Discriminazione tra Kāma e Mumukṣā (Kāma mumukṣā viveka)
In ogni jīva c’è il desiderio naturale di essere felice. Infatti i
desideri del jīva da realizzare in questa vita
o nell’aldilà non sono motivati da nulla di diverso dal desiderio di mokṣa.
Istintivamente il jīva non vuole
rimanere così com’è, perché si sente limitato dal fatto d’essere un agente (kartā) e un fruitore (bhoktā): vuole
liberarsi da questi attributi per essere felice, ma non riconosce la vera
natura di questo desiderio istintivo. Però il desiderio vero è l’aspirazione
alla Liberazione. Poiché non sa comprendere la natura del desiderio per mokṣa né il modo per realizzarlo, il jīva dirige
questo desiderio verso altre direzioni. Vale a dire che mischia, confonde e
dirotta l’istintiva attrazione per mokṣa verso
altri desideri. In realtà non ne esistono altri; esiste solo l’aspirazione per
l’Assoluto, per la Liberazione dalla limitazione, che appare sotto forma di
desideri differenti. È una sovrapposizione (adhyāsa) che si
proietta come una molteplicità di bramosie, che ricopre come un miraggio la
ricerca dell’esperienza di pace e felicità infinite. I desideri dunque
nascondono l’aspirazione per mokṣa, come il
serpente, la ghirlanda o il bastone celano la realtà della corda. Per esempio,
nessuno vuole morire. Ciò significa che ognuno ambisce al mokṣa,
perché la propria vera natura è immortale. Ātman è eterno.
L’individuo ha perso questa sua natura di Ātman (Ātma svarūpa) essendosi identificato con il corpo; o,
meglio, sembra che lo abbia perso e che, per questo, voglia recuperare la sua
natura originale. Per tale ragione nessuno vuole morire, ma vivere, vivere,
vivere eternamente perché l’immortalità è la sua vera natura. Ognuno vuole
essere eternamente nella propria vera natura immortale, ma quando considera
d’essere il corpo, si rende conto che esso è sottoposto alla morte. Nessuno
accetta di morire. Tutti vogliono esistere per sempre e questo può essere
realizzato solo se si è il Sākṣin. Finché
il jīva si considera identificato al corpo,
è sottoposto alla morte, è spaventato e non vuole cessare di vivere. Nessuno
può accettare questo, ma si ignora come diventare eterni. Considerandosi un
corpo non si può essere immortali. Quando qualcuno conosce il proprio Ātman è stabilito nell’eternità, perché l’eternità è
naturale, è la propria vera natura. Chi non sa dove trovarla cerca di
trattenere il corpo il più a lungo possibile. Tutti hanno paura della morte.
L’ateo l’affronta pensando: “Dopo di me mio figlio erediterà quello che
possiedo.” Oppure: “La mia fama continuerà.” Oppure: “Continuerò nella mia
discendenza.” Pensa così che qualcosa di lui rimarrà dopo la morte che lo
perpetuerà sotto altre forme. Cerca di appagare il desiderio di eternità
attraverso il corpo, il che è impossibile. Oltre all’eternità, il jīva desidera la felicità. Vuole godere di piaceri corporei,
emotivi, intellettuali e vuole essere felice infinitamente. Si crea, in tal
modo, una confusione tra i desideri esteriori e l’aspirazione per l’Assoluto.
L’individuo s’illude che ottenendo ricchezze, potere, fama ecc. resterà in una
condizione pacificata e felice. Ma questo è l’eterno stato esclusivo di Ātman, mentre la condizione pacificata e felice di cui gode
il jīva individuale è caduca e si conclude
sempre con l’insoddisfazione e la sofferenza.
