René Guénon
Studi sull'Induismo
Studi sull'Induismo
V - Dharma[1]
La parola dharma sembra essere uno dei termini sanscriti che mettono maggiormente in imbarazzo i traduttori, e non senza ragione, giacché di fatto essa presenta molteplici significati, ed è certamente impossibile renderla sempre uniformemente con una stessa parola in un’altra lingua; probabilmente sarebbe spesso persin meglio conservarla nella sua forma originale, spiegandola magari con un commento.
Gualtherus H. Mees, che ha, dedicato a quest’argomento un libro apparso di recente[2], e che, pur limitandosi quasi esclusivamente al punto di vista sociale, mostra di essere in possesso di una comprensione maggiore di quella che si incontra nella maggior parte degli Occidentali, fa molto giustamente notare che, quantunque vi sia in tale termine una certa quale indeterminatezza, quest’ultima non è assolutamente sinonimo di poca chiarezza, poiché essa non prova affatto che le concezioni degli antichi mancassero di definitezza, né che costoro fossero incapaci di distinguere i diversi aspetti del contenuto della parola in questione; tale pretesa indefinitezza, della quale si potrebbe trovare molti altri esempi, mostra invece come il pensiero degli antichi soffrisse di una molto minor ristrettezza di quello dei moderni, e a differenza di quest’ultimo non fosse analitico, ma essenzialmente sintetico. Di questa indeterminatezza permane del resto ancora qualcosa in un termine come «legge», ad esempio, termine che contiene anch’esso significati molto diversi gli uni dagli altri; e la parola «legge» è precisamente, insieme alla parola «ordine», una di quelle che in più di un caso possono rendere l’idea di dharma nel modo meno imperfetto.
È noto che dharma deriva dalla radice dhri, che significa «portare», «sopportare», «sostenere», «mantenere»[3]; si tratta perciò propriamente di un principio di conservazione degli esseri, e conseguentemente di stabilità, per quel tanto, per lo meno, che quest’ultima è compatibile con le condizioni della manifestazione, dal momento che tutte le applicazioni del dharma si riferiscono sempre al mondo manifestato. Per cui non è possibile accettare, come l’autore sembra disposto a fare, che questo termine possa essere più o meno un sostituto di Âtmâ, con la sola differenza che sarebbe «dinamico» invece di essere «statico»; Âtmâ è non-manifestato, perciò immutabile, e dharma è di esso un’espressione, se si vuole, nel senso che riflette l’immutabilità principiale nella sfera della manifestazione; dharma è «dinamico» soltanto nella misura in cui «manifestazione» implica necessariamente «divenire», ma esso è ciò che fa sì che tale «divenire» non sia cambiamento puro, ciò che vi conserva sempre, attraverso il cambiamento stesso, una certa stabilità relativa. A tal proposito, ha la sua importanza osservare che la radice dhri è quasi identica, nella forma e nel significato, a un’altra radice, dhru, dalla quale deriva la parola dhruva, che designa il «polo»; di fatto, è a tale idea di «polo» o di «asse» del mondo manifestato che occorre riferirsi se si vuol veramente capire la nozione di dharma: si tratta di ciò che permane invariabile al centro delle rivoluzioni di tutte le cose e regola il corso del cambiamento proprio in quanto al cambiamento non partecipa. Bisogna non dimenticare che, in virtù del carattere sintetico del pensiero che esprime, il linguaggio è in questo caso molto più strettamente legato al simbolismo di quanto non avvenga per le lingue moderne, e che è d’altronde da quest’ultimo che esso trae quella molteplicità di significati di cui parlavamo poco fa; e si potrebbe forse anche far vedere addirittura che la concezione del dharma si ricollega in modo piuttosto diretto con la rappresentazione simbolica dell’«Asse» attraverso la raffigurazione dell’«Albero del Mondo».
Considerando le cose sotto un altro profilo, il Mees segnala con ragione l’apparentamento della nozione di dharma con quella di rita, termine che ha etimologicamente il significato di «rettitudine» (allo stesso modo del Te della tradizione estremo-orientale, il quale è anch’esso assai vicino al dharma), il che evidentemente ricorda di nuovo l’idea di «asse», idea che è quella di una direzione costante e invariabile. Il termine rita è allo stesso tempo identico alla parola «rito», e in effetti si potrebbe dire che quest’ultima, per lo meno in origine, denomini tutto ciò che è compiuto conformemente all’ordine; essa giunge ad assumere un’accezione più ristretta solo in conseguenza della degenerazione che dà origine a un’attività «profana», in qualsivoglia campo. Quel che si deve capir bene è che il rito conserva sempre il medesimo carattere, e che è l’attività non rituale a essere qualcosa di deviato, in qualche modo: tutto ciò che è solo «convenzione» o «costume», senza una ragione profonda, in origine non esisteva; e il rito, inteso tradizionalmente, non ha nessuna relazione con questo genere di cose, le quali non possono mai essere se non contraffazione o parodia. Ma c’è qualcosa di più: quando parliamo di conformità all’ordine in questo senso, non si deve intenderla soltanto come conformità all’ordine umano, bensì – e innanzi tutto – all’ordine cosmico; in qualsiasi concezione tradizionale, in effetti, vi è sempre una rigorosa corrispondenza tra l’uno e l’altro, ed è precisamente il rito a mantenere i loro rapporti in modo cosciente, poiché implica in certo qual modo una collaborazione dell’uomo, nella sfera in cui la sua attività si esercita, con l’ordine cosmico stesso.
