"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 30 marzo 2021

René Guénon, Studi sull’Induismo - Recensioni di libri sull’Induismo I

René Guénon, Studi sull’Induismo I

Recensioni di libri sull’Induismo
Recensioni di libri sull’Induismo pubblicati dal 1929 al 1950 sulla rivista «Le Voile d’Isis», diventata «Études Traditionnelles» nel 1937

1929
Les Religions et les Philosophies dans l’Asie Centrale
S. Radhakrishnan: L’Hindouisme et la Vie,
François Arouet: La fin d’une parade philosophique: le Bergsonisme.
1932
R.P.G. Dandoy, S.J.: L’Ontologie du Vêdânta
1933
Henry Valentino: Le voyage d’un pélerin chinois dans l’Inde des Bouddhas
1935
Hari Prasad Shastri: Teachings from the Bhagawadgita: translation, introduction and comments
Hari Prasad Shastri: The Avadhut Gita: translation and introduction
Paul Brunton: A search in secret India
Hari Prasad Shastri: Book of Ram, the Bible of India by Mahâtma Tulsidas rendered into English
Ananda K. Coomaraswamy: The darker Side of Dawn
Ananda K. Coomaraswamy: The Rig-Vêda as Land-Náma Bók
Shrî Ramana Maharshi: Five Himns to Shrî Arunachala


1929

Les Religions et les Philosophies dans l’Asie Centrale[1]. È certo un’idea eccellente quella di aver ripubblicato una delle opere più interessanti del conte De Gobineau, scrittore rimasto finora troppo poco conosciuto in Francia; certo di lui si parla molto, per lo meno da qualche tempo, ma quasi sempre senza averlo letto. Tutto l’opposto accade in Germania, dove per scopi politici vengono sfruttate le sue teorie sulle razze, teorie che possono contenere una parte di verità, ma mescolata a molta fantasia. L’idea di un «indo-germanesimo» non sopporta un esame approfondito, poiché tra l’India e la Germania non c’è assolutamente nulla in comune, né dal punto di vista intellettuale né da qualsiasi altro punto di vista. Ciò nonostante, le idee del conte De Gobineau, anche quando sono false o chimeriche, non sono mai indifferenti; esse possono sempre fornire materia per la riflessione, ed è già molto, quando dalla lettura di tanti altri autori non si trae che un’impressione di vuoto.
In questo caso, però, non si tratta tanto di teorie, quanto di fatti, che l’autore ha potuto conoscere abbastanza direttamente nel corso dei viaggi da lui fatti in Persia. Il titolo potrebbe indurre in errore sul contenuto del libro: non vi si tratta assolutamente delle regioni abbastanza varie che si riuniscono abitualmente sotto il nome di Asia Centrale, ma unicamente della Persia; e le «religioni e filosofie» di cui si parla si riducono tutto sommato alle forme più o meno speciali assunte dall’Islàm in questo paese. La parte principale e centrale del libro è costituita dalla storia di quell’eresia musulmana che fu il Bâbismo [o Babaismo]; ed è utile leggere tale storia per vedere quanto poco il Bâbismo rassomigli alla sua pretesa continuazione, intendiamo dire a quell’«adattamento» sentimentale e umanitario che ne è stato fatto, sotto la dicitura di Behaismo, a uso degli Occidentali, e particolarmente degli Anglosassoni. Questa parte è incastonata tra altre due, di cui la prima contiene alcune considerazioni generali sull’lslàm persiano, mentre la terza è dedicata al teatro in Persia; l’interesse che presenta quest’ultima risiede soprattutto nel fatto che essa mostra chiaramente come, in questo caso così come in quello della Grecia antica, e come nel medio evo europeo, le origini del teatro siano essenzialmente religiose. Noi pensiamo anzi che tale constatazione potrebbe essere ulteriormente generalizzata, ed è certo che su questo tema ci sarebbe molto da dire; la creazione di un teatro «profano» appare in certo qual modo come una deviazione o una degenerazione; e non si potrebbe forse dire qualcosa di analogo per tutte le arti?