Il vero
desiderio per mokṣa è, quindi, soggiacente a
tutti i desideri anche se ogni singola persona non ne ha coscienza. Chi invece
se ne rende conto, si applica alla cerca della Realtà (tattva
vicāra) per rimuovere l’identificazione con il corpo, la mente,
l’intelletto ecc. La gente ordinaria ambisce alla sicurezza economica,
affettiva, sociale e altro ancora, ma, in realtà, l’unica certezza è l’Ātman. La soluzione consiste nel lasciare il corpo, la
mente, l’intera individualità e allora si raggiungerà quella certezza. L’uomo
ordinario, tuttavia, cerca di raggiungere il mokṣa attraverso
il corpo: vuole di diventare immortale, realizzando in forma dettagliata i suoi
desideri e immagina di procedere sulla via che lo condurrà a raggiungere
l’eterna felicità. Per questo motivo non si accetta di sottostare a nulla e a
nessuno che limitino il proprio desiderio di libertà. Perché si vuole essere
liberi? Perché Ātman è libero e tutti,
confusamente, presentono di aver perduto la propria libertà, la libertà del
proprio Sé. In realtà nessuno l’ha mai perduta veramente: semplicemente non si
è più in grado di riconoscerla. Quando si è convinti d’essere un corpo, da esso
si sono ricevuti piaceri e bisogna esserne grati ad altri: si dipende, dunque,
da altri. Questo perché il corpo è contingente, limitato, mutevole ed è
relazionato con altre persone e circostanze. L’uomo comune vuole raggiungere la
natura del Sé attraverso il corpo, la mente e l’intelletto. A questo fine
gonfia artificialmente il proprio ego (aham), per affermare la propria immagine davanti a se
stesso, davanti agli altri e, così facendo, dispiega indefinitamente le sue
“proprietà” (mama) nel mondo esterno. L’ego e il “mio” si espandono perseguendo i desideri mondani,
che però nascondono l’inappagato desiderio per il mokṣa.
Un vivekin, inizia la sua discriminazione
chiedendosi perché ci siano tutte queste bramosie. Tutti vogliono essere
sicuri, immortali, vogliono sapere, essere onniscienti, essere felici. Se
qualcosa sfugge alla loro comprensione o al loro controllo, allora ne
sminuiscono l’importanza, perché non possono sopportare l’insuccesso in questo
tentativo di realizzare l’Assoluto (paramārtha)
nell’esistenza empirica (vyāvahārika sattā).
Il dubbio e l’ignoranza diventano insopportabili perché denunciano
l’impossibilità di raggiungere una conoscenza infinita nel dominio del finito.
La conoscenza infinita è Ātman. Si sente
la mancanza dell’Ātman e perciò si prova questo
senso di sofferenza, di limitazione e di incompletezza. Si cerca di sapere il
più possibile, ma non ci si riesce; si minimizza l’importanza di ciò che ancora
sfugge alla comprensione. L’individuo si sente orgoglioso della sua conoscenza
limitata: sa poco, ma vuole che questa sua piccola conoscenza sia la conoscenza
completa.
L’ego,
in verità, è solo ajñāna. Cerca di ottenere l’Ātman attraverso l’anātman. Non
vuole sottostare a nessuno, a nessuna regola, a nessuna ingiunzione perché
vuole essere libero, ma l’unica libertà è l’Ātma jñāna. La
superbia e la prepotenza dell’egoismo (asmitā) sono
tentativi del jīva per raggiungere la natura
del Sé attraverso l’esistenza individuale (jīva bhava), il
corpo, la mente, l’intelletto. Il jīva lotta per
ottenerla senza sapere quale sia la direzione giusta in cui cercare. Entra in
conflitto per denaro, per lo status sociale,
per la fama, usando violenza, sopraffacendo gli altri. Se qualcuno minaccia la
sua individualità, il jīva ne rimane
ferito. Ma se si riduce, rimuove e dissolve quell’ego
che sta ostruendo la conoscenza del vero Ātman, allora
si realizza che la propria vera natura è quel Sé onnipervadente, beato,
esistenza eterna e onnisciente: eternità è sat,
onniscienza è cit e pienezza di beatitudine è ānanda. Con beatitudine si deve intendere tutta la libertà e
tutta la sicurezza. La totale sicurezza significa mancanza di paura (abhaya). Questa è la vera natura di ciascuno. Sentendone la
mancanza, vivendo dunque nella paura (bhaya), il jīva lotta duramente contro ciò che ritiene un ostacolo per
la propria affermazione. Cerca di ottenere la felicità terrena (laukika sukha) attraverso l’individualità (jīvabhava), ovunque e in qualsiasi forma sia. Tuttavia è
impossibile raggiungere così la vera felicità eterna (nitya ānanda).
