Una volta compreso a fondo che cosa sia l’avatāra, è necessario fare chiarezza su altre figure presenti nella śruti e smṛti che, a prima vista, possono sembrare simili. Si tratta di coloro che sono compresi nella categoria dei ṛṣi[37], di cui abbiamo fatto un accenno sopra. Costoro svolgono effettivamente certe funzioni nel dominio dell’azione. Per comprendere cosa rappresentino in realtà queste individualità superiori, definite jīvātman liberati (mukta jīva[38]), che cooperano all’ordine universale, ci soffermeremo su alcuni passaggi che stanno a conclusione del Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya[39].
“[…] quando
si vuole comprendere meglio [cosa s’intende con jīvātman liberato,] si dice che ‘nella sua propria forma’
significa nella forma di
Brahman, la sua forma reale, dotata delle caratteristiche che iniziano da “libero da pāpa” e che finiscono con “retto
desiderio”[40],
come pure
dell’onniscienza e della signoria su tutto[41]. Si stabilisce in quella forma che
è sua propria. Questo è ciò che pensa il maestro Jaimini[42]. Come lo sappiamo? Perché lo si sa
per i suoi riferimenti alle Upaniṣad e per altri ragionamenti. È così perché
per mezzo del riferimento contenuto nel testo che inizia con “questo Sé che è oltre la colpa”
ecc. e che finisce con “avendo retti desideri (satyakāma) e retta volontà (satyasaṃkalpa)”,
l’Upaniṣad ci fa capire
che il jīvātman è lo stesso supremo Sé quando
possiede questi attributi. Similmente, i testi “Lì egli vaga, mangiando, giocando e
facendo festa” (ChU
VIII.12.3), e
“ha libertà di movimento
in tutti i mondi” (ChU VII.25.2), presentano le sue forme di divina gloria. Da questo punto di
vista le affermazioni come “Egli è onnisciente ed è il regolatore di tutto” ecc. diventano del tutto logiche[43].
I jīvātman di
cui si tratta sono considerati ‘liberati’ nella prospettiva delle vie del
non-Supremo che non distinguono l’ottenimento dello stato più elevato
raggiungibile con i metodi propri alla loro sādhanā,
dal vero mokṣa (o sadyomukti) del jñana mārga. È noto che quelle vie
indicano nell’unione (yoga o samādhi) il culmine della realizzazione[44].
Queste ‘anime liberate’, tuttavia, rimangano nell’individualità, anche se più
perfetta e sāttvika possibile,
com’è dimostrato dal fatto che ancora nutrono retti desideri, rette intenzioni,
svolgono ‘funzioni spirituali’ compiendo le azioni che ne derivano e sono
rivestiti di forme di divina gloria.
Sebbene
gli attributi come la libertà dalla colpa (pāpa) siano enumerati come fossero
diversi uno dall’altro, essi si basano ancora sui falsi concetti che sorgono
dalla dipendenza da mere parole; perché tutto ciò che [tale
libertà] comprende è solo
la negazione del pāpa
ecc. […] Se
si pensa che l’affermazione “Avendo retti desideri (satyakāma) ecc.”, significhi che sono
attributi reali appartenenti a una qualche entità “che possiede retti
desideri”, tali qualità dipendono dall’associazione con attribuzioni limitanti,
cosicché non possono costituire la vera natura di quell’essere in quanto
Coscienza. Perché il sūtra
nega che il Sé abbia molte forme come nega ogni diversità di forma per il
Brahman.[45]
In questo modo il jīvātman
qualificato da attribuzioni limitanti (saṃskāra),
corrisponde nella prospettiva ādhyātmika a
ciò che è il Brahman non-Supremo nell’adhidaiva[46].
È in base a tale affinità che l’anima individuale percorre il devayāna al fine di incorporarsi a Hiraṇyagarbha.
Quando
un’anima liberata vuole avere un corpo, ne ottiene uno; e quando desidera
rimanere senza non ne ha nessuno; perché il suo desiderio è vero e la volontà
diversificata.[47]
[Con ciò] si
dimostra che la mente esiste almeno come strumento di desiderio
[anche dopo aver realizzato il Brahman qualificato]. Ora esaminiamo se, anche per l’uomo
che ha ottenuto qualità divine, il corpo e i sensi esistono o non esistono.[48]
Dopo aver raggiunta la sua collocazione nei Brahmaloka, un mukta jīva può essere spinto dal
desiderio di assumere un altro corpo oppure di rimanere in quel loka; “[…] e si diventa ciò che si desidera essere” (BS IV.3.15). Questo è possibile perché
ancora c’è una mente e una volontà individuale. Si deve precisare, tuttavia,
che quel jīvātman è
condizionato solamente da qualità divine. Infatti, il testo precisa che è
libero da demeriti (pāpa), ma
non da meriti (puṇya) in
ragione della sua condizione prevalentemente sāttvika.
