Recensione a ‘Abd ar-Razzāq Yahyā (Charles-André Gilis):
La fanciulla di nove anni, seguito da uno studio sullo Zolfo Rosso
Caprara di Campegine, Edizioni
Orientamento/Al-Qibla, 2012. ISBN 978-88-89795-14-9. Pp. 128.
Lo scopo dichiarato di
questa brossura pubblicata in italiano appare a prima vista stimolante.
L’Autore intende trovare dei parallelismi fra tre diverse tradizioni, quella śākta,
quella della Fede Santa e quella dell’Islam su un simbolismo tra loro in
comune: la fanciulla di nove anni.
Le pagine che riguardano la Fede Santa
descrivono alcune esperienze iniziatiche di Dante tratte dalla Vita Nova,
particolarmente interessanti. Si tratta delle due visioni che Dante ebbe di
Beatrice come fanciulla di nove e diciott’anni (ma non di sedici!) che
corrispondono a due tappe della realizzazione spirituale del Poeta, chiaramente
riconoscibili in chiave tantrica. Acuta e calzante la comparazione con i due
sogni che Muhammad ebbe di ‘Aysha, anche se in questo caso l’apparizione è
invertita, in quanto non si capisce come la visione in sogno della propria
futura moglie avrebbe potuto segnare un percorso interiore del Profeta
dell’Islam. Probabilmente la ragione è che mentre la Vita Nova è un trattatello
iniziatico, le visioni di Muhammad sono narrate in tradizioni (ahadith)
rivolte anche al grande pubblico.
Come vedremo, il vero
intento di una simile pubblicazione è alquanto diverso da quello che appare. La
sua causa occasionale consiste nella “trasmissione all’Islam, per via di eredità
spirituale, di insegnamenti tradizionali provenienti dall’Induismo” (ibid p.
5). Che ciò sia possibile è fuori di dubbio: trasmissioni di questo tipo sono
avvenute diverse volte, anche nel senso inverso, dal sufismo a una qualche
corrente iniziatica hindū. Questo è certamente accaduto in India, dove
le due tradizioni convivono da secoli (ahimé, raramente in modo pacifico!).
Tutto prende inizio da quanto tale Sig. Jean Emanuelli avrebbe confidato in via
riservata all’Autore a proposito di Lalitā, nome supremo della Dea nella
tradizione iniziatica śākta nota come Śrī Vidyā. E qui le cose si
fanno poco chiare. Infatti Emanuelli sarebbe stato iniziato a quella via
iniziatica a Benares da un guru di nome Srî Siddheswar. Naturalmente
l’accadimento di tale contatto con un personaggio di “livello così elevato” e
la conseguente iniziazione sono definiti “provvidenziali” ed “eccezionali”.
Questo guru aveva ricevuto due influenze spirituali: la prima,
misteriosa, che naturalmente Gilis attribuisce alla “funzione universale di
al-Kidr”; l’altra da un maestro proveniente dall’India del Sud, Srî Vireshwar
che, migrato a Benares, a nove anni raggiunse la jīvan mukti. Poiché era
diventato un liberato in vita, gli apparve la Dea Lalitā come una bimba di nove
anni che gli confidò un nuovo metodo iniziatico. Vireshwar aveva completato la
sua realizzazione ripetendo il bāla mantra, che si compone di tre bīja
mantra (mantra seminali), ciascuno dei quali composto da tre
lettere. Tre per tre, anche in India, fanno nove. Questo spiega il simbolismo
dei nove anni d’età della Dea. Durante la visione, ella gli rivelò una decima
lettera (akṣara) onde perfezionare il metodo già usato. Infine, alla sua
morte, tra tutti i suoi discepoli il guru scelse, proprio il Sig.
Emnuelli come successore. Davvero straordinario!
