"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 21 aprile 2020

Melisso di Samo, I frammenti sull'Essere

Melisso di Samo
I frammenti sull'Essere

Melisso di Samo, anch’egli discepolo di Parmenide, fu il generale che sconfisse la flotta ateniese nel 441-40 a. C. È questa l'unica notizia 'che abbiamo della sua vita (Plutarco, Per., 26), la cui acmé è appunto situata in quella data. In uno scritto in prosa Sulla natura o sull’essere, Melisso difendeva polemicamente la dottrina di Parmenide, specialmente contro Empedocle e Leucippo. La prova della fondamentale falsità della conoscenza sensibile è, secondo Melisso, che essa ci testimonia nello stesso tempo la realtà delle cose e il loro mutamento. Ma se le cose fossero reali, non muterebbero; e se mutano, non sono reali. Non esistono dunque cose molteplici, ma solo l’unità (fr. 8, Diels). Come Zenone polemizzava di preferenza contro il movimento, così Melisso polemizza di preferenza contro il mutamento.
«Se l'essere mutasse anche solo di un capello in diecimila anni, andrebbe interamente distrutto nella totalità del tempo» (fr. 7).
In due punti, tuttavia, Melisso modifica la dottrina di Parmenide. Parmenide concepiva l’essere come·una totalità finita e intemporale: l’essere vive, secondo Parmenide, solo nell’ora, come una totalità simultanea, ed è finito nella sua compiutezza. Melisso concepisce la vita dell’essere come una durata illimitata; ed afferma perciò l’infinità dell’essere nello spazio e nel tempo. Egli intende l’eternità dell’essere come infinità di durata, come «ciò che è sempre stato e sempre sarà» e perciò non ha né principio né fine. Conseguentemente, ammette l’infinità di grandezza dell’essere:
«Poiché l'essere è sempre, deve essere sempre di infinita grandezza» (fr. 3).
Questa modifica di una delle tesi fondamentali di Parmenide e forse l’altra affermazione di Melisso, che l’essere è pieno e che il vuoto non c’è, suggerirono ad Aristotele l'osservazione che «Parmenide accennasse all’uno secondo il concetto, Melisso secondo la materia» (Met., l, 5, 986 b, 18). Tanto più rilievo acquista, quindi, l’affermazione risoluta da parte di Melisso dell’incorporeità dell’essere.
«Se è, bisogna necessariamente che sia uno; ma se è uno non può aver corpo, perché se avesse un corpo avrebbe parti e non sarebbe più uno» (fr. 9).
I critici moderni, che hanno affermato la corporeità dell’essere parmenideo (la quale è esclusa dall’impostazione stessa che gli Eleati danno alloro problema), riferiscono la negazione di Melisso a qualche particolare elemento, di cui suppongono che Melisso discutesse la realtà. Ma anche se Melisso aveva presente un’ipotesi particolare, il significato della sua affermazione non muta: ciò che è corpo ha parti, dunque non è uno: dunque non è. La negazione della realtà corporea è implicita per Melisso, come per Parmenide e per Zenone, nella negazione della molteplicità e del mutamento e nel ripudio dell’esperienza sensibile come via di accesso alla verità.
(Nicola Abbagnano, Storia della Filosofia)

Frammenti sull'Essere

Se nulla è, che cosa si potrebbe dire di esso, come se fosse qualcosa. (frammento 0)

Sempre era ciò che era e sempre sarà. Perché se fosse stato, sarebbe necessario che prima di nascere fosse nulla. Ma se era nulla, dal nulla non sarebbe potuto nascere nulla in alcun modo. (frammento 1)

Ora dunque poiché non è nato è e sempre era e sempre sarà e non ha né principio né fine, ma è infinito. Se fosse nato infatti avrebbe principio (perché avrebbe cominciato a nascere ad un momento determinato) e fine (perché avrebbe finito di nascere ad un momento determinato); ma poiché non ha né cominciato né terminato era sempre e sempre sarà. «e» non ha né principio né fine. Non è possibile infatti che sia sempre ciò che non è tutto. (frammento 2)

