"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 27 giugno 2021

René Guénon, Studi sull’Induismo - Recensioni di libri sull’Induismo II

René Guénon, Studi sull’Induismo

Recensioni di libri sull’Induismo II

Recensioni di libri sull’Induismo pubblicati dal 1929 al 1950 sulla rivista «Le Voile d’Isis», diventata «Études Traditionnelles» nel 1937

1936
Hari Prasad Shastri: A Path to God-Realization
Ananda K. Coomaraswamy: Angel and Titan: An Essay in Vêdic Ontology
Shrî Ramana Maharshi: Truth revealed (Sad-Vidyâ) Kavyakanta Ganapati Muni: Shrî Ramana Gita
Mrs. Rhys Davids: The Birth of Indian Psychology and its development in Buddhism
Hari Prasad Shastri: Meditation, its theory and practice
Ananda K. Coomaraswamy: Elements of Buddhist Iconography
Jean Marquès-Rivière: Le Bouddhisme au Tibet
Hari Prasad Shastri: Vêdânta light, from Shrî Dadaji Maharaj
Ananda K. Coomaraswamy e Duggirala Gopalakrishnayya: The Mirror of Gesture, being the Abhinaya Darpana of Nandikeshwara, translated into English, with introduction and illustrations

1936
Hari Prasad Shastri: A Path to God-Realization (Londra, The Shanti-Sadan Publishing Committee). L’autore dichiara che le idee esposte in questo libretto gli sono venute meditando sugli insegnamenti di Lao-Tzu; a dire il vero, non vi si trova nulla che sia di ispirazione specificamente taoistica; piuttosto, l’abbozzo elementare di un metodo «preparatorio» che si potrebbe applicare indipendentemente da qualsiasi forma tradizionale definita. Le prescrizioni di carattere «morale» e «devozionale» occupano un posto forse eccessivo, mentre quel che si riferisce alla conoscenza, e che dovrebbe essere essenziale, è ridotto a poca cosa. Da notare altresì che in partenza è posta una nozione della «spiritualità» che ci sembra piuttosto vaga e insufficiente; ma dove non possiamo che approvare totalmente l’autore è quando dichiara che «i fenomeni psichici» non devono essere associati con la «vita spirituale», ricordando che Tulsidas, nel suo Râmâyana, chiede di essere preservato dalla tentazione di tali pretesi «poteri», e che Shankarâchârya avverte che essi sono soltanto una trappola alla quale è difficile sfuggire.
Ananda K. Coomaraswamy: Angel and Titan: An Essay in Vêdic Ontology (Estratto dal «Journal of the American Oriental Society», vol. 55, N. 4). Questo studio importante fa seguito a The darker Side of Dawn, da noi precedentemente recensito; l’idea principale che l’autore sviluppa in esso è che i Dêva, o «Angeli», e gli Asura, o «Titani», rispettivamente potenze di Luce e potenze di Tenebra nel Rig-Vêda, quantunque opposti nella loro azione, procedono tuttavia da una stessa essenza, giacché la loro distinzione si riferisce in realtà al loro orientamento o stato. L’Asura è un Dêva in potenza, il Dêva è ancora un Asura a causa della sua natura originaria; e le due denominazioni possono essere applicate a una sola e stessa entità secondo il suo modo di operazione, come si può vedere ad esempio nel caso di Varuna. D’altronde, mentre i Dêva sono abitualmente rappresentati sotto forma di uomini e di uccelli, gli Asura sono rappresentati sotto forma di animali e particolarmente di serpenti; di qui una serie di considerazioni del maggior interesse sui diversi aspetti del simbolismo del serpente, principalmente dal punto di vista cosmogonico. Nel corso del lavoro sono affrontate molte altre questioni che non possiamo enumerare in dettaglio: citiamo soltanto la natura di Agni e i suoi rapporti con Indra, il significato del sacrificio, quello del Soma, il simbolismo del Sole e dei suoi raggi, del ragno e della sua tela ecc. Il tutto è preso in esame secondo uno spirito decisamente tradizionale, come mostreranno le poche frasi che estraiamo dalla conclusione: «Quella che deve essere considerata dal di fuori, e logicamente, come una duplice operazione di sonno e di risveglio alternati, di potenzialità e di atto, è interiormente e realmente la pura e semplice natura dell’Identità Suprema... Né l’ontologia vêdica né le formule con le quali essa si esprime sono del resto particolari del Rig-Vêda, ma si possono riconoscere in tutte le forme extra-indiane della tradizione universale e unanime».