Ora tutto questo può
ingannare chiunque sia a digiuno di Śrī Vidyā. Ma il racconto
meraviglioso non corrisponde alla dottrina e al metodo di questa via
iniziatica, che rappresenta l’eccellenza intellettuale dell’intero Tantrismo e
che perciò è di una chiarezza davvero cristallina. Andiamo per ordine: nella
tradizione di Śrī Vidyā e in altre vie tantriche in cui la Dea è
menzionata, Lalitā è sempre canonicamente rappresentata come una sedicenne
(anche se, per ragioni contingenti, possa essere descritta di tre, cinque, nove
o undici anni, soprattutto presso discepoli di origine tribale). Lo Śrī
Vidyā mantra, ossia il mantra più elevato di questo metodo, è
composto da quindici bīja mantra e per questo è chiamato pañcadaśi
mantra. L’upāsaka che ha raggiunto la completa conoscenza permessa
dal pañcadaśi, ottiene la visione di Lalitā sedicenne (ṣoḍaśi)
che gli confida sottilmente un sedicesimo bīja mantra; e questo spiega
il simbolismo dei sedici anni. Con questo ṣoḍaśi mantra l’iniziato potrà
raggiungere la conoscenza totale della Dea. Il bāla mantra di cui parla
il Sig. Emanuelli è solo un mantra intermedio (ciò non significa che per
individui particolarmente qualificati esso non possa essere sufficiente):
dunque il racconto dell’aggiunta di un decimo akṣara, tramite la
miracolosa visione di Lalitā ricevuta da Srî Vireshwar, è malamente ricalcato
sulla tradizionale trasmissione sottile del sedicesimo bīja mantra. C’è
ancora da considerare un altro grave nonsense in tutto ciò: se Srî
Vireshwar era un jīvan mukta, come avrebbe potuto avere una visione?
Come può Brahman avere la visione di altro da Sé?
Ma c’è di più. Svāmī Karapātrījī,
negli anni ‘40 del secolo scorso, aveva constatato che nell’India
settentrionale i kula (sampradāya) di Śrī Vidyā erano
estinti da secoli. Pur essendo già un saṃnyāsin celebre per
autorevolezza nel Vedānta, decise di recarsi a Śṛngerī per ricevere la
trasmissione di Śrī Vidyā. In questo modo riportò al Nord
quell’iniziazione inserendola nell’insegnamento vedāntico negli Śaṃkara Pīṭha
di Dvāraka e di Jyotirmāṭha. Egli stesso la insegnò nel suo āśrama di
Benares: di questa linea di trasmissione rimangono oggi a Benares due sedi:
presso il Śaṃkara Māṭha e lo Śrī Vidyā Pīṭha. Ebbene, nessuno dei
loro rappresentanti ha mai sentito parlare di tali celebrati guru Srî
Vireshwar e Srî Siddheswar operanti a Benares negli ultimi decenni, tanto meno
di un successore francese al loro gurutva, dato che in Śrī Vidyā,
come in tutte le vie iniziatiche regolari hindū, i maestri sono
rigorosamente brāhmaṇa per nascita: persino Rāma e Kṛṣṇa, avatāra di
Viṣṇu, insegnarono, concessero mantra, diedero consigli, ma non diedero
mai un’iniziazione perché di casta kṣatriya. Questo è il grande
vantaggio del sistema delle caste rispetto all’uniformità egualitaria dei
monoteismi. Infatti, nell’Induismo, poiché le caste sono superate solo da
coloro che diventano ativarṇāśrami, ossia che hanno raggiunto lo stato
primordiale, c’è la garanzia che la funzione di guru rimanga saldamente
in mani sacerdotali.
Ci è stato fatto notare,
inoltre, che nessun guru si farebbe chiamare in quel modo, poiché tutti
hanno il nome proprio seguito dal suffisso “-ānanda Nāṭha”, come si può
verificare nella Galleria dei nostri maestri in questo Sito Web. Inoltre, da
ciò che il Sig. Gilis pubblica di quanto il Sig. Emanuelli gli ha confidato, è
difficile trarre un autentico insegnamento di Śrī Vidyā. Gli
strafalcioni nei termini sanscriti citati, la ripetizione di termini
“metafisica” (l’abuso di tale parola “evocativa” presso i “guénoniani” è
davvero insopportabile: c’è persino chi afferma l’esistenza di “riti
metafisici”, senza accorgersi dell’incompatibilità di natura tra azione e
conoscenza!), “provvidenziale”, “eccezionale”, la buffa concezione che il
Tantrismo rappresenti la vetta del Sanātana Dharma e della Śruti,
quando si tratta di un adattamento della tradizione per l’umanità decaduta del kali
yuga, ci ha indotti a pensare che fossero frutto della totale ignoranza
della tradizione hindū da parte del Sig. Gilis. Perciò abbiamo voluto
accertarci delle conoscenze che l’Emanuelli avrebbe ricevuto dal suo “guru”,
leggendo i due magri libelli che costui ha scritto in tanti anni
d’insegnamento: Propos sur le Tantra e Hayagrīva. Cou de cheval (pubblicati
a Milano per Archè, 1983, 2010). Abbiamo dovuto ricrederci: il Sig. Gilis,
almeno in questo, non c’entra affatto. Le confusioni, gli errori e la mancanza
di dottrina sono imputabili solo al Sig. Emanuelli. È, inoltre, sintomatico che
egli non citi mai come fonte e ignori del tutto i due testi su cui poggia
l’intera dottrina di Śrī Vidyā: il Tripurārahasya e la Bhāvaṇa
Upaniṣad, con i loro commenti tradizionali (soprattutto quello di
Bhāskararāya) e gli Śrī Lalitā Sahasranāma. Le sue due uniche fonti sono
Arthur Avalon e René Guénon. Quest’ultimo, inoltre, pur conoscendo bene l’Induismo,
in tutta la sua opera ha del tutto ignorato la dottrina di Śrī Vidyā.
