"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 11 aprile 2020

René Guénon, Studi sull'Induismo - IV - La teoria indù dei cinque elementi

René Guénon
Studi sull'Induismo

IV - La teoria indù dei cinque elementi[1]

È noto che nella dottrina indù il punto di vista «cosmologico» è rappresentato principalmente dal Vaishêshika e, sotto un altro aspetto, dal Sânkhya, quest’ultimo caratterizzabile come «sintetico», mentre il primo può esser detto «analitico».
Il nome del Vaishêshika è derivato da vishêsha, che significa «carattere distintivo» e, di conseguenza, «cosa individuale»; esso indica perciò specificamente il ramo della dottrina che si applica alla conoscenza delle cose in modo distintivo e individuale. Tale punto di vista è quello che più esattamente corrisponde, con la riserva delle differenze necessariamente implicite nel modi di pensare rispettivi dei due popoli, a quella che i Greci, soprattutto nel periodo «presocratico», chiamavano «filosofia fisica». Noi preferiamo però servirci del termine «cosmologia», a evitare ogni equivoco e per mettere meglio in rilievo la profonda differenza che esiste tra ciò di cui è questione e la fisica dei moderni; del resto, proprio questo si intendeva per «cosmologia» nel Medioevo occidentale.
Inglobando nel suo oggetto ciò che si riferisce alle cose sensibili e corporee, le quali sono d’ordine eminentemente individuale, il Vaishêshika si è occupato della teoria degli elementi, – i quali sono i principi costitutivi dei corpi –, con maggior dettaglio di quanto non potessero fare gli altri rami della dottrina; tuttavia c’è da notare che si è obbligati a far ricorso a questi ultimi, e soprattutto al Sânkhya, quando si tratta di ricercare quali siano i principi più universali dai quali tali elementi procedono. Secondo la dottrina indù gli elementi sono cinque; in sanscrito essi sono chiamati bhûta, parola derivata dalla radice verbale bhû, che significa «essere», ma più particolarmente nel senso di «sussistere», il che vuol dire che designa l’essere umano preso in considerazione nel suo aspetto «sostanziale» (l’aspetto «essenziale» è espresso dalla radice as); di conseguenza, su tale parola riverbera anche una certa idea di «divenire», perché è dalla parte della «sostanza» che si situa la radice di ogni «divenire», in opposizione all’immutabilità dell’«essenza»; ed è in questo senso che Prakriti, o la «Sostanza universale», può essere indicata in modo proprio come la «Natura», termine che, così come il suo equivalente greco physis, implica precisamente e anzitutto, a motivo della sua derivazione etimologica, l’idea di «divenire». Gli elementi sono perciò considerati come determinazioni sostanziali o, in altri termini, modificazioni di Prakriti, modificazioni che non hanno però se non un carattere puramente accidentale nei confronti di quest’ultima, così come l’esistenza corporea stessa, in quanto modalità definita da un certo insieme di condizioni determinate, non è nulla più di un semplice accidente se messa in rapporto con l’Esistenza universale intesa nella sua integralità.
Se si considerano ora, nell’essere, l’«essenza» correlativamente alla «sostanza», essendo questi due aspetti l’uno complementare dell’altro e corrispondendo essi a quelli che possiamo chiamare i due poli della manifestazione universale, ciò che equivale a dire che essi sono le espressioni rispettive di Purusha e Prakriti in tale manifestazione, occorrerà che alle determinazioni sostanziali costituite dai cinque elementi corrisponda un ugual numero di determinazioni essenziali, o «essenze elementari», le quali ne siano, si potrebbe dire, gli «archetipi», i principi ideali o «formali» nel senso aristotelico dell’ultimo termine, e appartengano, non più alla sfera corporea, ma a quella della manifestazione sottile. Il Sânkhya prende in effetti in considerazione, secondo questa prospettiva, cinque essenze elementari, le quali ricevono il nome di tanmâtra: questo termine significa letteralmente una «misura», o un’«assegnazione», che delimita il campo proprio di una determinata qualità o «quiddità» nell’Esistenza universale. È assiomatico che tali tanmâtra, per il fatto stesso che si situano nella sfera sottile, non sono assolutamente percepibili dai sensi al modo degli elementi corporei e delle loro combinazioni; essi sono unicamente «concepibili» idealmente, e possono ricevere denominazioni particolari soltanto per analogia con i differenti ordini di qualità sensibili che gli corrispondono, giacché è la qualità a essere in questo caso l’espressione contingente dell’essenza. Di fatto, essi sono generalmente indicati con i nomi stessi di tali qualità: auditiva o sonora (shabda), tangibile (sparsha), visibile (rûpa, nel duplice senso di forma e colore), sapida (rasa), olfattiva (gandha); ma, ripetiamo, tali denominazioni devono essere intese soltanto in quanto analogiche, perché simili qualità non possono essere considerate se non nello stato principiale, in certo qual modo, e «non-sviluppato», giacché solo dai bhûta esse saranno, come vedremo, manifestate effettivamente nella sfera sensibile. La concezione dei tanmâtra è necessaria quando si voglia riferire la nozione degli elementi ai principi dell’Esistenza universale, ai quali del resto essa si ricollega inoltre, ma questa volta dalla parte «sostanziale», per un altro ordine di considerazioni di cui ci toccherà parlare in seguito; la concezione dei tanmâtra, invece, non ha evidentemente da intervenire quando ci si limiti allo studio delle esistenze individuali e delle qualità sensibili in quanto tali, ed è questa la ragione per cui di essa non si parla nel Vaishêshika, il quale, per definizione stessa, si situa precisamente da quest’ultimo punto di vista.
