Denys Roman
Le dodici fatiche d’Ercole*
La mitologia greca è ricca di leggende
d’ogni tipo, di cui è a volte difficile scoprire il vero senso, che in origine
doveva spesso esprimere una verità d’ordine dottrinale e anche iniziatica.
In uno dei “classici” della filosofia ermetica, Les Fables égyptiennes et grecques dévoilées, Dom Pernéty ha lungamente commentato le principali di queste leggende. Ma tale opera, utile come documentazione, ci sembra peccare per certi difetti, che sono d’altronde meno difetti di Pernéty che quelli della sua epoca. Quando lo vediamo, ad esempio, applicarsi lungamente a dimostrare che tutti gli eroi della guerra di Troia hanno, secondo Omero, un’ascendenza divina e che pertanto, pensa, le loro imprese non possono essere che l’espressione simbolica delle operazioni dell’opera alchemica, non possiamo seguirlo su questo punto. Ma chi penserebbe di biasimare Pernéty? Alla sua epoca, non erano ancora state ritrovate le rovine di Troia; e d’altra parte, è solo oggi che in seguito a René Guénon certuni ammettono che gli eventi storici, come pure i fatti geografici o altri, hanno per se stessi un significato simbolico[1]. Segnaliamo per inciso una curiosa conseguenza della posizione di Pernéty. Egli postula che gli antichi miti non sono dei fatti storici e non possono quindi essere che dei simboli. Siccome è ben costretto ad ammettere che i fatti riportati dai libri sacri del Cristianesimo sono dei fatti storici, non prende nemmeno in considerazione la possibilità che possano essere anche dei simboli ermetici. Questo impoverisce singolarmente le sue dissertazioni e soprattutto il suo Dictionnaire. Pernéty sembra aver dato una particolare importanza alle leggende in cui è questione d’oro. L’età d’oro, il vello d’oro, la pioggia d’oro, le corna d’oro, le mele d’oro sono nella sua opera oggetto di uno speciale esame. Si rilevano alcune omissioni in quest’elenco. Perché aver omesso il capello d’oro di Pterelao che rendeva il suo possessore immortale e aveva quindi un evidente rapporto con l’elisir di lunga vita[2]? E, dato il ruolo iniziatico della vigna, perché non aver almeno menzionato i rami o viti d’oro[3]? Pernéty non segnala neppure la fine talvolta sfortunata dei principali conquistatori dell’oro. Così Ippomene che aveva ricevuto da Venere tre mele d’oro che gli permisero di sposare Atalanta, fu, come quest’ultima, trasformato in bestia feroce e aggiogato al carro di Cibele[4]. Quanto agli Argonauti, riuscirono sì a impadronirsi del vello d’oro, ma il loro viaggio di ritorno fu irto di tribolazioni e la vita successiva del loro capo Giasone non fu che una lunga serie di tragedie. Sembra che tali eventi avrebbero potuto dar luogo ad alcuni sviluppi sulla necessità del “rifiuto dei poteri”[5]. Ercole s’era imbarcato con gli Argonauti, ma dalle prime fasi del viaggio s’era separato da loro[6]. Doveva compiere un considerevole numero d’imprese, ma le più celebri sono conosciute come le dodici fatiche d’Ercole. Il carattere sacro del numero 12 può far supporre che le fatiche d’Ercole hanno un significato iniziatico; e, in realtà, l’oracolo di Delfi aveva dichiarato che alla conclusione di queste 12 fatiche e dei 12 anni di servaggio dovuti dall’eroe a suo cugino Euristeo, Ercole sarebbe divenuto immortale. Pernéty ha utilizzato una parte considerevole della sua opera per esaminare le fatiche d’Ercole dal punto di vista della loro applicazione all’ermetismo. Ha ben visto in particolare che dalla stessa nascita dell’eroe v’è un episodio molto caratteristico. Mentr’era nella culla con il fratellastro Ificle, la dea Giunone mandò due mostruosi serpenti per mangiarli. Ificle fuggì in preda al terrore, ma Ercole, afferrando un serpente in ogni mano, li strangolò. Quest’impresa l’identificò in certo qual modo al caduceo d’Ermes, essenzialmente costituito da un’asta d’oro attorno alla quale sono avvolti due serpenti. E si deve anche notare che, in certe rappresentazioni del Rebis, questo simbolo della perfezione dello stato umano tiene un serpente in ogni mano[7].