Non vogliamo procedere oltre su questo versante per esercitarci nella karuṇā.
Rimane un interrogativo:
perché il Sig. Gilis ha pubblicato questo libriccino, decidendo di procedere
imprudentemente su questo terreno minato senza avere alcuna competenza? La
risposta si trova all’inizio della Postfazione dell’editore: “Solamente un
musulmano retto e integro, ricollegato al Tasawwuf e al contempo fedele agli
insegnamenti di Guénon (di cui era diretto e vero discepolo, intendendo questa
parola nel senso profondo di ‘colui che veramente apprende’) poteva avere
l’intuizione che sta all’origine del presente libro sul simbolismo della
fanciulla di nove anni. Parliamo di Michel Vâlsan...” (p. 93). Lo scopo dunque
è chiaro: la celebrazione di Vâlsan e delle sue teorie sulla “funzione
dell’Islam” alla fine dei tempi, basata su una lettura viziata dell’articolo di
Guénon “Le mystère de la lettre Nûn” (Études Traditionnelles,
août-septembre 1938); “funzione” che poi sarebbe quella distruttiva di
fagocitare e abrogare tutte le altre tradizioni. Per raddrizzare quanto
l’editore afferma, vogliamo puntualizzare che Vâlsan fu “diretto e vero
discepolo” soltanto di Frithjof Schuon, che non senza ragione abbandonò... per
poi autoproclamarsi Shaykh! Invece Guénon ha sempre protestato di non
avere discepoli, poiché di fatto non fu mai un Shaykh at-Tariqa. Ma i “guénoniani”,
così rigorosi e letteralisti, non tengono nemmeno d’acconto le affermazioni di
Guénon quando disturbano le loro credenze o le teorie vâlsaniane. Comunque sia,
Vâlsan, che ha fatto dell’articolo summenzionato una sorta di testo rivelato,
lo seppe distorcere a puntino per avvalorare la sua propria “funzione”,
soprattutto nell’ambito del cosiddetto “raddrizzamento finale” del ciclo. E i
suoi proseliti e gregari continuano ancor oggi a leggere l’articolo di Guénon
senza accorgersi dell’infedeltà dell’interpretazione vâlsaniana. Tanto può la
fede cieca degli esteriori!
Andiamo per ordine: in
quell’articolo Guénon afferma che la nun araba corrisponde alla metà
inferiore “terrestre” dell’Uovo del Mondo e alla na sanscrita la metà
superiore “celeste”. A qualcuno è mai venuto in mente di capire che questa
distinzione è in relazione con la complementarietà di conoscenza e azione? Se è
così, chi è davvero tradizionale dovrà riconoscere la supremazia della
conoscenza sull’azione, anche se l’Induismo non ha mai avuto l’arroganza di
imporlo ad altri. Non per nulla al Sanātana Dharma corrisponde il cielo
e all’Islam la terra. Perciò non è affermata nessuna egemonia islamica
sull’Induismo, ma piuttosto il contrario. Di seguito Guénon aggiunge che la
giunzione tra queste due componenti tradizionali dell’Uovo del Mondo deve
operarsi nel “mondo intermediario”, cioè al di fuori della dimensione
grossolana, essendo ciò impossible “dans le monde inférieur, qui est le domaine
de la division et de la ‘séparativité’...” Infatti prosegue affermando che
“l’accomplissement du cycle, tel que nous l’avons envisagé, doit avoir une
certaine corrélation, dans l’ordre historique, avec la rencontre des deux
formes traditionnelles qui correspondent à son commencemente et à sa fin...”.
