"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 1 gennaio 2021

Maitreyī, La dottrina advaita dell’avatāraṇa - III

Maitreyī
La dottrina advaita dell’avatāraṇa - III

3.

Una volta compreso a fondo che cosa sia l’avatāra, è necessario fare chiarezza su altre figure presenti nella śruti e smṛti che, a prima vista, possono sembrare simili. Si tratta di coloro che sono compresi nella categoria dei ṛṣi[37], di cui abbiamo fatto un accenno sopra. Costoro svolgono effettivamente certe funzioni nel dominio dell’azione. Per comprendere cosa rappresentino in realtà queste individualità superiori, definite jīvātman liberati (mukta jīva[38]), che cooperano all’ordine universale, ci soffermeremo su alcuni passaggi che stanno a conclusione del Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya[39].

“[…] quando si vuole comprendere meglio [cosa s’intende con jīvātman liberato,] si dice chenella sua propria formasignifica nella forma di Brahman, la sua forma reale, dotata delle caratteristiche che iniziano da libero da pāpae che finiscono con “retto desiderio[40], come pure dell’onniscienza e della signoria su tutto[41]. Si stabilisce in quella forma che è sua propria. Questo è ciò che pensa il maestro Jaimini[42]. Come lo sappiamo? Perché lo si sa per i suoi riferimenti alle Upaniṣad e per altri ragionamenti. È così perché per mezzo del riferimento contenuto nel testo che inizia con questo Sé che è oltre la colpaecc. e che finisce con avendo retti desideri (satyakāma) e retta volontà (satyasaṃkalpa)”, l’Upaniṣad ci fa capire che il jīvātman è lo stesso supremo Sé quando possiede questi attributi. Similmente, i testi Lì egli vaga, mangiando, giocando e facendo festa” (ChU VIII.12.3), eha libertà di movimento in tutti i mondi” (ChU VII.25.2), presentano le sue forme di divina gloria. Da questo punto di vista le affermazioni comeEgli è onnisciente ed è il regolatore di tuttoecc. diventano del tutto logiche[43].

I jīvātman di cui si tratta sono considerati ‘liberati’ nella prospettiva delle vie del non-Supremo che non distinguono l’ottenimento dello stato più elevato raggiungibile con i metodi propri alla loro sādhanā, dal vero mokṣa (o sadyomukti) del jñana mārga. È noto che quelle vie indicano nell’unione (yoga o samādhi) il culmine della realizzazione[44]. Queste ‘anime liberate’, tuttavia, rimangano nell’individualità, anche se più perfetta e sāttvika possibile, com’è dimostrato dal fatto che ancora nutrono retti desideri, rette intenzioni, svolgono ‘funzioni spirituali’ compiendo le azioni che ne derivano e sono rivestiti di forme di divina gloria.

Sebbene gli attributi come la libertà dalla colpa (pāpa) siano enumerati come fossero diversi uno dall’altro, essi si basano ancora sui falsi concetti che sorgono dalla dipendenza da mere parole; perché tutto ciò che [tale libertà] comprende è solo la negazione del pāpa ecc. […] Se si pensa che l’affermazione “Avendo retti desideri (satyakāma) ecc.”, significhi che sono attributi reali appartenenti a una qualche entità “che possiede retti desideri”, tali qualità dipendono dall’associazione con attribuzioni limitanti, cosicché non possono costituire la vera natura di quell’essere in quanto Coscienza. Perché il sūtra nega che il Sé abbia molte forme come nega ogni diversità di forma per il Brahman.[45]

In questo modo il jīvātman qualificato da attribuzioni limitanti (saṃskāra), corrisponde nella prospettiva ādhyātmika a ciò che è il Brahman non-Supremo nell’adhidaiva[46]. È in base a tale affinità che l’anima individuale percorre il devayāna al fine di incorporarsi a Hiraṇyagarbha.