Ricorderemo che i cinque elementi riconosciuti dalla dottrina indù sono i seguenti: âkâsha, l’etere; vâyu, l’aria; têjas, il fuoco; ap, l’acqua; prithvî, la terra. L’ordine seguito è quello del loro sviluppo o della loro differenziazione, a partire dall’etere, che è l’elemento primordiale; è sempre in quest’ordine che essi sono enumerati in tutti i testi del Vêda in cui se ne parla, in particolare nei passi della Chândogya-Upanishad e della Taittirîyaka-Upanishad dove è descritta la loro genesi; e il loro ordine di riassorbimento, o di ritorno allo stato indifferenziato, è naturalmente l’inverso del loro ordine di sviluppo. Inoltre, a ciascun elemento corrisponde una qualità sensibile, la quale è considerata la sua qualità propria, quella che ne manifesta la natura in modo essenziale e attraverso la quale tale natura ci è conosciuta; la corrispondenza che è in tal modo stabilita tra i cinque elementi e i cinque sensi è la seguente: all’etere corrisponde l’udito (shrotra), all’aria il tatto (twach); al fuoco la vista (chaksus), all’acqua il gusto (rasana); alla terra l’odorato (ghrâna), e l’ordine di sviluppo dei sensi è anche quello degli elementi ai quali essi sono legati e dai quali dipendono in modo diretto; quest’ordine è ovviamente conforme a quello secondo il quale abbiamo enumerato in precedenza le qualità sensibili riferendole in modo principiale ai tanmâtra. Per di più, ognuna delle qualità che si manifesta in un elemento si manifesta anche negli elementi seguenti, e non più in quanto appartiene loro in proprio, ma in quanto tali elementi procedono dagli elementi precedenti; in effetti sarebbe contraddittorio supporre che il processo di sviluppo della manifestazione, che si effettua, come visto, gradualmente, possa provocare, in uno stadio più avanzato, il ritorno allo stato non manifesto di quel che già si è sviluppato in stadi di minor differenziazione.
Prima di procedere oltre, possiamo, per quel che riguarda il numero degli elementi e il loro ordine di derivazione, così come per la loro corrispondenza con le qualità sensibili, far notare alcune differenze importanti che esistono fra tutto ciò e le teorie di quel «filosofi fisici» greci ai quali accennavamo all’inizio. Prima di tutto, la maggior parte di essi ammettevano solo quattro elementi, perché non riconoscevano l’etere quale elemento distinto; sotto tale profilo, e fatto piuttosto curioso da notare, essi sono in accordo con i Giaina e con i Buddhisti, i quali si oppongono su questo, così come su molti altri punti, alla dottrina indù ortodossa. Qualche eccezione però esiste, in particolare nel caso di Empedocle, il quale ammetteva i cinque elementi, ma sviluppantisi nel seguente ordine: etere, fuoco, terra, acqua e aria, ordine che presenta un aspetto difficilmente giustificabile; per di più, secondo qualcuno[2], questo filosofo avrebbe anch’egli accettato quattro elementi soltanto, che sarebbero allora indicati in ordine diverso: terra, acqua, aria e fuoco. Quest’ordine è esattamente l’inverso di quello che si trova in Platone; ragione per cui si può forse pensare che esso sia, non già l’ordine di produzione degli elementi, bensì il loro ordine di riassorbimento gli uni negli altri. Secondo diverse testimonianze, gli Orfici e i Pitagorici riconoscevano i cinque elementi, cosa perfettamente normale dato il carattere propriamente tradizionale delle loro dottrine; del resto, più tardi anche Aristotele li riconobbe; in tutti i casi, però, l’importanza e la funzione dell’etere non sono mai state fra i Greci né così accettate né tanto chiaramente definite quanto fra gli Indù, A onta di certi brani del Fedone e del Timeo, senza dubbio di ispirazione pitagorica, Platone tiene generalmente conto solo di quattro elementi: secondo lui il fuoco e la terra sono gli elementi estremi, e l’aria e l’acqua gli elementi intermedi, e tale ordine differisce da quello tradizionale degli Indù per l’inversione dell’aria con il fuoco; ci sarebbe da chiedersi se non si tratti piuttosto di una confusione tra l’ordine di produzione e una ripartizione secondo quelli che possiamo definire i «gradi di sottigliezza» degli elementi (gradi che del resto ritroveremo fra poco), anche se in questo caso ci sarebbe ancora da appurare se l’enumerazione seguita da Platone corrisponda effettivamente, nell’intenzione del suo autore, a un ordine di produzione. Platone concorda con la dottrina indù quando attribuisce al fuoco la visibilità come qualità propria, ma se ne allontana quando attribuisce la tangibilità alla terra invece di attribuirla all’aria; inoltre, sembra ben difficile trovare nei Greci una corrispondenza rigorosamente definita tra gli elementi e le qualità sensibili; ed è facile capire il perché, giacché, accettando soltanto quattro elementi, si dovrebbe avvertire immediatamente in tale corrispondenza una lacuna, dal momento che, per altri versi, il numero cinque è sempre uniformemente ammesso per quel che riguarda i sensi.
In Aristotele si trovano considerazioni di tipo del tutto diverso, le quali concernono anch’esse le qualità, ma non nel senso delle qualità sensibili vere e proprie; tali considerazioni si fondano in effetti sulle combinazioni del caldo e del freddo, – che sono rispettivamente principi di espansione e di condensazione –, con il secco e con l’umido; il fuoco è caldo e secco, l’aria calda e umida, l’acqua fredda e umida, la terra fredda e secca. I raggruppamenti di queste quattro qualità, le quali si oppongono a due a due, non tengono perciò conto se non dei quattro elementi ordinari, a esclusione dell’etere, cosa che si giustifica del resto se si osserva che quest’ultimo, in quanto elemento primordiale, deve contenere in se stesso gli insiemi delle qualità opposte o complementari, che in tal modo coesistono allo stato neutro in quanto equilibrantisi perfettamente l’una con l’altra, e precedentemente alla loro differenziazione, la quale può essere considerata precisamente come il risultato della rottura di tale equilibrio originario. L’etere deve perciò essere rappresentato in modo da situarsi nel punto in cui le opposizioni non esistono ancora, ma a partire dal quale si producono, vale a dire al centro della figura cruciale i cui rami corrispondono agli altri quattro elementi; questa rappresentazione è di fatto quella adottata dagli ermetisti medioevali, i quali riconoscevano espressamente l’etere con il nome di «quintessenza» (quinta essentia), il che presuppone però un’enumerazione degli elementi effettuata in ordine ascendente o «regressivo», ossia inversa di quello di produzione, giacché in questo caso l’etere sarebbe il primo elemento e non il quinto; da notare anche che si tratta in realtà di una «sostanza» e non di una «essenza», e a tal proposito l’espressione usata rivela una confusione frequente nella terminologia latina medioevale, in cui la distinzione tra «essenza» e «sostanza», nel senso da noi indicato, non sembra essere mai stata fatta in modo preciso, come traspare con evidenza nei testi della filosofia scolastica[3].