In uno dei “classici” della filosofia ermetica, Les Fables égyptiennes et grecques dévoilées, Dom Pernéty ha lungamente commentato le principali di queste leggende. Ma tale opera, utile come documentazione, ci sembra peccare per certi difetti, che sono d’altronde meno difetti di Pernéty che quelli della sua epoca. Quando lo vediamo, ad esempio, applicarsi lungamente a dimostrare che tutti gli eroi della guerra di Troia hanno, secondo Omero, un’ascendenza divina e che pertanto, pensa, le loro imprese non possono essere che l’espressione simbolica delle operazioni dell’opera alchemica, non possiamo seguirlo su questo punto. Ma chi penserebbe di biasimare Pernéty? Alla sua epoca, non erano ancora state ritrovate le rovine di Troia; e d’altra parte, è solo oggi che in seguito a René Guénon certuni ammettono che gli eventi storici, come pure i fatti geografici o altri, hanno per se stessi un significato simbolico[1]. Segnaliamo per inciso una curiosa conseguenza della posizione di Pernéty. Egli postula che gli antichi miti non sono dei fatti storici e non possono quindi essere che dei simboli. Siccome è ben costretto ad ammettere che i fatti riportati dai libri sacri del Cristianesimo sono dei fatti storici, non prende nemmeno in considerazione la possibilità che possano essere anche dei simboli ermetici. Questo impoverisce singolarmente le sue dissertazioni e soprattutto il suo Dictionnaire. Pernéty sembra aver dato una particolare importanza alle leggende in cui è questione d’oro. L’età d’oro, il vello d’oro, la pioggia d’oro, le corna d’oro, le mele d’oro sono nella sua opera oggetto di uno speciale esame. Si rilevano alcune omissioni in quest’elenco. Perché aver omesso il capello d’oro di Pterelao che rendeva il suo possessore immortale e aveva quindi un evidente rapporto con l’elisir di lunga vita[2]? E, dato il ruolo iniziatico della vigna, perché non aver almeno menzionato i rami o viti d’oro[3]? Pernéty non segnala neppure la fine talvolta sfortunata dei principali conquistatori dell’oro. Così Ippomene che aveva ricevuto da Venere tre mele d’oro che gli permisero di sposare Atalanta, fu, come quest’ultima, trasformato in bestia feroce e aggiogato al carro di Cibele[4]. Quanto agli Argonauti, riuscirono sì a impadronirsi del vello d’oro, ma il loro viaggio di ritorno fu irto di tribolazioni e la vita successiva del loro capo Giasone non fu che una lunga serie di tragedie. Sembra che tali eventi avrebbero potuto dar luogo ad alcuni sviluppi sulla necessità del “rifiuto dei poteri”[5]. Ercole s’era imbarcato con gli Argonauti, ma dalle prime fasi del viaggio s’era separato da loro[6]. Doveva compiere un considerevole numero d’imprese, ma le più celebri sono conosciute come le dodici fatiche d’Ercole. Il carattere sacro del numero 12 può far supporre che le fatiche d’Ercole hanno un significato iniziatico; e, in realtà, l’oracolo di Delfi aveva dichiarato che alla conclusione di queste 12 fatiche e dei 12 anni di servaggio dovuti dall’eroe a suo cugino Euristeo, Ercole sarebbe divenuto immortale. Pernéty ha utilizzato una parte considerevole della sua opera per esaminare le fatiche d’Ercole dal punto di vista della loro applicazione all’ermetismo. Ha ben visto in particolare che dalla stessa nascita dell’eroe v’è un episodio molto caratteristico. Mentr’era nella culla con il fratellastro Ificle, la dea Giunone mandò due mostruosi serpenti per mangiarli. Ificle fuggì in preda al terrore, ma Ercole, afferrando un serpente in ogni mano, li strangolò. Quest’impresa l’identificò in certo qual modo al caduceo d’Ermes, essenzialmente costituito da un’asta d’oro attorno alla quale sono avvolti due serpenti. E si deve anche notare che, in certe rappresentazioni del Rebis, questo simbolo della perfezione dello stato umano tiene un serpente in ogni mano[7].