Quando un’anima liberata vuole avere un corpo, ne ottiene uno; e quando desidera rimanere senza non ne ha nessuno; perché il suo desiderio è vero e la volontà diversificata.[47]

[Con ciò] si dimostra che la mente esiste almeno come strumento di desiderio [anche dopo aver realizzato il Brahman qualificato]. Ora esaminiamo se, anche per l’uomo che ha ottenuto qualità divine, il corpo e i sensi esistono o non esistono.[48]

Dopo aver raggiunta la sua collocazione nei Brahmaloka, un mukta jīva può essere spinto dal desiderio di assumere un altro corpo oppure di rimanere in quel loka; “[…] e si diventa ciò che si desidera essere” (BS IV.3.15). Questo è possibile perché ancora c’è una mente e una volontà individuale. Si deve precisare, tuttavia, che quel jīvātman è condizionato solamente da qualità divine. Infatti, il testo precisa che è libero da demeriti (pāpa), ma non da meriti (puṇya) in ragione della sua condizione prevalentemente sāttvika.

Ma la condizione in cui si ottengono i divini poteri dell’aiśvarya, è uno stato differente, come quello dei cieli che vengono come risultato della meditazione avanzata sul Brahman qualificato.[49]

La volontà di assumere un corpo nuovo oppure no, non riguarda soltanto coloro che hanno raggiunto i Brahmaloka[50] con la meditazione sul simbolo, ma anche coloro che, con la meditazione più avanzata e senza il supporto di simboli, hanno ottenuto i divini poteri dell’aiśvarya “associandosi” a Hiraṇyagarbha.

È appropriato dire che, eccetto il potere di manifestazione [, mantenimento e distruzione] dell’Universo, i jīva liberati devono avere tutti gli altri divini poteri dell’aiśvarya, come quello di diventare minuscoli ecc. Infatti, il potere della manifestazione [mantenimento e dissoluzione], dell’Universo, ragionevolmente, appartiene solo al Signore che esiste eternamente. Questo perché Īśvara forma il soggetto principale di quell’argomento, gli altri non essendo neanche presi in considerazione. […] L’Upaniṣad dice che gli altri ottengono i poteri divini di diventare minuscoli ecc. come risultato della ricerca e del desiderio di conoscerlo, perciò essi sono distanti dalle attività della manifestazione ecc. dell’Universo. Inoltre, proprio per il fatto che i jīva liberati sono dotati di mente, possono non avere [tra loro] alcuna “identità d’intenti”, cosicché qualcuno talvolta potrebbe volere la continuità dell’Universo, e altri la sua distruzione. Così essi in certi momenti potrebbero opporsi gli uni agli altri.[51]

Il jīva che ha raggiunto il massimo di universalizzazione con tutti i poteri della Signoria (eccezion fatta per quello della manifestazione ecc.), rimane tuttavia dotato di mente e volontà individuale che lo differenzia da ogni altro che si trovi nella medesima situazione. Lo stato universale (viśva bhava) è infatti l’estensione massima del dominio individuale (viśeṣa bhava). Le menti, che sono principio di divisione, per questo motivo differenziano tra loro i diversi mukta jīvātman. Nel caso in cui un tale jīva assuma un corpo, potrà insegnare una dottrina o una scienza differente da quella di un altro. Questo è il caso dei ṛṣi che hanno fondato scuole e dottrine diverse, perfino in contrasto tra loro. Per esempio, il Sāṃkhya insegnato dal ṛṣi Kapila è diverso e in contrasto con la dottrina della Pūrva Mīmāṃsā del ṛṣi Jaimini. La diversità o il contrasto di cui si parla, però, non comporta una reale incompatibilità, poiché si riferiscono a punti di vista diversi del medesimo sanātana dharma. La composizione tra di essi, infatti, è sempre possibile in quanto si tratta di differenti livelli di conoscenza, dove il più elevato ingloba e trascende l’inferiore. Ovviamente quando si tratta di metafisica non duale, i ṛṣi che l’insegnano non saranno mai in disaccordo tra loro. Perciò da questa osservazione si deduce facilmente la differenza fondamentale tra i brahma ṛṣi e i rāja ṛṣi. Quest’ultimi, insegnando discipline che riguardano il non-Supremo, a seconda del loro grado di conoscenza e della prospettiva duale in cui si pongono, possono essere tra loro in contrasto, nei termini prima spiegati.