Shrî Ramana Maharshi: Truth revealed (Sad-Vidyâ) (Tiruvannamalai, South India, Shrî Ramanashramam). Qualche mese fa segnalammo la traduzione di cinque inni del «Maharshi»; la presente è la traduzione di un lavoro che si riferisce in modo più diretto al principi dottrinali, e condensa, sotto forma di una breve serie di aforismi, l’insegnamento essenziale concernente la «Realtà Suprema», ovvero la «Coscienza Assoluta» che dev’essere realizzata come il «Sé».
Kavyakanta Ganapati Muni: Shrî Ramana Gita (Tiruvannamalai, South India, Shrî Ramanashramam). Quest’altro libricino contiene una serie di conversazioni del «Maharshi» con qualcuno dei suoi discepoli, fra i quali l’autore stesso, su questioni riferentisi alla realizzazione spirituale e ai mezzi per accedervi; segnaleremo in particolare i capitoli che riguardano hridaya-vidyâ, il «controllo della mente», i rapporti tra jnâna e siddha e lo stato del jîvan-mukta. Non ci è certo possibile riassumere tutte queste cose, ma esse, così come i contenuti del volume precedente, possono fornire eccellenti punti di partenza per la meditazione.
Mrs. Rhys Davids: The Birth of Indian Psychology and its development in Buddhism (Londra, Luzac and Co.). Ci sembra fortemente dubbio, anche dopo aver letto questo libro, che sia mai esistito qualcosa che si possa chiamare una «psicologia indiana», o, in altre parole, che il punto di vista «psicologico», come lo intendono gli Occidentali moderni, sia mai stato preso in considerazione in India. L’autrice riconosce che lo studio dell’essere umano è in India sempre stato fatto procedendo dall’interno all’esterno, e non nel senso inverso come in Occidente; ma è precisamente per questa ragione che la psicologia, la quale si limita ad analizzare indefinitamente alcune modificazioni superficiali dell’essere, non poteva in essa essere oggetto del minimo interesse. È solo nel Buddhismo, e indubbiamente in quanto conseguenza della sua tendenza a negare, o per lo meno a ignorare i principi trascendenti, che si incontrano considerazioni che potrebbero prestarsi, in una certa misura, a essere interpretate in termini di psicologia; ma anche qui non è il caso di spingere gli accostamenti troppo in là. Se poi si vuole trovare psicologia addirittura nelle Upanishad, allora si dà prova di una perfetta incomprensione; incomprensione che si manifesta del resto anche troppo chiaramente in incredibili confusioni di linguaggio: l’«anima», lo «spirito», l’«io», il «sé», l’«uomo», sono tutti termini che vengono usati, a ogni momento, senza far distinzioni e come se indicassero una sola e stessa cosa! È appena il caso di dire che in questo libro si vede costantemente prender corpo il partito preso, comune a tutti gli orientalisti, di tutto ridurre a un «pensiero» puramente umano, che avrebbe avuto inizio in una specie di stato di «infanzia» e sarebbe poi «evoluto» progressivamente; tra un simile punto di vista e quello della tradizione non c’è evidentemente nessun terreno possibile di intesa... Il sedicente «metodo storico», del resto, è di fatto lungi dall’escludere ipotesi più o meno di fantasia: la Signora Rhys Davids ha immaginato così, sotto il nome di Sakya, qualcosa che crede sia stato il Buddhismo originario, il quale essa pensa di poter ricostituire eliminando bellamente, alla stregua di aggiunte «tardive», tutto quel che non si accordi con l’idea che si fa lei degli inizi di quella che chiama una world-religion, e in primo luogo tutto ciò che sembri presentare un carattere «monastico»; quel che in realtà può provare un procedimento del genere, è soltanto che è lei a essere afflitta da un violento pregiudizio «antimonastico»! Del resto, se nelle sue interpretazioni volessimo rilevare le tracce delle sue proprie preferenze religiose o filosofiche, non la finiremmo più; ma siccome è decisamente persuasa che chiunque non le condivida è per ciò stesso privo di qualsiasi «spirito critico», i nostri rilievi non servirebbero sicuramente a nulla... A ogni modo, dopo la lettura di un lavoro di questo genere, siamo certamente molto meglio documentati su quel che pensa l’autore di quanto non lo siamo su quel che hanno potuto pensare veramente coloro che egli si è proposto di studiare «storicamente»; questo, per lo meno, non manca di avere un certo interesse «psicologico»!