Ma come è sempre, così bisogna anche che sia sempre infinito in grandezza. (frammento 3)

Ciò che ha principio e fine di sorta, non è né eterno né infinito. (frammento 4)

Infatti il limite confinerebbe col vuoto. (frammento 4a)

Se non fosse uno avrebbe limite in altro. (frammento 5)

Se infatti è infinito deve essere uno: perché se fossero due, i due non potrebbero essere infiniti, ma l'uno avrebbe limite nell'altro. (frammento 6)

In tal modo esso è dunque eterno e infinito e uno ed uguale tutto quanto. E neanche può perire ne diventare maggiore ne modificarsi nella sua natura o nella sua disposizione, ne sente dolore o tristezza. Perché se andasse soggetto a una qualsiasi di queste cose, non sarebbe più uno. Se infatti si altera nella sua natura, è necessario che non sia più omogeneo, ma si distrugga quel che prima esisteva, e si generi quel che non esisteva. Ora, se si alterasse di un solo capello in diecimila anni, si distruggerebbe tutto quanto nella totalità del tempo. Ma neppure è possibile che muti disposizione: infatti la disposizione che c'era prima non perisce e quella che non c'è non nasce. Ma dal momento che nulla ne si aggiunge ne perisce ne diventa diverso, come potrebbe mutare disposizione? Difatti se una cosa diventasse diversa con ciò già sarebbe mutata la disposizione. Neppure prova sofferenza: perché non potrebbe essere tutto se soffrisse; infatti non potrebbe soffrire una cosa che soffre e neppure ha una forza pari a una cosa sana. Neppure sarebbe uguale, se soffrisse; infatti soffrirebbe o perché qualcosa viene a mancare o perché qualcosa sopravviene: e in questo modo non sarebbe più uguale. Neppure potrebbe ciò che è sano provare sofferenza: perché perirebbe ciò che è sano e ciò che è, e ciò che non è nascerebbe. Ancora, per provare pena vale la stessa dimostrazione che per il soffrire. E non c'è vuoto alcuno perché il vuoto è nulla: dunque non può esistere ciò che è appunto nulla. Neanche si muove, perché non ha luogo ove subentrare, ma è pieno. Giacche se ci fosse il vuoto subentrerebbe nel vuoto: non essendoci il vuoto non ha dove subentrare. Non può essere denso o rado, perché non è possibile che il rado sia pieno allo stesso modo del denso, ma il rado, appunto perché rado è più vuoto del pieno. Questa è la distinzione che bisogna fare tra pieno e non pieno: se qualcosa fa luogo e da ricetto, non è piena, se ne fa luogo ne da ricetto, è piena. Cosicché è necessario che sia pieno se il vuoto non c'è. Se dunque è pieno non si muove. (frammento 7)

Questo che abbiamo detto è dunque massima prova che l'essere è soltanto uno. Ma sono prove anche le seguenti. Se ci fossero molte cose dovrebbero essere così come io dico che è l'uno. Infatti se c'è la terra e l'acqua e l'aria e il fuoco e il ferro e l'oro e una cosa è viva e l'altra è morta e nera e bianca e quante altre cose gli uomini dicono essere, se dunque tutto questo esiste e noi rettamente vediamo e udiamo, bisogna che ciascuna cosa sia tale quale precisamente ci parve la prima volta e che non muti ne diventi diversa, ma che ciascuna sempre sia quale precisamente è. Ora noi diciamo di vedere udire intendere rettamente. Invece ci sembra il caldo diventi freddo e il freddo caldo, il duro molle e il molle duro e che il vivente muoia e venga dal non vivente e che tutte queste cose si trasformino e che ciò che era e ciò che è ora per nulla siano uguali; anzi che il ferro che pure è duro, si logori a contatto col dito e così l'oro e le pietre e ogni altra cosa che sembra essere resistente, e che all'inverso la terra e le pietre vengano dall'acqua. Cosicché ne viene di necessità che noi ne vediamo ne conosciamo la realtà. Perché non c'è certo accordo in questo. Mentre infatti diciamo che le cose sono molte ed eterne e che hanno certi aspetti e resistenza, ci sembra che tutto si trasformi e si muti da quel che ogni vola l'occhio ci fa vedere. È chiaro dunque che non rettamente vedevamo e che quelle cose non rettamente sembrano essere molteplici; infatti non si trasformerebbero se fossero reali, ma ciascuna sarebbe tale quale precisamente sembrava. Ma se si trasforma ecco che l'essere perì e il non essere nacque. Così se ci fosse il molteplice esso dovrebbe essere tale quale è appunto l'uno. (frammento 8)