Se si sostenesse [che i poteri del jīva liberato sono illimitati] in base alla diretta dichiarazione scritturale, allora [diremmo] no, [perché le scritture dichiarano che i jīvātman raggiungono] colui che li stabilisce come signori delle sfere (maṇḍala) del sole ecc. e che risiede in quegli stessi mondi.[52]

Si dichiara che questa attribuzione d’una signoria indipendente è privilegio del Signore che risiede in quei mondi[53] quale la sfera del sole ecc., come anche quello di nominare gli altri [i jīva liberati quali] reggitori di sfere particolari.[54]

Quelle anime liberate che, dunque, non desiderano assumere un nuovo corpo trasmigrando nel mondo degli uomini (mānava loka), rimangono nelle sfere (maṇḍala) comprese nei Brahmaloka. Essi possono essere investiti dal Signore della reggenza di quelle sfere, diventando oggetto di venerazione da parte degli Dei e degli altri jīva che fruiscono, in quei bhoga loka, dei meriti (puṇya) accumulati in vita. Costoro nella śruti sono definiti deva ṛṣi[55].

C’è un’altra ‘forma’[56] del supremo Signore che non dimora nel [Brahman] effetto[57] perché così dichiara l’Upaniṣad.[58]

E non è che il supremo Signore risieda soltanto nella sfera del sole ecc., nel novero degli effetti [cioè delle cose mutevoli]; Egli ha anche un’altra ‘forma’ completamente libera con cui trascende tutti i cambiamenti. Per questo la scrittura parla della sua esistenza in due ‘forme’[59] […]. Non si può affermare che questo Immutabile sia raggiunto da coloro che si fissano nell’altra forma [presente nel mondo del cambiamento], perché essi non ne hanno il desiderio. Quindi bisogna intendere che, considerando che il supremo Signore possiede due ‘forme’, i jīvātman, che non hanno raggiunto il non qualificato (nirguṇa), possono restare nella forma qualificata (saguṇa) con limitati poteri divini, poiché non hanno acquisito poteri illimitati.[60]

In questo brano appare evidente ciò che differenzia i jīva liberati dal Liberato in vita. Avendo solamente desiderio dell’Ātman, il Liberato ha superato l’individualità (jīvatva) riconoscendosi eternamente nitya, śuddha, buddha, mukta. In verità il desiderio dell’Ātman non è desiderio di altro da Sé, perciò il mukta rimane nella non dualità senza subire alcun cambiamento. Non essendoci più alcuna distinzione (aviśeṣa) né cambiamento (akṣara) né qualità (nirguṇa), il mukta è dunque la stessa Realtà avatārica, la Realtà assoluta.

Avendo superato la sfera dei desideri, il mukta è al di là della dualità, ragion per cui è un errore metafisico considerare un suo ‘ritorno’ nella manifestazione sottoposta alla dualità. La discesa dell’avatāra è la sua māyā, che gli esseri manifestati proiettano illusoriamente. In realtà sono tutti gli esseri e tutti i mondi a essere proiettati nell’avatāra, il Brahman Supremo, sotto la forma illusoria dei nomi e delle forme. Considerare che possa esserci una realizzazione che superi la realtà assoluta del Supremo non ha alcun senso.

Nelle religioni non è conosciuta la dottrina della trasmigrazione e per questa ragione presso di esse non si pone affatto il problema del ritorno dei jīva liberati da un bhoga loka. Da ciò deriva che nella prospettiva religiosa la ‘discesa’ dei profeti deve forzatamente essere descritta sulla base della volontà divina che li invia presso gli uomini. Infatti, essendo il Dio di cui si tratta immaginato dai suoi devoti dotato di volontà, esso corrisponde in tutta evidenza a Hiraṇyagarbha. Se invece si volesse sostenere che i profeti siano degli iniziati che nella stessa vita terrena hanno raggiunto la Liberazione (mokṣa) per una via ascendente, per poi completare tale realizzazione con una ‘ridiscesa’, una simile teoria appare contraria alla śruti e alla logica basata sull’intuizione[61]. Infatti, il mokṣa non è raggiungibile lungo un percorso né ascendente né discendente, trattandosi di uno stato di libertà eterna e assoluta di cui l’illuminato prende coscienza ‘qui ora’.

Il mukta, essendo Brahman stesso, non ha proprio nulla da perfezionare o da compiere ancora nel mondo dell’azione: “Chi conosce il Supremo Brahman s’immerge in Brahman” (Muṇḍaka Upaniṣad, III.2.9). È del tutto sprovvisto di senso metafisico affermare, come fa Coomaraswamy[62] che “egli [il liberato] vorrebbe essere l’Ātmā che brilla [per Sé], ma non l’Ātmā che risplende verso l’esterno[63]”, dando così inizio a una serie di errori dottrinali che hanno condotto alla formulazione della teoria di una pretesa ‘realizzazione discendente’. Il Brahman-Ātman in realtà è sia esterno-interno sia non esterno-non interno, essendo onnipervadente e non duale.