Hari Prasad Shastri: Meditation, its theory and practice (Londra, The Shanti-Sadam Publishing Committee). Questo libriccino contiene un’esposizione piuttosto semplice, ma tuttavia esatta nell’insieme, di quel che sono la concentrazione e la meditazione e del modo in cui ci si può esercitare ad esse progressivamente. L’autore fa del resto notare molto giustamente che la meditazione non è fine a se stessa, ma è soltanto un metodo per raggiungere la Conoscenza, la quale in fondo non è altro se non la «realizzazione del Sé». Egli insiste inoltre con molta ragione sulla necessità dell’insegnamento tradizionale; ma a questo proposito un po’ più di precisione sarebbe stata augurabile, giacché non pochi lettori potrebbero credere che sia sufficiente ricollegarsi «idealmente» a una tradizione, magari anche soltanto studiandone gli insegnamenti nei libri, quando le cose non stanno affatto così, e occorre invece che il ricollegamento sia diretto ed effettivo. Nello stesso ordine di idee, noteremo inoltre un’altra lacuna: è verissimo che i mantra non sono validi se non siano pronunciati nella lingua sacra della tradizione alla quale appartengono, e non tradotti invece in un’altra lingua qualsivoglia; ma perché non avvertire che, inoltre, essi non possono avere la loro piena efficacia se non quando siano stati comunicati mediante una trasmissione regolare e secondo i riti prescritti tradizionalmente? Forse è per non rischiare di scoraggiare troppo gli Occidentali, per i quali una simile condizione non potrebbe essere adempiuta; per quel che ci riguarda, noi pensiamo però che sia meglio avvertirli della limitatezza dei risultati che possono normalmente sperare piuttosto che esporli ad andare in seguito incontro a delusioni più spiacevoli.
Ananda K. Coomaraswamy: Elements of Buddhist Iconography (Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press). Questo importate lavoro contiene l’interpretazione dei principali simboli usati dal Buddhismo, i quali gli sono però molto anteriori e in realtà hanno un’origine vêdica, giacché, come dice assai giustamente l’autore, «il Buddhismo in India rappresenta uno sviluppo eterodosso, tenuto conto che tutto quel che nella sua ontologia e nel suo simbolismo è metafisicamente corretto è derivato dalla tradizione primordiale». I simboli che sono stati applicati al Buddha sono principalmente quelli dell’Agni vêdico, e questo neanche più o meno tardivamente, ma, al contrario, fin dall’epoca in cui egli non era ancora rappresentato in forma umana. Quelli fra tali simboli che vengono qui studiati specificamente (e di cui le tavole grafiche illustrano una serie di esempi significativi) sono: l’albero, il quale è, come in tutte le tradizioni, l’«Albero della Vita» o «Albero del Mondo»; il vajra, nel suo duplice senso di «folgore» e di «diamante» il secondo di questi significati corrispondendo alle idee di indivisibilità e di immutabilità; il loto, il quale rappresenta il «terreno» o «supporto» della manifestazione; la ruota, la quale, sia come «ruota della Legge» sia come «ruota cosmica», rappresenta l’operazione dei principi nella manifestazione. L’autore insiste sulla stretta relazione che questi simboli diversi presentano con la concezione dell’«Asse del Mondo», cosa da cui discende il fatto che le stesse localizzazioni geografiche, nella leggenda buddhistica, sono in definitiva puramente analogiche. Egli affronta inoltre un gran numero di altri punti interessanti, quali la rassomiglianza tra il simbolo del vajra e il trishûla, il significato delle impronte di piedi, rappresentanti