Ma la
condizione in cui si ottengono i divini poteri dell’aiśvarya, è uno stato differente, come
quello dei cieli che vengono come risultato della meditazione avanzata sul
Brahman qualificato.[49]
La volontà di assumere un corpo nuovo oppure no, non
riguarda soltanto coloro che hanno raggiunto i Brahmaloka[50]
con la meditazione sul simbolo, ma anche coloro che, con la meditazione
più avanzata e senza il supporto di simboli, hanno ottenuto i divini poteri
dell’aiśvarya “associandosi” a
Hiraṇyagarbha.
È
appropriato dire che, eccetto il potere di manifestazione [,
mantenimento e distruzione]
dell’Universo, i jīva
liberati devono avere tutti gli altri divini poteri dell’aiśvarya, come quello di diventare
minuscoli ecc. Infatti, il potere della manifestazione [mantenimento
e dissoluzione],
dell’Universo, ragionevolmente, appartiene solo al Signore che esiste
eternamente. Questo perché Īśvara forma il soggetto principale di
quell’argomento, gli altri non essendo neanche presi in considerazione. […] L’Upaniṣad dice che gli altri
ottengono i poteri divini di diventare minuscoli ecc. come risultato della
ricerca e del desiderio di conoscerlo, perciò essi sono distanti dalle attività
della manifestazione ecc. dell’Universo. Inoltre, proprio per il fatto che i jīva liberati sono dotati di mente,
possono non avere [tra loro] alcuna “identità d’intenti”, cosicché qualcuno talvolta
potrebbe volere la continuità dell’Universo, e altri la sua distruzione. Così
essi in certi momenti potrebbero opporsi gli uni agli altri.[51]
Il jīva che
ha raggiunto il massimo di universalizzazione con tutti i poteri della Signoria
(eccezion fatta per quello della manifestazione ecc.), rimane tuttavia dotato
di mente e volontà individuale che lo differenzia da ogni altro che si trovi
nella medesima situazione. Lo stato universale (viśva bhava) è infatti l’estensione massima del dominio
individuale (viśeṣa bhava). Le
menti, che sono principio di divisione, per questo motivo differenziano tra loro
i diversi mukta jīvātman. Nel
caso in cui un tale jīva assuma
un corpo, potrà insegnare una dottrina o una scienza differente da quella di un
altro. Questo è il caso dei ṛṣi
che hanno fondato scuole e dottrine diverse, perfino in contrasto tra loro. Per
esempio, il Sāṃkhya insegnato
dal ṛṣi Kapila è diverso e in
contrasto con la dottrina della Pūrva Mīmāṃsā
del ṛṣi Jaimini. La
diversità o il contrasto di cui si parla, però, non comporta una reale
incompatibilità, poiché si riferiscono a punti di vista diversi del medesimo sanātana dharma. La composizione tra di
essi, infatti, è sempre possibile in quanto si tratta di differenti livelli di
conoscenza, dove il più elevato ingloba e trascende l’inferiore. Ovviamente
quando si tratta di metafisica non duale, i ṛṣi
che l’insegnano non saranno mai in disaccordo tra loro. Perciò da
questa osservazione si deduce facilmente la differenza fondamentale tra i brahma ṛṣi e i rāja ṛṣi. Quest’ultimi, insegnando
discipline che riguardano il non-Supremo, a seconda del loro grado di
conoscenza e della prospettiva duale in cui si pongono, possono essere tra loro
in contrasto, nei termini prima spiegati.