———
Si
potrebbe scoprire un senso simbolico in tutte le avventure d’Ercole, anche
quelle che non sono state annoverate nel ciclo delle 12 fatiche[8]. Uno dei
più curiosi a tale riguardo è il racconto della sua schiavitù presso Onfale,
regina di Lidia[9].
Questa servitù finisce con un matrimonio, e si riferisce al riguardo una
curiosa storia di “scambio ierogamico”: Ercole, indossato l’abito della
regina, filava la lana ai suoi piedi, mentre Onfale, coperta della pelle del
leone di Nemea, brandiva la clava dell’eroe. Si può osservare a tale proposito
che la conocchia (tenuta con la mano sinistra) e la clava (tenuta con la mano
destra) sono entrambi simboli “assiali” che giocano, rispetto alla coppia
Ercole-Onfale (identificabile al Rebis), un ruolo analogo a quello dei
due serpenti di cui si è parlato sopra[10]. Tra le
dodici fatiche, sono soprattutto le ultime tre che presentano un interesse dal
punto di vista ermetico. E innanzitutto s’impone un’osservazione. Mentre le
prime nove fatiche hanno per teatro il mondo greco e i suoi immediati dintorni
(Asia Minore e Tracia), le ultime tre ce ne allontanano notevolmente, al punto
da farci uscire del bacino del Mediterraneo (buoi di Gerione e giardino delle
Esperidi) e anche dal mondo terrestre (discesa agli inferi). Sono d’altronde
queste ultime tre fatiche che recano più nettamente l’impronta iniziatica ed è
su di esse che sembra interessante soffermarsi. L’ordine d’enumerazione delle
dodici fatiche è in genere lo stesso presso gli autori antichi, con una sola
eccezione, tuttavia, per quanto concerne gli ultimi due. Il più delle volte,
l’11a fatica è la colta delle mele d’oro e la 12a la
discesa agli Inferi; è d’altronde l’ordine che ha seguito Pernéty. Ma s’è
anche data l’11a fatica come la discesa agli Inferi e la 12a
come la conquista delle mele d’oro, e sembra proprio che quest’ultimo ordine
sia il più coerente con i principi tradizionali[11]. Infatti,
se le 12 fatiche hanno un significato iniziatico, la discesa agli Inferi non
può segnarne la fine. Dovrebbe addirittura segnarne l’inizio; ma si possono
considerare le prime fatiche come prove preliminari; e il fatto che Ercole,
prima di scendere agli Inferi, si fece iniziare ai misteri d’Eleusi, rafforza
ulteriormente quest’interpretazione[12]. Quel
che avrebbe potuto confermare o infirmare la “regolarità” dell’ordine di solito
dato alla successione delle 12 fatiche, è la corrispondenza di ciascuna d’esse
con uno dei 12 segni dello Zodiaco. Purtroppo, un autore che ha fatto uno
studio approfondito della geografia sacra dell’antica Grecia, il sig. Jean
Richer, stabilisce irrefutabilmente che a dispetto dei ripetuti tentativi «da
Igino ed Eratostene», una tale pretesa è «manifestamente assurda» e che
qualsiasi concordanza tra i segni e le fatiche è «impossibile da stabilirsi».
