Śrī Śrī Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārājajī
Vedānta vicāra sullo stato di sogno (svapnāvasthā vicāra)[1]
Per il soggetto (viṣayin), il mondo (prapañca) è oggetto (viṣaya) d’indagine e di esperienza. Con mondo s’intende la totalità dei cinque elementi (adhibhūta) che danno realtà al sole, alla luna, alle stelle, alla nostra terra (bhūmi), nonché a tutti gli avvenimenti che si possono osservare con i cinque sensi mentre si sviluppano nelle coordinate di tempo e spazio.
Il mondo, nella descrizione che ne dà Śaṃkara commentando la Māṇḍūkya Upaniṣad (II), è dunque il dominio di Viraṭ, la proiezione grossa (sthūla) di Hiraṇyagarbha, che si identifica così all’etere (ākāśa), principio onnipervadente della manifestazione grossolana. Il soggetto che osserva il mondo è, invece, l’aggregato di corpo (deha), mente (manas), intelletto (buddhi) e il senso dell’io (ahaṃkāra). Sempre nel medesimo commento śaṃkariano già citato, il soggetto è definito viśva (completo) perché non è soltanto un aggregato di oggetti sensibili composti dai bhūta, ma comprende anche tutte le modalità sottili che formano l’individualità; esso perciò è anche chiamato piṇḍātman (Ātman incorporato) o adhyātmika (dotato di Ātman). Il soggetto, perciò, per sua esperienza sensoria, si ritiene cosciente (cit), mentre osserva attorno a sé l’universo che percepisce come non cosciente (acit) in quanto lo indaga come dominio grossolano esclusivamente attraverso i sensi[2]. La sintesi di soggetto e oggetto, di viśva e di Viraṭ, forma uno stato, avasthā. Lo stato pervade il mondo, pervade l’individuo: ciò vuol dire che il mondo e l’individuo sono inclusi nello stato. L’uomo ordinario pensa che il mondo abbia un’esistenza indipendente e che, per esempio, svegliandosi si entri nel mondo di veglia come se si entrasse in una stanza; e che quando se ne esce, addormentandosi, la stanza resti lì. Questo è un errore. Lo Śāstra dice che il mondo della veglia non è indipendente dallo stato di veglia. Il mondo della veglia è sperimentato nello stato di veglia, il mondo del sogno nello stato di sogno. Quando si lascia il sogno svegliandosi, il sogno continua? Il mondo del sogno, prima che si iniziasse a sognare, non esisteva. Quando una persona sogna, vede il mondo del sogno. Il mondo del sogno è del sognatore. Quando è nel sogno, al sognatore pare di essere nel mondo della veglia. Egli riconosce che si tratta d’un sogno solo quando ne esce. Nell’Ātmā Bodha si dice: “Nel sogno si sperimenta il mondo del sogno come se si fosse in veglia.” Nessuno sperimenta il sogno come sogno[3]. Lo si definisce sogno solo quando se n’è usciti.
Come si può investigare i tre stati di veglia, sogno e sonno profondo? Esaminando i propri stati. Gli psicologi esaminano gli stati degli altri, che non sono loro esperienze; perciò quell’esame non ha alcun valore per la via della conoscenza (jñāna mārga). Infatti, gli stati degli altri, come per esempio il sogno, sono esperienze altrui. Quando s’interpreta il sogno d’un altro, non s’interpreta la propria esperienza. Ognuno deve vedere il suo stato di veglia, il suo stato di sogno, il suo stato di sonno profondo. Lo stato di veglia deve essere considerato dal vegliante, lo stato di sogno dal sognatore, lo stato di sonno profondo dal dormiente.