E già che siamo in argomento di confronti dobbiamo ancora mettere in guardia, sotto un altro profilo, contro un falso accostamento a cui può dar luogo la dottrina cinese, nella quale pure si ritrova qualcosa che riceve generalmente la denominazione di «cinque elementi»; questi ultimi sono enumerati nell’ordine seguente: acqua, legno, fuoco, terra, metallo, ordine che è considerato, anche in questo caso, come quello della loro produzione. Può confondere qui il fatto che il numero è lo stesso sia dall’una che dall’altra parte, e che, su cinque termini. tre hanno denominazioni equivalenti; sennonché, la domanda da porsi è: a cosa corrispondono gli altri due, e come si può far coincidere l’ordine qui indicato con quello della dottrina indù?[4] La verità è che, nonostante le apparenti similitudini, si tratta di un punto di vista totalmente diverso, il cui esame sarebbe però fuori luogo in questa sede, e che per evitare qualsiasi confusione sarebbe anzi assai meglio tradurre il termine cinese hing con una parola che non fosse «elementi», ad esempio, com’è stato proposto[5], con il termine «agenti», che è inoltre più vicino al suo reale significato.
Fatte queste osservazioni preliminari, volendo ora precisare la nozione degli elementi dobbiamo però ancora dissipare, ma senza dilungarci eccessivamente, alcuni errori che sono comunemente diffusi a tal proposito all’epoca nostra. In primo luogo, non c’è quasi bisogno di dire che se gli elementi sono i principi costitutivi dei corpi, ciò e da intendere in modo del tutto diverso da quello in cui i chimici pensano che i corpi siano costituiti quando li considerano come la risultante della combinazione di determinati «corpi semplici» o pretesi tali: innanzi tutto la numerosità dei corpi cosiddetti semplici già si oppone a un’assimilazione di tal genere, e poi non è affatto provato che ci siano corpi veramente semplici, giacché tale nome è di fatto attribuito ai corpi che i chimici non sono capaci di scomporre. A ogni buon conto gli elementi non sono corpi, quand’anche semplici, bensì i principi sostanziali a partire dai quali i corpi sono formati; non ci si deve lasciare indurre in errore dal fatto che essi sono indicati analogicamente con nomi che possono essere anche quelli di certi corpi, ai quali essi non sono, a motivo di ciò, assolutamente identici; qualsiasi corpo deriva in realtà dall’insieme dei cinque elementi, anche se può esserci nella sua natura una certa predominanza dell’uno o dell’altro di questi elementi.
In epoca più recente si sono voluti identificare gli elementi nei diversi stati fisici della materia com’essa è intesa dal fisici moderni, cioè, tutto sommato, nei differenti gradi di condensazione che essa presenta a partire dall’etere primordiale omogeneo che riempie l’intero spazio, unendo in tal modo fra di loro tutte le parti del mondo corporeo. Secondo questo modo di vedere, si fa corrispondere, procedendo da ciò che è più denso verso ciò che è più sottile, ossia secondo un ordine che è l’inverso di quello che si accetta per la loro differenziazione, la terra allo stato solido, l’acqua allo stato liquido, l’aria allo stato gassoso, e il fuoco a uno stato ulteriormente rarefatto, relativamente simile a quello che taluni fisici hanno chiamato lo «stato radiante», il quale dovrebbe di conseguenza esser distinto dallo stato eterico. Siamo qui di fronte a quella inutile preoccupazione, tanto comune ai giorni nostri, di fare andar d’accordo le idee tradizionali con le concezioni scientifiche profane; con ciò non vogliamo asserire, però, che anche un simile punto di vista non possa contenere una certa parte di verità, nel senso che è ammissibile che ciascuno degli stati fisici abbia determinati rapporti più particolari con un certo elemento; sennonché si tratta al massimo di una corrispondenza, e non già di una identificazione, la quale sarebbe del resto incompatibile con la coesistenza costante di tutti gli elementi in qualsiasi corpo, in qualunque stato esso si presenti; e ancor meno legittimo sarebbe procedere su questa linea che non avere la pretesa di assimilare gli elementi alle qualità sensibili, le quali, sotto un altro punto di vista, per lo meno si collegano a essi in modo molto più diretto. Secondo un altro aspetto, l’ordine di condensazione crescente che viene in tal modo a stabilirsi tra gli elementi è identico a quello che abbiamo trovato in Platone: questi colloca il fuoco prima dell’aria e subito dopo l’etere, come se il fuoco fosse il primo elemento che si differenzia all’interno di tale ambiente cosmico originario; non è perciò in questa maniera che si può trovare la giustificazione dell’ordine tradizionale affermato dalla dottrina indù. Occorre però fare molta attenzione a evitare di costringersi esclusivamente in un modo di vedere troppo sistematico, ossia troppo ristrettamente limitato e particolareggiato; e certo mal si capirebbe la teoria di Aristotele e degli ermetisti da noi indicata se si cercasse, con la scusa che essa fa intervenire principi di espansione e di condensazione, di interpretarla a favore di una assimilazione degli elementi con i differenti stati fisici di cui si è parlato.