Pertanto «è invano che si cercherebbe di trarre dall’inventario delle fatiche
uno Zodiaco completo». La ragione addotta dal sig. Jean Richer di una tale
situazione è molto interessante. È infatti «legata al fenomeno della precessione
degli equinozi», così importante per quanto riguardi la cronologia
tradizionale. Mentre in tempi molto antichi, l’equinozio di primavera
coincideva con l’ingresso del sole nel segno del Toro, «dal 2000 a.C. circa, il
punto vernale fu nel segno dell’Ariete, a seguito dello spostamento del coluro
degli equinozi». Secondo il sig. Jean Richer, un tale cambiamento nei fatti
astronomici provocò nelle diverse città greche, «prima dell’accettazione di un
nuovo sistema, una certa fluttuazione che portò a delle sovrapposizioni o a
doppie attribuzioni che si riflettono nelle leggende e nei monumenti». Abbiamo
riassunto, forse troppo brevemente, l’argomentazione del sig. Jean Richer, che
ci pare aver chiarito definitivamente un problema reso particolarmente difficile
dallo «stato di degrado in cui le leggende mitologiche ci sono pervenute»[13].
———
Così
perciò, è impossibile far coincidere l’ordine di successione delle fatiche
d’Ercole con l’ordine di successione dei segni dello Zodiaco. Qualsiasi
tentativo di stabilire una “corrispondenza” tra queste fatiche e i principi di
quest’importante aspetto dell’ermetismo rappresentato dall’astrologia viene con
ciò compromesso, e v’è da temere che sia lo stesso per l’altro aspetto: l’alchimia.
Che pensa a tale riguardo Pernéty? Com’è sua abitudine, egli non si preoccupa
molto di far coincidere gli episodi successivi della leggenda con la
successione abitualmente riconosciuta delle “operazioni” dell’Arte alchemica.
Semplicemente ricorda, a proposito dei principali attori del mito erculeo
(leone, idra, uccelli, ecc.), i simboli analoghi che s’incontrano in abbondanza
negli scritti ermetici, e ne trae delle conclusioni che d’altronde sono lungi
dall’essere senza interesse, ma che non chiariscono molto il significato
profondo della scienza dei filosofi. Riteniamo infatti, seguendo in ciò René
Guénon, che l’Arte Reale non ebbe mai per fine di cambiare il piombo in oro,
ma che lavorasse su una “materia prima” ben altrimenti preziosa, l’uomo, che si
trattava di trasmutare in Uomo Vero, “reintegrato” nello stato adamico
originale, mentre da questo stesso fatto l’intera natura ritroverebbe per lui
le condizioni edeniche dell’“età d’oro”. In quest’ordine d’idee, si può notare
che certi elementi della leggenda d’Ercole sono suscettibili, se si applicano
loro i principi dell’interpretazione tradizionale del simbolismo universale,
d’acquisire un significato e una portata per così dire “tecnica”, ricca
d’insegnamenti per l’attitudine dell’iniziato e anche d’ogni essere che aspiri
alla conoscenza. Ciò è segnatamente il caso per la 10a fatica, il
ratto dei buoi di Gerione, che implica per Ercole l’uscita dal Mediterraneo
per accedere all’isola d’Erythia situata nell’oceano. L’eroe doveva quindi
attraversare lo stretto che da allora prese il nome di “colonne d’Ercole”. Il
passaggio tra le colonne si ritrova in tutti i riti iniziatici, e colonne
stesse hanno molteplici significati. Le colonne d’Ercole erano state elevate
dall’eroe al suo ritorno nel bacino mediterraneo per tornare in patria, ed egli
incise su di esse l’iscrizione: «Nec plus ultra»[14]. Dante
ci ricorda questo fatto in questo strano canto XXVI dell’Inferno, in
cui ha riunito numerosissime allusioni relative ai pericoli incontrati da
coloro che, in materia d’iniziazione, seguono una via “irregolare”. Ecco
l’essenza di tale testo, in cui Ulisse, sepolto con Diomede in una tomba
infiammata, fa a Virgilio e Dante il racconto della sua ultima e fatale
avventura14:
«Quando
lasciai Circe, che mi aveva tenuto prigioniero a Gaeta (…), né le carezze di
mio figlio, né la pietà verso il mio vecchio padre, né l’amore che avevo
giurato a Penelope poterono vincere il mio ardore per la conoscenza del mondo e
degli uomini. Ma spiccando il volo in alto mare, e seguito da questi compagni
che mai m’abbandonarono, feci vela verso la Spagna e il Marocco (…). Eravamo
vecchi e appesantiti dall’età quando arrivammo a quella stretta gola dove
Ercole piantò i suoi due limiti affinché nessuno osasse avventurarsi oltre.