Quanto alle considerazioni generali dell’inizio, esse richiederebbero di essere discusse molto più diffusamente di quanto possiamo pensare di far qui; ci dobbiamo contenere alla segnalazione di qualcuno dei punti più importanti. Una delle affermazioni più contestabili è quella che tende a spiegare le particolarità dell’Islàm in Persia come se fossero una specie di sopravvivenza dei Mazdeismo; per quanto ci riguarda, noi non vediamo nessuna traccia un po’ precisa di simile influenza, la quale rimane puramente ipotetica e persino piuttosto inverosimile. Le particolarità in questione si spiegano a sufficienza con le differenze etniche e mentali esistenti tra i Persiani e gli Arabi, così come quelle che si trovano nell’Africa del Nord si possono spiegare con i caratteri propri alle razze berbere; l’Islàm, molto più «universalista» di quanto si creda comunemente, porta in sé la possibilità di simili adattamenti, senza che ci sia bisogno di tirare in ballo infiltrazioni straniere. Del resto, la divisione dei Musulmani in Sunniti e Shiiti è ben lontana dal possedere il rigore che le attribuiscono le concezioni semplicistiche diffuse in Occidente; lo Shiismo ha molte gradazioni; esso è così lontano dall’essere esclusivamente proprio della Persia da poter far dire che, in un certo senso, tutti i Musulmani più o meno sono Shiiti; questo, però, ci porterebbe a sviluppi troppo estesi. In quanto al Sufismo, vale a dire all’esoterismo islamico, esso esiste sia presso gli Arabi sia presso i Persiani e, nonostante le affermazioni dei «critici» europei, si ricollega alle origini stesse dell’Islàm: in effetti, si dice che il Profeta insegnò la «scienza segreta» ad Abu-Bakr e ad Alì, ed è da questi ultimi che le differenti scuole derivano. In linea generale, le scuole arabe fanno risalire la loro origine soprattutto ad Abu-Bakr, e le scuole persiane ad Alì; e la differenza principale è che, in queste ultime, l’esoterismo riveste una forma più «mistica», nel senso che la parola ha preso in Occidente, mentre nelle prime esso rimane più puramente intellettuale e metafisico; anche qui, le tendenze di ciascuna razza bastano per dar ragione di una simile differenza, la quale, d’altronde, è molto più nella forma che nel fondo vero e proprio dell’insegnamento, per lo meno finché questo si mantiene conforme all’ortodossia tradizionale.
Adesso, ci si potrebbe chiedere fino a qual punto il conte De Gobineau fosse pervenuto a penetrare lo spirito orientale; certamente egli fu quel che si può chiamare un buon osservatore, ma non crediamo di essere ingiusti nei suoi confronti se diciamo che restò sempre un osservatore «dall’esterno». Per esempio, egli ha notato che gli Orientali passano facilmente da una forma dottrinale all’altra, adottando questa o quella secondo le circostanze; ma non ha visto in ciò che l’effetto di una propensione alla «dissimulazione». Che in certi casi la prudenza imponga effettivamente una sorta di dissimulazione, o quel che potrebbe passare per tale, è cosa innegabile, e più di un esempio si potrebbe trovarne anche al di fuori dell’Oriente; il linguaggio di Dante e di altri scrittori del medio evo ne fornirebbe in abbondanza, sennonché per fatti di questo genere c’è anche una ragione del tutto diversa, d’ordine molto più profondo, la quale sembra sfuggire completamente agli Occidentali moderni. La verità è che simile distacco dalle forme esteriori comporta sempre, per lo meno a un certo grado, la coscienza dell’unità essenziale che si nasconde sotto la diversità di tali forme; si tratta di ben altro che di un’ipocrisia la quale, in simili condizioni, non può più esistere, neanche là dove l’osservatore superficiale ne scopra l’apparenza, poiché passare da una forma a un’altra non ha più in tal caso maggiore importanza che cambiar di vestito secondo i tempi o i luoghi, o parlare lingue differenti secondo gli interlocutori con i quali si ha a che fare. Questo, il conte De Gobineau non l’ha certo capito, e del resto non è il caso di fargliene carico; ma un libro che solleva problemi del genere, quand’anche all’insaputa del suo autore, non può essere un libro indifferente, ed è la giustificazione di quel che dicevamo all’inizio, e cioè che in esso si può sempre trovare qualcosa su cui riflettere; il che è, dopo tutto, il profitto più grande che una lettura possa, e debba, procurarci.
