René Guénon, Studi sull'Induismo
VIII - Il quinto Vêda[1]
Fra gli errori specificamente moderni che spesso abbiamo avuto occasione di denunciare, uno di quelli che più direttamente si oppongono a qualsiasi comprensione vera delle dottrine tradizionali è quel che si potrebbe chiamare lo «storicismo», il quale in fondo non è se non una semplice conseguenza della mentalità «evoluzionistica»: esso consiste, in effetti, nel supporre che ogni cosa deve aver avuto gli inizi più rudimentali e grossolani, e poi, partendo di qui, aver subito un’elaborazione progressiva; cosicché questa o quell’altra concezione sarebbe apparsa in un determinato momento, e tanto più tardivamente quanto più è stimata essere d’ordine più elevato, ciò implicando che essa può essere soltanto «il prodotto di una civiltà già avanzata», secondo un’espressione che è diventata tanto abituale da essere talvolta ripetuta in modo pressoché macchinale da coloro stessi che cercano di reagire contro simile mentalità, ma hanno intenzioni soltanto «tradizionalistiche» senza possedere nessuna vera conoscenza tradizionale.
A un simile modo di vedere occorre contrapporre in modo deciso e chiaro l’affermazione che, al contrario, è all’origine che tutto ciò che appartiene alla sfera spirituale e intellettuale si trova in uno stato di perfezione dal quale non ha potuto in seguito che allontanarsi gradualmente nel corso dell’«oscuramento» che necessariamente accompagna ogni processo ciclico di manifestazione; questa legge fondamentale, che dobbiamo limitarci a ricordare senza poterci inoltrare qui in sviluppi più ampi, è evidentemente sufficiente a ridurre a nulla tutti i risultati della sedicente «critica storica». Un’altra constatazione che si può fare, è che quest’ultima comporta un fermo «partito preso» di negazione di qualsiasi elemento sovrumano, vale a dire una volontà di trattare le dottrine tradizionali come se fossero un «pensiero» puramente umano, del tutto confrontabile, sotto questo profilo, con ciò che sono la filosofia e le scienze profane; anche sotto questo aspetto nessun compromesso è possibile, e d’altronde, in realtà, è il pensiero profano che è di data recentissima, in quanto esso non ha potuto insorgere se non in quanto «prodotto di una degenerazione già avanzata», come si potrebbe dire parafrasando in senso «anti-evoluzionistico» l’espressione da noi prima citata.
Applicando queste considerazioni generali alla tradizione indù, diremo che, contrariamente alle opinioni degli orientalisti, non esiste nulla a cui si possa dare il nome di «Vêdismo», o di «Brâhmanesimo», o di «Induismo», se con queste denominazioni si intendono dottrine che avrebbero avuto origine in epoche successive e si sarebbero sostituite le une alle altre, ciascuna di esse caratterizzata da concezioni di essenza diversa da quella delle altre, se non addirittura più o meno in contraddizione con queste ultime, concezioni che si sarebbero di conseguenza formate successivamente in seguito a una «riflessione» immaginata sul modello di una mera speculazione filosofica. Tali designazioni diverse, se proprio si tiene a conservarle, devono venir considerate come denominazioni di un’unica e sola tradizione, alla quale, di fatto, esse possono tutte convenire; e si potrebbe dire, al massimo, che ognuna di esse si riferisce in modo più diretto a un determinato aspetto di tale tradizione, aspetti differenti che però sono strettamente interconnessi gli uni con gli altri e non possono in nessun modo essere presi isolatamente. Ciò risulta immediatamente dal fatto che la tradizione in questione, in linea di principio, è contenuta integralmente nel Vêda, e che di conseguenza tutto ciò che è contrario al Vêda, o non ne è derivato legittimamente, è per questa ragione stessa escluso da tale tradizione, qualunque sia l’aspetto sotto il quale esso sia preso in esame; sono così assicurate l’unità e l’invariabilità essenziali della dottrina, quali che siano gli sviluppi e gli adattamenti ai quali essa potrà dar luogo per rispondere in modo più particolare alle necessità e alle attitudini degli uomini di questa o di quell’epoca.