Se si
sostenesse [che i poteri del jīva liberato sono illimitati] in base alla diretta dichiarazione
scritturale, allora [diremmo] no, [perché le scritture dichiarano che i jīvātman raggiungono] colui che li stabilisce come
signori delle sfere (maṇḍala) del sole ecc. e che risiede in quegli stessi
mondi.[52]
Si
dichiara che questa attribuzione d’una signoria indipendente è privilegio del
Signore che risiede in quei mondi[53] quale la sfera del sole ecc., come
anche quello di nominare gli altri [i jīva liberati quali] reggitori di sfere particolari.[54]
Quelle anime liberate che,
dunque, non desiderano assumere un nuovo corpo trasmigrando nel mondo degli
uomini (mānava loka), rimangono
nelle sfere (maṇḍala) comprese
nei Brahmaloka. Essi possono
essere investiti dal Signore della reggenza di quelle sfere, diventando oggetto
di venerazione da parte degli Dei e degli altri jīva che fruiscono, in quei bhoga loka, dei
meriti (puṇya) accumulati in
vita. Costoro nella śruti sono
definiti deva ṛṣi[55].
C’è
un’altra ‘forma’[56] del supremo Signore che non dimora
nel [Brahman] effetto[57] perché così dichiara l’Upaniṣad.[58]
E non è
che il supremo Signore risieda soltanto nella sfera del sole ecc., nel novero
degli effetti [cioè delle cose mutevoli]; Egli ha anche un’altra ‘forma’ completamente libera
con cui trascende tutti i cambiamenti. Per questo la scrittura parla della sua
esistenza in due ‘forme’[59] […]. Non si può affermare che questo
Immutabile sia raggiunto da coloro che si fissano nell’altra forma [presente
nel mondo del cambiamento],
perché essi non ne hanno il desiderio. Quindi bisogna intendere che,
considerando che il supremo Signore possiede due ‘forme’, i jīvātman, che non hanno raggiunto il non
qualificato (nirguṇa),
possono restare nella forma qualificata (saguṇa) con limitati poteri divini, poiché
non hanno acquisito poteri illimitati.[60]
In questo brano appare evidente ciò che differenzia i jīva liberati dal Liberato in vita.
Avendo solamente desiderio dell’Ātman,
il Liberato ha superato l’individualità (jīvatva)
riconoscendosi eternamente nitya, śuddha,
buddha, mukta. In verità il desiderio dell’Ātman non è desiderio di altro da Sé,
perciò il mukta rimane nella
non dualità senza subire alcun cambiamento. Non essendoci più alcuna
distinzione (aviśeṣa) né
cambiamento (akṣara) né qualità
(nirguṇa), il mukta è dunque la stessa Realtà
avatārica, la Realtà assoluta.
Avendo superato la sfera dei desideri, il mukta è al di là della dualità, ragion
per cui è un errore metafisico considerare un suo ‘ritorno’ nella
manifestazione sottoposta alla dualità. La discesa dell’avatāra è la sua māyā, che gli esseri manifestati
proiettano illusoriamente. In realtà sono tutti gli esseri e tutti i mondi a
essere proiettati nell’avatāra,
il Brahman Supremo, sotto la forma illusoria dei nomi e delle forme.
Considerare che possa esserci una realizzazione che superi la realtà assoluta
del Supremo non ha alcun senso.
Nelle religioni non è conosciuta la dottrina della
trasmigrazione e per questa ragione presso di esse non si pone affatto il
problema del ritorno dei jīva liberati
da un bhoga loka. Da ciò deriva
che nella prospettiva religiosa la ‘discesa’ dei profeti deve forzatamente
essere descritta sulla base della volontà divina che li invia presso gli
uomini. Infatti, essendo il Dio di cui si tratta immaginato dai suoi devoti
dotato di volontà, esso corrisponde in tutta evidenza a Hiraṇyagarbha. Se
invece si volesse sostenere che i profeti siano degli iniziati che nella stessa
vita terrena hanno raggiunto la Liberazione (mokṣa)
per una via ascendente, per poi completare tale realizzazione con una
‘ridiscesa’, una simile teoria appare contraria alla śruti e alla logica basata sull’intuizione[61].
Infatti, il mokṣa non è
raggiungibile lungo un percorso né ascendente né discendente, trattandosi di
uno stato di libertà eterna e assoluta di cui l’illuminato prende coscienza
‘qui ora’.
Il mukta,
essendo Brahman stesso, non ha proprio nulla da perfezionare o da compiere
ancora nel mondo dell’azione: “Chi conosce
il Supremo Brahman s’immerge in Brahman” (Muṇḍaka Upaniṣad, III.2.9). È del tutto
sprovvisto di senso metafisico affermare, come fa Coomaraswamy[62]
che “egli [il liberato] vorrebbe essere l’Ātmā che brilla [per Sé], ma non
l’Ātmā che risplende verso l’esterno[63]”,
dando così inizio a una serie di errori dottrinali che hanno condotto alla
formulazione della teoria di una pretesa ‘realizzazione discendente’. Il
Brahman-Ātman in realtà è sia
esterno-interno sia non esterno-non interno, essendo onnipervadente e non
duale.
