"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 30 novembre 2016

Pietro Mancuso, Ramana Maharshi. Un saggio dell’età dell’oro - V - Virupaksha

Pietro Mancuso
Ramana Maharshi. Un saggio dell’età dell’oro

Virupaksha
Ramana nel 1900 si trasferì sui pendii di Arunachala. La grotta però in cui risiedeva per la maggior parte del tempo era quella di Virupaksha così detta perché ospita un sacrario al santo Virupaksha Deva vissuto nel tredicesimo secolo e lì inumato.
La grotta di Virupaksha non è adatta a viverci d’estate a causa del gran caldo e quindi Ramana ci stava per circa otto mesi l’anno e nelle stagioni più calde si spostava in grotte come la Satguru Svami, o in santuari come Guru Namashivaya e soprattutto un posto chiamato la Grotta dell’albero di mango. Si spostò da Virupaksha a Pachaiamman Koil per sei mesi nel 1905 durante la peste che imperverso nella regione e rese Tiruvvanamalai deserta al punto che le bestie feroci, tigri e leopardi, ripresero per un po’ a vagare per il luoghi un tempo affollati di gente. Il fedele Palaniswami lo seguì e continuò a prendersi cura di lui. Da Virupaksha si sposto solo nel 1916.
A questo periodo risale la foto più antica che abbiamo di Ramana.
In questa foto, che ritrae un Ramana ventenne, si vede un giovanotto minuto e dai capelli corti. Erano passati solo quattro, cinque anni, dal suo arrivo ad Tiruvannamalai. La foto fu scattata da un fotografo che era discepolo di Kumbakonam Mauna Svami che aveva sentito parlare di lui. Il fotografo venne per ordine del governo a Tiruvannamalai, dove non c’erano suoi colleghi, per fare delle foto ad alcuni prigionieri e approfittando dell’occasione fece una visita al giovanissimo asceta e lo fotografò.
Proprio agli inizi del suo insediarsi nella grotta di Virupaksha risalgono gli unici suoi due componimenti in prosa « La ricerca del sé» e «chi sono?». Nessuno di questi scritti però è stato scritto direttamente da Ramana. La « La ricerca del sé» si deve a Gambhiram Sheshayya un sovrintendente municipale che era devoto del dio Rama. Sheshayya poneva delle domande e Ramana rispondeva su dei pezzetti di carta che il sovrintendente portava con sé.
«Lo scopo di tutte le scritture è questa indagine sul sé. In esse si dichiara che la Liberazione sta nell’annientamento del senso dell’Ego. Come si può dunque rimanere indifferenti a questo insegnamento? Può il corpo, che è in senziente come un pezzo di legno, splendere e funzionare come “io”? No. Perciò si accantoni questo corpo in senziente come se fosse veramente un cadavere.
Non si borbotti «Io», ma si cerchi dentro con slancio che cos’è che ora splende dentro il cuore come “io”. Sotto l’incessante flusso dei più svariati pensieri sorge la continua ininterrotta consapevolezza, silenziosa e spontanea, come “io dell’io” nel Cuore. Se si afferra e si rimane calmi, annienterà completamente il senso dell’«io» nel corpo e scomparirà come fuoco di canfora bruciata. Saggi e scritture proclamano che questa è liberazione (pagg. 18-19, Opere-La ricerca del sé Astrolabio)».
La «ricerca del sé» pur nella sua brevità e per le circostanze particolari in cui nacque un tutto compiuto, espone un sentiero diretto verso la liberazione che collima con quello del jnana e asparsa yoga di Shankara e Gaudpada, i codificatori del Vedanta advaita. In essa Ramana descrive con piena maturità spirituale, a dispetto della sua età biologica, la costituzione dell’ente uomo secondo la dottrina vedanta, pur se utilizza una originale analogia in cui il Sé vien visto essere la sacra Lucerna che arde imperitura nel tempio psicofisico. Dà anche una sintesi di cosmologia e ontologia e infine descrive anche i mezzi indiretti di realizzazione quali l’astanga yoga.