In effetti, dev’esser ben compreso che l’immutabilità della dottrina in sé non pone ostacoli a nessuno sviluppo e a nessun adattamento, sotto l’unica condizione che sviluppi e adattamenti siano sempre in rigorosa conformità con i principi, ma inoltre, e allo stesso tempo, che nulla di questo genere costituisca mai una «novità», dal momento che, in ogni caso, non potrà mai trattarsi d’altro che di una «esplicitazione» di quanto la dottrina implicava già da sempre, oppure anche di una formulazione delle medesime verità in termini differenti con lo scopo di renderle più facilmente accessibili alla mentalità di un’epoca più «oscura». Ciò che poteva all’inizio essere afferrato con immediatezza e senza difficoltà nello stesso principio, gli uomini delle epoche posteriori non furono più in grado di vederlo, a parte i casi eccezionali, e fu allora necessario supplire a questo difetto generale di comprensione con un dettaglio di spiegazioni e di commenti che fino ad allora non erano stati assolutamente necessari; inoltre, diventando sempre più rare le attitudini a pervenire direttamente alla conoscenza pura, occorse che si aprissero altre «vie» con la messa in opera di mezzi sempre più contingenti, seguendo in qualche modo, per rimediare nella misura del possibile, la «discesa» che di età in età andava effettuandosi lungo il percorso del ciclo dell’umanità terrestre. Di conseguenza, si potrebbe dire, questa ricevette, per raggiungere i suoi fini trascendenti, facilitazioni tanto più grandi quanto maggiormente si abbassava il suo livello spirituale e intellettuale, al fine di salvare tutto quel che poteva ancora essere salvato, tenendo conto delle condizioni inevitabilmente determinate dalla legge del cielo.
È in grazia di queste considerazioni che si può capire veramente quale posto occupi nella tradizione indù tutto ciò che viene abitualmente indicato con il nome di «Tantrismo», in quanto rappresenta l’insieme degli insegnamenti e dei mezzi di «realizzazione» più particolarmente appropriati alle condizioni del Kali-Yuga. Sarebbe perciò del tutto errato vedere in esso una dottrina a parte, e a maggior ragione un qualsivoglia «sistema», come troppo volentieri fanno sempre gli Occidentali; in realtà si tratta piuttosto di uno «spirito», se così ci si può esprimere, che in modo più o meno diffuso penetra tutta la tradizione indù nella sua forma attuale, per modo che sarebbe pressoché impossibile attribuirgli, all’interno di quest’ultima, limiti precisi e ben definiti; e quando si pensi che l’inizio del Kali-Yuga risale molto al di là dei tempi cosiddetti «storici», si dovrà riconoscere inoltre che l’origine stessa del Tantrismo, lungi dall’essere così «tarda» come qualcuno pretende, sfugge necessariamente ai mezzi limitati di cui dispone l’investigazione profana. E inoltre, quando qui parliamo di origine, e la facciamo coincidere con l’origine stessa del Kali-Yuga, anche questo è vero solo per metà; ossia, più precisamente, ciò è vero soltanto a condizione di specificare che si tratta unicamente del Tantrismo come tale, vogliamo dire del Tantrismo in quanto espressione o manifestazione esteriore di qualcosa che, come tutto il resto della tradizione, esisteva fin dal principio nel Vêda, anche se non fu formulato in modo più esplicito e sviluppato nelle sue applicazioni se non quando le circostanze divennero tali da esigerlo. Si vede perciò come qui occorra tener conto di un duplice punto di vista: da un lato si può ritrovare il Tantrismo fin nel Vêda, giacché esso vi è incluso principialmente, sennonché esso non può venire nominato in modo proprio, in quanto aspetto distinto della dottrina, se non a partire dal momento in cui fu «esplicitato» per le ragioni da noi indicate, ed è in questo secondo senso soltanto che esso dev’essere considerato tipico del Kali- Yuga.
