René Guénon
Considerazioni sull'Iniziazione
XLVII - «Verbum, Lux et Vita»
Abbiamo fatto testé allusione all’atto del Verbo che produce quell’«illuminazione» che è all’origine di ogni manifestazione, e che si ritrova analogicamente al punto di partenza del processo iniziatico; questo ci porta, anche se la questione può sembrare un po’ fuori dell’argomento principale del nostro studio (ma, in virtù della corrispondenza dei punti di vista «macrocosmico» e «microcosmico», si tratta in realtà soltanto di un’apparenza), a segnalare la stretta connessione che esiste, dal punto di vista cosmogonico, tra il suono e la luce, connessione espressa in modo chiarissimo dall’associazione, o piuttosto dalla vera e propria identificazione, istituita all’inizio del Vangelo di san Giovanni tra i termini Verbum, Lux et Vita[1].
È noto che la tradizione indù, la quale considera la «luminosità» (Taijasa) come la caratteristica fondamentale dello stato sottile (e vedremo presto il rapporto che c’è tra questo fatto e l’ultimo dei tre termini da noi ricordati), afferma per altro verso la primordialità del suono (shabda) fra le qualità sensibili, facendolo corrispondere all’etere (âkâsha) fra gli elementi; questa affermazione, così come l’abbiamo enunciata, si riferisce in modo immediato al mondo corporeo, ma è nello stesso tempo trasponibile anche in altri campi[2], dal momento che in realtà traduce soltanto, nei confronti di quel mondo corporeo che tutto sommato non rappresenta se non un semplice caso particolare, il processo stesso della manifestazione universale. Se si considera quest’ultima nella sua integralità, tale affermazione diventa quella della produzione di tutte le cose in qualsivoglia stato da parte del Verbo, o Parola divina, la quale è così all’inizio o, per meglio dire (giacché si tratta di qualcosa di essenzialmente «in temporale»), al principio di qualsiasi manifestazione[3], il che è anche espressamente indicato all’inizio della Genesi ebraica, nella quale si vede, come già abbiamo detto, che la prima parola proferita, quale punto di partenza della manifestazione, è il Fiat Lux da cui è illuminato il caos delle possibilità; ciò evidenzia in modo preciso il rapporto diretto che esiste, nell’ordine principiale, tra quelli che possono essere denominati analogicamente il suono e la luce, vale a dire tra ciò di cui il suono e la luce, nel senso ordinario delle due parole, sono le espressioni rispettive nel nostro mondo.
A questo punto occorre fare un’osservazione importante: il verbo amar, usato nel testo biblico, e abitualmente tradotto con «dire», in realtà ha sia in ebraico sia in arabo il senso principale di «comandare» o di «ordinare»; la Parola divina è l’«ordine» (amr) in conseguenza del quale si effettua la creazione, vale a dire la produzione della manifestazione universale, sia essa intesa nel suo insieme, sia in una qualsiasi delle sue modalità[4]. Anche secondo la tradizione islamica la prima creazione è quella della Luce (En-Nûr), la quale è detta min amri-Llah, vale a dire procedente in modo immediato dall’ordine o dal comando divino; e tale creazione si situa, se così si può dire, in quel «mondo», cioè in quello stato o grado di esistenza, che per tale ragione è denominato âlamul-amr, e costituisce il mondo spirituale puro vero e proprio. In effetti, la Luce intelligibile è l’essenza (dhât) dello «Spirito» (Er-Rûh), e quest’ultimo, quand’è inteso in senso universale, si identifica con la Luce stessa; è per questa ragione che le espressioni En-Nûr el-Muhammadî e Er-Rûh el-muhammadiyah sono equivalenti, poiché sia l’una sia l’altra indicano la forma principiale e totale dell’«Uomo Universale»[5], il quale è awwalu khalqi’Llah, «il primo della creazione divina». È il vero «Cuore del Mondo». la cui espansione produce la manifestazione di tutti gli esseri, mentre la sua contrazione li riconduce infine nel loro Principio[6]; e in tal modo esso è «il primo e l’ultimo» (el-awwal wa el-akher) in rapporto alla creazione, così come Allah stesso è «il Primo e l’Ultimo» in senso assoluto[7]. «Cuore dei cuori e Spirito degli spiriti» (Qalbul-qulûbi wa Rûhul-arwâh), è nel suo seno che si differenziano gli «spiriti» particolari, gli angeli (el-malâikah) e gli «spiriti separati» (el-arwak el mujarradah), i quali sono perciò formati dalla Luce primordiale come loro unica essenza, senza mescolanza con gli elementi che rappresentano le condizioni determinanti dei gradi inferiori dell’esistenz a[8].