Se proprio preme trovare un punto di contatto con le teorie fisiche nell’accezione attuale della parola, sarebbe senza dubbio più giusto prendere in esame gli elementi, con riferimento alla loro corrispondenza con le qualità sensibili, in quanto rappresentanti differenti modalità vibratorie della materia, modalità attraverso le quali questa si rende successivamente percepibile a ciascuno dei nostri sensi; e quando diciamo successivamente si deve però capir bene che si tratta solo di una successione logica[6]. Soltanto che, quando si parla in tal modo delle modalità vibratorie della materia, così come quando si tratta dei suoi stati fisici, occorre por mente a un particolare punto: fra gli Indù, per lo meno (e in una certa misura anche fra i Greci), non si trova la nozione di materia com’essa è intesa dai fisici moderni; la prova di ciò è data dal fatto che, come già ci è occorso di far notare in altra sede, non esiste in sanscrito nessun termine che si possa, neppure approssimativamente, tradurre con «materia». Perciò, se è talvolta permesso servirsi di tale nozione per interpretare le concezioni degli antichi, allo scopo di farsi capire più facilmente, tuttavia non si deve mai farlo senza usare di talune precauzioni; a ogni buon conto è possibile, ad esempio, trattare degli stati vibratori senza che sia necessario far ricorso alle speciali proprietà che i moderni attribuiscono specificamente alla materia. Ciò nonostante, una concezione del genere ci sembra più adatta a indicare per analogia cosa siano gli elementi, aiutandosi, se così si può dire, con un modo di esprimersi «immaginoso», che non a definirli veramente; e forse è proprio solo questo che si può fare mediante il linguaggio di cui disponiamo al presente, in conseguenza dell’oblio in cui sono cadute le idee tradizionali nel mondo occidentale.
Aggiungeremo tuttavia ancora questo: le qualità sensibili esprimono, in rapporto con la nostra individualità umana, le condizioni che caratterizzano e determinano l’esistenza corporea in quanto modo particolare dell’Esistenza universale, giacché è attraverso tali qualità che noi conosciamo i corpi, a esclusione di ogni altra cosa; possiamo perciò vedere negli elementi anche l’espressione delle condizioni dell’esistenza corporea, non più dal punto di vista umano, ma dal punto di vista cosmico. Non ci è possibile dare in questa sede tutti gli sviluppi che tale questione comporterebbe; si può però capire immediatamente, da quel che abbiamo detto, come le qualità sensibili procedano dagli elementi in quanto traduzione o riflessione «microcosmica» delle realtà «macrocosmiche» corrispondenti. Si può inoltre capire come i corpi, che sono in modo proprio definiti dall’insieme delle condizioni di cui si tratta, siano per ciò stesso costituiti come tali dagli elementi nei quali esse si «sostanzializzano»; e questa, ci sembra, è la nozione più esatta, e insieme la più generale, che si possa fornire di tali elementi.
Dopo queste, passeremo ad altre considerazioni che faranno vedere ancor meglio come la concezione degli elementi si ricolleghi non soltanto a condizioni di esistenza di un ordine più universale, ma, più precisamente, alle condizioni stesse di ogni manifestazione. È nota l’importanza che la dottrina indù attribuisce alla considerazione dei tre guna: tale termine indica delle qualità o attribuzioni costitutive e primordiali degli esseri considerati nel loro differenti stati di manifestazione, qualità che essi traggono dal principio «sostanziale» della loro esistenza, giacché, da un punto di vista universale, esse sono inerenti a Prakriti, nella quale sono in perfetto equilibrio nell’«indistinzione» della pura potenzialità indifferenziata. Qualsiasi manifestazione o modificazione della «sostanza» rappresenta una rottura di questo equilibrio; gli esseri manifestati partecipano perciò a gradi diversi ai tre guna, ma questi non sono stati, bensì condizioni generali alle quali gli esseri sono soggetti in ogni stato, condizioni dalle quali essi sono in certo qual modo legati, e che determinano la tendenza attuale del loro «divenire». Non è il caso che ci addentriamo qui nell’esposizione completa di tutto quel che concerne i guna; ne esamineremo soltanto l’applicazione alla distinzione degli elementi. E neppure torneremo sulla definizione di ciascuno di essi, definizione che abbiamo già dato in diverse occasioni; ricorderemo solo, dal momento che è la cosa più importante per l’argomento che stiamo trattando, che sattwa è rappresentato come una tendenza ascendente, tamas come una tendenza discendente, e rajas, intermedio tra i due, come un’espansione nel senso orizzontale.
I tre guna si devono ritrovare in ognuno degli elementi, così come si ritrovano in tutto ciò che appartiene alla sfera della manifestazione universale; vi si trovano però in proporzioni differenti, che stabiliscono tra tali elementi una sorta di gerarchia, la quale può ritenersi analoga a quella che, da un altro punto di vista, incomparabilmente più ampio, si stabilisce in modo analogo tra i molteplici stati dell’Esistenza universale, anche se qui non si tratta che di semplici modalità comprese all’interno di un solo stato. Tamas predomina nell’acqua e nella terra, ma soprattutto nella terra; fisicamente, a questa forza discendente e compressiva corrisponde la gravitazione o la pesantezza. Rajas predomina nell’aria; di conseguenza questo elemento è visto come essenzialmente provvisto di un movimento trasversale. Nel fuoco predomina sattwa, perché il fuoco è l’elemento luminoso; la forza ascendente è simboleggiata dalla tendenza della fiamma a elevarsi, e si traduce fisicamente nel potere dilatante del calore, in quanto tale potere si oppone alla condensazione dei corpi.