La denominazione di questo tipo di dottrina deriva dal fatto che gli insegnamenti che ne costituiscono il fondamento sono espressi in trattati che portano la dizione generica di Tantra, nome che è in rapporto diretto con il simbolismo della tessitura di cui abbiamo parlato in altre occasioni, giacché, in senso proprio, Tantra è l’«ordito» di un tessuto; sempre in altri studi abbiamo già fatto osservare che in diverse tradizioni si trovano parole di ugual significato applicate ai Libri sacri. Spesso i Tantra sono interpretati come se costituissero un «quinto Vêda», destinato in modo particolare agli uomini del Kali-Yuga; e ciò sarebbe totalmente privo di giustificazione se essi non fossero, come abbiamo spiegato poco fa, derivati dal Vêda ‑ inteso nella sua accezione più rigorosa ‑ a titolo di adattamento alle condizioni di un’epoca determinata. È importante aver presente il fatto che il Vêda è uno, da un punto di vista principiale e in qualche modo «intemporale», prima di essere diventato triplice, poi quadruplo, nella sua formulazione; se può essere anche quintuplo nell’età attuale, a motivo degli sviluppi supplementari richiesti da facoltà di comprensione meno «aperte» e non più capaci di esercitarsi direttamente anche nella sfera dell’intellettualità pura, è evidente che ciò non influirà maggiormente sulla sua unità originaria, la quale è essenzialmente il suo aspetto «perpetuo» (sanâtana), indipendentemente perciò dalle condizioni particolari di qualsivoglia epoca.
La dottrina dei Tantra non è perciò, né può essere altro, che uno sviluppo normale, secondo certi punti di vista, di quel che è già contenuto nel Vêda, giacché è in virtù di questo, e in virtù di questo soltanto, che essa può essere, come di fatto è, parte integrante della tradizione indù; e, per quanto riguarda i mezzi di «realizzazione» (sâdhana) prescritti dai Tantra, si può affermare parimenti che, per le stesse ragioni, essi siano legittimamente derivati dal Vêda, poiché non sono in fondo se non l’applicazione e la messa in opera effettiva di questa stessa dottrina. Se tali mezzi, ‑ fra i quali bisogna naturalmente comprendere, che sia a titolo principale o anche semplicemente accessorio, i riti di qualsiasi genere ‑, sembrano però avere un certo carattere di «novità» rispetto a quelli che li hanno preceduti, la ragione ne è che in epoche anteriori non era necessario adottarli, se non forse a solo titolo di pura possibilità, considerando che gli uomini non ne avevano allora alcun bisogno, disponendo di altri mezzi che meglio convenivano alla loro natura. Si tratta di qualcosa che è del tutto comparabile con lo sviluppo speciale di una scienza tradizionale in questa o quell’altra epoca, sviluppo che anch’esso non costituisce affatto un’«apparizione» spontanea o una «innovazione» qualsivoglia, giacché, anche in questo caso, non può mai trattarsi realmente se non di un’applicazione dei principi, di qualcosa, perciò, che aveva in essi una preesistenza almeno implicita, preesistenza che di conseguenza era sempre possibile rendere esplicita in qualsiasi momento, presupponendo, però, che esistesse qualche ragione per farlo; sennonché, precisamente, tale ragione non si trova di fatto che nelle circostanze contingenti che condizionano una determinata epoca.