Le persone in stato di veglia cercano di ricordare il sogno. Del sogno si ha un parziale “ricordo”, mentre in parte lo si dimentica. Mentre ci si sforza di “ricordarlo”, la mente interpreta il sogno; perciò la mente della veglia interferisce con il “ricordo”. In genere si considera presente lo stato di veglia e passato quelli di sogno e di sonno profondo: “Ho sognato…”, “Ho dormito profondamente”. Perciò quando esaminiamo o cerchiamo di “ricordare” lo stato di sogno e di sonno profondo, siamo in stato di veglia[4]. Noi consideriamo il sogno e il sonno profondo mentre siamo in un altro stato, quello della veglia. Perciò la mente della veglia interferisce con gli altri stati. Lo Śāstra afferma che si deve investigare nel proprio stato. Nello stato di veglia c’è passato, presente e futuro, ma dire che il sogno è nel passato è errato, perché il sogno fa parte d’un altro tempo, d’un altro mondo, d’un altro stato. Quindi il tempo della veglia interferisce con il sogno. Siccome usualmente si investiga le altre avasthā a partire dallo stato di veglia, gli altri due stati sono relegati a esserne come fossero sue appendici secondarie. Invece il Māṇḍūkya Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya insegna che sono tutti e tre indipendenti tra loro. Non ci si deve interessare allo stato in quanto tale, ma a capire noi in quello stato. S’indaga, si fa vicāra, non per interesse per quello stato, ma per quello che si è in quello stato. Cioè: “Io sono la persona che appare nello stato di veglia, quella che appare in stato di sogno e in quello di sonno profondo.” Se si considera tutto soltanto dal contesto della veglia, la veglia appare eterna. Invece lo Śāstra dice che il mondo della veglia c’è soltanto per chi sta vegliando. Il mondo della veglia non esiste nel sogno, perciò, come può essere la veglia eterna? La medesima impressione vale anche per il mondo del sogno. Quando si sogna, quel mondo appare come eterno, senza inizio né fine. Anche nel sogno si sperimenta il senso del passato, presente e futuro. Si vedono i propri genitori e si sa che sono nati prima del figlio-sognatore. Si sperimenta dunque il sogno con le sue regole: è il mondo del sognatore che, sognando, lo sperimenta. Nel mondo della veglia, pur considerandolo eterno, si sa d’essere nati e che, prima, c’era qualcos’altro e qualcun altro. Lo stesso accade nel mondo del sogno. Quando si è nel mondo del sogno, non si considera che ha avuto un inizio e avrà una fine: lo si considera senza inizio né fine. Si sogna di essere con altre persone. Quando ci si sveglia, gli altri dove sono? Non ci sono più perché appartengono al mondo del sogno, e il sognatore, il sogno e gli oggetti del sogno appartengono a quello stesso mondo. Quando la persona sogna è un sognatore e “ha” il mondo del sogno. Quando è sveglia “ha” il mondo della veglia. Nessuno porta con sé nella veglia il mondo del sogno. È anche errato considerare il mondo della veglia separato dalla persona che veglia, il vegliante. Sarebbe come considerare gli oggetti senza un soggetto: gli oggetti, senza un soggetto, sono inesistenti. L’oggetto non è un oggetto per sua natura, ma lo è per il soggetto che lo vede. Non si può immaginare il mondo senza un soggetto che lo vede. Lo stato di sogno è confinato nel mondo del sogno, lo stato di veglia è confinato nello stato di veglia. Il sādhaka deve esaminare i propri stati perché anche gli altri sono parte di lui. Questo vale anche per il sogno: l’ajñāni pensa che il sogno sia strettamente personale, mentre è convinto che la veglia sia un’esperienza comune a tutti. È il pregiudizio del vegliante. Invece anche il mondo della veglia è il “mio proprio” mondo. Infatti quando non si è veglianti, non c’è nessun altro. Si vede il mondo della veglia solo quando si è svegli. Tutti gli altri sono parte della veglia del vegliante e tutto il mondo della veglia è parte della sua coscienza. Infatti il mondo non è indipendente dallo stato: lo stato pervade il mondo. Perciò, se il mondo non è indipendente dallo stato vuol dire che il mondo non è affatto indipendente. Il mondo è un’esperienza, non è un’entità indipendente. Non stiamo parlando d’un oggetto del dominio individuale: è un’esperienza.
Non c’è un mondo in comune tra sogno e veglia. Tuttavia i tre stati hanno qualcosa in comune: non è il mondo, non è il tempo, non è la mente, non è l’individualità. Ciò che è comune è l’Ātman, il Sākṣin. Si chiama abhimāna l’identificazione con il mondo della veglia. Perché tutti sono pronti a considerare secondario lo stato di sogno? Perché c’è abhimāna con lo stato di veglia. Ossia l’identificazione con il corpo, i sensi e la mente.
Quando si guarda un oggetto rosso e poi se ne vede uno blu, la vista è sempre la stessa. Cambia solo l’oggetto. Quello che rimane comune è la vista. Quando si vede si è un vedente; quando s’ascolta si è un udente. È la coscienza che guida la mente (antaḥkaraṇa) e rende la persona un vedente o un udente. Questa capacità della mente di cogliere gli oggetti esterni si chiama vista, udito, tatto ecc. Ma si tratta sempre della coscienza. La coscienza prende consapevolezza del colore o del suono. Quando si ha consapevolezza del colore, la mente si chiama vista e quando si ha consapevolezza del suono, la si chiama udito. La vista non è indipendente dall’oggetto che vede. La vista è tale se c’è qualcosa da vedere, l’udito è tale se c’è qualcosa da ascoltare. Al di sopra di tutto c’è la coscienza, che si chiama udito o vista a seconda degli oggetti dell’udito o della vista. Il pensiero non è differenziato, è uno; sono le esperienze che lo modificano. Nella mente si ha soltanto la conoscenza del colore, del suono, del tatto ecc. La conoscenza in sé è una e si differenzia a seconda degli oggetti. I diversi colori appartengono agli oggetti, non alla vista. La vista rimane la stessa. La vista non diventa rossa quando vede un oggetto rosso. La coscienza rimane una, come quando, senza vedere, ascolta. La coscienza è indipendente da vista e udito. Queste sono come finestre aperte sul mondo. Quando le finestre sono chiuse non si vede né si ode, ma la coscienza rimane. Perciò nemmeno le finestre sono la coscienza. Anch’esse sono oggetti. I jñānendriya non sono oggetti: sono pensieri che chiamiamo facoltà di senso: è lo stato che permette di vedere il colore e di udire il suono. Se l’attenzione verso gli oggetti è ritratta, la coscienza è solo coscienza.