S. Radhakrishnan: L’Hindouisme et la Vie, traduzione a cura di P. Masson-Oursel. L’Oriente che viene presentato agli Occidentali, spesso non ha se non rapporti assai lontani con l’Oriente vero, e ciò anche quando la presentazione sia fatta da persone che tuttavia sono Orientali di nascita, ma più o meno completamente occidentalizzate. È il caso di questo libretto; le opinioni «critiche» degli eruditi europei, insieme alle tendenze del protestantesimo anglosassone, con il suo «moralismo» e la sua «esperienza religiosa», occupano certamente un posto ben più grande dell’induismo ortodosso nelle idee dell’autore, il quale sembra saper ben poco dello spirito tradizionale; e ciò non desta sorpresa in chi conosca il movimento «riformista» dei «Servitori dell’India» con il quale egli è immischiato. È particolarmente sgradevole il fatto che un lavoro come questo sia firmato con un nome indù, perché ciò rischia molto di indurre in errore il pubblico non competente e può contribuire a inculcargli ogni sorta di concezioni false. La parte migliore, o piuttosto la meno peggiore, è quella che, verso la fine, tratta dell’istituzione delle caste; a ogni buon conto le ragioni profonde di quest’ultima sono lungi dall’evidenziarsi in modo netto. La traduzione è a tratti molto difettosa: ad esempio, a p. 34, in francese non si dice «les tenanciers», ma «les tenants» [i sostenitori] di un’opinione; a p. 40, il termine inglese «immaterial» non dovrebbe esser tradotto con «immatérielles» [non materiali], ma con «sans importance» [senza importanza], che non è esattamente la stessa cosa; a p. 47, un argomento non si «joint» [combacia], ma si «réfute» [confuta]; a p. 65, le parole «intransigeance» [intransigenza] e «privation» [privazione] sono usate in modo assolutamente incomprensibile; a p. 93, «occupationnelles» è un puro barbarismo ecc.
François Arouet: La fin d’une parade philosophique: le Bergsonisme. Per quanto poco solida sia la filosofia bergsoniana, non pensiamo che la si possa demolire a forza di facezie di dubbio gusto, od opponendole delle concezioni ancora più vuote e più nebulose di quanto essa stessa sia. L’autore di questo libriccino, il quale ha ritenuto spiritoso assumere come pseudonimo il nome autentico di Voltaire, sembra avere le idee così confuse che non siamo riusciti a capire cosa intenda per «concreto» e cosa per «astratto», anche se queste due parole tornano a ogni momento sulla punta della sua penna. Tutto sommato, le vere ragioni dell’odio (il termine non è troppo forte) che egli riserva a Bergson sono molto più politiche che intellettuali, cosa di cui ci si rende conto alla fine della sua diatriba: quel che in definitiva egli gli rimprovera è di essere un «filosofo borghese» e di aver assunto durante la guerra il ruolo di un «pupazzo di cui lo Stato Maggiore tirava i fili»; tutto ciò è molto poco interessante.
