. Ma forse la cosa più curiosa è l’opposizione che vi si sente costantemente emergere tra certe aspirazioni dell’autore e la sua volontà di restare nonostante tutto «un uomo del secolo XX» (e noi potremmo aggiungere un «Occidentale»); bene o male egli la risolve costruendosi per uso proprio una concezione dello yoga che egli stesso definisce «eterodossa», e limitando ogni sua ambizione, nel campo spirituale, all’ottenimento di uno stato di calma e di equilibrio interiore che è in sé certamente cosa assai apprezzabile, ma ancora ben lontana da qualsiasi vera realizzazione metafisica!
Henri-L. Mieville: Vers une Philosophie de l’Esprit ou de la Totalité (Parigi, Éditions des Trois Collines, Lausanne; Librairie Felix Alcan). Non saremmo certamente venuti a sapere della pubblicazione di questo grosso libro di filosofia protestante se non ci avessero segnalato che l’autore aveva creduto opportuno effettuare un’incursione su un terreno assai lontano dal suo, per prendersela con la tradizione brâhmanica... e con noi; incursione piuttosto infelice, diciamolo subito, la quale però merita lo stesso qualche parola di chiarimento. La cosa che più colpisce è che le critiche che egli porta sono quasi interamente fondate su false interpretazioni dei termini da noi usati: egli non riesce ad accettare, ad esempio, che si possa «confinare il pensiero razionale nell’individuale» perché, così dice, esso «in linea di principio è valido per ogni essere pensante»; sennonché, «ogni essere pensante», per noi, è precisamente qualcosa che appartiene alla sfera puramente individuale, e ci sembra di aver preso precauzioni sufficienti per spiegarlo senza lasciar campo a nessun equivoco. Il «non-dualismo» è per lui la «dottrina della non dualità dello spirito e della materia», quando abbiamo avuto gran cura di precisare che non si tratta affatto di questo, e che fra l’altro nella dottrina indù non si incontra da nessuna parte la nozione di «materia». La metafisica brâhmanica, o meglio la metafisica senza qualificativi, non «consiste» certamente affatto in «proposizioni che affermano relazioni tra concetti»; essa è totalmente indipendente da qualsiasi «immaginazione verbale», così come da ogni «pensiero discorsivo»; manifestamente, l’autore fa confusione con la pseudo-metafisica dei filosofi! Che egli non sia capace di concepire il Non-Essere di là dall’Essere, o l’unità senza la molteplicità, o anche «l’intuizione intellettuale come totalmente distinta dalla ragione» è qualcosa che ammettiamo volentieri, né possiamo farci nulla; ma abbia almeno la compiacenza di non pretendere di imporci le limitazioni che gli sono proprie. Ammissibile è anche che gli piaccia dare alle parole un significato diverso da quello che gli diamo noi; ma quel che ammissibile non è assolutamente più, è che attribuisca loro questo suo significato anche quando vuole esporre quel che noi abbiamo detto, al punto di arrivare a dar semplicemente l’impressione di qualcuno che non sa leggere... Francamente divertente è poi il rimprovero finale che ci fa di «non essere mai dove l’avversario vorrebbe ingaggiar battaglia»; pensa egli forse che la dottrina tradizionale accondiscenda a riconoscere di avere degli «avversari», e che possa abbassarsi a «combattimenti» o discussioni qualsivogliano? Sono strane illusioni: diciamolo chiaramente, in questo campo o si capisce o non si capisce, e basta. In simili condizioni è fin troppo evidente che il cosiddetto «avversario» non potrà mai far altro che agitarsi a vuoto, e che tutti i suoi argomenti saranno inevitabilmente controproducenti; non è che ci dispiaccia che ci sia stata fornita una volta di più l’occasione di constatarlo.
Shrî Aurobindo: Aperçus et Pensées. Traduzione dall’inglese e prefazione di Jean Herbert (Framerie, Belgio, Union des Imprimeries). Questo libriccino è la prima opera di Shrî Aurobindo Ghose che sia stata pubblicata in francese: si tratta di una raccolta di aforismi e di brevi frammenti su argomenti diversi, quali lo scopo reale dell’esistenza, la natura dell’uomo e il suo rapporto con il mondo e con Dio, le «catene» che impediscono all’essere di giungere alla liberazione, e altro ancora; tutte cose, impossibili da riassumere, che sono da leggere e soprattutto da meditare. C’è da sperare che questa traduzione sia seguita da quella di altri lavori più importanti di un uomo che, anche se presenta qualche volta la dottrina sotto una forma forse un po’ troppo «modernizzata», ha tuttavia incontestabilmente un alto valore intellettuale; certo però noi non pensiamo che sarebbe auspicabile, come dice l’autore della prefazione, che egli trovi un Romain Rolland che scriva la sua biografia... e che lo sfiguri con la sua sentimentalità incomprensiva e tutta occidentale!