Se dunque è, bisogna che esso sia uno: ma se è uno bisogna che esso non abbia corpo; se invece avesse spessore avrebbe parti e non sarebbe più uno. (frammento 9)

Se infatti l'essere è divisibile, dice, si muove: ma se si muovesse non sarebbe più. (frammento 10)


Testo greco secondo l’edizione di Hermann Diels

Μελλισου περι φυσεωσ η περι του οντοσ

1. (1 Covotti Stud. Ital. vi, 217) SIMPL. phys. 162, 24
Καὶ Μέλισσος δὲ τὸ ἀγένητον τοῦ ὄντος ἔδειξε τῶι κοινῶι τούτωι χρησάμενος ἀξιώματι· γράφει δὲ οὕτως·
᾿ἀεὶ ἦν ὅ τι ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται. Εἰ γὰρ ἐγένετο, ἀναγκαῖόν ἐστι πρὶν γενέσθαι εἶναι μηδέν· εἰ τοίνυν μηδὲν ἦν, οὐδαμὰ ἂν γένοιτο οὐδὲν ἐκ μηδενός᾿.

2. -- -- 29, 22; 109, 20
Ὅτε τοίνυν οὐκ ἐγένετο, ἔστι τε καὶ ἀεὶ ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται καὶ ἀρχὴν οὐκ ἔχει οὐδὲ τελευτήν, ἀλλ᾿ ἄπειρόν ἐστιν. Εἰ μὲν γὰρ ἐγένετο, ἀρχὴν ἂν εἶχεν ἤρξατο γὰρ ἄν ποτε γενόμενον καὶ τελευτήν ἐτελεύτησε γὰρ ἄν ποτε γενόμενον· ὅτε δὲ μήτε ἤρξατο μήτε ἐτελεύτησεν, ἀεί τε ἦν καὶ ἀεὶ ἔσται <καὶ> οὐκ ἔχει ἀρχὴν οὐδὲ τελευτήν· οὐ γὰρ ἀεὶ εἶναι ἀνυστόν, ὅ τι μὴ πᾶν ἔστι.

3. -- --  109, 29
Ὅτι δὲ ὥσπερ τὸ ᾿ποτὲ γενόμενον᾿ (B 2) πεπερασμένον τῆι οὐσίαι φησίν, οὕτω καὶ τὸ ᾿ἀεὶ ὂν᾿ ἄπειρον λέγει τῆι οὐσίαι, σαφὲς πεποίηκεν εἰπών·
᾿Ἀλλ᾿ ὥσπερ ἔστιν ἀεί, οὕτω καὶ τὸ μέγεθος ἄπειρον ἀεὶ χρὴ εἶναι᾿.
Μέγεθος δὲ οὐ τὸ διάστατόν φησι (vgl. B 10).

4. -- --  110, 2
Καὶ ἐφεξῆς δὲ τῶι ἀιδίωι τὸ ἄπειρον κατὰ τὴν οὐσίαν συνέταξεν εἰπών·
᾿Ἀρχήν τε καὶ τέλος ἔχον οὐδὲν οὔτε ἀίδιον οὔτε ἄπειρόν ἐστιν᾿,
ὥστε τὸ μὴ ἔχον ἄπειρόν ἐστιν.