Ci sono cinque tipi di oggetti: gli oggetti visibili corrispondono alla vista, quelli udibili, corrispondono all’udito e così via. L’unica coscienza ha cinque stati o posture, per conoscere quegli oggetti. È come lo stare in piedi, seduto e sdraiato, che sono tre posture del corpo, pur essendo il corpo uno solo. Quando si vede il mondo si è nel mondo. Si vede il mondo attorno a sé. Quindi ci s’identifica al corpo e perciò si pone il proprio corpo al centro dello spazio. Il corpo è il punto di collocazione nello spazio. La coscienza è nel corpo e ha consapevolezza dello spazio che gli sta attorno. Per esempio, se ci si pone al centro di una sala, si ha un davanti e un dietro, una destra e una sinistra. La visione della sala è commisurata alla propria coscienza identificata al corpo. Perciò, per le caratteristiche del corpo [umano] non si vede dietro, ma solo davanti. Se si vuole vedere tutta la sala ci si deve porre al margine. Il corpo è nello spazio e lo spazio è nello stato di veglia. Lo spazio e il mondo sono una sola cosa e io vedo lì gli oggetti differenziati. Invece di vedere i singoli oggetti, si deve vedere lo stato in quanto tale. Quando si esce dal sogno, si riesce a vedere tutto lo stato di sogno. Quando ci si è distaccati dal corpo del sogno, si vede tutto il mondo del sogno. Il distacco non è nello spazio di sogno, che è indefinito, come lo è anche nella veglia. Quando si è identificati e collocati nel corpo del sogno, si è al centro del mondo del sogno. Come si fa a uscirne? Ci si deve distaccare dal corpo del sogno. Così si permea tutto lo stato del sogno. Come nell’esempio della sala. Se ci si toglie dal centro e si esce, si diventa tutta la stanza. Per uscire ci si deve identificare con tutto lo stato di sogno. Invece, identificarsi con un oggetto del sogno vuol dire entrare nel sogno. Non ci si deve identificare più con tempo, spazio e oggetti del sogno. Non ci si identifica a uno spazio né a un tempo. Ci si deve identificare con tutto, e allora lo stato di sogno diventa un attimo e scompare. Analogamente, nella veglia l’uomo comune s’identifica con il corpo. Il corpo è un punto dello spazio. La coscienza è identificata con questo punto, perciò vede il mondo tutt’intorno. La coscienza limitata al senso dell’io (ahaṃkāra), è situata in questo corpo. Se non ci fosse questa collocazione, non ci sarebbe l’io (aham). Se si toglie la collocazione rimane solo la coscienza (Caitanya). La coscienza assume una collocazione e diventa un individuo. Quando si toglie questo limite, si diventa il tutto.
Dalla veglia al sogno non c’è movimento. Se ci si continua a muovere, allora c’è spazio. Se si elimina il movimento non c’è più spazio. Il movimento tra gli stati è una idea erronea: dalla veglia al sogno e viceversa non c’è movimento. Quando ci si distacca dalla vista, udito ecc., questi non ci sono più e rimane solo la coscienza. I cinque sensi e la collocazione nel corpo sono nella coscienza. La veglia non è nel corpo. La coscienza è nel corpo o il corpo è nella coscienza? Se si colloca la coscienza nel corpo, si vede il mondo della veglia tutt’attorno. E come si è consapevoli delle cose che ci stanno attorno, si è anche consapevoli del proprio corpo. Perciò anche il corpo della veglia è nella coscienza. La coscienza della veglia non è localizzata nel corpo; il corpo è nella coscienza allo stato di veglia.