Per dare un’interpretazione più precisa di tutto questo, possiamo raffigurare la distinzione degli elementi come se si effettuasse all’interno di una sfera: in essa le due tendenze ascendente e discendente delle quali abbiamo parlato si eserciteranno secondo le due direzioni opposte individuate sullo stesso asse verticale, l’una in senso contrario dell’altra, e rispettivamente rivolte verso i due poli; quanto all’espansione in senso orizzontale, che indica un equilibrio tra queste due tendenze, essa si effettuerà naturalmente nel piano perpendicolare al centro dell’asse verticale, vale a dire nel piano equatoriale. Se esaminiamo ora gli elementi pensandoli ripartiti in questa sfera secondo le tendenze in essi predominanti, la terra, in virtù della tendenza discendente della gravitazione, dovrà occupare il punto più basso, considerato la regione dell’oscurità e insieme costituente il fondo delle acque, mentre l’equatore segna la loro superficie, secondo un simbolismo che è del resto comune a tutte le dottrine cosmogoniche, a qualunque forma tradizionale appartengano.


L’acqua occupa perciò l’emisfero inferiore, e benché la tendenza discendente si affermi ancora nella natura di questo elemento, non si può dire che la sua azione vi si eserciti in maniera esclusiva (o quasi esclusiva, giacché la coesistenza necessaria dei tre guna in tutte le cose impedisce che il limite estremo sia mai raggiunto di fatto in qualsivoglia modo di manifestazione), perché, se consideriamo un punto qualsiasi dell’emisfero inferiore a esclusione del polo, il raggio corrispondente a tale punto avrà una direzione obliqua, intermedia tra la verticale discendente e l’orizzontale. Possiamo perciò considerare la tendenza individuata da simile direzione come scomponibile in altre due, di cui essa è la risultante, le quali saranno rispettivamente l’azione di tamas e quella di rajas; se riferiamo queste due azioni alle qualità dell’acqua, la componente verticale, funzione di tamas, corrisponderà alla densità, e la componente orizzontale, funzione di rajas, alla fluidità. L’equatore individua la regione intermedia, che è quella dell’aria, elemento neutro che mantiene l’equilibrio tra le due tendenze opposte, come fa rajas tra tamas e sattwa, nel punto in cui queste due tendenze si neutralizzano l’una con l’altra e, estendendosi trasversalmente sulla superficie delle acque, separa e delimita le zone rispettive dell’acqua e del fuoco. In effetti l’emisfero superiore è occupato dal fuoco, nel quale predomina l’azione di sattwa ma in cui ancora si esercita quella di rajas, poiché la tendenza in ogni punto di tale emisfero, indicata allo stesso modo dell’emisfero inferiore, è ora intermedia tra l’orizzontale e la verticale ascendente: la componente orizzontale, funzione di rajas, corrisponderà al calore, e la componente verticale, funzione di sattwa, corrisponderà alla luce, perché calore e luce sono interpretati come due termini complementari che si uniscono nella natura dell’elemento igneo.

âkâsha
tejas
vâyu
ap
prithvîvâyu

Non abbiamo finora parlato dell’etere: siccome esso è il più elevato e il più sottile di tutti gli elementi, dobbiamo collocarlo nel punto più alto, ossia al polo superiore, che è la regione della luce pura, per opposizione al polo inferiore che è, come abbiamo detto, la regione dell’oscurità. Di conseguenza l’etere domina la sfera degli altri elementi; occorre però considerarlo nello stesso tempo tale da avviluppare e penetrare tutti questi elementi, dei quali è il principio, e ciò a motivo dello stato di indifferenziazione che lo caratterizza, e gli consente di realizzare una vera e propria «onnipresenza» nel mondo corporeo; come afferma Shankarâchârya nell’Âtmâ-Bodha «l’etere si diffonde dappertutto, e penetra tanto l’esterno quanto l’interno delle cose». Possiamo perciò dire che, fra gli elementi, è il solo etere che raggiunge il punto in cui l’azione di sattwa si esercita al suo grado più alto; sennonché non possiamo localizzarlo esclusivamente in questo punto, come abbiamo fatto per la terra nel punto opposto, e dobbiamo considerarlo come tale da occupare nello stesso tempo la totalità della sfera elementare, qualunque sia la rappresentazione geometrica a cui si ricorra per simboleggiare l’insieme di tale sfera. Se abbiamo adottato la rappresentazione costituita da una figura sferica, questo non è avvenuto soltanto perché quest’ultima è quella che permette l’interpretazione più facile e più chiara, ma anche – anzi, prima di tutto – perché essa è quella che meglio di ogni altra si accorda con i principi generali del simbolismo cosmogonico così come si ritrovano in tutte le tradizioni; a tal proposito si potrebbero effettuare dei confronti molto interessanti, ma in questa sede non possiamo addentrarci in tali sviluppi, i quali si allontanerebbero troppo dall’argomento del presente studio.
Prima di concludere questa parte della nostra esposizione, ci resta da fare un’ultima osservazione, ed è questa: se assumiamo come ordine degli elementi quello in cui li abbiamo suddivisi nella loro sfera, procedendo dall’alto verso il basso, ossia dal più sottile al più denso, ritroviamo precisamente l’ordine indicato da Platone; sennonché qui quest’ordine, che possiamo dire gerarchico, non si confonde con l’ordine di produzione degli elementi, e deve esserne accuratamente distinto. In effetti, l’aria occupa in esso una posizione intermedia tra il fuoco e l’acqua, ma ciò nondimeno è prodotta prima del fuoco, e a dire il vero la ragione di questi due posizionamenti differenti è in fondo la stessa, ed è che l’aria è in certo qual modo un elemento neutro, il quale, proprio a causa di ciò, corrisponde a uno stato di minor differenziazione di quello del fuoco e dell’acqua, in quanto le due tendenze ascendente e discendente vi si equilibrano ancora perfettamente l’una con l’altra. Per contro, tale equilibrio è rotto nel fuoco a favore della tendenza ascendente, e nell’acqua a favore della tendenza discendente; e l’opposizione che si manifesta tra le qualità rispettive di questi due elementi indica in modo preciso lo stato di maggior differenziazione al quale essi corrispondono. Se ci si pone dal punto di vista della produzione degli elementi, occorre considerare allora che la loro differenziazione si effettua a partire dal centro della sfera, punto primordiale in cui si porrà l’etere che ne è il principio; da qui avremo in primo luogo l’espansione orizzontale, corrispondente all’aria, poi la manifestazione della tendenza ascendente, corrispondente al fuoco, e quella della tendenza discendente, corrispondente prima all’acqua, e dopo alla terra, punto d’arresto e termine finale di tutta la differenziazione elementare.