«Il Sé è autorifulgente. Non si deve dargli un’immagine mentale. Il pensiero che lo immagina è esso stesso schiavitù, perché il sé è la fulgidezza che trascende l’oscurità e la luce; non si dovrebbe pensare al Sé con la mente. Tale immagine finirà in schiavitù, mentre il Sé splende spontaneamente come l’Assoluto … Poiché l’ego nella forma di pensiero dell’«io» è la radice dell’albero dell’illusione, la sua distruzione abbatte l’illusione, come un albero è abbattuto dal taglio delle radici. Solo questo facile metodo di annientamento dell’ego è degno di essere chiamato bakti (devozione), Jnana (Conoscenza), Yoga (unione), o Dhyana (meditazione) (idem)».
Poco dopo fra il 1901 e il 1902 un altro devoto Sivaprakasam Pillai pose altre domande incentrate sulla realizzazione della propria natura essenziale: “Chi sono Io?”, “come posso realizzare chi in realtà sono?”. Ramana era ancora nella fase in cui parlava con estrema parsimonia, tanté che i discepoli pensavano che avesse fatto voto di silenzio (muni). Ramana raccontò anni dopo che il suo silenzio non era una scelta volontaria ma una sua interiore vocazione, non parlava perché non sentiva la necessità di farlo. Ramana rispondeva al solito con il mezzo che lui riteneva più diretto il silenzio, il Silenzio vien detto sul piano del manifesto è il simbolo più alto del Sé, quando ciò non bastava rispondeva a Sivaprakasam Pillai scrivendo con il dito sul terreno. A un’altra domanda se c’era bisogno cancellava quanto aveva scritto con il palmo della mano e scriveva la risposta. Pillai tornato a casa prese l’abitudine di segnare quello che si ricordava delle domande e delle risposte. Venti anni dopo pubblicò una piccola biografia di Ramana e pose come appendice le domande e le risposte, in tutto circa tredici. I devoti di Ramana apprezzarono moltissimo questa piccola appendice. L’appendice venne poi pubblicata dal Ramanashramam e via via con le successive edizioni si arrivò a una trentina di domande e risposte. Nel 1920 Lo stesso Bhagavan Ramana riscrisse il tutto in forma di piccolo trattato elaborando alcune risposte e eliminandone altre. Il risultato finale di questo singolare dialogo realizzativi che si svolse venti anni prima nei pressi della grotta di Virupaksha scrivendo con il dito sul suolo del sacro Monte di Aruna.è il “chi sono Io”.
«Ogni essere vivente desidera di essere sempre felice, incontaminato dal dolore; e tutti hanno il più grande amore per stessi. Il che è solamente dovuto al fatto che la felicità è la loro vera natura. Quindi, per realizzare quella inerente e incontaminata felicità, che in realtà sperimentiamo ogni giorno quando la mente è sottomessa nel sonno profondo, è essenziale che conoscano se stessi. Per ottenere tale conoscenza,il mezzo migliore è la domanda “chi sono?” ? nella ricerca del Sé.
CHI SONO?”, Io non sono questo corpo fisico, né sono i cinque organi della percezione sensoriale; io non sono i cinque organi dell’attività esterna, né le cinque forze vitali, e neppure sono la mente pensante. Né sono quell’inconscio stato di nescienza che conserva semplicemente le sottili  vasana (potenzialità latenti della mente), pur essendo libero dall’attività funzionale degli organi sensoriali e della mente, e inconsapevole dell’esistenza degli oggetti della percezione sensoriale.
Perciò, respingendo in blocco tutti i succitati complementi fisici e le loro funzioni, dicendo: “Io non sono questo; no, non sono né questo né quello”, ciò che allora rimane separato e da solo, quella pura Consapevolezza è ciò che io sono. Questa consapevolezza è per sua stessa natura Sat-Chit-Ananda (Esistenza-CoscienzaBeatitudine) (p. 39 Ramana Maharshi Opere – Chi sono)».