Affermare che l’Ātman,
per sua natura possa, dunque, avere “duplice
natura in una unica essenza”
è contrario ai testi[64],
alla logica e all’intuizione. “Dell’Identità
Suprema [sic[65]] di Essere e Non-Essere (sadasat), egli vorrebbe
essere solo asat…” Queste affermazioni avrebbero bisogno di una
fitta serie di correzioni, tanto sono sbagliate. Anzitutto sadāsat non ha mai il significato che
Coomaraswamy gli attribuisce. Quando c’è la veglia, il sogno è asat. Quando il sogno è sperimentato è sat (o vyakta,
manifestato) e allora la veglia è asat (o
avyakta, non manifestata). Sadāsat non è mai riferito a una
concezione dell’Essere abbinato a un inesistente Non-Essere, che il Vedānta respinge come irreale[66].
Come si può pensare, dunque che l’Ātman
“vorrebbe essere solo asat”?
Coomaraswamy prosegue affermando: “Senonché, com’è esplicitamente detto nella nostra
Upaniṣad, III.10.11 [in realtà I.3.11; ma potrebbe essere un errore
del curatore della versione italiana][67], mentre si deve essere andati al di là del
manifestato (il sole) per
raggiungere il Non-Manifesto (l’Oscurità), la Persona e l’ultima tappa è
‘situata’ di là dal Non-Manifesto; non si è raggiunta la fine della via finché
non Lo si conosca come Manifestato e Non-Manifesto (vyaktāvyakta)”.
Come abbiamo affermato sopra, questi termini sembrano usati solamente per
creare confusione in una dottrina altresì chiarissima. Nelle Upaniṣad, vyakta designa la manifestazione, ovvero tutto ciò che è
determinato da nome e forma ed è compreso nella veglia e nel sogno; con avyakta si intende ciò che la mente,
limitata dalla forma, non riesce a percepire nel sonno profondo. Per cercare di
definire questa esperienza che è reale, ma che resta fuori del suo raggio
d’indagine, la mente allora proietta un pensiero (la māyā) prodotto dalla sua ignoranza che
immagina suṣupti come uno stato
manifestato di natura tenebrosa (tāmasa)
e perciò indescrivibile (anirvacanīya),
che definisce prājña (intelletto
superiore), kāraṇa śarīra (corpo
causale), e recentemente, del tutto al di fuori del contesto advitīya, come stato informale[68].
Perciò avyakta non è termine
attribuibile al Brahman, ma
alla avidyā in quanto māyā, prakṛti,
tamas, śakti ecc. Questo è l’errore fondamentale
della mūlāvidyā[69],
vale a dire il dare realtà all’ignoranza.
La conclusione a cui Coomaraswamy giunge, partendo da
principi sbagliati, non poteva portare che a conclusioni sbagliate: infatti se
con ‘la Persona’ [Puruṣa]
Coomaraswamy voleva intendere il Supremo, certamente errava a considerarla come
la somma di “Manifestato e Non-Manifesto”[70].
Inoltre, allora certamente non avrebbe dovuto definirlo ‘tappa’. Anche
l’affermazione che “non si è raggiunta la
fine della via finché non lo si conosca come Manifestato e Non-Manifesto
(vyaktāvyakta)”[71]
è errata. Infatti, per il Vedānta
“coloro che vogliono andare oltre le vie
non procedono su nessun sentiero”[72].
Sempre secondo Coomaraswamy “L’obiettivo di Shankara è quello di un Pratyeka Buddha”[73],
termine usato nel buddhismo theravāda
per indicare un illuminato che non insegna la dottrina ad altri. Inutile far
notare che il jñāni per Śaṃkara
è l’avatāra stesso, perciò è
strumento di Liberazione per tutti coloro che lo conoscono. D’altra parte, che
Śaṃkara sia l’Ācārya per
eccellenza è universalmente riconosciuto. Purtroppo, evocando le dottrine del
buddhismo, che nelle diverse forme sono spesso in contraddizione tra loro, è
stata richiamata anche la figura del bodhisattva,
facendolo apparire superiore al buddha.