Ci tocca ora scendere in qualche particolare a proposito di ciascuno dei cinque elementi, e prima di tutto affermare che il primo di essi, âkâsha o etere, è di fatto un elemento reale e distinto dagli altri. In effetti, come già abbiamo accennato prima, certuni, in particolare i Buddhisti, non lo riconoscono come tale, e argomentando che è nirûpa, ossia «senza forma», a motivo della sua omogeneità, lo considerano una «non-entità» facendolo identico al vuoto, giacché per loro ciò che è omogeneo può soltanto essere un semplice vuoto. La teoria del «vuoto universale» (sarva-shûnya) si presenta qui del resto come una conseguenza diretta e logica dell’atomismo, in quanto, se nel mondo corporeo soltanto gli atomi hanno un’esistenza positiva, e se essi devono muoversi per aggregarsi gli uni con gli altri a formare tutti i corpi, tale movimento potrà effettuarsi solamente nel vuoto. A ogni buon conto simile conseguenza non è accettata dalla scuola di Kanâda, rappresentativa del Vaishêshika, ma eterodossa proprio per quanto riguarda la sua accettazione dell’atomismo, con il quale – beninteso – il punto di vista «cosmologico» non è affatto solidale in quanto tale; inversamente, i «filosofi fisici» greci che non contano l’etere fra gli elementi sono lungi dall’essere tutti atomisti, e sembrano ignorarlo più che non respingerlo in modo dichiarato. Comunque sia, l’opinione dei Buddhisti è facilmente confutabile se si fa notare che non può esistere uno spazio vuoto, tale concezione essendo contraddittoria: in tutta la sfera della manifestazione universale, della quale lo spazio fa parte, non può esserci vuoto, giacché il vuoto, il quale non può esser concepito se non negativamente, non è una possibilità di manifestazione; inoltre, la concezione di uno spazio vuoto corrisponderebbe a quella di un contenente senza contenuto, il che è evidentemente privo di senso. Conseguentemente, l’etere è ciò che occupa tutto lo spazio, anche se non si confonde con ciò con lo spazio stesso, perché quest’ultimo, essendo solo un contenente, ossia tutto sommato una condizione di esistenza e non un’entità indipendente, non può in quanto tale essere il principio sostanziale dei corpi, né essere all’origine degli altri elementi; l’etere perciò non è lo spazio, ma piuttosto il contenuto dello spazio concepito come preliminare a ogni differenziazione. In tale stato di indifferenziazione primordiale, stato che è come un’immagine dell’«indistinzione» di Prakriti con riferimento a quella particolare sfera di manifestazione che è il mondo corporeo, l’etere contiene già in potenza, non soltanto tutti gli elementi, ma altresì tutti i corpi, e la sua stessa omogeneità lo rende capace di ricevere tutte le forme nelle sue modificazioni. Poiché è il principio delle cose corporee, esso possiede la quantità, la quale è un attributo fondamentale comune a tutti i corpi; inoltre, esso è considerato essenzialmente semplice, sempre a motivo della sua omogeneità, e impenetrabile, giacché è lui stesso che penetra tutto.
Dimostrata in questo modo, l’esistenza dell’etere si presenta ben diversa da una semplice ipotesi, e ciò mostra con evidenza la differenza profonda che separa la dottrina tradizionale da tutte le teorie scientifiche moderne. Tuttavia è il caso di prendere in considerazione un’ulteriore obiezione: quand’anche l’etere sia un elemento reale, questo non basta a provare che esso sia anche un elemento distinto; in altre parole, potrebbe darsi che l’elemento che è diffuso in tutto lo spazio corporeo (intendiamo con ciò lo spazio atto a contenere corpi) non sia altro che l’aria, e sarebbe allora quest’ultima che è in realtà l’elemento primordiale. La risposta a tale obiezione è che ciascuno dei nostri sensi ci fa conoscere, quale oggetto proprio, una qualità distinta da quelle conosciute attraverso gli altri sensi; ora, una qualità non può esistere se non in qualcosa a cui essa possa essere riferita così come un attributo è riferito al suo soggetto, e poiché ognuna delle qualità sensibili è in tal modo attribuibile a un elemento di cui essa è la proprietà caratteristica, occorre necessariamente che ai cinque sensi corrispondano cinque elementi distinti.