Ramana quindi insegnava il sentiero della discriminazione fra ciò che è Reale e ciò che è perituro perfettamente collimante con il sentiero del vedantico neti, neti (non è questo, non è neanche quest’altro). Ramana dà anche una via estremamente pratica. Dice che la mente non è altro che l’insieme dei pensieri e che la radice di tutti questi pensieri, il primo pensiero è quello dell’«io». Ecco che dissolto questo primo pensiero, il resta solo il Sé che brilla incontaminato.
«Anche quando pensieri estranei spuntano durante tale investigazione, non cercate di completare il pensiero che sorge, ma invece investigatevi a fondo dentro: “A chi si è presentato questo pensiero?. Non importa quanti pensieri vi si presenteranno, se investigherete con vigile attenzione, appena ogni singolo pensiero sorge, a chi si sia presentato, scoprirete che si è presentato a “me“. Se poi vi domandate : “Chi sono?“, la mente si introverse e anche il pensiero sorgente si placa. In questa maniera, se perseverate sempre più nella pratica della ricerca del Sé, la mente acquista crescente forza e facoltà di permanere nella propria Sorgente (p. 40 Ramana Maharshi Opere – Chi sono)».
La pratica del «Chi sono?» non rinnega però gli usuali mezzi dello yoga. La semplicità della ricerca del Sé proposta da Ramana che si inserisce nella Tradizione del Vedanta advaita non è adatta ai più e quindi gli altri mezzi non sono sconsigliati. Ramana traccia però la differenza fra il sentiero diretto del «Chi sono?» e gli altri mezzi dicendo:
« Per Placare la mente non c’è altro mezzo più efficace e adeguato della ricerca del Sé. Anche se la mente si placa con altri mezzi, è così soltanto apparentemente; essa sorgerà di nuovo (p. 41 Ramana Maharshi Opere – Chi sono »
Nel 1095 Ramana per sei mesi risiedette a Pachaiamman Koil allo scoppiare della epidemia di peste ritornò sui fianchi della montagna.
Ramana era estremamente parco quando si trattava delle esigenze del suo corpo raccontò in una occasione:
«Quando ero a Pachaiamman Koil avevo un piccolo asciugamano stracciato e lacero, quasi uno straccio, con i fili che fuoriuscivano dappertutto. […] Non la svolgevo mai in pubblico: la tenevo arrotolata come una palla e la usavo per asciugarmi il corpo, le mani o la bocca, a seconda dei casi. La lavavo e l’asciugavo in un luogo tra due rocce, luogo che non fu mai visitato da alcuno di quelli che erano con me. Anche il mio perizoma era ridotto ad uno straccio. Quando la parte esterna era logora, lo rivoltavo dentro e fuori. Quando andavo nella foresta lo rammendavo di nascosto con un suo stesso filo, e con una spina del pero spinoso per ago. Così nessuno seppe mai o sospettò lo stato sciagurato del mio asciugamano e del mio perizoma. Un giorno però uno di quelli che erano con me, andò di giorno al luogo dove li facevo asciugare e per caso scoprì lo stato dei miei vestiti. Tutti allora si scusarono per aver permesso tale stato di cose, dicendo di aver commesso un sacrilegio inescusabile (l’apachara) e così via. Essi avevano con loro, in quantità, interi pezzi di stoffa, molti asciugamani, ecc. e me li offrirono perché li usassi. Non sapevano come era malridotto e lacero il mio asciugamano e il mio perizoma, altrimenti me li avrebbero sostituiti da tempo con altri dei loro (Muliadar Day by Day)».
Nella grotta di Virupaksha il 18 novembre del 1907 ci fu l’incontro fra Venkataraman e Ganapati Shastri. All’età di sei anni Ganapati si dimostrò un bambino prodigio e successivamente dichiarato, da un’assemblea di Pandit Kavyakantha, « Colui che ha la poesia in bocca». Ganapati salì da Ramana in una giornata caldissima dopo mezzogiorno e lo trovò seduto solo sotto la veranda della grotta. Si prostrò ai suoi piedi faccia per terra e prese i suoi piedi con le sue mani e con voce tremante gli disse:
«Ho letto tutto ciò che c’è da leggere, e ho persino compreso pienamente il Vedanta-shastra; ho fatto japa per quanto me lo suggerisce il cuore, eppure non comprendo che cos’è tapas. Perciò cerco rifugio ai tuoi piedi. Ti prego illuminami sulla natura del tapas (http://www.cosmicharmony.com/Sp/Ramana/Ramana.htm)».