1932
R.P.G. Dandoy, S.J.: L’Ontologie du Vêdânta, traduzione dall’inglese a cura di Louis-Marcel Gauthier (Desclée de Brouwer et Cie.). Avevamo sentito parlare del Padre Dandoy, il quale dirige a Calcutta la rivista Light of the East, come di qualcuno che aveva studiato le dottrine indù con simpatia e fuori dei pregiudizi abituali degli orientalisti; di conseguenza ci aspettavamo di trovare nel suo libro un’esposizione realmente comprensiva di un aspetto del Vêdânta, ma dobbiamo dire di essere stati un po’ delusi. Non che il libro non contenga, a fianco di certi errori e confusioni, anche vedute interessanti, pur se espresse qualche volta in una terminologia contestabile; sennonché, nell’insieme, il punto di vista dell’autore è deformato da un’intenzione di controversia. Il fatto stesso di limitarsi all’ontologia (e sarebbe inoltre stato necessario non far rientrare di forza nel libro cose che in realtà vanno al di là di questa sfera) può spiegarsi soltanto con una volontà di stabilire un confronto con la scolastica, la quale in effetti non va più lontano dell’ontologia; e a tal proposito dobbiamo fare un’osservazione: se noi abbiamo scritto, come il traduttore ricorda nella sua prefazione, che il linguaggio scolastico è «il meno inadeguato fra tutti quelli che l’Occidente mette a nostra disposizione» per tradurre talune idee orientali, non è con ciò che volessimo dire che esso è perfettamente adeguato, e, in tutti i casi, esso non si applica più al di là di un certo punto, al quale si arrestano le corrispondenze che si possono legittimamente stabilire. Il Padre Dandoy discute come se si trattasse semplicemente di filosofia e di teologia, e benché ammetta abbastanza esplicitamente il suo imbarazzo nel «confutare» il Vêdânta, è sottinteso che gli tocca concludere a favore della scolastica. E tuttavia, dal momento che non può passare sotto silenzio la «realizzazione», egli scrive che, «poiché è un’intuizione diretta e indipendente, essa non è influenzata da limitazioni di essenza filosofica e non deve risolvere difficoltà di ordine filosofico»; questa sola frase dovrebbe bastare per tagliar corto con qualsiasi discussione e mostrarne l’inanità. Stranamente, il Maritain, in alcuni suoi commenti aggiunti alla fine del volume, riconosce anch’egli che «il significato più profondo del Vêdânta non è filosofico, razionale o speculativo»; ma non si riduce in tal modo a nulla tutta la tesi dell’autore? Il Maritain, per conto proprio, attribuisce al Vêdânta un valore essenzialmente «pragmatistico», che è una parola perlomeno infelice trattandosi dell’ordine puramente spirituale, il quale con l’azione non ha nulla a che vedere, e un significato «religioso e mistico», confusione che è almeno tanto grave quanto quella di fare di esso una filosofia: si tratta sempre della stessa incapacità di uscire dal punti di vista occidentali... Ma c’è altro: il Maritain dichiara che «sarebbe una frode (sic) l’assumere, come ci propongono alcuni fra i più zelanti interpreti occidentali dell’induismo, il pensiero vêdântico alla stregua del tipo puro della metafisica per eccellenza». Noi non crediamo che alcun «interprete occidentale» abbia mai detto questo; per converso, qualcosa del genere siamo noi ad averlo detto, ma attribuendo alla parola metafisica un senso del tutto diverso da quello che le dà il Maritain. Se insistiamo su queste cose, è perché vediamo fin troppo chiaramente il partito che qualcuno può pensare di trarre dalla pubblicazione di un libro come questo: lo stesso Padre Dandoy sembra accarezzare il sogno di sostituire in India il Vêdânta con la scolastica, poiché scrive che «si sopprime soltanto ciò che si rimpiazza», che è una ammissione piuttosto brutale; ma altri possono avere un’intenzione più sottile: perché non dovrebbe essere possibile arrivare ad «accomodare» il Vêdânta in modo tale che il tomismo possa assorbirlo come ha assorbito l’aristotelismo? Il caso è completamente diverso, giacché l’aristotelismo dopo tutto non è che una filosofia, mentre il Vêdânta è tutta un’altra cosa; e poi, le dottrine orientali, in modo generale, sono tali da sfidare qualsiasi tentativo di annessione o di assimilazione; ma ciò non vuol dire che qualcuno non possa tentare di misurarsi con un’impresa del genere, e l’interesse subitaneo che questa gente manifesta per tali dottrine non è di natura da ispirarci una fiducia illimitata. D’altronde, ecco qualcosa che giustifica anche troppo i nostri sospetti: la R.I.S.S. [Revue Internationale des Sociétés Secrètes], nel suo numero del 1° aprile scorso, ha pubblicato un elogio del libro del Padre Dandoy, con l’espressa pretesa di opporlo ai nostri lavori; essa aggiungeva che questo libro «può essere consultato con fiducia» perché è «opera di un cattolico», che è una singolare garanzia di competenza per quel che riguarda le dottrine indù (sarà il caso, per un’esposizione di dottrina cattolica, di accordare d’ora in poi la preferenza a un Brâhmano?), «anche se è scritto con una imparzialità a cui hanno reso omaggio gli stessi pandit indù». In effetti si è avuto cura di far comparire nella prefazione la testimonianza di un pandit; sfortunatamente, tale approvazione (la cui portata reale è del resto assai ridotta per chi conosca gli usi della cortesia orientale) si riferisce non al libro del Padre Dandoy, ma a un lavoro di un suo collega, il Padre Johanns, pubblicato nella rivista Light of the East! Di fronte a cose simili, non abbiamo qualche buona ragione per mantenerci su una posizione di riserbo sfumata di un po’ di diffidenza? E non ci si stupisca se ci siamo dedicati più a queste cose che a quel che ha scritto il Padre Dandoy, il quale personalmente in tutto questo non entra indubbiamente per nulla: il libro non ha una grandissima importanza di per se stesso; ha soprattutto quella che vogliono dargli i suoi «presentatori».