Non si deve però pensare che questo errore di prospettiva sia dovuto a superbia
o a malvagità. Si tratta d’ignoranza (avidyā o ajñāna). Nel Vedānta il
problema morale del vizio e del male non ha alcuno spazio. Il vero problema è
solo l’ajñāna e come rimuoverlo. L’aspirazione
alla felicità non è qualcosa di riprovevole, anzi, è il primo stimolo
necessario per cercare la Liberazione. Riprovevole è cercare la felicità nella
direzione sbagliata a causa della propria ignoranza. Il jīva,
in realtà, è quel Sé assolutamente perfetto (paripūrṇa
Ātman) di cui sente la mancanza; non è affatto quella piccola cosa
che crede di essere. Non può sopportare questa deficienza, perché intuisce che
è privo di qualcosa che gli sarebbe naturale. Jīvātman è
l’Ātman che vuole ritornare alla sua vera
natura di Sé. Per questo ogni jīva soffre.
Nelle sue conquiste mondane pensa di ottenere la felicità assoluta, mentre
tutti i desideri terreni sono false espressioni del desiderio reale per mokṣa, la sua vera aspirazione. Finché a causa
dell’ignoranza egli cercherà la libertà suprema nella direzione sbagliata,
invaderà la sfera delle libertà altrui, commettendo soprusi e prepotenze. Il
male è solo un riflesso secondario dell’avidyā.
Allorché qualcuno dalla mente più pura capisce che sta cercando mokṣa dove non c’è, per lui allora sarà facile correggersi e
cambiare la direzione in cui guardare. Diventerà così un cercatore della
conoscenza (jijñāsu), un aspirante alla liberazione
(mumukṣu).
Mokṣa significa libertà dalla limitazione prodotta dall’ignoranza per tornare
allo stato naturale, cioè di Brahmātman.
L’individuo ha perso consapevolezza della sua natura e vuole riappropriarsene.
È così insoddisfatto perché ha perso Se stesso. Come s’è detto, a questo fine
la gente lotta e cerca di risolvere in modo effimero la propria
insoddisfazione. L’appagamento dura ore, giorni e poi ricade nello scontento.
Anche se si rimane felici per cento giorni e poi si ritorna all’infelicità per
qualche ora, non ci si consola mai col pensiero: “Però sono stato felice per
ben cento giorni.” Il jīva non riesce
a sopportare nemmeno un minimo di sofferenza perché vuole essere eternamente
felice e, oscuramente, presagisce che la libertà data dai piaceri mondani è
limitata. Persino coloro che compiono le peggiori atrocità sono convinti di
essere buoni, di agire spinti da una ragione superiore, avendo tutti un
istintivo riconoscimento della purezza dell’Ātman che è
nella loro natura, anche se non ne sono consapevoli. Pensano che il loro
comportamento sia naturale: anche il malvagio, quello che noi chiamiamo mānuṣya rakṣas (demonio umano), si sente come tutti gli
altri, con gli stessi desideri. Coloro che subiscono il suo comportamento stentano
a riconoscergli questo aspetto. Ma se si dimentica per un attimo la propria
sofferenza e ci si sforza a considerare il suo punto di vista, si comprende che
anch’egli ama se stesso, la moglie, i figli, gli amici che a loro volta lo
amano: per quanto in forma errata, anche il malvagio esercita il suo amore
naturale per l’Ātman.