Per un po’ lo svami rimase a guardare serbando il silenzio Ganapati che aspettava ansioso ai suoi piedi e disse:
« Se si guarda da dove la nozione dell’io sorge, la mente sarà assorbita in Quello. Questo è tapas. Se un mantra è ripetuto e l’attenzione è diretta alla sorgente da cui il suono mantra sorge, la mente sarà assorbita in Quello. Questo è tapas».
Queste risposte riempirono Ganapati di gioia che rimase qualche ora in sua compagnia. Si informò da Palinisvami sul nome del saggio ed egli lo informò che il suo nome era Venkataraman Aiyar. Ganapati compose immediatamente cinque stanze in lode dello svami nelle quali per ragioni metriche contrasse Venkataraman in Ramana che da allora divenne l’usuale modo di rivolgersi a lui. Sempre a Ganapati Shastri si deve l’attribuzione a Ramana di Maharishi.
Nel 1908 Ramana da gennaio a marzo si sposta insiema a Ganapati Muni a Pachaiamman Koli. Nei pressi del tempio di Pachaiamman Koil c’erano molti alberi di tamarindo di proprietà del municipio. Ogni anno questi alberi venivano affittati a un privato che si curava della raccolta. Nel 1908 i tamarindi furono affittati a un contrattista mussulmano. Per proteggere i frutti dei tamarindi dalle scimmie il contrattista usava scacciarle tirandogli pietre con una catapulta, facendo però attenzione a che le scimmie non venissero ferite. Caso volle che una pietra colpì una delle scimmie sul capo in modo così violento che essa morì. Moltissime scimmie circondarono il corpo della morta e iniziarono a guaire e a lamentarsi per la sua morte. A un certo punto presero il corpo della loro compagna e lo portarono a Ramana dentro il tempio di Pachaiamman.
Ramana aveva un ottimo rapporto di amicizia con le scimmie che lo consideravano oltre che amico un arbitro per risolvere le loro controversie. Riusciva a comunicare con estrema facilità con loro e frequentemente egli sedava le loro dispute e veniva richiesto come mediatore per risolvere i problemi di territorialità fra le diverse tribù in guerra e i loro membri litigiosi.
In quel momento di collera e dolore per loro fu naturale andare da Ramana.
Le scimmie appena gli furono vicine scoppiarono in grida di dolore e piansero. Ramana pianse insieme a loro e dopo un po’ le scimmie si calmarono. Allora Ramana disse ai parenti della scimmia uccisa «La morte è inevitabile per chi è nato. Colui per le cui mani questa scimmia è morta anche incontrerà la morte un giorno. Non c’è bisogno di addolorarsi».
Le scimmie pacificate da Ramana se ne andarono portandosi dietro il corpo della morta.
Due o tre giorni dopo il contrattista mussulmano fu costretto a letto da una malattia molto grave. La storia dell’insegnamento sulla morte che Ramana aveva impartito alle scimmie, addolorate per la morte della loro compagna, era intanto passata di bocca in bocca fino all’orecchio del contrattista che la aveva inavvertitamente uccisa. I membri della famiglia si convinsero che l’improvvisa malattia del loro familiare fosse dovuta a una maledizione del santo a cui le scimmie si erano rivolte per avere cordoglio. Si recarono da Ramana per implorare il suo perdono e affinché levasse la maledizione. Gli dissero «È cosa certa che lo ha colpito una vostra maledizione, per pietà salvalo dalla morte. Dateci della vibhuti (cenere sacra). Se cospargiamo il suo corpo con essa egli certamente guarirà». Ramana rispose « Vi sbagliate. Mai maledico o benedico qualcuno. Ho mandato via le scimmie che erano venute qui parlando loro semplicemente della verità che inevitabilmente chi nasce dovrà morire. Inoltre non do mai a nessuno della vibhuti. Per piacere andate a casa e accudite il paziente che avete lasciato solo». I mussulmani non si lasciarono convincere così facilmente e dissero che non se ne sarebbero andati se non avessero ricevuto la vibhuti, così Ramana, per levarseli di torno, alla fine gli diede della cenere di legna prendendola dal fuoco con cui fuori dal tempio, a volte, preparava qualche cibo. I familiari la presero ringraziandolo di cuore e tornati a casa la usarono per curare il contrattista che guarì dalla sua grave malattia in pochi giorni.