Se ora passiamo a considerare più in particolare il nostro mondo, vale a dire il grado di esistenza a cui appartiene lo stato umano (inteso qui nella sua integralità, e non limitatamente alla sua sola modalità corporea), dobbiamo trovarvi, come «centro», un principio che corrisponda a questo «Cuore universale» e che in qualche modo non ne sia se non la specificazione in rapporto allo stato in questione. È questo il principio che la tradizione indù chiama Hiranyagarbha: esso è un aspetto di Brahmâ, cioè del Verbo produttore della manifestazione[9], e, nello stesso tempo, è anche «Luce», come indica la denominazione di taijasa attribuita allo stato sottile che costituisce il suo «mondo» proprio, del quale esso contiene essenzialmente in sé tutte le possibilità[10]. Qui troviamo il terzo dei termini da noi menzionati al principio: questa luce cosmica, per gli esseri che si manifestano in tale sfera, e in conformità con le loro condizioni particolari di esistenza, appare come «Vita»; Et Vita erat Lux hominum, dice, esattamente in questo senso, il Vangelo di san Giovanni. Hiranyagarbha è perciò, sotto questo aspetto, il «principio vitale» di tutto questo mondo, ed è per tale motivo che viene chiamato jîva-ghana, perché ogni vita è principialmente sintetizzata in esso; la parola ghana sta a indicare che si ritrova qui nella forma «globale» di cui dicevamo prima a proposito della Luce primordiale, di modo che la «vita» vi appare come un’immagine o una riflessione dello «Spirito» a un certo livello di manifestazione[11]; questa stessa forma è anche la forma dell’«Uovo del Mondo» (Brahmânda), di cui Hiranyagarbha è, secondo il significato del suo nome, il «germe» vivificatore[12]. In un certo stato, corrispondente a quella prima modalità sottile dell’ordine umano che costituisce propriamente il mondo di Hiranyagarbha (ma, beninteso, senza che ancora ci sia identificazione con il «centro» vero e proprio)[13], l’essere si sente come un’onda dell’«Oceano primordiale»[14], senza che sia possibile dire se quest’onda è una vibrazione sonora o un’onda luminosa; in realtà essa è sia l’una che l’altra, indissolubilmente unite in principio, di là da ogni differenziazione, differenziazione che si produce soltanto in uno stadio ulteriore nello sviluppo della manifestazione. Qui parliamo ovviamente per analogia, giacché è evidente che nello stato sottile non si può trattare del suono e della luce in senso ordinario ‑ vale a dire intendendo l’uno e l’altra come qualità sensibili ‑ ma soltanto di ciò da cui l’uno e l’altra procedono rispettivamente; d’altra parte, la vibrazione o ondulazione, nella sua accezione letterale, altro non è che un movimento che, in quanto tale, implica necessariamente le condizioni di spazio e di tempo che sono proprie della sfera dell’esistenza corporea; tuttavia l’analogia non è con ciò meno esatta, anzi essa è qui l’unico modo possibile di espressione.
Lo stato in questione è quindi in relazione diretta con il principio della Vita, nel senso più universale in cui si possa considerarlo[15]; di ciò si trova quasi un’immagine nelle principali manifestazioni della stessa vita organica, quelle ‑ cioè – che sono propriamente indispensabili alla sua conservazione, vale a dire nelle pulsazioni del cuore e nei movimenti alternati della respirazione; ed è questo il vero fondamento delle molteplici applicazioni della «scienza del ritmo», il cui ruolo è estremamente importante nella maggior parte dei metodi di realizzazione iniziatica. Tale scienza comprende naturalmente la mantra‑vidyâ, la quale corrisponde in questo caso all’aspetto «sonico»[16]; per altro, dal momento che l’aspetto «luminoso» appare più particolarmente nelle nâdî della «forma sottile» (sukshma-sharîra)[17], si può vedere senza difficoltà il rapporto di tutto questo con la doppia natura luminosa (jyotirmayî) e sonora (shabdamayî o mantramayî) che la tradizione indù attribuisce a Kundalinî, la forza cosmica che, in quanto specialmente residente nell’essere umano, agisce in esso come «forza vitale»[18]. Ritroviamo dunque sempre i tre termini Verbum, Lux et Vita non separabili l’uno dall’altro, al principio stesso dello stato umano; e, su questo punto così come su tanti altri, possiamo constatare il perfetto accordo delle differenti dottrine tradizionali, le quali altro non sono in realtà che espressioni diverse della Verità una.
