"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 7 giugno 2020

René Guénon, Studi sull'Induismo - VI - Varna

René Guénon
Studi sull'Induismo

VI - Varna[1]

Gualtherus H. Mees, nel suo libro Dharma and Society di cui abbiamo già parlato, si dilunga soprattutto, come abbiamo detto, sulla questione delle caste; non accetta però tale parola nel senso in cui l’intendiamo noi, ma preferisce, senza tradurlo, conservare il termine sanscrito varna, o renderlo con un’espressione come «classi naturali», espressione che in effetti definisce abbastanza bene il suo contenuto, visto che si tratta veramente di una ripartizione gerarchica degli esseri umani in conformità con la natura propria a ciascuno di essi.

Tuttavia, il rischio è che la parola «classe», anche se accoppiata a un aggettivo che la qualifica, evochi l’idea di qualcosa di più o meno comparabile con le classi sociali dell’Occidente, classi che invece sono puramente artificiali, e non hanno nulla in comune con una gerarchia tradizionale, della quale al massimo rappresentano una sorta di parodia o di caricatura. Per cui noi, per parte nostra, riteniamo che la soluzione migliore sia ancora di servirsi della parola «caste», la quale ha certo solo un valore tutto convenzionale, ma è per lo meno stata espressamente coniata per designare l’organizzazione indù; sennonché il Mees questa parola la riserva alle molteplici caste che di fatto esistono nell’India attuale, nelle quali egli vuol vedere qualcosa di totalmente diverso dai varna primitivi. Questa maniera di vedere le cose noi non la possiamo condividere, perché in realtà le caste attuali dell’India non sono che suddivisioni secondarie, dovute a una complessità o a una differenziazione maggiore dell’organizzazione sociale, e perché, qualunque sia il loro numero, esse rientrano tuttavia nell’inquadramento dei quattro varna, che sono i soli a costituire la gerarchia fondamentale, e si mantengono necessariamente invariabili, in quanto espressioni dei principi tradizionali e riflesso dell’ordine cosmico nell’ordine sociale umano.
Sotto la distinzione che il Mees vuol fare tra varna e «casta» si nasconde un’idea che ci sembra in gran parte ispirata alle teorie bergsoniane sulle «società aperte» e sulle «società chiuse», anche se a esse non è mai fatto riferimento espresso: egli cerca di far distinzione tra due aspetti del dharma di cui il primo corrisponderebbe più o meno al varna e il secondo alla «casta» e la cui predominanza si imporrebbe alternativamente in quelli che chiama «periodi di vita» e «periodi di forma», ai quali attribuisce caratteristiche rispettivamente «dinamiche» e «statiche». Non abbiamo nessuna intenzione di discutere in questa sede tali concezioni storico-filosofiche, le quali non si fondano evidentemente su alcun dato tradizionale; riteniamo più interessante dal nostro punto di vista mettere in rilievo un malinteso che concerne la parola jâti, che l’autore pensa indicare quella che egli chiama «casta», mentre essa è in realtà usata semplicemente in guisa di equivalente o sinonimo di varna. La parola jâti significa letteralmente «nascita», ma non va compresa, o per lo meno non va compresa in modo esclusivo o essenziale, nel senso di «eredità»; essa designa la natura individuale dell’essere, in quanto necessariamente determinata fin dalla nascita come insieme delle possibilità che questi svilupperà nel corso della sua esistenza; tale natura deriva innanzi tutto da quel che l’essere è in se stesso e solo in seconda istanza dagli influssi dell’ambiente, dei quali fa parte l’eredità propriamente detta; ed è inoltre opportuno aggiungere che l’ambiente stesso è normalmente determinato da una certa legge di «affinità», in modo da essere il più possibile conforme alle tendenze proprie dell’essere che vi nasce; se diciamo «normalmente», è perché possono esistere eccezioni più o meno numerose, per lo meno in un periodo di confusione come il Kali-Yuga. Stando così le cose, non si vede assolutamente cosa potrebbe essere una casta «aperta», se con questo termine si vuole intendere (e cosa si potrebbe voler dire di diverso?) che un individuo avrebbe la possibilità di cambiare di casta in un determinato momento; ciò implicherebbe in lui un cambiamento di natura tanto inconcepibile quanto lo sarebbe un cambiamento improvviso di specie nella vita di un animale o di un vegetale (e del resto si può mettere in rilievo che la parola jâti ha anche il senso di «specie», cosa che giustifica ancor più completamente il paragone). Un cambiamento apparente di casta non potrebbe essere nulla più della riparazione di un errore, nel caso che si fosse inizialmente attribuita all’individuo una casta che non sia realmente la sua; sennonché il fatto che tale errore possa talvolta prodursi (e, per precisione, nuovamente a causa dell’oscuramento del Kali-Yuga) non si oppone assolutamente, in via generale, alla possibilità di determinare la vera casta fin dalla nascita; se il Mees sembra credere che la considerazione dell’eredità sia la sola che intervenga in quel momento, è perché egli senza dubbio ignora che i mezzi di tale determinazione possono essere forniti da certe scienze tradizionali, magari anche solo dall’astrologia (la quale ovviamente è in questo caso ben altra cosa che non la pretesa «astrologia scientifica» di certi Occidentali moderni, e non ha nulla a che vedere con un’arte «congetturale» o «divinatoria», né con l’empirismo delle statistiche e del calcolo delle probabilità).