1933
Henry Valentino: Le voyage d’un pélerin chinois dans l’Inde des Bouddhas (Parigi, Éditions G.P. Maisonneuve). È il racconto del celebre viaggio effettuato da Hiuen-tsang nel secolo VII dell’era cristiana, racconto ricostruito seguendo le traduzioni di Stanislas Julien (ciò che non è una garanzia di perfetta esattezza), e intorno al quale, inoltre. si ha l’impressione che sia stata accumulata anche un po’ di «letteratura»; comunque stiano le cose, è di lettura abbastanza gradevole. Sfortunatamente, il lavoro è «preceduto da un’esposizione delle dottrine dell’India antica sulla vita e sulla morte», vale a dire, in realtà, da una specie di sunto di tutto quel che gli orientalisti si sono compiaciuti di raccontare in proposito; vale la pena leggere queste interpretazioni, presentate in tal modo «in prospettiva», se cosi si può dire, per apprezzarne tutta l’incredibile fantasia; per quanto abituati si sia a queste cose, non si riesce a frenare una certa reazione di stupefazione di fronte all’accumulazione di tutte le etichette in «ismo» inventate dagli Occidentali per loro proprio uso e consumo, e applicate a torto o a ragione a cose alle quali non si attagliano affatto, o davanti alle innumerevoli confusioni generate dall’impiego dell’unico termine «anima» a indicare indistintamente gli elementi più disparati dell’essere umano. Del resto, anche trascurando le questioni di dettaglio, basta, per individuare lo spirito con cui è redatta questa esposizione, dire che la nozione stessa di tradizione ne è totalmente assente, che l’eterodossia vi è messa sullo stesso piano dell’ortodossia e che il tutto è trattato come un insieme di «speculazioni» puramente umane, le quali si sono «formate» in quest’epoca o in quell’altra, sono poi «evolute», e via di seguito; tra un simile modo di vedere e quello che è conforme alla verità, nessun compromesso è possibile; e forse l’utilità maggiore di questo libro consiste proprio nel far apparire ciò in modo così chiaro.
1935
Hari Prasad Shastri: Teachings from the Bhagawadgita: translation, introduction and comments (Londra, Luzac and Co.). Esistono già numerose traduzioni della Bhagavad-Gîtâ nelle diverse lingue occidentali; questa è incompleta, perché il suo autore ha soppresso i passi che gli sembravano riferirsi a condizioni solo tipiche dell’India, per conservare soltanto quel che egli ritiene avere il valore di un insegnamento «universale»; per quel che ci concerne, noi pensiamo che una mutilazione simile sia invece da deplorare. Inoltre, dominato da un’idea di «semplicità» eccessiva, egli non dà del testo che un senso piuttosto esteriore, il quale non fa trasparire nulla dei significati più profondi; e i suoi commenti si riducono tutto sommato ad assai poca cosa. Un altro rilievo che si potrebbe fare riguarda i difetti di terminologia, i quali non sono sempre senza importanza; ci accontenteremo di segnalare, a tal proposito, una confusione tra «non-dualismo» e «monismo». Un libro che certo non dirà niente di nuovo a chi conosce già qualcosa delle dottrine indù; ma che forse potrebbe contribuire a portare al loro studio qualcuno che non le conosce ancora.