Adesso, che i riti propriamente «vêdici» ‑ intendiamo dire tali e quali essi erano «al principio» ‑ non siano più praticabili attualmente, è quel che risulta anche troppo chiaramente dal fatto stesso che il soma, che ha in essi un ruolo capitale, è perduto da un tempo che è impossibile valutare «storicamente»; e sia chiaro che, quando parliamo del soma, esso deve essere inteso rappresentare tutto un insieme di cose la cui conoscenza, inizialmente manifesta e accessibile a tutti, è diventata nascosta nel corso del ciclo, per lo meno per la comune umanità. Era dunque necessario che da quel momento si dessero, per queste cose, dei «succedanei», i quali non potevano necessariamente trovarsi se non in una sfera inferiore alla loro, ciò che equivale a dire che i «supporti» grazie ai quali una «realizzazione» si mantenne possibile divennero sempre più «materializzati» da un’epoca all’altra, conformemente alla marcia discendente dello sviluppo ciclico; un rapporto come quello che esiste tra il vino e il soma, riferendosi al loro uso rituale, potrebbe fornire un esempio simbolico. Simile «materializzazione» non deve però essere semplicemente intesa nel senso più limitato e più corrente della parola; nel modo in cui noi la prendiamo in esame si può dire che essa incominci a prodursi da quando si esce dalla conoscenza pura, che sola è anche la pura spiritualità; il richiamo a elementi di tipo sentimentale o volitivo, ad esempio, non è uno dei segni minori di una «materializzazione» simile, quand’anche tali elementi siano usati in modo legittimo, vale a dire siano intesi soltanto come mezzi subordinati a uno scopo che rimane sempre la conoscenza, giacché, se le cose così non stessero, non si potrebbe più in nessun modo parlare di «realizzazione», ma soltanto di una deviazione, di un simulacro o di una parodia, tutte cose che, è ovvio, sono rigorosamente escluse dall’ortodossia tradizionale, qualunque ne sia la forma e a qualsiasi livello quest’ultima possa essere considerata.
Le ultime cose che abbiamo detto si applicano esattamente al Tantrismo, la cui «via» appare in generale più «attiva» che «contemplativa», ovvero, in altri termini, come situantesi più dal lato della «potenza» che non da quello della conoscenza; e un fatto particolarmente significativo. sotto questo aspetto, è l’importanza che esso dà a quella che viene chiamata la «via dell’eroe» (vîra-mârga). È evidente che Vîrya, termine che equivale al latino virtus, per lo meno nell’accezione che quest’ultimo possedeva prima che gli Stoici lo travisassero in senso «morale», esprime propriamente la qualità essenziale e in certo qual modo «tipica», non del Brâhmana, ma dello Ksatriya; e il vîra si distingue dal pashu, ossia dall’essere assoggettato ai vincoli dell’esistenza comune, non tanto per una conoscenza effettiva quanto per una affermazione volontaria di «autonomia», la quale, in questo stadio, può ancora, secondo l’uso che ne farà, tanto allontanarlo dallo scopo quanto condurlo ad esso. In effetti, in questo caso il pericolo è che la «potenza» sia ricercata per se stessa e in tal modo diventi un ostacolo invece di essere un appoggio, e che l’individuo giunga a considerarsi come il suo proprio fine; ma è evidente che ciò non rappresenta se non la deviazione e l’abuso, i quali non possono mai essere che il frutto di una mancata comprensione di cui la dottrina non potrebbe essere assolutamente ritenuta responsabile; e, per di più, quel che diciamo riguarda solo la «via» in quanto tale, e non il fine, il quale in realtà ‑ ci teniamo a ripeterlo ‑ è sempre lo stesso e in nessun caso può essere diverso dalla conoscenza, giacché non è che in virtù di questa e in questa che l’essere si «realizza» veramente in tutte le sue possibilità. Non è tuttavia men vero che i mezzi forniti per raggiungere questo fine sono «segnati», come è inevitabile che siano, dai caratteri specifici del Kali-Yuga: ci si ricordi, a tal proposito, che la parte sostenuta dall’«eroe» è sempre e dappertutto interpretata come una «ricerca», ricerca che, se può essere coronata dal successo, rischia però anche di risolversi in uno scacco, e la «ricerca» stessa presuppone del resto, quando compare l’«eroe», che qualcosa sia andato perduto anteriormente e che è suo compito ritrovare; questo compito, adempiuto il quale il vîra diventerà divya, potrà, se si vuole, essere definito come la ricerca del soma o della «bevanda di immortalità» (amrita), ciò che è, dal punto di vista simbolico, l’equivalente esatto di quella che in Occidente fu la «ricerca del Graal»; e con il ritrovamento del soma la fine del ciclo si ricongiunge con il suo inizio, nell’«intemporalità».
Nessun commento:
Posta un commento