5. -- -- 110, 5
Ἀπὸ δὲ τοῦ ἀπείρου τὸ ἓν συνελογίσατο ἐκ τοῦ
᾿Εἰ μὴ ἓν εἴη, περανεῖ πρὸς ἄλλο᾿.
Τοῦτο δὲ αἰτιᾶται Εὔδημος (fr. 9 Sp.) ὡς ἀδιορίστως λεγόμενον γράφων οὕτως·
᾿Εἰ δὲ δὴ συγχωρήσειέ τις ἄπειρον εἶναι τὸ ὄν, διὰ τί καὶ ἕν ἐστιν; οὐ γὰρ δὴ διότι πλείονα, περανεῖ πηι πρὸς ἄλληλα. Δοκεῖ γὰρ ὁ παρεληλυθὼς χρόνος ἄπειρος εἶναι περαίνων πρὸς τὸν παρόντα. Πάντηι μὲν οὖν ἄπειρα τὰ πλείω τάχα οὐκ ἂν εἴη, ἐπὶ θάτερα δὲ φανεῖται ἐνδέχεσθαι. Χρὴ οὖν διορίσαι, πῶς ἄπειρα οὐκ ἂν εἴη, εἰ πλείω.᾿

6. -- de caelo 557, 14
Τοῦ γὰρ αἰσθητοῦ ἐναργῶς εἶναι δοκοῦντος, εἰ ἓν τὸ ὄν ἐστιν, οὐκ ἂν εἴη ἄλλο παρὰ τοῦτο. Λέγει δὲ Μέλισσος μὲν
᾿Εἰ γὰρ <ἄπειρον> εἴη, ἓν εἴη ἄν· εἰ γὰρ δύο εἴη, οὐκ ἂν δύναιτο ἄπειρα εἶναι, ἀλλ᾿ ἔχοι ἂν πείρατα πρὸς ἄλληλα,᾿
Παρμενίδης δὲ ᾿οὖλον ... ἀγένητον᾿ (fr.  8. 4).