Analogicamente, la nozione del dharma non è limitata all’uomo, ma si estende a tutti gli esseri e a tutti i loro stati di manifestazione; è per questo che una concezione unicamente sociale non può esser sufficiente a permettere di comprenderla a fondo: una concezione sociale non è nulla più di un’applicazione particolare, la quale non deve mai essere separata dalla «legge» o dalla «norma» primordiale e universale di cui essa non è se non la traduzione in modo specificamente umano. È indubbio che si possa parlare del dharma proprio di ciascun essere (swadharma) o di ciascun gruppo di esseri, quale ad esempio una collettività umana; ma, a essere rigorosi, questo modo di intenderlo non è che una particolarizzazione del dharma in rapporto con le condizioni speciali di tale essere o di tale gruppo, la cui natura e costituzione sono necessariamente analoghe a quelle dell’insieme di cui essi fanno parte, sia che questo insieme sia un determinato stato di esistenza, o sia esso l’intera manifestazione, giacché l’analogia si applica sempre, a tutti i livelli e a ogni grado. Si può così constatare che quella di cui stiamo parlando è lungi dall’essere una concezione «morale»: se un’idea come quella di «giustizia» può talvolta essere utile per rendere il senso di dharma è soltanto in quanto essa è un’espressione umana dell’equilibrio o dell’armonia, vale a dire di uno degli aspetti del mantenimento della stabilità cosmica. A maggior ragione, un’idea di «virtù» non può essere qui applicata se non nella misura in cui essa indica che le azioni di un essere sono conformi alla sua natura propria e, proprio per tal ragione, all’ordine totale, il quale ha il suo riflesso o la sua immagine nella natura di ognuno. Analogamente, inoltre, se si prende in esame una collettività umana e non più un’individualità isolata, l’idea di «legislazione» non rientra in quella di dharma se non perché tale legislazione deve normalmente essere un adattamento dell’ordine cosmico all’ambiente sociale; e questo carattere è particolarmente visibile nel caso dell’istituzione delle caste, come vedremo in un prossimo articolo. Si spiegano in questo modo, in fondo, tutti i significati secondari della parola dharma; non intervengono difficoltà se non quando si voglia considerarli separatamente e senza indagare sulla loro derivazione da un principio comune, principio che è, si potrebbe dire, l’unità fondamentale a cui si riconduce la loro molteplicità[4].
Prima di concludere queste rapide considerazioni, ci resta ancora, per situare con maggiore esattezza la nozione del dharma, da indicare il posto che esso occupa fra gli scopi che le Scritture tradizionali indù assegnano alla vita umana. Tali scopi sono quattro, e vengono così enumerati in ordine gerarchicamente ascendente: artha, kâma, dharma, moksha; quest’ultimo, ossia la «Liberazione», è il solo scopo supremo, e, poiché è di là dalla sfera della manifestazione, è di un ordine totalmente diverso dagli altri tre, e senza comune misura con essi, così come l’assoluto è senza comune misura con il relativo. Per quel che concerne i primi tre scopi, i quali tutti si riferiscono al manifestato, artha comprende l’insieme dei beni di tipo corporeo; kâma è il desiderio, la cui soddisfazione costituisce il bene d’ordine psichico; dharma è superiore a quest’ultimo, e bisogna considerare la sua realizzazione come se appartenesse in modo proprio alla sfera spirituale, il che si accorda di fatto con il carattere di universalità che gli abbiamo riconosciuto. È però sottinteso, tuttavia, che tutti questi scopi, compreso lo stesso dharma, poiché sono sempre e soltanto contingenti alla stregua della manifestazione, fuori della quale non avrebbero ragion d’essere, non possono essere altro che subordinati allo scopo supremo, nei confronti del quale, in fondo, diventano soltanto semplici mezzi. Ciascuno di questi scopi è del resto subordinato anche a quelli che gli sono superiori, per quanto ancora relativi; sennonché, quando sono enumerati da soli a esclusione di moksha, ciò significa che si tratta di un punto di vista limitato alla considerazione del manifestato, ed è solo così che dharma può a volte avere l’apparenza dello scopo più elevato che sia proposto all’uomo. Vedremo inoltre in seguito che questi scopi sono più specialmente in corrispondenza rispettiva con i differenti varna[5]; e possiamo dire fin d’ora che tale corrispondenza si fonda essenzialmente sulla teoria dei tre guna, ciò che fa vedere, anche qui, come la sfera umana appaia indissolubilmente legata all’intero ordine cosmico.
[1] Pubblicato in «Le Voile d’Isis», ottobre 1935.
[2] Dharma and Society (N.V. Service, The Hague; Luzac and Co., Loridon). La maggior parte del libro riguarda più da vicino la questione dei varna, o caste, ma tale punto di vista merita di costituire di per sé l’argomento di un altro articolo.
[3] Checché ne dica l’autore, ci sembra poco verosimile che esista una comunanza di radice con la parola «forma», e a ogni buon conto non ci rendiamo ben conto del partito che se ne potrebbe trarre.
[4] Non è difficile capire come l’applicazione sociale del dharma si traduca sempre, volendo servirsi del linguaggio moderno, come «dovere» e non come «diritto»; il dharma di un essere può evidentemente esprimersi solo mediante ciò che deve fare egli stesso, e non mediante ciò che gli altri devono fare nei suoi confronti, che dipende ovviamente dal Dharma di questi altri esseri.
[5] Si confronti con il capitolo seguente. [N.d.T.]
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