Chiarito questo punto, possiamo ritornare alla nozione vera e propria di varna: questa parola significa specificamente «colore», ma altresì, per estensione, «qualità» in generale, ed è per questo che può essere usata per designare la natura individuale; molto giustamente il Mees respinge l’anomala interpretazione proposta da qualcuno, che vuol vedere nel significato di «colore» la prova che la distinzione dei varna sarebbe stata in origine fondata su differenze di razza, cosa della quale è assolutamente impossibile trovare da qualche parte la minima conferma. La verità è che, se effettivamente sono stati attribuiti al varna dei colori, ciò è avvenuto per ragioni puramente simboliche; e la «chiave» di tale simbolismo si trova nella corrispondenza coi guna, corrispondenza che, in particolare, è indicata in modo chiarissimo in questo testo del Vishnu-Purâna: «Quando Brahmâ, secondo i suoi piani, volle produrre il mondo, dalla sua bocca ebbero origine esseri in cui prevaleva sattwa; dal suo petto ebbero origine altri esseri, in cui predominava rajas; altri esseri, nei quali rajas e tamas erano entrambi forti, originarono dalle sue cosce; infine, altri esseri ancora ebbero origine dai suoi piedi, e la loro caratteristica principale era tamas. Di questi esseri furono composti i quattro varna, i Brâhmana, gli Ksatriya, i Vaishya e gli Shûdra, i quali avevano avuto origine, rispettivamente, dalla sua bocca, dal suo petto, dalle sue cosce e dai suoi piedi». Poiché sattwa è rappresentato dal colore bianco, tale colore è naturalmente attribuito al Brâhmana; analogamente il rosso, colore che rappresenta rajas, è attribuito agli Ksatriya; i Vaishya, caratterizzati da una mescolanza dei due guna inferiori, hanno come colore simbolico il giallo; per finire, il nero, che è il colore di tamas è di conseguenza quello che si adatta agli Shûdra.
La gerarchizzazione dei varna, determinata in tal modo dai guna che predominano in essi rispettivamente, si sovrappone esattamente a quella degli elementi, così come l’abbiamo esposta nel nostro studio su tale argomento[2]; e ciò si deduce immediatamente dal confronto tra la figura della pagina seguente con quella da noi allora presentata. Perché la somiglianza sia completa, occorre solo notare che la posizione dell’etere deve essere in tale figura occupata da Hamsa, vale a dire dalla casta primordiale unica che esisteva nel Krita-Yuga, e conteneva in principio e allo stato indifferenziato i quattro ulteriori varna, così come l’etere contiene gli altri quattro elementi.
In un’altra prospettiva, il Mees prova, pur non arrischiandosi con ragione a spingere troppo in là le analogie, a indicare una corrispondenza tra i quattro varna e i quattro âshrama, o stadi regolari dell’esistenza, corrispondenza che noi qui non prenderemo in esame, e quella tra i quattro varna e i quattro scopi della vita umana di cui abbiamo parlato in precedenza trattando del dharma; ma in quest’ultimo caso, lo stesso fatto che si tratti sempre di una divisione quaternaria lo ha indotto in un errore manifesto.
hamsa
brâhmana
ksatriya
vaishya
shûdra
Difatti, è chiaramente inammissibile che ci si ponga come fine, foss’anche il più basso di tutti, l’ottenimento di qualcosa che corrisponda in modo puro e semplice a tamas; la ripartizione, se effettuata dal basso in alto, deve in realtà incominciare dal grado che è immediatamente superiore a quest’ultimo, così com’è indicato nella nostra seconda figura; ed è facile capire che dharma corrisponde in effetti a sattwa, kâma a rajas, e artha a una mescolanza di rajas e di tamas. Contemporaneamente, i rapporti di questi scopi con il carattere e la funzione dei tre varna superiori (ossia di quelli i cui membri possiedono le qualità di ârya e di dwija) si presentano allora per virtù propria: la funzione del Vaishya si riferisce di fatto all’acquisizione di artha, ovvero dei beni d’ordine corporeo; kâma, o «il desiderio», è il movente dell’attività che specificamente si adatta allo Ksatriya; e il Brâhmana è veramente il rappresentante e il guardiano naturale del dharma. Quanto a moksha, tale scopo supremo è, come abbiamo già detto, d’ordine totalmente diverso dagli altri tre e senza nessuna comune misura con essi; si situa perciò di là da tutto ciò che corrisponde alle funzioni particolari dei varna, e non può essere contenuto, come sono invece gli scopi transitori e contingenti, nella sfera che rappresenta il campo dell’esistenza condizionata, giacché esso è precisamente la liberazione da questa stessa esistenza; esso è anche, ovviamente, di là dai tre guna, i quali riguardano soltanto gli stati della manifestazione universale.
moksha
dharma
kâma
artha

Queste poche considerazioni mostrano abbastanza chiaramente che, quando si tratti di istituzioni tradizionali, un punto di vista unicamente «sociologico» è insufficiente per arrivare al fondo delle cose, giacché il vero fondamento di tali istituzioni è d’ordine propriamente «cosmologico»; ma è sottinteso che certe lacune a tal proposito non devono assolutamente impedirci di riconoscere i meriti del libro del Mees, meriti che sono certamente molto superiori a quelli della maggior parte dei lavori che altri Occidentali hanno dedicato allo stesso argomento.



[1] Pubblicato in «Le Voile d’Isis», novembre 1935. [N.d.T.]
[2] Si veda il cap. IV: «La teoria indù dei cinque elementi». [N.d.T.]

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