Questo incontro deve forzatamente avvenire in India, poiché l’Induismo non ha
mai invaso territori di altre tradizioni, come invece continuano a fare i
musulmani. Ed è chiaro che questo dominio è quello della separatività. Non per
nulla in questo caso Guénon usa la parola “incontro” invece di “giunzione”,
come quando parlava dell’ambiente intermediario. Forse sarebbe stato più
appropriato che avesse usato il termine “scontro”, considerando il
comportamento della shariya in India, con il beneplacito o la complicità
delle turuq locali, esempio di “matta bestialità” paragonabile solo
all’azione antitradizionale del comunismo e del missionarismo delle diverse
confessioni cristiane. Guénon, poi, precisa che il Sanātana Dharma rappresenta
l’eredità più diretta della Tradizione primordiale, mentre l’Islam deve
accontentarsi di essere riconosciuta l’ultima forma dell’ortodossia
tradizionale per il ciclo attuale (secondo Vâlsan e i vâlsaniani anche l’Islam
rappresentebbe in qualche modo la Tradizione primordiale, come se Abramo e la
sua tradizione d’origine atlantidea risalissero al satya yuga!). Se una
giunzione deve prodursi in futuro, certamente dobbiamo constatare che quei
tempi sono ancora a venire, essendo l’Islam di oggi ben lontano da
rappresentare una reale “forma di ortodossia tradizionale”. Infatti l’Islam di
oggi piuttosto che svolgere un’azione di raddrizzamento “terrestre”, appare
piuttosto come la causa di “sconvolgimenti etnici e sociali” in India,
nell’Occidente e ovunque sia presente, senza però nessuna guida da parte di
alcuna élite orientale. È perciò necessario che il vero tasawwuf ritorni
a essere la haqīqah dell’Islam e che riprenda il controllo del suo
essoterismo: “el-haqîqah, c’est a dire la “verité” interieure, reservée à
l’élite [...] qui donne à la shariyah même son sens supérieur et profond et sa
vraie raison d’être, de sorte que, bien que tous ceux qui participent à la
tradition n’en soient pas concients, elle en est le veritable principe.” (R.
Guénon, “L’ésotérisme islamique”, Cahiers du Sud, 1947, pp. 153-154).
Non è tramite l’intensificazione della shariya che le turuq raggiungeranno
questo scopo, ma facendo risorgere i suoi studi metafisici e la contemplazione
conseguente, decisamente scarsi da decine d’anni.
Alla luce di queste
considerazioni si può comprendere appieno la ragione di pubblicare La
fanciulla di nove anni: infatti il Sig. Emanuelli ebbe modo di incontrare
Vâlsan e i due “maestri” si riconobbero reciprocamente. Il Sig. Gilis si fece
eco di questo incontro lasciando intendere che questa fosse la famosa giunzione
tra Islam e Induismo (a trazione islamica, ovviamente), come se Vâlsan
rappresentasse l’Islam, ed Emanuelli l’Induismo. Solamente dei ciechi guidati
da un cieco possono accettare fideisticamente una tale mistificazione.
C’è un altro particolare
allarmante in una nota della postfazione (p. 112, n. 15): “Utilizziamo per
comodità la definizione di ‘esoterismo’, anche se ci rendiamo conto che termini
come ‘esoterismo ed ‘exoterismo’ (sic.) non possono ‘sovrapporsi’ precisamente
alla cotituzione reale dell’Islam, che se conosciuta a fondo rivela un deciso
carattere ‘unitario’” Avevamo già notato presso alcuni vâlsaniani questa
tendenza a compattare esoterismo ed essoteriamo islamico in un tutt’uno, che si
traduce poi in una “sharaitizzazione” del sufismo. Evidentemente Guénon non
conosceva “a fondo” l’Islam quando scriveva: “De toutes les doctrines
traditionnelles, la doctrine islamique est peut-être celle où est marquée le
plus nettement la distinction de deux parties complémentaires l’une de l’autre,
que l’on peut désigner comme l’exotérisme et l’ésotérisme” (Guénon, ibid.)
Con la spudorata
menzogna per cui non sarebbe possibile per gli occidentali ricevere
un’iniziazione hindū a eccezione di quella tantrica (però Gilis si affretta
ad aggiunge che “questa era una possibilità che esisteva sino a qualche anno
fa, mentre oggi è praticamente estinta”! Ibid. p. 82 n. 96), questi ambienti
direttamente o indirettamante vâlsaniani cercano d’evitare una temuta
concorrenza. Invece il Sanātana Dharma, che non fa proselitismo, non
crea succursali fuori dell’India né vuol fare concorrenza ad ambienti del
genere, che si dedica solo a insegnare conoscenza a chi ne è sinceramente
attratto, è del tutto grato ai muqqaddam o shuyukh fai-da-te che
pullulano in l’Europa. Infatti essi svolgono un importante ruolo di filtraggio,
trattenendo nelle loro conventicole i “guénoniani” squalificati che potrebbero
andare a inquinare le autentiche vie iniziatiche.
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