Dissi allora: Fratelli che, attraverso mille e mille pericoli, siete arrivati ai
limiti dell’Occidente, seguite il sole, e non rifiutare ai vostri occhi
estenuati dalle veglie la conoscenza del mondo inabitato. (…). Avevo così tanto
eccitato l’ardore dei miei amici che non avrei poi potuto trattenerli. Dei remi
facemmo delle ali per un folle volo (cinque mesi), dopo aver superato il
supremo passo, arrivammo a un monte isolato, il più alto che si fosse mai
visto. Vedendolo la nostra gioia fu grande, ma questa gioia si cambiò presto in
lacrime. Dalla nuova terra venne un vortice che arrivò a colpire la nostra
nave. Per tre volte la fece ruotare: alla quarta volta, la poppa della nave
s’inalberò e la prua affondò nel mare, come piacque a Un Altro, e infine il
mare si richiuse su di noi». Questo racconto è talmente differente dalle diverse
versioni della morte d’Ulisse trasmesse dalla tradizione che siamo per così
dire costretti a pensare che l’Alighieri, inventandola, abbia voluto provocare
la sorpresa e la perplessità dei suoi lettori. In realtà, non v’è forse neanche
una sola delle sue espressioni che non possa dar luogo a lunghi sviluppi. Ci
proponiamo di richiamare l’attenzione su alcuni punti, senza la pretesa di
spiegare tutti i punti oscuri di un testo che il miglior commentatore
tradizionale di Dante, Luigi Valli, considerava come particolarmente
enigmatico[15].
*Tratto da: http://acpardes.com/letteraespirito/le-dodici-fatiche-dercole/
[1] Per Pernéty, gli eroi della mitologia non sono esistiti; non possono quindi essere che delle “figure”, e Pernéty pensava che queste figure non possono rappresentare altro che le dottrine e le operazioni dell’alchimia. È molto più legittimo pensare con Guénon che gli eroi mitologici sono esistiti e sono nondimeno dei simboli, e persino simboli tanto più eccellenti che la loro esistenza storica ha veramente “incarnato” delle realtà di un ordine superiore che non si limita d’altronde al solo dominio ermetico.
[1] Per Pernéty, gli eroi della mitologia non sono esistiti; non possono quindi essere che delle “figure”, e Pernéty pensava che queste figure non possono rappresentare altro che le dottrine e le operazioni dell’alchimia. È molto più legittimo pensare con Guénon che gli eroi mitologici sono esistiti e sono nondimeno dei simboli, e persino simboli tanto più eccellenti che la loro esistenza storica ha veramente “incarnato” delle realtà di un ordine superiore che non si limita d’altronde al solo dominio ermetico.
[2] Questo capello d’oro
era stato dato a Pterelao, re di Tafio, da suo padre il dio Nettuno. Fu
tagliato dalla figlia di Pterelao, il che causò immediatamente la morte del re.
Ovidio, nelle sue Metamorfosi, parla di un capello di color porpora,
quello di Niso, al quale era collegato il possesso del regno di Megara. In
certe versioni di questa leggenda, il capello magico di Niso non è un capello
porpora, ma un capello d’oro.
[3] Un ramo d’oro donato da
Dioniso, gioca un ruolo importante nella leggenda di Ipsipile, eroina che è in
relazione a due imprese altamente simboliche: la spedizione degli Argonauti e
la guerra dei Sette Capi contro Tebe. D’altra parte, una vite d’oro, donata da
Giove, è all’origine dell’ultimo tentativo per salvare Troia dalla rovina:
l’intervento d’Euripilo, figlio di Telefo. Infine, è quasi inutile ricordare il
ramo d’oro che, sulle indicazioni della Sibilla Cumana, Enea andò a cogliere in
un bosco sacro al fine d’offrirlo alla regina degli Inferi.