XLVII - «Verbum, Lux et Vita»
Abbiamo fatto testé allusione all’atto del Verbo che produce quell’«illuminazione» che è all’origine di ogni manifestazione, e che si ritrova analogicamente al punto di partenza del processo iniziatico; questo ci porta, anche se la questione può sembrare un po’ fuori dell’argomento principale del nostro studio (ma, in virtù della corrispondenza dei punti di vista «macrocosmico» e «microcosmico», si tratta in realtà soltanto di un’apparenza), a segnalare la stretta connessione che esiste, dal punto di vista cosmogonico, tra il suono e la luce, connessione espressa in modo chiarissimo dall’associazione, o piuttosto dalla vera e propria identificazione, istituita all’inizio del Vangelo di san Giovanni tra i termini Verbum, Lux et Vita[1].
È noto che la tradizione indù, la quale considera la «luminosità» (Taijasa) come la caratteristica fondamentale dello stato sottile (e vedremo presto il rapporto che c’è tra questo fatto e l’ultimo dei tre termini da noi ricordati), afferma per altro verso la primordialità del suono (shabda) fra le qualità sensibili, facendolo corrispondere all’etere (âkâsha) fra gli elementi; questa affermazione, così come l’abbiamo enunciata, si riferisce in modo immediato al mondo corporeo, ma è nello stesso tempo trasponibile anche in altri campi[2], dal momento che in realtà traduce soltanto, nei confronti di quel mondo corporeo che tutto sommato non rappresenta se non un semplice caso particolare, il processo stesso della manifestazione universale. Se si considera quest’ultima nella sua integralità, tale affermazione diventa quella della produzione di tutte le cose in qualsivoglia stato da parte del Verbo, o Parola divina, la quale è così all’inizio o, per meglio dire (giacché si tratta di qualcosa di essenzialmente «in temporale»), al principio di qualsiasi manifestazione[3], il che è anche espressamente indicato all’inizio della Genesi ebraica, nella quale si vede, come già abbiamo detto, che la prima parola proferita, quale punto di partenza della manifestazione, è il Fiat Lux da cui è illuminato il caos delle possibilità; ciò evidenzia in modo preciso il rapporto diretto che esiste, nell’ordine principiale, tra quelli che possono essere denominati analogicamente il suono e la luce, vale a dire tra ciò di cui il suono e la luce, nel senso ordinario delle due parole, sono le espressioni rispettive nel nostro mondo.
A questo punto occorre fare un’osservazione importante: il verbo amar, usato nel testo biblico, e abitualmente tradotto con «dire», in realtà ha sia in ebraico sia in arabo il senso principale di «comandare» o di «ordinare»; la Parola divina è l’«ordine» (amr) in conseguenza del quale si effettua la creazione, vale a dire la produzione della manifestazione universale, sia essa intesa nel suo insieme, sia in una qualsiasi delle sue modalità[4]. Anche secondo la tradizione islamica la prima creazione è quella della Luce (En-Nûr), la quale è detta min amri-Llah, vale a dire procedente in modo immediato dall’ordine o dal comando divino; e tale creazione si situa, se così si può dire, in quel «mondo», cioè in quello stato o grado di esistenza, che per tale ragione è denominato âlamul-amr, e costituisce il mondo spirituale puro vero e proprio. In effetti, la Luce intelligibile è l’essenza (dhât) dello «Spirito» (Er-Rûh), e quest’ultimo, quand’è inteso in senso universale, si identifica con la Luce stessa; è per questa ragione che le espressioni En-Nûr el-Muhammadî e Er-Rûh el-muhammadiyah sono equivalenti, poiché sia l’una sia l’altra indicano la forma principiale e totale dell’«Uomo Universale»[5], il quale è awwalu khalqi’Llah, «il primo della creazione divina». È il vero «Cuore del Mondo». la cui espansione produce la manifestazione di tutti gli esseri, mentre la sua contrazione li riconduce infine nel loro Principio[6]; e in tal modo esso è «il primo e l’ultimo» (el-awwal wa el-akher) in rapporto alla creazione, così come Allah stesso è «il Primo e l’Ultimo» in senso assoluto[7]. «Cuore dei cuori e Spirito degli spiriti» (Qalbul-qulûbi wa Rûhul-arwâh), è nel suo seno che si differenziano gli «spiriti» particolari, gli angeli (el-malâikah) e gli «spiriti separati» (el-arwak el mujarradah), i quali sono perciò formati dalla Luce primordiale come loro unica essenza, senza mescolanza con gli elementi che rappresentano le condizioni determinanti dei gradi inferiori dell’esistenz