Infatti, questa ‘funzione’ è stata erroneamente interpretata come il
corrispondente della ‘realizzazione discendente’, teoria che non esiste affatto
nemmeno nel buddhismo. Il bodhisattva
è un jīva di trasmigrazione
particolarmente qualificato che rinasce per raggiungere l’estinzione (nirvāṇa) dell’individualità, vale a dire
la buddhità (buddhatva). Nelle
scuole mahāyāna il bodhisattva è considerato un jīva che si astiene dal raggiungimento
dello stato di buddha per
indicare agli esseri senzienti la via del dharma.
Ciò non muta la sostanza delle cose, aggiungendo solamente il concetto di
compassione[74] a
questa dottrina. Perciò il bodhisattva non
è mai considerato superiore a un buddha.
Coomaraswamy allude al fatto che “Śaṃkara
esita”[75]
a trattare della realizzazione discendente. Non è una esitazione, in quanto ha
argomentato in modo minuzioso la rinascita di coloro che stazionano nel Brahmaloka. Se Śaṃkara non parla di
realizzazione discendente è perché nemmeno nell’Induismo esiste una simile
teoria. Non ne parla, dunque, non perché è una manchevolezza della dottrina advaita, come insinua Coomaraswamy, ma
proprio perché si tratta di una costruzione mentale di quest’ultimo, contraria
alla metafisica, alla śruti,
alla logica e all’intuizione.
Fine terza parte: III/III.
Dal sito Veda Vyāsa Maṇḍala: https://vedavyasamandala.com/
[37] Ṛṣi è un termine usato in particolare per designare chi svolge una determinata funzione durante il satya yuga. Sono definiti preferibilmente cakravatin nel corso del tretā yuga, vyāsa nel dvāpara yuga e siddha durante il presente kali yuga. Tuttavia, l’uso di questi termini dipende dal linguaggio delle differenti correnti (prakaraṇa) purāṇiche. Come si vedrà, i ṛṣi, a loro volta, sono divisi in: brahma ṛṣi, la cui funzione consiste nell’insegnamento e la trasmissione del jñāna mārga; i rāja ṛṣi, che insegnano la conoscenza del non-Supremo e le altre scienze comprese in quel dominio di karma kāṇḍa; e i deva ṛṣi, che dopo la caduta del corpo reggono le sfere celesti.
[38] Non si confonda questo
termine con jīvan mukta, il
Liberato in vita.
[39] Facciamo riferimento a G.G.
Filippi, Il post mortem dei sādhaka secondo
la dottrina di Śaṃkarācārya, Milano, Ekatos Ed. Pr. 2019 e apparso
anche su questo Sito. Apporteremo qualche piccola modifica formale per
permetterne una lettura più agevole.
[40] “Una volta Prajāpati disse: «Il Sé che è libero da pāpa, decadenza,
morte, sofferenza, fame, sete, che ha retto desiderio e retta intenzione,
quello deve essere conosciuto, quello deve essere indagato per la
realizzazione. Chi, dopo aver conosciuto quel sé, lo realizza, ottiene tutti i
mondi e tutti i desideri»” (ChU
VIII.7.1).
[41] Per capire cosa s’intenda qui
con Brahman, si consulti l’articolo di Svāmī
Satcidānandendra Sarasvatī “L’Onnipotenza di Brahman” pubblicato su
questo Sito.
[42] Questa è dunque la
prospettiva della Pūrva Mīmāṃsā,
vale a dire del karma kāṇḍa o
conoscenza del non-Supremo (aparabrahma
vidyā).
[43] Il post mortem
dei sādhaka,
cit., pp. 114-115.
[44] Questi stati, anche quelli
raggiunti durante la vita corporea, sono comunque transitori, poiché tali
‘realizzati’ ritornano costantemente dal samādhi
alla veglia dopo le loro esperienze. Similmente i profeti delle religioni
ritornano allo stato di veglia dopo la visione divina. Alcuni mantengono alcune
tracce visibili a tutti del loro rapimento (jadhb)
estatico, com’è l’esempio di Mosé irradiante dopo il colloquio con il suo Dio.
Con la caduta del corpo, le ‘anime liberate’ s’avviano nuovamente verso il Brahmaloka percorrendo il devayāna. A meno che, nell’attuale vita
corporea, non raggiungano la Liberazione finale.
[45] Ibid. pp.115-16. Questa è la
prospettiva del jñāna mārga,
della Brahma vidyā śaṃkariana.