[4] La leggenda d’Ippomene
e Atalanta, celebre nei testi ermetici, è oggetto di un trattato dei più notevoli
di Michel Maier: Atalante fugitive, che ritroveremo sotto.
[5] Un’avventura mitologica
in cui l’oro gioca un certo ruolo e termina beneficamente è la celebre storia
di Psiche, che il poeta latino Apuleio ha lungamente raccontato nel suo romanzo
L’asino d’oro, il cui ultimo capitolo riporta i riti dell’iniziazione
ai misteri d’Iside. Nella storia di Psiche, si parla di un palazzo d’oro e
anche di montoni dal vello d’oro, il che ricorda l’ariete dal vello d’oro. I
viaggi e le varie “prove” di Psiche precedenti la sua discesa agli Inferi,
seguita dalla sua ascensione nel cielo in cui consumerà l’ambrosia e il
nettare. Tutto questo presenta evidentemente i caratteri di un processo
iniziatico felicemente portato al suo termine normale, che non è altro che la
deificazione dell’eroe (o eroina). Si precisa d’altronde che si tratta di
Mercurio-Ermes che accompagna Psiche suo viaggio celeste. Si parla anche, nella
mitologia, di un cane d’oro il cui ruolo fu alternativamente benefico e
malefico. È il cane d’oro magico che vegliava su Giove bambino e sulla capra
Amaltea nelle montagne di Creta. Questo cane d’oro, poi rubato da Pandareo,
provocò la “pietrificazione” del rapitore che fu trasformato in roccia.
[6] Secondo le Argonautiche
d’Apollonio di Rodi, Ercole, sulla costa dell’Asia, perse molto tempo alla
ricerca del suo compagno Ila rapito da una ninfa, e gli Argonauti, stanchi
d’attenderlo, continuarono la loro navigazione senza di lui.
[7] Il Rebis del Rosarium
philosophorum tiene nella mano sinistra un serpente verticale e nella mano
destra una coppa da cui emergono tre teste di serpente. Questa figura equivale
a quella d’Ercole che strangola i serpenti, la dualità del Rebis
potendo essere rappresentata dalla coppia Hercules-Ificle. Siccome i simboli
ermetici, come tutti i simboli, sono suscettibili di una pluralità
d’interpretazioni, si noterà che il serpente verticale, tenuto a sinistra, è
l’equivalente della spada, ed è quindi complementare alla coppa tenuta a
destra. Si sa che la coppa e la spada simboleggiano rispettivamente la dottrina
e il metodo, che costituiscono i due aspetti di qualsiasi insegnamento
iniziatico.
[8] Così la ben nota storia
d’Ercole esitante, all’inizio della sua carriera, tra il Vizio e la Virtù, era
celebre presso i Pitagorici che la rappresentavano con la lettera Y, che
Rabelais chiama “la lettera pitagorica”. Vi si può vedere, secondo Guénon, il
simbolo dell’iniziato ermetico che deve scegliere tra le due Vie, la “Via
secca” e la “Via umida”.
[9] Questo nome Onfale
richiama evidentemente l’omphalos del Tempio di Delfi, considerato dai
Greci come l’“ombelico della terra” e il centro del mondo. In questo luogo
s’effettuava la “risoluzione delle opposizioni”, ed è per questo che v’era
stata deposta come ex-voto la collana d’Armonia, figlia di Marte e di Venere,
vale a dire della guerra e dell’amore. Presso gli ebrei, l’ombelico della terra
si trovava sul monte Moria (equivalente ebraico del Meru degli Indù). È su
questo monte, famoso per il sacrificio d’Abramo, che sarà costruito il Tempio
di Salomone. Il luogo è oggi incluso nella Moschea d’Omar.