Jean Herbert: Quelques grands penseurs de l’Inde moderne. Conversazioni tenute a «Radio-Genève» nel giugno 1937 (Framerie, Belgio, Union des Imprimeries). Le conferenze riunite in questo volumetto destinato evidentemente al «gran pubblico», possono far temere che il loro autore sia affetto da una certa tendenza alla «volgarizzazione»; e quest’ultima impone per necessità semplificazioni eccessive, che non si adattano molto a certi argomenti. Ad esempio, è poi così esatto presentare quali «pensatori», nel senso che tale parola ha in Occidente, Shrî Râmakrishna, Shrî Ramana Maharshi, Shrî Aurobindo, del quale abbiamo parlato qui noi stessi, o non sarebbero essi piuttosto, soprattutto i primi due, qualcosa di profondamente diverso, di cui non è certo facile dare un’idea al «gran pubblico» europeo? Altro esempio: è sbagliato dire che a un certo momento Shrî Râmakrishna «lasciò l’induismo» per «farsi cristiano»; la verità è tutta un’altra, come ha spiegato proprio da queste pagine Ananda K. Coomaraswamy; ma certo sarebbe ben difficile far capire come stanno di fatto le cose ad ascoltatori non preparati. Non insisteremo perciò oltre su questo punto, facendo soltanto un’ultima osservazione: a proposito di Shrî Ramana Maharshi, l’Herbert dice che il suo insegnamento «presenta una particolarità notevole, quella di avere la pretesa di non affermare assolutamente nulla di nuovo»; ora, questa affermazione, lungi dall’essere una «particolarità», rappresenta invece il solo atteggiamento normale e valido in qualsiasi civiltà tradizionale; e, aggiungeremo noi, è precisamente questa la ragione per cui in esse non ci possono essere dei «pensatori», né, soprattutto, degli inventori di sistemi filosofici, cioè uomini che mettano l’originalità individuale al di sopra della verità.
Jean Marquès-Rivière: L’Inde secrète et sa magie (Parigi, Les Oeuvres Françaises). Questo volumetto si presenta sotto la forma di un resoconto di viaggio non soltanto descrittivo, accompagnato com’è da considerazioni dottrinali; ad esso però, a dire la verità, si ha talvolta l’impressione che l’autore abbia mescolato anche qualche ricordo delle sue letture. Quel che lo fa venire in mente non è tanto che nell’insieme il libro abbia qualcosa che ricorda il «tono» di quello di Paul Brunton da noi recensito a suo tempo, e la cui traduzione in francese ricevette proprio il titolo, un po’ troppo simile. di India segreta; è soprattutto il fatto che in esso si incontrino qua e là, in affermazioni attribuite a interlocutori diversi, formule o frasi già lette da altre parti. Esso contiene inoltre alcune inverosimiglianze: ne sia un esempio una certa storia di «Rosa-Croce dell’Asia», la quale ci fa ricordare almeno due vicende più che sospette, che sappiamo essere state, precisamente, conosciute anche dall’autore; un altro esempio: una corrispondenza astrologica delle diverse tradizioni, indicata sempre nello stesso capitolo, e nella quale non una attribuzione è corretta. Ma, insieme a questo, non è men vero che il libro contiene altre cose che sono eccellenti, ad esempio le riflessioni sull’impossibilità in cui si mettono in generale gli Europei, a causa del loro stesso atteggiamento, di penetrare checchessia dell’Oriente; sul reale significato dei riti indù; sul carattere erroneo delle opinioni diffuse in Occidente a proposito del Tantrismo; o, ancora, sulla natura del solo vero segreto, il quale consiste nell’«incomunicabile», ciò che non ha certo nulla a che vedere con i pretesi «segreti occulti» di cui si parlava prima. Tuttavia, quando si pensi alle precedenti «fluttuazioni» dell’autore, non ci si può impedire dal provare un po’ di preoccupazione davanti alla simpatia che questi manifesta nuovamente per l’Oriente e le sue dottrine; sarà veramente un ritorno durevole? A dirla con molta franchezza, alcune confusioni un po’ «tendenziose», come quella che consiste nel parlare di «misticismo» là dove si tratta invece di cose del tutto diverse, confusioni da noi incontrate anche troppo spesso, fanno involontariamente pensare ad altre simpatie, tanto inattese quanto poco disinteressate, manifestatesi in questi due ultimi anni, e delle quali abbiamo dovuto parlare in diverse occasioni; auguriamoci però che questa volta la simpatia sia di qualità migliore, e non subisca in nessun modo l’influsso dei secondi fini «missionari» che trapelavano in certi passi del Bouddhisme au Thibet... Comunque stiano le cose, non dimentichiamoci di segnalare, a proposito di confusioni, un paragone piuttosto inopportuno tra i metodi indù di sviluppo spirituale e i metodi psicologici moderni (un’altra delle false assimilazioni che decisamente sembrano diffondersi sempre più), e, insieme con esso, lo strano abbaglio che fa prendere all’autore certe facoltà essenzialmente psichiche per «possibilità del corpo umano»; affiancate alle idee molto giuste che segnalavamo poco prima, cose del genere costituiscono una nota curiosamente discordante; per fortuna, però, malgrado il titolo, di magia non è che si parli molto.
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