Se ora passiamo a considerare più in particolare il nostro mondo, vale a dire il grado di esistenza a cui appartiene lo stato umano (inteso qui nella sua integralità, e non limitatamente alla sua sola modalità corporea), dobbiamo trovarvi, come «centro», un principio che corrisponda a questo «Cuore universale» e che in qualche modo non ne sia se non la specificazione in rapporto allo stato in questione. È questo il principio che la tradizione indù chiama Hiranyagarbha: esso è un aspetto di Brahmâ, cioè del Verbo produttore della manifestazione[9], e, nello stesso tempo, è anche «Luce», come indica la denominazione di taijasa attribuita allo stato sottile che costituisce il suo «mondo» proprio, del quale esso contiene essenzialmente in sé tutte le possibilità[10]. Qui troviamo il terzo dei termini da noi menzionati al principio: questa luce cosmica, per gli esseri che si manifestano in tale sfera, e in conformità con le loro condizioni particolari di esistenza, appare come «Vita»; Et Vita erat Lux hominum, dice, esattamente in questo senso, il Vangelo di san Giovanni. Hiranyagarbha è perciò, sotto questo aspetto, il «principio vitale» di tutto questo mondo, ed è per tale motivo che viene chiamato jîva-ghana, perché ogni vita è principialmente sintetizzata in esso; la parola ghana sta a indicare che si ritrova qui nella forma «globale» di cui dicevamo prima a proposito della Luce primordiale, di modo che la «vita» vi appare come un’immagine o una riflessione dello «Spirito» a un certo livello di manifestazione[11]; questa stessa forma è anche la forma dell’«Uovo del Mondo» (Brahmânda), di cui Hiranyagarbha è, secondo il significato del suo nome, il «germe» vivificatore[12]. In un certo stato, corrispondente a quella prima modalità sottile dell’ordine umano che costituisce propriamente il mondo di Hiranyagarbha (ma, beninteso, senza che ancora ci sia identificazione con il «centro» vero e proprio)[13], l’essere si sente come un’onda dell’«Oceano primordiale»[14], senza che sia possibile dire se quest’onda è una vibrazione sonora o un’onda luminosa; in realtà essa è sia l’una che l’altra, indissolubilmente unite in principio, di là da ogni differenziazione, differenziazione che si produce soltanto in uno stadio ulteriore nello sviluppo della manifestazione. Qui parliamo ovviamente per analogia, giacché è evidente che nello stato sottile non si può trattare del suono e della luce in senso ordinario ‑ vale a dire intendendo l’uno e l’altra come qualità sensibili ‑ ma soltanto di ciò da cui l’uno e l’altra procedono rispettivamente; d’altra parte, la vibrazione o ondulazione, nella sua accezione letterale, altro non è che un movimento che, in quanto tale, implica necessariamente le condizioni di spazio e di tempo che sono proprie della sfera dell’esistenza corporea; tuttavia l’analogia non è con ciò meno esatta, anzi essa è qui l’unico modo possibile di espressione.
Lo stato in questione è quindi in relazione diretta con il principio della Vita, nel senso più universale in cui si possa considerarlo[15]; di ciò si trova quasi un’immagine nelle principali manifestazioni della stessa vita organica, quelle ‑ cioè – che sono propriamente indispensabili alla sua conservazione, vale a dire nelle pulsazioni del cuore e nei movimenti alternati della respirazione; ed è questo il vero fondamento delle molteplici applicazioni della «scienza del ritmo», il cui ruolo è estremamente importante nella maggior parte dei metodi di realizzazione iniziatica. Tale scienza comprende naturalmente la mantra‑vidyâ, la quale corrisponde in questo caso all’aspetto «sonico»[16]; per altro, dal momento che l’aspetto «luminoso» appare più particolarmente nelle nâdî della «forma sottile» (sukshma-sharîra)[17], si può vedere senza difficoltà il rapporto di tutto questo con la doppia natura luminosa (jyotirmayî) e sonora (shabdamayî o mantramayî) che la tradizione indù attribuisce a Kundalinî, la forza cosmica che, in quanto specialmente residente nell’essere umano, agisce in esso come «forza vitale»[18]. Ritroviamo dunque sempre i tre termini Verbum, Lux et Vita non separabili l’uno dall’altro, al principio stesso dello stato umano; e, su questo punto così come su tanti altri, possiamo constatare il perfetto accordo delle differenti dottrine tradizionali, le quali altro non sono in realtà che espressioni diverse della Verità una.