[10] Va ricordato anche,
come simbolo equivalente, le croci dei due ladroni ai lati della croce centrale
di Cristo. Cristo, in quanto nuovo Adamo, è evidentemente l’Uomo Vero, di cui
il Rebis è il simbolo. Si potrebbe obiettare che Cristo è
essenzialmente maschile, mentre il Rebis è androgino. Ma tale
difficoltà sembra proprio essere più apparente che reale. Nelle
rappresentazioni tradizionali della crocifissione, il sole e la luna (emblemi
rispettivamente maschile e femminile) sono raffigurati sopra le mani di Cristo.
D’altra parte, ai piedi della croce v’è il gruppo delle “sante donne” riunite
attorno alla Vergine Maria che, nella visione propria al cristianesimo, ha per
così dire “concentrato” sulla sua persona un “riflesso” degli aspetti femminili
della Divinità.
[11] Quest’ordine è dato
segnatamente dal Dictionnaire de la Mythologie grecque et romaine di
Pierre Grimal. Quest’opera, di notevole erudizione, tiene conto dei ragguagli
forniti da tutti gli autori antichi, dai più famosi ai più sconosciuti.
[12] In realtà, come vedremo
più avanti, sono le prime nove fatiche che hanno questo carattere preliminare.
La 10a fatica (ratto dei buoi di Gerione) comporta infatti il
passaggio attraverso le “Colonne d’Ercole”, rito di cui si ritrova
l’equivalente in tutti i tipi d’iniziazione.
[13] Jean Richer, Géographie
sacrée du monde grec (cap. X, pp. 107-117).
[14] [N.d.R] Ecco cosa
scriveva a proposito R. Guénon (Symboles fondamentaux de la Science sacrée,
Gallimard, Paris, 1962, cap. XXXVIII: À propos des deux Saint Jean):
«Quest’aspetto di due colonne si vede nettamente soprattutto nel caso del
simbolo delle “colonne d’Ercole”; il carattere di “eroe solare” d’Ercole e la
corrispondenza zodiacale delle sue dodici fatiche sono troppo noti perché
occorra insistervi; ed è beninteso che proprio questo carattere solare
giustifica il significato solstiziale delle due colonne alle quali è legato il
suo nome. Stando così le cose, il motto non plus ultra riferito a
queste colonne pare avere un duplice significato: indica non solo, secondo
l’interpretazione abituale che si riferisce al punto di vista terrestre e che è
d’altronde valida nel suo ordine, che esse segnano i limiti del mondo
“conosciuto”, cioè in realtà che esse sono i limiti che, per ragioni che
potrebbe essere interessante indagare, non era permesso ai viaggiatori
oltrepassare; ma indica nello stesso tempo, e forse bisognerebbe dire prima di
tutto, che, dal punto di vista celeste, esse sono i limiti che il sole non può
varcare ed entro i quali, come tra le due tangenti di prima, si compie
internamente il suo cammino annuale».
[15] [N.d.R] Cf. Dante, Commedia, Inferno,
canto XXVI, 90-142:
«“Quando | mi
diparti’ da Circe, che sottrasse | me più d’un anno là presso a Gaeta, | prima
che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta | del vecchio padre, né
’l debito amore | lo qual dovea Penelope far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore | ch’i’ ebbi a divenir
del mondo esperto, | e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto | sol con un legno e con
quella compagna | picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, | fin nel
Morrocco, e l’isola d’i Sardi, | e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e’ compagni eravam vecchi e tardi | quando venimmo a
quella foce stretta | dov’Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l’uom più oltre non si metta; | da la man destra
mi lasciai Sibilia, | da l’altra già m’avea lasciata Setta.
“O frati”, dissi “che per cento milia | perigli siete
giunti a l’occidente, | a questa tanto picciola vigilia
Buongiorno,
RispondiEliminagentilmente potreste sistemare gli rss feeds del blog per rimanere aggiornati sui nuovi articoli? attualmente cliccandoci si viene mandati su facebook.
Grazie.
Saluti