Noi abbiamo un’immagine del nostro corpo che è influenzata anche dall’apporto di altri. Ci si guarda allo specchio e si costruisce la propria immagine in base a quello che si vede. Se qualcuno non si guarda allo specchio per cinque anni, alla fine non si riconosce. La propria immagine è quella che si vede, ma è anche modificata dalle opinioni di chi ci circonda. Così la propria immagine è quella di un uomo o di una donna, giovane o vecchio, alto o basso. Ma quando si chiudono gli occhi si è solo la propria coscienza. Anche tornando indietro nel tempo con la memoria, ci si rende conto che la propria coscienza è sempre la stessa. In realtà ogni essere è un foglio di carta bianca, su cui non c’è scritto nulla. Ma comunque si è questo foglio. Le immagini sullo specchio vanno e vengono, ma lo specchio è sempre lo stesso. Perciò l’immagine del proprio corpo, la lingua che si usa, la nazionalità che si ha dalla nascita ecc. sono solo sovrapposizioni (adhyāsa). Tutto questo deve essere rimosso. Alla fine si deve risolvere il problema della collocazione del corpo. Si continua a pensare: “io sono qui”. “Qui” è nello spazio. Anche il pensiero dello spazio è nella propria coscienza quando si dice: “Io sono qui”, e poi si dice: “Io sono a Delhi”; ma la coscienza non è né qui né lì. “Qui” e “lì” sono relativi. È per il corpo che esistono “qui” e “lì”. Lo spazio è onnipervadente e per identificare la distanza di un punto se ne deve determinare un altro. Analogamente, quando ci si tocca una gamba o la testa, si ha coscienza di questo toccamento. Per la coscienza non ci sono distanze, perciò la testa toccata è non più lontana della gamba toccata o viceversa. La coscienza, infatti, pervade tutto il corpo. Ma la coscienza non è localizzata nel corpo: allorché si sono rimossi i sensi, si rimuove anche la propria immagine del corpo. Allora la coscienza è libera dalla localizzazione nel corpo. “Io sono conscio del corpo e di tutto”. La coscienza è libera dalla collocazione nel corpo. Perché il corpo e il mondo sono nella coscienza. Si è allora coscienti del mondo e del corpo. Il corpo e il mondo sono nella coscienza senza distanze. La coscienza dello stato di veglia è unica, perciò questo corpo e questo mondo stanno tutti dentro a questo stato di veglia. Senza considerare Caitanya, la dottrina della tre avasthā è del tutta inutile e non può essere utilizzata come metodo per la realizzazione (sākṣātkāra) della propria eterna Libertà.
* Dal sito Veda Vyāsa Maṇḍala: www.vedavyasamandala.com
* Dal sito Veda Vyāsa Maṇḍala: www.vedavyasamandala.com
[2] Anche gli altri esseri appaiono al soggetto conoscente solamente nel loro aspetto fisico; perciò essi gli appaiono come oggetti grossolani acit. È soltanto in seconda battuta che, per deduzione, perciò in forma indiretta, il soggetto arriverà a riconoscere anche agli altri esseri una natura altrettanto cosciente. Tuttavia, lo ripetiamo, questa non è la conoscenza diretta del mondo esterno, che è garantita soltanto dai cinque jñānendriya. [N.d.T.]
[3] Alcuni hanno obiettato a questa considerazione advitīya che nel “sogno lucido” il sognatore è consapevole di sognare. Ciò è un errore, perché il detto “sogno lucido” è una condizione alterata dello stato di veglia, paragonabile all’allucinazione, all’intossicazione, alla transe sciamanica, alla visione mistica ecc. Quando si è davvero in sogno si è parte del mondo del sogno e la veglia allora non esiste. Il sogno stesso rappresenta “la veglia” del sognatore. Di converso, quando si è in veglia, il sogno non esiste. Perciò è impossibile essere simultaneamente in veglia e in sogno. [N.d.T.]
[4] In realtà non si tratta di un ricordo: ricordo è un’esperienza conclusa in un determinato stato, che poi rimane riposta nella memoria (citta). L’esperienza passata, vissuta in stato di veglia (jāgrat avasthā), è propriamente un ricordo della veglia. Il sogno è un’esperienza compiuta nello stato di sogno (svapna avasthā), perciò non può essere un ricordo della veglia. Questo è il motivo per cui in veglia si ricorda perfettamente ciò che si è sperimentato pochi minuti, ore o giorni prima, mentre il sogno, al risveglio, sfuma in pochi secondi. Il ricordo della veglia diventa impreciso con il passare degli anni, ma è sempre possibile recuperarlo se ci si appiglia a qualche suo particolare più significativo. Perciò il recupero del sogno, quando avviene al risveglio, e la sua successiva memorizzazione, in realtà non è il sogno stesso, ma la sua ricostruzione arbitraria fatta dalla mente della veglia. La questione sul perché al momento del risveglio per qualche istante si ha ancora coscienza di quanto si stava sognando, ha la risposta in essa implicita. L’uscita dal sogno e l’entrata nella veglia passano attraverso la coscienza (Caitanya). Solo la coscienza è comune alle tre avasthā e le sperimenta come Sākṣin. [N.d.T.]
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