[1] Non è privo d’interesse notare a tal proposito che, nelle organizzazioni massoniche che hanno conservato più completamente le antiche forme rituali, la Bibbia posta sull’altare deve essere aperta precisamente alla prima pagina del Vangelo di san Giovanni.
[2] Ciò discende evidentemente dal fatto che la teoria su cui riposa la scienza dei mantra (mantra-vidyâ) distingue diverse modalità dei suono: parâ o non manifestato, pasbantî e vaikharî, che è la parola articolata; soltanto quest’ultima si riferisce propriamente al suono come qualità sensibile, appartenente alla sfera corporea.
[3] Sono esattamente le prime parole del Vangelo di San Giovanni: In principio erat Verbum.
[4] Dobbiamo a questo punto ricordare la connessione che esiste tra i due differenti sensi della parola «ordine», da noi già menzionati in una nota precedente.
[5] Si veda Le Symbolisme de la Croix, p. 58.
[6] Il simbolismo del doppio movimento del cuore deve essere in questo caso considerato equivalente a quello, ben conosciuto in particolare nella tradizione indù, delle due fasi inverse e complementari della respirazione; in entrambi i casi si tratta sempre di un’espansione e di una contrazione alternate, le quali corrispondono inoltre ai due termini coagula e solve dell’ermetismo, ma a condizione di far ben attenzione a osservare che le due fasi devono venir prese in senso inverso a seconda che le cose siano considerate in rapporto al principio o in rapporto alla manifestazione, perché è l’espansione principiale che determina la «coagulazione» del manifestato, e la contrazione principiale che ne determina la «soluzione».
[7] Tutto quel che diciamo qui ha anche un rapporto con il ruolo di Metatron nella Kabbala ebraica.
[8] È facile constatare che ciò di cui stiamo trattando in questo punto può essere identificato con la sfera della manifestazione sovraindividuale.
[9] Questi è «produttore» nei confronti del nostro mondo, ma nello stesso tempo è esso stesso «prodotto» nei confronti del Principio supremo, e questa è la ragione per cui è anche chiamato Karya-Brahma.
[10] Si veda L’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, cap. XIV. Nello stesso nome Hiranyagarbha è chiaramente indicata tale natura luminosa, giacché la luce è simboleggiata dall’oro (hiranya), il quale è esso stesso «luce minerale», e corrisponde, fra i metalli, al sole fra i pianeti; è inoltre noto che il sole è anche, nel simbolismo di tutte le tradizioni, una delle raffigurazioni del «Cuore del Mondo».
[11] Questa considerazione può aiutare a definire i rapporti tra lo «spirito» (er-rûh) e l’«anima» (en-nefs); quest’ultima è propriamente il «principio vitale» di ogni essere particolare.
[12] Si confronti Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi, cap. XX.
[13] Lo stato in questione è quello che la terminologia dell’esoterismo islamico indica con la parola hâl, mentre lo stato che corrisponde all’identificazione con il centro è propriamente un maqâm.
[14] Conformemente al simbolismo generale delle Acque, l’«Oceano» (in sanscrito samudra) rappresenta l’insieme delle possibilità contenute in un certo stato di esistenza; ogni onda corrisponde perciò, in tale insieme, alla determinazione di una possibilità particolare.
[15] Nella tradizione islamica ciò si riferisce in modo più specifico all’aspetto o attributo espresso dal nome divino El-Hayy, che in genere viene tradotto come «il Vivente», ma che si potrebbe rendere molto più esattamente come «il Vivificatore».
[16] È ovvio che questo non si applica esclusivamente ai mantra della tradizione indù, ma anche a quel che vi corrisponde in altre tradizioni, per esempio al dhikr della tradizione islamica; si tratta, in linea assolutamente generale, dei simboli sonori che sono assunti ritualmente quali «supporti» sensibili dell’«incantazione» intesa nel senso da noi spiegato in precedenza.
[17] Si veda L’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, capp. XIV e XXI.
[18] Poiché Kundalinî è rappresentata simbolicamente come un serpente arrotolato su se stesso in forma di anello (kundala), si potrebbe qui ricordare lo stretto rapporto che spesso esiste, nel simbolismo tradizionale, tra il serpente e l’«Uovo del Mondo», a cui alludevamo poco fa trattando di Hiranyagarbha: è così che, secondo gli antichi Egizi, Kneph, sotto forma di serpente, produce l’«Uovo del Mondo» dalla bocca (il che comporta un’allusione al ruolo essenziale del Verbo in quanto produttore della manifestazione); ricorderemo anche il simbolo equivalente dell’«uovo di serpente» dei Druidi, il quale era rappresentato dal riccio di mare fossile.
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