Affermare che l’Ātman, per sua natura possa, dunque, avere “duplice natura in una unica essenza” è contrario ai testi[64], alla logica e all’intuizione. “Dell’Identità Suprema [sic[65]] di Essere e Non-Essere (sadasat), egli vorrebbe essere solo asat…” Queste affermazioni avrebbero bisogno di una fitta serie di correzioni, tanto sono sbagliate. Anzitutto sadāsat non ha mai il significato che Coomaraswamy gli attribuisce. Quando c’è la veglia, il sogno è asat. Quando il sogno è sperimentato è sat (o vyakta, manifestato) e allora la veglia è asat (o avyakta, non manifestata). Sadāsat non è mai riferito a una concezione dell’Essere abbinato a un inesistente Non-Essere, che il Vedānta respinge come irreale[66]. Come si può pensare, dunque che l’Ātmanvorrebbe essere solo asat”?

Coomaraswamy prosegue affermando: “Senonché, com’è esplicitamente detto nella nostra Upaniṣad, III.10.11 [in realtà I.3.11; ma potrebbe essere un errore del curatore della versione italiana][67], mentre si deve essere andati al di là del manifestato (il sole) per raggiungere il Non-Manifesto (l’Oscurità), la Persona e l’ultima tappa è ‘situata’ di là dal Non-Manifesto; non si è raggiunta la fine della via finché non Lo si conosca come Manifestato e Non-Manifesto (vyaktāvyakta)”. Come abbiamo affermato sopra, questi termini sembrano usati solamente per creare confusione in una dottrina altresì chiarissima. Nelle Upaniṣad, vyakta designa la manifestazione, ovvero tutto ciò che è determinato da nome e forma ed è compreso nella veglia e nel sogno; con avyakta si intende ciò che la mente, limitata dalla forma, non riesce a percepire nel sonno profondo. Per cercare di definire questa esperienza che è reale, ma che resta fuori del suo raggio d’indagine, la mente allora proietta un pensiero (la māyā) prodotto dalla sua ignoranza che immagina suṣupti come uno stato manifestato di natura tenebrosa (tāmasa) e perciò indescrivibile (anirvacanīya), che definisce prājña (intelletto superiore), kāraṇa śarīra (corpo causale), e recentemente, del tutto al di fuori del contesto advitīya, come stato informale[68]. Perciò avyakta non è termine attribuibile al Brahman, ma alla avidyā in quanto māyā, prakṛti, tamas, śakti ecc. Questo è l’errore fondamentale della mūlāvidyā[69], vale a dire il dare realtà all’ignoranza.

La conclusione a cui Coomaraswamy giunge, partendo da principi sbagliati, non poteva portare che a conclusioni sbagliate: infatti se con ‘la Persona’ [Puruṣa] Coomaraswamy voleva intendere il Supremo, certamente errava a considerarla come la somma di “Manifestato e Non-Manifesto”[70]. Inoltre, allora certamente non avrebbe dovuto definirlo ‘tappa’. Anche l’affermazione che “non si è raggiunta la fine della via finché non lo si conosca come Manifestato e Non-Manifesto (vyaktāvyakta)[71] è errata. Infatti, per il Vedāntacoloro che vogliono andare oltre le vie non procedono su nessun sentiero[72].