Verso il 1912 Ramana ebbe una nuova esperienza della morte e della persistenza del Sé. Insieme a alcuni suoi devoti fra cui Vasudeva Shastri si era recato a Pachaiyamman Koil. Al ritorno passando accanto a quella che veniva chiamata la roccia della tartaruga lo colse una improvvisa debolezza e una cortina bianca gli offuscava la vista. Sedette per terra e fra la disperazione e le grida il suo respiro si arrestò e il corpo cambiò di colore.
«La mia consueta corrente della coscienza continuò anche in quello stato. Non avevo affatto paura, e non soffrivo per le condizioni del corpo. M’ero seduto accanto alla roccia nella solita posizione, avevo chiuso gli occhi e non stavo appoggiato alla pietra. Il corpo rimasto senza circolazione e respiro, manteneva ancora quella posizione. Tale stato continuò per dieci o quindici minuti. Poi una scossa passò all’improvviso in tutto il corpo e la circolazione e il respiro ripresero con enorme forza, mentre il sudore sgorgava da ogni poro. Il colore della vita riapparve sulla pelle.
Allora riaprì gli occhi e dissi “andiamo”. Raggiungemmo la grotta di Virupaksha senza altri incidenti. Fu l’unica crisi in cui si arrestarono tanto la circolazione quanto il respiro (Mahadevan p. 43)».
La madre di Ramana dopo averlo ritrovato ogni tanto andava a visitarlo. Durante una di queste visite, nel 1914, si ammalò. Ramana non solo si prese cura di essa con estrema sollecitudine ma addirittura compose un inno ad Arunachala invocandone la guarigione.
«O Signore, Montagna del mio rifugio, che guarisci i mali delle nascite ricorrenti! È in tuo potere guarire la febbre di mia madre.
O Dio che uccidi la morte! Mostra i Tuoi piedi nel Loto del Cuore di colei che mi diede la luce perché trovasi il mio rifugio ai Tuoi Piedi di Loto, e proteggila dalla morte. Che cosa è la morte se la scruti in faccia?
Arunachala fuoco ardente della Conoscenza! Circonfondi mia madre della tua luce e falla una cosa sola con te. Che bisogno c’è della cremazione?
Arunachala che scacci l’illusione! Perché indugi a scacciare il delirio di mia madre? C’è forse qualcuno all’infuori di te che possa vegliare come una madre su chi ha cercato rifugio in te e liberare dalla tirannia del karma? (pag 90 Ramana Maharshi Opere Ubaldini editore)».
Morto lo zio presso cui la madre di Ramana viveva questa si trasferì a Tiruvannamalai. Al principio insieme a un’altra devota Echammal si recava la mattina a Virupaksha e la sera ritornava in città. Nel 1916 la madre di Ramana si insediò a Virupaksha. La cosa al principio non fu gradita dagli altri membri della piccola comunità che lì viveva. Virupaksha era un cenobio di asceti maschi che vivevano nel celibato e non volevano la presenza di una donna che vivesse in mezzo a loro. Ramana alle loro rimostranze disse con semplicità: «Se voi volete che essa se ne vada io me ne andrò con lei», al che ogni voce contraria cessò (David Godman An introduction to Sri Ramana’s Life and Teachings http://davidgodman.org/).
La madre portò anche un’altra novità nella vita di quegli asceti, insistette affinché si creasse una cucina.

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