[46] Questi due termini si
riferiscono grosso modo all’ambito microcosmico e a quello macrocosmico.
[47] Ibid. p. 121.
[48] Ibid. p. 119.
[49] Ibid. pp. 124-125.
[50] Il Bramaloka è spesso menzionato al plurale,
in quanto in esso sono compresi tutti gli altri cieli (loka) nella forma di sfere interne (maṇḍala). Espresso al singolare, il Brahmaloka è considerato il cielo
supremo, dimora di Hiraṇyagarbha. È sorprendente la corrispondenza esatta con
la cosmografia dantesca: dapprima i cieli sono considerati in modo distintivo
per illustrare la via di salita verso Dio; in seguito, i cieli sono descritti
in ordine inverso, compresi come un tutt’uno nell’Empireo, residenza di Dio.
[51] Ibid. pp. 125-126.
[52] Ibid. pp. 126-127.
[53] Ibid. pp. 126-127.
[54] BSŚBh IV.4.18.
[55] Appare qui evidente che quei deva ṛṣi o anime liberate che non
desiderano riprendere un corpo, corrispondono, in qualche modo, ai profeti
reggitori delle sfere nelle religioni monoteistiche, tenuto conto delle
peculiarità che le distinguono per natura e portata dal sanātana dharma.
[56] ‘Forma’ qui non ha il senso
limitativo che ha nel binomio nāma-rūpa,
ma quello di ‘sua propria vera natura’ (svarūpa).
[57] Kārya
Brahman. Si
deve tener sempre presente che il Brahman non-Supremo è effetto (kārya) della māyā proiettata dall’ignoranza della mente dell’individuo e
non da un inesistente Brahman-causa. Infatti, è espressamente dichiarato che il
Supremo Brahman non può essere mai concepito come causa (kāraṇa) di alcunché. Infatti “la causa
non è causa, poiché è il contenuto di una percezione erronea, e perciò cessa di
essere tale quando l’errore viene rimosso” (MUGKŚBh
IV.25).
[58] BS IV.4.19.
[59] Il Brahman qualificato è
sottoposto, infatti, alla forma (rūpa
[nonché al nome]), essendo un effetto della immaginazione della mente. Il
Brahman Supremo è arūpin in
quanto non è affatto sottoposto alla forma. La seconda ‘forma’, di cui nella
citazione, è infatti il termine svarūpa
che, a esso applicato, significa null’altro che ‘la sua vera natura’.
[60] BSŚBh IV.4.19
[61] Essa è infatti del tutto
assente anche nelle dottrine dei diversi monoteismi.
[62] A. K. Coomaraswamy, Conoscenza e Morte secondo la Dottrina Indù. Katha
Upanishad con il commento di Shrī Shankarāchārya, Milano-Trento,
Luni Ed.,1998, pp. 175 e segg.
[63] Si tratta di una parafrasi di
Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad II.3.1-3;
il testo, tuttavia, non tratta del mukta,
ma di tutt’altro, ossia della differenza che intercorre tra il sole (Virāṭ) e l’essere (Hiraṇyagarbha) che in
esso risiede. Si tratta di un’altra forzatura operata da Coomaraswamy.
[64] Evidentemente Coomaraswamy
non aveva letto la spiegazione che di questo passaggio upaniṣadico dà Śaṃkara:
“Brahman, il Supremo Ātman ha due forme a
causa della sovrapposizione con cui l’ignoranza definisce e concepisce il
Supremo Brahman senza forma” (BUŚBh
II.3.1). E, se non bastasse: “[Il Brahman] è
immediatamente evidente, vale a dire eternamente splendente, in quanto è sempre
della natura dello splendore, perché del tutto privo di manifestazione e di
non-manifestazione, che sono rispettivamente prodotte da errata conoscenza e da
assenza di conoscenza” (Māṇḍūkya
Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya, III.36).
[65] È incredibile la reiterazione
dell’uso di questa formula, concepita da Ivan Aguéli (‘Abdul Hādī Aqīlī) per
tradurre liberamente Waḥdatul-Wujūd,
del tutto inappropriata per significare il Supremo Brahman o, come in questo
caso, il mokṣa.
[66] “Egli esclamò: «Ma, mio caro,
come potrebbe essere così? Come potrebbe l’Essere nascere dal non-Essere? In
realtà in principio esisteva solo l’Essere, uno senza secondo»” (ChU VI.2.2).