Sempre secondo Coomaraswamy “L’obiettivo di Shankara è quello di un Pratyeka Buddha[73], termine usato nel buddhismo theravāda per indicare un illuminato che non insegna la dottrina ad altri. Inutile far notare che il jñāni per Śaṃkara è l’avatāra stesso, perciò è strumento di Liberazione per tutti coloro che lo conoscono. D’altra parte, che Śaṃkara sia l’Ācārya per eccellenza è universalmente riconosciuto. Purtroppo, evocando le dottrine del buddhismo, che nelle diverse forme sono spesso in contraddizione tra loro, è stata richiamata anche la figura del bodhisattva, facendolo apparire superiore al buddha. Infatti, questa ‘funzione’ è stata erroneamente interpretata come il corrispondente della ‘realizzazione discendente’, teoria che non esiste affatto nemmeno nel buddhismo. Il bodhisattva è un jīva di trasmigrazione particolarmente qualificato che rinasce per raggiungere l’estinzione (nirvāṇa) dell’individualità, vale a dire la buddhità (buddhatva). Nelle scuole mahāyāna il bodhisattva è considerato un jīva che si astiene dal raggiungimento dello stato di buddha per indicare agli esseri senzienti la via del dharma. Ciò non muta la sostanza delle cose, aggiungendo solamente il concetto di compassione[74] a questa dottrina. Perciò il bodhisattva non è mai considerato superiore a un buddha. Coomaraswamy allude al fatto che “Śaṃkara esita[75] a trattare della realizzazione discendente. Non è una esitazione, in quanto ha argomentato in modo minuzioso la rinascita di coloro che stazionano nel Brahmaloka. Se Śaṃkara non parla di realizzazione discendente è perché nemmeno nell’Induismo esiste una simile teoria. Non ne parla, dunque, non perché è una manchevolezza della dottrina advaita, come insinua Coomaraswamy, ma proprio perché si tratta di una costruzione mentale di quest’ultimo, contraria alla metafisica, alla śruti, alla logica e all’intuizione.

Fine terza parte: III/III.

Dal sito Veda Vyāsa Maṇḍalahttps://vedavyasamandala.com/ 



[37] Ṛṣi è un termine usato in particolare per designare chi svolge una determinata funzione durante il satya yuga. Sono definiti preferibilmente cakravatin nel corso del tretā yuga, vyāsa nel dvāpara yuga e siddha durante il presente kali yuga. Tuttavia, l’uso di questi termini dipende dal linguaggio delle differenti correnti (prakaraṇa) purāṇiche. Come si vedrà, i ṛṣi, a loro volta, sono divisi in: brahma ṛṣi, la cui funzione consiste nell’insegnamento e la trasmissione del jñāna mārga; i rāja ṛṣi, che insegnano la conoscenza del non-Supremo e le altre scienze comprese in quel dominio di karma kāṇḍa; e i deva ṛṣi, che dopo la caduta del corpo reggono le sfere celesti.

[38] Non si confonda questo termine con jīvan mukta, il Liberato in vita.

[39] Facciamo riferimento a G.G. Filippi, Il post mortem dei sādhaka secondo la dottrina di Śaṃkarācārya, Milano, Ekatos Ed. Pr. 2019 e apparso anche su questo Sito. Apporteremo qualche piccola modifica formale per permetterne una lettura più agevole.

[40] Una volta Prajāpati disse: «Il Sé che è libero da pāpa, decadenza, morte, sofferenza, fame, sete, che ha retto desiderio e retta intenzione, quello deve essere conosciuto, quello deve essere indagato per la realizzazione. Chi, dopo aver conosciuto quel sé, lo realizza, ottiene tutti i mondi e tutti i desideri»” (ChU VIII.7.1).

[41] Per capire cosa s’intenda qui con Brahman, si consulti l’articolo di Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī “L’Onnipotenza di Brahman” pubblicato su questo Sito.

[42] Questa è dunque la prospettiva della Pūrva Mīmāṃsā, vale a dire del karma kāṇḍa o conoscenza del non-Supremo (aparabrahma vidyā).

[43] Il post mortem dei sādhaka, cit., pp. 114-115.

[44] Questi stati, anche quelli raggiunti durante la vita corporea, sono comunque transitori, poiché tali ‘realizzati’ ritornano costantemente dal samādhi alla veglia dopo le loro esperienze. Similmente i profeti delle religioni ritornano allo stato di veglia dopo la visione divina. Alcuni mantengono alcune tracce visibili a tutti del loro rapimento (jadhb) estatico, com’è l’esempio di Mosé irradiante dopo il colloquio con il suo Dio. Con la caduta del corpo, le ‘anime liberate’ s’avviano nuovamente verso il Brahmaloka percorrendo il devayāna. A meno che, nell’attuale vita corporea, non raggiungano la Liberazione finale.

[45] Ibid. pp.115-16. Questa è la prospettiva del jñāna mārga, della Brahma vidyā śaṃkariana.