7. -- phys. 111, 18
Λέγει δ᾿ οὖν Μέλισσος οὕτως τὰ πρότερον εἰρημένα συμπεραινόμενος καὶ οὕτως τὰ περὶ τῆς κινήσεως ἐπάγων·
(1) Οὕτως οὖν ἀίδιόν ἐστι καὶ ἄπειρον καὶ ἓν καὶ ὅμοιον πᾶν. (2) Καὶ οὔτ᾿ ἂν ἀπόλοιτο οὔτε μεῖζον γίνοιτο οὔτε μετακοσμέοιτο οὔτε ἀλγεῖ οὔτε ἀνιᾶται· εἰ γάρ τι τούτων πάσχοι, οὐκ ἂν ἔτι ἓν εἴη. Εἰ γὰρ ἑτεροιοῦται, ἀνάγκη τὸ ἐὸν μὴ ὁμοῖον εἶναι, ἀλλὰ ἀπόλλυσθαι τὸ πρόσθεν ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γίνεσθαι. Εἰ τοίνυν τριχὶ μιῆι μυρίοις ἔτεσιν ἑτεροῖον γίνοιτο, ὀλεῖται πᾶν ἐν τῶι παντὶ χρόνωι. (3) Ἀλλ᾿ οὐδὲ μετακοσμηθῆναι ἀνυστόν· ὁ γὰρ κόσμος ὁ πρόσθεν ἐὼν οὐκ ἀπόλλυται οὔτε ὁ μὴ ἐὼν γίνεται. Ὅτε δὲ μήτε προσγίνεται μηδὲν μήτε ἀπόλλυται μήτε ἑτεροιοῦται, πῶς ἂν μετακοσμηθὲν τῶν ἐόντων εἴη; εἰ μὲν γάρ τι ἐγίνετο ἑτεροῖον, ἤδη ἂν καὶ μετακοσμηθείη. (4) Οὐδὲ ἀλγεῖ· οὐ γὰρ ἂν πᾶν εἴη ἀλγέον· οὐ γὰρ ἂν δύναιτο ἀεὶ εἶναι χρῆμα ἀλγέον· οὐδὲ ἔχει ἴσην δύναμιν τῶι ὑγιεῖ· οὐδ᾿ ἂν ὁμοῖον εἴη, εἰ ἀλγέοι· ἀπογινομένου γάρ τευ ἂν ἀλγέοι ἢ προσγινομένου, κοὐκ ἂν ἔτι ὁμοῖον εἴη. (5) Οὐδ᾿ ἂν τὸ ὑγιὲς ἀλγῆσαι δύναιτο· ἀπὸ γὰρ ἂν ὄλοιτο τὸ ὑγιὲς καὶ τὸ ἐόν, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γένοιτο. (6) Καὶ περὶ τοῦ ἀνιᾶσθαι ὡυτὸς λόγος τῶι ἀλγέοντι. (7) Οὐδὲ κενεόν ἐστιν οὐδέν· τὸ γὰρ κενεὸν οὐδέν ἐστιν· οὐκ ἂν οὖν εἴη τό γε μηδέν. Οὐδὲ κινεῖται· ὑποχωρῆσαι γὰρ οὐκ ἔχει οὐδαμῆι, ἀλλὰ πλέων ἐστίν. Εἰ μὲν γὰρ κενεὸν ἦν, ὑπεχώρει ἂν εἰς τὸ κενόν· κενοῦ δὲ μὴ ἐόντος οὐκ ἔχει ὅκηι ὑποχωρήσει. (8) Πυκνὸν δὲ καὶ ἀραιὸν οὐκ ἂν εἴη. Τὸ γὰρ ἀραιὸν οὐκ ἀνυστὸν πλέων εἶναι ὁμοίως τῶι πυκνῶι, ἀλλ᾿ ἤδη τὸ ἀραιόν γε κενεώτερον γίνεται τοῦ πυκνοῦ. (9) Κρίσιν δὲ ταύτην χρὴ ποιήσασθαι τοῦ πλέω καὶ τοῦ μὴ πλέω· εἰ μὲν οὖν χωρεῖ τι ἢ εἰσδέχεται, οὐ πλέων· εἰ δὲ μήτε χωρεῖ μήτε εἰσδέχεται, πλέων. (10) Ἀνάγκη τοίνυν πλέων εἶναι, εἰ κενὸν μὴ ἔστιν. Εἰ τοίνυν πλέων ἐστίν, οὐ κινεῖται.