La qualità sensibile che è riferita all’etere è il suono; ciò necessita di qualche spiegazione, che sarà facilmente capita se si fa intervenire il modo di produzione del suono per un movimento vibratorio, cosa che è ben lontana dall’essere una scoperta recente come qualcuno potrebbe credere, giacché Kanâda afferma espressamente che «Il suono si propaga per ondulazioni, onda dopo onda, increspazione dopo increspazione, irraggiandosi in tutte le direzioni a partire da un centro fisso». Simile movimento si propaga attorno al suo punto di partenza in onde concentriche, uniformemente suddivise secondo tutte le direzioni dello spazio, il che dà origine alla figura di uno sferoide indefinito e non chiuso. È questo il movimento meno differenziato di tutti, a motivo di quella che potremmo chiamare la sua «isotropia», ed è questa la ragione per cui esso potrà dar origine a tutti gli altri movimenti, i quali si distingueranno da esso nel senso che non si attueranno più in modo uniforme secondo tutte le direzioni; e, analogamente, tutte le forme più particolarizzate deriveranno dalla forma sferica originaria. Per cui, la differenziazione dell’etere primitivamente omogeneo, differenziazione che genera gli altri elementi, ha come origine un movimento elementare producentesi, nella maniera da noi descritta, a partire da un punto iniziale qualsiasi, in tale ambiente cosmico indefinito; ma questo movimento elementare non è altro se non il prototipo dell’ondulazione sonora. La sensazione uditiva è del resto la sola che ci faccia percepire direttamente un movimento vibratorio; quand’anche si ammetta, con la maggioranza dei fisici moderni, che le altre sensazioni provengono da una trasformazione di simili movimenti, non è tuttavia meno vero che esse ne differiscono qualitativamente in quanto sensazioni, che è a tal proposito l’unica considerazione essenziale. Sotto un altro aspetto, quel che abbiamo detto indica che è nell’etere che risiede la causa del suono, ma bisogna altresì comprendere che tale causa deve essere distinta dagli ambienti diversi che possono servire in modo secondario alla propagazione del suono, e contribuiscono a rendercelo percepibile amplificando le vibrazioni eteriche elementari, e ciò in maggior misura quanto più densi siano tali ambienti; aggiungeremo per finire, a questo proposito, che la qualità sonora è anche sensibile negli altri quattro elementi, e questo perché essi procedono tutti dall’etere. Fatta astrazione da queste considerazioni, l’attribuzione della qualità sonora all’etere, ossia al primo degli elementi, ha un’altra ragione profonda, che si ricollega alla dottrina della primordialità e della perpetuità del suono; ma questo è un argomento al quale possiamo soltanto fare un’allusione di sfuggita.
Il secondo elemento, il primo a differenziarsi partendo dall’etere, è vâyu, o l’aria; il termine vâyu, dalla radice verbale , che significa «andare» o «muoversi», indica propriamente il fiato o il vento, e conseguentemente il carattere essenziale di questo elemento è considerato essere la mobilità. Come già abbiamo detto, l’aria è, in modo più preciso, vista come dotata di un movimento trasversale, movimento nel quale non tutte le direzioni dello spazio hanno più la stessa funzione, come invece avveniva nel movimento sferoidale esaminato in precedenza, ma si effettua al contrario seguendo una direzione definita e particolare; si tratta in altre parole del movimento rettilineo, al quale dà origine la determinazione di tale direzione. La propagazione del movimento secondo certe direzioni implica una rottura dell’omogeneità dell’ambiente cosmico; di conseguenza avremo un movimento complesso, il quale, non essendo più «isotropo», dovrà essere costituito da una combinazione, o coordinazione, di movimenti vibratoti elementari. Simile movimento dà origine a forme del pari complesse, e poiché la forma è ciò che concerne in primo luogo il tatto, la qualità tangibile può essere riferita all’aria come se le appartenesse in proprio, in quanto questo elemento è, a motivo della sua mobilità, il principio della differenziazione delle forme. È dunque per effetto della mobilità che l’aria ci è resa sensibile; analogicamente, del resto, l’aria atmosferica diventa sensibile al tatto solo attraverso il suo spostarsi; sennonché, in coerenza con l’osservazione da noi fatta in precedenza in via generale, occorre evitare di confondere l’elemento aria con l’aria atmosferica – la quale è un corpo –, come taluni non hanno mancato di fare dopo aver constatato alcuni accostamenti di questo genere. È per questa ragione che Kanâda afferma che l’aria è incolore; ma non è difficile capire come le cose debbano di fatto stare così, senza neppure dover riferirsi alle proprietà dell’aria atmosferica, perché il colore è una qualità del fuoco, e quest’ultimo è logicamente posteriore all’aria nell’ordine di sviluppo degli elementi; tale qualità non è perciò ancora manifestata nello stadio rappresentato dall’aria.
Il terzo elemento è tejas, o il fuoco, il quale si manifesta ai nostri sensi sotto due aspetti principali, come luce e come calore; la sua qualità propria è la visibilità, e sotto questo profilo quello che deve esser preso in considerazione è il suo aspetto luminoso; è una cosa troppo chiara perché ci sia bisogno di spiegazioni, giacché è evidente che è soltanto in virtù della luce che i corpi si rendono visibili. Secondo Kanâda «la luce è colorata, ed è il principio della colorazione dei corpi»; il colore è perciò una proprietà caratteristica della luce: nella stessa luce il colore è bianco e risplendente; nei diversi corpi esso è variabile, e fra le sue modificazioni si possono distinguere colori semplici e colori composti, o miscelati. Ricorderemo che i Pitagorici, a detta di Plutarco, affermavano analogamente che «i colori non sono se non un riflesso della luce, modificata in maniere diverse»; sarebbe perciò anche qui decisamente sbagliato prendere questa constatazione per una scoperta della scienza moderna. Inoltre, dal punto di vista del suo aspetto calorico, il fuoco è reso sensibile al tatto, nel quale produce l’impressione della temperatura; sotto questo aspetto l’aria è neutra, perché è anteriore al fuoco e perché il calore è un aspetto di quest’ultimo; quanto al freddo, esso è considerato una proprietà caratteristica dell’acqua. Per cui, tanto per quanto riguarda la temperatura quanto per quel che concerne l’azione delle due tendenze ascendente e discendente da noi definite in precedenza, il fuoco e l’acqua si oppongono l’uno all’altra, mentre l’aria si trova in uno stato di equilibrio tra questi due elementi. Del resto, se si tien conto che il freddo aumenta la densità dei corpi contraendoli, mentre il calore li dilata e li rende più sottili, si potrà riuscire senza difficoltà ad ammettere che la correlazione del calore e del freddo, rispettivamente con il fuoco e con l’acqua, si trova compresa, a titolo di applicazione particolare e di semplice conseguenza, nella teoria generale dei tre guna e della loro ripartizione nell’insieme della sfera elementare.