[46] Questi due termini si riferiscono grosso modo all’ambito microcosmico e a quello macrocosmico.

[47] Ibid. p. 121.

[48] Ibid. p. 119.

[49] Ibid. pp. 124-125.

[50] Il Bramaloka è spesso menzionato al plurale, in quanto in esso sono compresi tutti gli altri cieli (loka) nella forma di sfere interne (maṇḍala). Espresso al singolare, il Brahmaloka è considerato il cielo supremo, dimora di Hiraṇyagarbha. È sorprendente la corrispondenza esatta con la cosmografia dantesca: dapprima i cieli sono considerati in modo distintivo per illustrare la via di salita verso Dio; in seguito, i cieli sono descritti in ordine inverso, compresi come un tutt’uno nell’Empireo, residenza di Dio.

[51] Ibid. pp. 125-126.

[52] Ibid. pp. 126-127.

[53] Ibid. pp. 126-127.

[54] BSŚBh IV.4.18.

[55] Appare qui evidente che quei deva ṛṣi o anime liberate che non desiderano riprendere un corpo, corrispondono, in qualche modo, ai profeti reggitori delle sfere nelle religioni monoteistiche, tenuto conto delle peculiarità che le distinguono per natura e portata dal sanātana dharma.

[56] ‘Forma’ qui non ha il senso limitativo che ha nel binomio nāma-rūpa, ma quello di ‘sua propria vera natura’ (svarūpa).

[57] Kārya Brahman. Si deve tener sempre presente che il Brahman non-Supremo è effetto (kārya) della māyā proiettata dall’ignoranza della mente dell’individuo e non da un inesistente Brahman-causa. Infatti, è espressamente dichiarato che il Supremo Brahman non può essere mai concepito come causa (kāraṇa) di alcunché. Infatti “la causa non è causa, poiché è il contenuto di una percezione erronea, e perciò cessa di essere tale quando l’errore viene rimosso” (MUGKŚBh IV.25).

[58] BS IV.4.19.

[59] Il Brahman qualificato è sottoposto, infatti, alla forma (rūpa [nonché al nome]), essendo un effetto della immaginazione della mente. Il Brahman Supremo è arūpin in quanto non è affatto sottoposto alla forma. La seconda ‘forma’, di cui nella citazione, è infatti il termine svarūpa che, a esso applicato, significa null’altro che ‘la sua vera natura’.

[60] BSŚBh IV.4.19

[61] Essa è infatti del tutto assente anche nelle dottrine dei diversi monoteismi.

[62] A. K. Coomaraswamy, Conoscenza e Morte secondo la Dottrina Indù. Katha Upanishad con il commento di Shrī Shankarāchārya, Milano-Trento, Luni Ed.,1998, pp. 175 e segg.

[63] Si tratta di una parafrasi di Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad II.3.1-3; il testo, tuttavia, non tratta del mukta, ma di tutt’altro, ossia della differenza che intercorre tra il sole (Virāṭ) e l’essere (Hiraṇyagarbha) che in esso risiede. Si tratta di un’altra forzatura operata da Coomaraswamy.

[64] Evidentemente Coomaraswamy non aveva letto la spiegazione che di questo passaggio upaniṣadico dà Śaṃkara: “Brahman, il Supremo Ātman ha due forme a causa della sovrapposizione con cui l’ignoranza definisce e concepisce il Supremo Brahman senza forma” (BUŚBh II.3.1). E, se non bastasse: “[Il Brahman] è immediatamente evidente, vale a dire eternamente splendente, in quanto è sempre della natura dello splendore, perché del tutto privo di manifestazione e di non-manifestazione, che sono rispettivamente prodotte da errata conoscenza e da assenza di conoscenza” (Māṇḍūkya Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya, III.36).

[65] È incredibile la reiterazione dell’uso di questa formula, concepita da Ivan Aguéli (‘Abdul Hādī Aqīlī) per tradurre liberamente Waḥdatul-Wujūd, del tutto inappropriata per significare il Supremo Brahman o, come in questo caso, il mokṣa.

[66] “Egli esclamò: «Ma, mio caro, come potrebbe essere così? Come potrebbe l’Essere nascere dal non-Essere? In realtà in principio esisteva solo l’Essere, uno senza secondo»” (ChU VI.2.2).