Hari Prasad Shastri: The Avadhut Gita: translation and introduction (edizione a cura dell’autore; 30, Londra, W. II, Landsdowne Crescent). Questo volumetto è molto più interessante del precedente, trattandosi di un testo poco conosciuto; il termine Avadhut è grosso modo un sinonimo di jîvan-mukta, per cui il titolo potrebbe essere tradotto come «Il Canto del Liberato»; il suo autore è chiamato Dattatreya, ma non gli si conosce nessun altro scritto, e non si sa con esattezza né dove né quando sia vissuto. Poiché manca il testo in lingua originale, non siamo ovviamente in grado di verificare l’esattezza della traduzione nei particolari; siamo però in grado di rilevare un errore per quel che riguarda âkâsha, che in realtà è l’«etere» e non lo «spazio» (dish in sanscrito); ci chiediamo anche perché Brahma, sia in questo che nell’altro libro, è sempre trascritto Brhama. Ma, anche se non riusciamo a capire come il traduttore abbia potuto trovare un’idea di «amore» in quella che è un’opera di pura «Conoscenza», lo spirito del testo è, in linea di massima, visibilmente ben conservato e ben reso nella traduzione. Si tratta di una notevolissima esposizione di dottrina adwaita, la quale, come si dice nell’introduzione, «respira il più puro spirito delle Upanishad e di Shrî Shankarâchârya» e ricorda in particolare l’Âtmâ-Bodha di quest’ultimo; di conseguenza la sua lettura non si può se non raccomandare.
Paul Brunton: A search in secret India (Londra, Rider and Co.). Questo racconto di un viaggio in India, e di incontri con personaggi di carattere assai vario, è interessante e di gradevole lettura, anche se il tono, soprattutto all’inizio, ci ricorda un po’ troppo che l’autore è un giornalista di professione. Contrariamente a quel che capita spesso nei libri occidentali di questo tipo, le storie di «fenomeni» non occupano uno spazio eccessivo; l’autore ci assicura del resto che non è questo che lo interessa in particolare, ed è senza dubbio per tale ragione che gli è stato possibile entrare in contatto con certe cose di un altro ordine, nonostante sia dotato di uno «spirito critico» che, spinto a un tal punto, sembra abbastanza difficilmente conciliabile con aspirazioni spirituali profonde. Siamo di fronte a un curioso esempio delle reazioni specificamente occidentali, anzi, più propriamente anglosassoni, in presenza dell’Oriente; in particolare, sotto questo profilo, è da notare come specialmente caratteristica la difficoltà di accettare l’esistenza e il valore di una «Attività non-agente». Queste resistenze, con le lotte e le esitazioni che le accompagnano, durano fino al giorno in cui sono vinte grazie all’influsso di un misterioso personaggio soprannominato «Maharishee»; le pagine dedicate a quest’ultimo sono certamente le più notevoli di tutto il libro, che non possiamo pensare di riassumere, ma che, nel suo insieme, vale sicuramente più di molti altri lavori di maggiori pretese, e non può che contribuire a risvegliare nei suoi lettori simpatia per la spiritualità orientale, e forse, in qualcuno di loro, anche un interesse di carattere più profondo.