8 .  SIMPL. de caelo 558, 19 (vgl. A 14)
Εἰπὼν γὰρ περὶ τοῦ ὄντος ὅτι ἕν ἐστι καὶ ἀγένητον καὶ ἀκίνητον καὶ μηδενὶ κενῶι διειλημμένον, ἀλλ᾿ ὅλον ἑαυτοῦ πλῆρες, ἐπάγει·
(1) Μέγιστον μὲν οὖν σημεῖον οὗτος ὁ λόγος, ὅτι ἓν μόνον ἔστιν· ἀτὰρ καὶ τάδε σημεῖα. (2) Εἰ γὰρ ἦν πολλά, τοιαῦτα χρὴ αὐτὰ εἶναι, οἷόν περ ἐγώ φημι τὸ ἓν εἶναι. Εἰ γὰρ ἔστι γῆ καὶ ὕδωρ καὶ ἀὴρ καὶ πῦρ καὶ σίδηρος καὶ χρυσός, καὶ τὸ μὲν ζῶον τὸ δὲ τεθνηκός, καὶ μέλαν καὶ λευκὸν καὶ τὰ ἄλλα, ὅσα φασὶν οἱ ἄνθρωποι εἶναι ἀληθῆ, εἰ δὴ ταῦτα ἔστι, καὶ ἡμεῖς ὀρθῶς ὁρῶμεν καὶ ἀκούομεν, εἶναι χρὴ ἕκαστον τοιοῦτον, οἷόν περ τὸ πρῶτον ἔδοξεν ἡμῖν, καὶ μὴ μεταπίπτειν μηδὲ γίνεσθαι ἑτεροῖον, ἀλλὰ ἀεὶ εἶναι ἕκαστον, οἷόν πέρ ἐστιν. Νῦν δέ φαμεν ὀρθῶς ὁρᾶν καὶ ἀκούειν καὶ συνιέναι· (3) δοκεῖ δὲ ἡμῖν τό τε θερμὸν ψυχρὸν γίνεσθαι καὶ τὸ ψυχρὸν θερμὸν καὶ τὸ σκληρὸν μαλθακὸν καὶ τὸ μαλθακὸν σκληρὸν καὶ τὸ ζῶον ἀποθνήισκειν καὶ ἐκ μὴ ζῶντος γίνεσθαι, καὶ ταῦτα πάντα ἑτεροιοῦσθαι, καὶ ὅ τι ἦν τε καὶ ὃ νῦν οὐδὲν ὁμοῖον εἶναι, ἀλλ᾿ ὅ τε σίδηρος σκληρὸς ἐὼν τῶι δακτύλωι κατατρίβεσθαι ὁμουρέων, καὶ χρυσὸς καὶ λίθος καὶ ἄλλο ὅ τι ἰσχυρὸν δοκεῖ εἶναι πᾶν, ἐξ ὕδατός τε γῆ καὶ λίθος γίνεσθαι· ὥστε συμβαίνει μήτε ὁρᾶν μήτε τὰ ὄντα γινώσκειν. (4) Οὐ τοίνυν ταῦτα ἀλλήλοις ὁμολογεῖ. Φαμένοις γὰρ εἶναι πολλὰ καὶ ἀίδια (?) καὶ εἴδη τε καὶ ἰσχὺν ἔχοντα, πάντα ἑτεροιοῦσθαι ἡμῖν δοκεῖ καὶ μεταπίπτειν ἐκ τοῦ ἑκάστοτε ὁρωμένου. (5) Δῆλον τοίνυν, ὅτι οὐκ ὀρθῶς ἑωρῶμεν οὐδὲ ἐκεῖνα πολλὰ ὀρθῶς δοκεῖ εἶναι· οὐ γὰρ ἂν μετέπιπτεν, εἰ ἀληθῆ ἦν· ἀλλ᾿ ἦν οἷόν περ ἐδόκει ἕκαστον τοιοῦτον. Τοῦ γὰρ ἐόντος ἀληθινοῦ κρεῖσσον οὐδέν. (6) Ἢν δὲ μεταπέσηι, τὸ μὲν ἐὸν ἀπώλετο, τὸ δὲ οὐκ ἐὸν γέγονεν. Οὕτως οὖν, εἰ πολλὰ εἴη, τοιαῦτα χρὴ εἶναι, οἷόν περ τὸ ἕν.

9.  SIMPL. phys. 109, 37 (nach. B 10; Schluss aus S. 87, 6)
Ὅτι γὰρ ἀσώματον εἶναι βούλεται τὸ ὄν (Μέλισσος), ἐδήλωσεν εἰπών·
Εἰ μὲν οὖν εἴη, δεῖ αὐτὸ ἓν εἶναι· ἓν δ᾿ ἐὸν δεῖ αὐτὸ σῶμα μὴ ἔχειν. Εἰ δὲ ἔχοι πάχος, ἔχοι ἂν μόρια, καὶ οὐκέτι ἓν εἴη.

10. -- -- 109, 32
Μέγεθος δὲ οὐ τὸ διαστατόν φησιν·


Αὐτὸς γὰρ ἀδιαίρετον τὸ ὂν δείκνυσιν· εἰ γὰρ διήιρηται, φησί, τὸ ἐόν, κινεῖται· κινούμενον δὲ οὐκ ἂν εἴη. Ἀλλὰ μέγεθος τὸ δίαρμα αὐτὸ λέγει τῆς ὑποστάσεως.

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