[67] In realtà l’Upaniṣad afferma: “Il non manifestato [avyakta, cioè prakṛti] è più alto di mahat [l’intelletto (buddhi) universale di Hiraṇyagarbha], il Puruṣa è più alto del non manifestato. Non c’è nulla più alto del Puruṣa. È il culmine, la meta suprema. (KU I.3.11).

[68] In realtà il sonno profondo è lo stesso Brahman Supremo. Sono gli ignoranti che considerano suṣupti uno ‘stato causale’, interpretato di volta in volta come il non-Supremo, Īśvara, prakṛti, māyā, Śakti; ma questo non ha nulla a che vedere con la metafisica advitīya: è la metafisica interpretata attraverso le lenti delle vie del non-Supremo.

[69] Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’ignoranza, Milano, Ekatos Edizione Privata, 2019.

[70] Questo errore di interpretazione di vyaktāvyakta, poi, si ripercuote sulla fantasiosa concezione del ‘Principio Supremo’ [intendendo il Brahman] come se fosse l’insieme di manifestato e di non manifestato, di Essere e di non-Essere o di ‘possibilità di manifestazione e di non-manifestazione’. La śruti afferma: “Il non manifestato è al di là di mahat, il Puruṣa è più elevato del non manifestato. Non c’è nulla al di là del Puruṣa. Egli è il culmine, la meta suprema.” (KU I.3.11). Per capire con esattezza cosa significhi mahat, seguiamo il commento: “mahan ātman, è il principio più interno dell’intelletto di tutti gli esseri ed è mahan perché pervade tutti. Il principio chiamato Hiraṇyagarbha che è nato per primo dal non manifestato, la māyā, e che consiste di intelletto e attività è chiamato mahan ātman ed è più alto della buddhi” (KUŚBh I.3.10).

[71] È quanto afferma Ānanda K. Coomaraswamy chiosando a modo suo la Kaṭha Upaniṣad. Cit., p. 178.

[72] Kaṭha Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya, I.3.11.

[73] Coomaraswamy, Ibid. p. 178. Come s’è già detto, il celebre storico dell’arte è affidabile quando esamina simboli e rituali. Non lo è affatto nel dominio della metafisica, in quanto per il suo attaccamento sentimentale alla forma del buddhismo singalese dovuto alla frequentazione familiare e giovanile con la Mahā Bodhi Sabhā, la Società Teosofica e il SadharanBrahmo Samāj, ha sempre nutrito un insanabile pregiudizio nei confronti di Śaṃkara e della sua dottrina.

[74] Non per nulla il mahāyāna è spesso messo in relazione al bhakti mārga.

[75] Coomaraswamy, Ibid. p. 177.

1 commento:

  1. Interessante guardare la palesazione come direttamente fluente da Ishwara.

    Quel che volevo sottoporre è sul piano logico/causale, o forse sarebbe meglio appunto delinearlo intuitivo, ossia su che base sia possibile tale "discesa" correlata al problema di come sia possibile che esista il vostro cosidetto emanazionismo.

    Di solito si usa giustificare tale possibilità proprio alla luce del fatto che noi si exsista. Mi sembra ben misera spiegazione.
    I cristiani non a caso hanno adombrato un'unica apparizione currogandola con la kenosis relativa, inoltre furbamente appioppando la "discesa" ad una sola cosiddetta persona della triade santa.
    Anche posto il caso che la cristificazione, alla maniera degli origenisti, sia effettiva e inglobante o svelante nel solo Verbo, rimarrà comunque una distinzione a cui la creatura non potrà giungere nel riassorbimento, e ci sarà di per sè una giustificazione della "creazione".

    Invece la "discesa" avatarica sembra inutile poiché discendendo infatti Ishwara o Visnù - in una visione più esternalizzata - non fa che negare sè stesso, poiché non è chiaro perché Egli manifesto non sia anche il restante come dovrebbe, cosa che necessariamente è in ogni jiva ( e credo di per sè anche in ogni esistibile ).
    Il che fa il paio a bomba con quel che mi sembra incongruo come precedentemente detto dacché non ha senso un'emanazione se "DIO" tutto/nulla "è".
    Anzi di per sè stesso dovrebbe essere impossibile soprattutto se si immagini di singolarizzare una'apparizione che di per sè non può non essere universale ed integrale.

    Grazie dell'attenzione

    daouda



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