[67] In realtà l’Upaniṣad afferma: “Il non manifestato [avyakta, cioè prakṛti] è più alto di
mahat [l’intelletto (buddhi)
universale di Hiraṇyagarbha], il Puruṣa è
più alto del non manifestato. Non c’è nulla più alto del Puruṣa. È il culmine,
la meta suprema. (KU
I.3.11).
[68] In realtà il sonno profondo è
lo stesso Brahman Supremo. Sono gli ignoranti che considerano suṣupti uno ‘stato causale’, interpretato
di volta in volta come il non-Supremo, Īśvara, prakṛti, māyā,
Śakti; ma questo non ha nulla a
che vedere con la metafisica advitīya:
è la metafisica interpretata attraverso le lenti delle vie del non-Supremo.
[69] Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’ignoranza,
Milano, Ekatos Edizione Privata, 2019.
[70] Questo errore di
interpretazione di vyaktāvyakta,
poi, si ripercuote sulla fantasiosa concezione del ‘Principio Supremo’
[intendendo il Brahman] come se
fosse l’insieme di manifestato e di non manifestato, di Essere e di non-Essere
o di ‘possibilità di manifestazione e di non-manifestazione’. La śruti afferma: “Il non manifestato è al di là di mahat, il Puruṣa è più elevato del non manifestato.
Non c’è nulla al di là del Puruṣa. Egli è il culmine, la meta suprema.”
(KU I.3.11). Per capire con
esattezza cosa significhi mahat,
seguiamo il commento: “mahan ātman, è il principio più interno dell’intelletto di
tutti gli esseri ed è mahan perché pervade tutti. Il principio chiamato
Hiraṇyagarbha che è nato per primo dal non
manifestato, la māyā, e che consiste di intelletto e attività è chiamato mahan
ātman ed è più alto della buddhi” (KUŚBh I.3.10).
[71] È quanto afferma Ānanda K.
Coomaraswamy chiosando a modo suo la Kaṭha
Upaniṣad. Cit., p. 178.
[72] Kaṭha
Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya,
I.3.11.
[73] Coomaraswamy, Ibid. p. 178. Come s’è già detto, il
celebre storico dell’arte è affidabile quando esamina simboli e rituali. Non lo
è affatto nel dominio della metafisica, in quanto per il suo attaccamento
sentimentale alla forma del buddhismo singalese dovuto alla frequentazione
familiare e giovanile con la Mahā Bodhi
Sabhā, la Società Teosofica e il SadharanBrahmo
Samāj, ha sempre nutrito un insanabile pregiudizio nei confronti di
Śaṃkara e della sua dottrina.
[74] Non per nulla il mahāyāna è spesso messo in relazione al bhakti mārga.
[75] Coomaraswamy, Ibid. p. 177.
Interessante guardare la palesazione come direttamente fluente da Ishwara.
RispondiEliminaQuel che volevo sottoporre è sul piano logico/causale, o forse sarebbe meglio appunto delinearlo intuitivo, ossia su che base sia possibile tale "discesa" correlata al problema di come sia possibile che esista il vostro cosidetto emanazionismo.
Di solito si usa giustificare tale possibilità proprio alla luce del fatto che noi si exsista. Mi sembra ben misera spiegazione.
I cristiani non a caso hanno adombrato un'unica apparizione currogandola con la kenosis relativa, inoltre furbamente appioppando la "discesa" ad una sola cosiddetta persona della triade santa.
Anche posto il caso che la cristificazione, alla maniera degli origenisti, sia effettiva e inglobante o svelante nel solo Verbo, rimarrà comunque una distinzione a cui la creatura non potrà giungere nel riassorbimento, e ci sarà di per sè una giustificazione della "creazione".
Invece la "discesa" avatarica sembra inutile poiché discendendo infatti Ishwara o Visnù - in una visione più esternalizzata - non fa che negare sè stesso, poiché non è chiaro perché Egli manifesto non sia anche il restante come dovrebbe, cosa che necessariamente è in ogni jiva ( e credo di per sè anche in ogni esistibile ).
Il che fa il paio a bomba con quel che mi sembra incongruo come precedentemente detto dacché non ha senso un'emanazione se "DIO" tutto/nulla "è".
Anzi di per sè stesso dovrebbe essere impossibile soprattutto se si immagini di singolarizzare una'apparizione che di per sè non può non essere universale ed integrale.
Grazie dell'attenzione
daouda