Il quarto elemento, ap o acqua, ha quali proprietà caratteristiche, oltre al freddo di cui abbiamo testé detto, la densità o gravità, che condivide con la terra, e la fluidità o viscosità, qualità a motivo della quale si distingue da tutti gli altri elementi; abbiamo già segnalato la correlazione di queste due proprietà con le azioni rispettive di tamas e di rajas. Inoltre, la qualità sensibile che corrisponde all’acqua è il sapore; e si può notare, incidentalmente, quantunque non sia il caso di annettere un’importanza eccessiva a considerazioni di questo genere, che ciò si riscontra in accordo con l’opinione dei fisiologi moderni, i quali pensano che un corpo non è «sapido» se non nella misura in cui può dissolversi nella saliva; in altri termini, il sapore è, in qualsiasi corpo, una conseguenza della fluidità.
Infine, il quinto e ultimo elemento è prithvî, o la terra, la quale, non possedendo più la fluidità dell’acqua, corrisponde alla modalità corporea più condensata di tutte; conseguentemente, è in questo elemento che si ritrova nelle proporzioni più alte la gravità, la quale si manifesta nella discesa, o caduta dei corpi. La qualità sensibile propria della terra è l’odore; è questa la ragione per cui tale qualità è considerata risiedere in particelle solide che, staccandosi dai corpi, entrano in contatto con l’organo dell’odorato. Anche su questo punto non sembra esserci disaccordo con le teorie fisiologiche attuali; sennonché, quand’anche ci fosse un qualsiasi disaccordo, l’importanza di quest’ultimo sarebbe in fondo trascurabile, poiché l’errore dovrebbe in tal caso essere ricercato dalla parte della scienza profana e non da quella della dottrina tradizionale.
Per terminare, diremo qualche parola del modo in cui la dottrina indù riguarda gli organi dei sensi nel loro rapporto con gli elementi: dal momento che ogni qualità sensibile procede da un elemento nel quale essa essenzialmente risiede, occorre che l’organo per mezzo del quale tale qualità è percepita sia conforme a questo elemento, vale a dire che l’organo deve compartire la natura dell’elemento a cui corrisponde. È in questo modo che i veri organi dei sensi sono costituiti, e, contrariamente all’opinione dei Buddhisti, essi vanno distinti dagli organi esterni, ossia dalle parti del corpo umano che sono soltanto le loro sedi e i loro strumenti. È così che il vero organo dell’udito non è il padiglione auricolare, ma la porzione di etere contenuta nell’orecchio interno, la quale entra in vibrazione sotto l’influenza di una ondulazione sonora; e Kanâda fa osservare che non è la prima onda, né le onde intermedie, a far percepire il suono, ma l’ultima onda che viene a contatto con l’organo dell’udito. Analogamente, il vero organo della vista non è il globo oculare, né la pupilla, e neppure la retina, ma un principio luminoso che risiede nell’occhio, ed entra in comunicazione con la luce emanata dagli oggetti esterni o da essi riflessa; la luminosità dell’occhio non è abitualmente visibile, ma può diventare visibile in determinate circostanze, in particolare negli animali che vedono nell’oscurità della notte. Bisogna inoltre notare che il raggio luminoso mediante il quale si effettua la percezione visiva, e si estende tra l’occhio e l’oggetto percepito, può essere inteso nei due sensi, sia come se partisse dall’occhio per raggiungere l’oggetto, o, reciprocamente, come se provenisse dall’oggetto e procedesse verso la pupilla oculare; una simile teoria della visione si ritrova nei Pitagorici, ed è pure in accordo con la definizione della sensazione data da Aristotele, il quale affermava che essa è «l’atto comune del senziente e del sentito». Considerazioni di ugual genere potrebbero farsi per gli organi di ognuno degli altri sensi; noi pensiamo però che gli esempi che abbiamo già dato siano sufficienti a fornire indicazioni soddisfacenti.
Questa è, esposta nelle sue grandi linee e interpretata nel modo più esatto possibile, la teoria indù degli elementi; essa, oltre a presentare un indubbio interesse di per se stessa, è tale da far comprendere in modo più generale quale sia il punto di vista «cosmologico» nelle dottrine tradizionali.



[1] Pubblicato in «Le Voile d’Isis», agosto-settembre 1935. [N.d.T.]
[2] Struve, De elementis Empedoclis.
[3] Nella figura posta sul frontespizio del Trattato De Arte Combinatoria di Leibniz, il quale è influenzato dalle concezioni ermetiche, la «quintessenza» è rappresentata, al centro della croce degli elementi (o, se si vuole, della croce doppia degli elementi e delle qualità), da una rosa con cinque petali, e forma quindi il simbolo rosacrociano. L’espressione quinta essentia può essere altresì riferita alla «quintupla natura dell’etere», la quale non deve essere intesa come riguardante cinque diversi «eteri», come è stato immaginato da alcuni moderni (il che è in contraddizione con l’indifferenziazione dell’elemento primordiale), ma l’etere concepito in sé e quale principio degli altri quattro elementi; è questa, d’altronde, l’interpretazione alchemica della rosa a cinque petali alla quale abbiamo fatto riferimento.
[4] Questi «cinque elementi» si dispongono altresì secondo una figura cruciale formata dalla duplice opposizione dell’acqua e del fuoco, del legno e del metallo, ma il cui centro è occupato dalla terra.
[5] Marcel Granet: La Pensée chinoise, p. 313; p. 233 dell’edizione italiana (Il Pensiero cinese, Milano, Adelphi).
[6] È sottinteso che non si può pensare in nessun modo di dar corpo, presupponendo una successione cronologica nell’esercizio dei diversi sensi, a una concezione del tipo di quella della statua ideale immaginata da Condillac nel suo troppo famoso Traité des Sensations.

Nessun commento:

Posta un commento