Hari Prasad Shastri: Book of Ram, the Bible of India by Mahâtma Tulsidas rendered into English (Londra, Luzac and Co.). Questo «libro di Rama», scritto in hindi nel secolo XVI dell’era cristiana, non dev’essere confuso con l’antico Râmâyana sanscrito di Valmiki; anche se si dice che sia stato ispirato a Tulsidas dallo stesso Râma, la denominazione di «Bibbia dell’India» è piuttosto impropria, giacché, evidentemente, essa si applicherebbe molto meglio al Vêda. In questo libro è soprattutto la via di bhakti a essere preconizzata, come del resto d’uopo in uno scritto che si rivolga alla maggioranza degli uomini; tuttavia l’insegnamento in esso contenuto è incontestabilmente «non-dualistico» e indica nettamente l’«Identità Suprema» come fine ultimo di tutta la «realizzazione». La traduzione ne dà soltanto degli estratti, ma scelti in modo da veicolarne l’essenziale dal punto di vista dottrinale; le note che la accompagnano sono in genere chiare, anche se si può rilevare qualche confusione, in particolare per ciò che riguarda i periodi ciclici. È un peccato però che si siano voluti tradurre tutti i termini, anche quelli che, non avendo equivalente reale nelle lingue occidentali, dovrebbero essere conservati nella lingua originaria con l’aggiunta di una spiegazione; ne risultano qualche volta delle strane assimilazioni: è il caso di far notare, ad esempio, che la Trimûrti è tutta un’altra cosa dalla «Santa Trinità»?
Ananda K. Coomaraswamy: The darker Side of Dawn (Washington, Smithsonian Miscellaneous Collections). Questo opuscolo contiene interessantissime osservazioni sulle dualità cosmogoniche, principalmente in quanto siano rappresentate da un’opposizione tra «luce» e «tenebre», e su alcune questioni connesse, fra le altre il simbolismo del serpente. Da notare anche un accostamento molto curioso tra l’argomento del Mahâbhârata e il conflitto vêdico dei Dêva e degli Asura, il quale potrebbe anche evocare ulteriori rassomiglianze con ciò che si incontra in altre forme tradizionali, e così quel che si riferisce al color nero inteso come simbolo del non-manifestato. È solo un peccato che l’autore si sia limitato a indicare tutte queste considerazioni, in modo un po’ troppo succinto, in appena una ventina di pagine; possiamo soltanto augurarci che abbia l’occasione di ritornare su questi argomenti per svilupparli in lavori futuri.
Ananda K. Coomaraswamy: The Rig-Vêda as Land-Náma Bók (Londra, Luzac and Co.). Questo titolo si riferisce a un antico libro islandese, letteralmente il «Libro della presa della terra», qui considerato accostabile al Rig-Vêda sotto certi riguardi: non si tratta semplicemente di una presa di possesso da parte di conquistatori; la tesi dell’autore, che ci sembra perfettamente giusta, è che, in tutti gli scritti tradizionali di questo tipo, in realtà è descritta la manifestazione degli esseri in origine, e il loro stabilirsi in un mondo simbolicamente indicato come una «terra», per la qual ragione le allusioni geografiche e storiche che possono esservi contenute hanno anch’esse soltanto un valore di simbolo o di analogia, così come può effettivamente accadere per qualunque avvenimento a motivo delle corrispondenze macrocosmiche e microcosmiche. Questi modi di vedere sono confortati dall’esame del significato di un certo numero di termini ricorrenti e caratteristici, e ciò dà luogo a interessantissime considerazioni riferentisi a svariati punti di dottrina; siamo ben lontani, in questo lavoro, dalle interpretazioni grossolanamente materiali degli orientalisti; di fronte a queste cose, vorranno questi ultimi ammettere che devono riflettere un po’?
Shrî Ramana Maharshi: Five Himns to Shrî Arunachala (Tiruvannamalai, South India, Shrî Ramanashramam). L’autore di questi inni altri non è che il «Maharishee» di cui parla Paul Brunton nel suo libro, A Search in secret India, da noi qui recensito qualche tempo fa. Arunachala è il nome di un monte considerato luogo sacro e simbolo del «Cuore del Mondo»; esso rappresenta l’immanenza della «Coscienza Suprema» in tutti gli esseri. Questi inni respirano una spiritualità incontestabile; al principio si potrebbe credere che si tratti soltanto di una via di bhakti, ma l’ultimo di essi ingloba tutte le vie, diverse ma non esclusive, nell’unità di una sintesi che procede da un punto di vista veramente universale. Nella prefazione di questa traduzione, Grant Duff oppone in modo felice la spiritualità orientale alla filosofia occidentale; è anche troppo vero che le sottigliezze della dialettica servono solo a far perdere tempo!




[1] I vol. della Bibliothèque des Lettrés.




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