L’Ātman
è sempre puro, anche in colui che compie azioni che comportano colpa (pāpa). Per questa ragione noi vedāntin affermiamo
che l’errore consiste nell’ignoranza. L’uomo ordinario ha confuso l’Ātman con il proprio corpo, con la propria mente, con il
proprio intelletto. Si rivolge agli oggetti che appartengono al mondo esterno
per impadronirsene; cerca in questo modo di colmare le manchevolezze del
proprio jīva ampliando il raggio di dominio
dell’aham e ingrossando il suo mama.
Se si rivolge verso l’interno la
propria mente, che per abitudine innata è sempre estroversa, allora diventa
naturalmente pacificata. È come quando si guarda il proprio riflesso nello
specchio: nella mente rivolta verso il proprio Sé si vede il riflesso di Ātman. In questo stato di pacificazione, si ritrova l’intima
felicità che ricrea lo stato di totale appagamento naturale. Da quanto precede
si può comprendere in che senso dietro a qualsiasi desiderio, anche a quello
più profano, si celi l’unico vero desiderio, quello per il mokṣa.
La persona che così conosce rinuncia a tutti i desideri transitori e
contingenti, espressioni diverse, distorte, illusorie, segni, sotto forma
empirica, dell’aspirazione per mokṣa o il mumukṣutva, vale a dire la mumukṣā.
Quando si vive un piacere, se ne deve fruire intensamente non per quello che è,
ma per quello che rappresenta. I piaceri del mondo acquisiti onestamente
secondo il Dharma, non devono essere rigettati, ma
essere oggetto di fruizione (bhoga), come un
dono di Īśvara. Quando il sādhaka compie
le azioni della vita come fossero un sacrificio (yajña),
con distacco nei confronti dei suoi risultati (karma phala),
il benessere che comunque ne deriva diventa parte di quel karma yoga di
preparazione per affrontare il jñāna.
Questo mondo è limitato da azioni diverse da quelle fatte in sacrificio, o figlio di Kuntī. Libero d'attaccamento, compile come un sacrificio.[2]
Quando poi arriva all’insegnamento
vedāntico, egli riconosce che quello era il vero scopo di tanti tentativi
inconsulti compiuti per l’ottenimento della felicità. Infatti l’azione si
distingue in tre fasi o tre livelli: sakāma karma,
gli atti compiuti per soddisfare i desideri mondani, tipico delle persone
ordinarie; niśkāma karma, azione compiuta con
distacco per i risultati durante il karma yoga di
preparazione alla conoscenza.
Qui, nel dominio del karma yoga non c'è perdita [degli effetti] di quelle buone intenzioni; né alcuna colpa può permanere. Anche un po' di questa retta disciplina ti libera da grandi pericoli.[3]
Infine il sarva karma
saṃnyāsa, la rinuncia totale all’azione corrisponde all’entrata
nella via della conoscenza (jñāna mārga)
dell’Advaita Vedānta:
Colui che rinuncia a tutti gli oggetti dei desideri si muove senza cercare nulla, e libero del tutto dal senso del ‘mio’ e dell’‘io’, conquista la pace.[4]
Da quest’ultima citazione si deduce
che la rinuncia a tutti i desideri non include l’abbandono dell’aspirazione al mokṣa. Anzi, è proprio il sarva karma
saṃnyāsa che, esaltando il senso della mumukṣā,
conduce al mokṣa, la meta ultima della vita umana (param puruṣārtha). Infatti, mentre tutti i desideri si
rivolgono a dei fini che sono altro da se stesso, l’aspirazione al mokṣa è il desiderio di riconoscere che non si è altro dal
Sé non duale.
* Dal sito Veda Vyāsa Maṇḍala: www.vedavyasamandala.com
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