le «tracce» del principio nel mondo manifestato, la colonna di fuoco in quanto simbolo «assiale» equivalente a quello dell’albero, il simbolismo del carro e quello del trono ecc. Questo breve compendio basterà, pensiamo, a far vedere come la portata di questo lavoro sia molto superiore a quella di uno studio sul Buddhismo; l’esame specifico di quest’ultimo, come dice l’autore, è, propriamente parlando, soltanto un «accidente»; e in realtà in questo libro si tratta del simbolismo tradizionale nel suo senso veramente universale. Possiamo aggiungere che le considerazioni in esso contenute sono di un tal tipo, da modificare sensibilmente l’idea «razionalistica» che hanno gli Occidentali del «Buddhismo primitivo», il quale era forse meno completamente eterodosso di alcune delle sue derivazioni successive; se da qualche parte «degenerazione» c’è stata, non sarebbe forse precisamente in senso inverso a quello che presuppongono i pregiudizi degli orientalisti e la naturale simpatia dei «moderni» per tutto ciò che si presenta come antitradizionale?
Jean Marquès-Rivière: Le Bouddhisme au Tibet (Parigi, Éditions Baudinière). La prima parte di questo libro è un’esposizione delle idee fondamentali del Buddhismo in generale, e più particolarmente del Mahâyâna; la seconda tratta della speciale forma rivestita dal Buddhismo tibetano, o Lamaismo. Molto giustamente l’autore rettifica alcune idee errate che hanno corso in Occidente, in particolare riguardo al «Tantrismo», ma anche riguardo alle interpretazioni «reincarnazionistiche»; egli inoltre non accetta la concezione che pretende di ridurre il Mahâyâna a un «Buddhismo corrotto», cosa che comporta, egli dice, «un disconoscimento totale delle dottrine dell’Oriente e del loro valore proprio». Sotto molti aspetti il suo libro ha perciò un valore superiore a quello dei lavori abituali degli «orientalisti»; inoltre, dobbiamo segnalare, fra i più interessanti, i capitoli dedicati alla meditazione, al simbolismo della «ruota della vita» e alla «scienza del vuoto». Non tutto però è perfettamente chiaro, e capita talvolta anche che l’autore ricada in qualcuna delle confusioni correnti: il Buddhismo non è assolutamente «religioso» nel senso occidentale della parola, e quel che esso è realmente non ha certamente nulla a che vedere con il «misticismo»; è questa d’altronde la ragione per cui si trovano in esso un’iniziazione e un metodo, i quali sono evidentemente incompatibili con qualsiasi «misticismo», e di cui l’autore in fondo non sembra comprendere né il carattere né la portata. Forse ciò è dovuto in parte, precisamente, a questa confusione, e in parte anche all’esagerazione dell’importanza dei «fenomeni» e dello «sviluppo psichico», che non sono se non cose assai secondarie, quantunque non presuppongano unicamente, come è detto, «una conoscenza molto spinta della fisiologia umana»; a ogni buon conto, neanche questo difetto di prospettiva è sufficiente a spiegare come si possa arrivare a parlare di una «concezione del tutto meccanicistica e materialistica» precisamente dove è assente proprio la nozione di «materia», o a definire «puramente umano» ciò che al contrario implica essenzialmente l’intervento di elementi «sovraumani»; si tratta di una ignoranza così spinta della vera natura delle «influenze spirituali» che è permesso restarne stupefatti! La verità è però che le asserzioni che abbiamo citato si ricollegano a un insieme di riflessioni «tendenziose» le quali, curiosamente, sembrano non integrarsi nel resto del lavoro, perché si trovano quasi sempre alla fine dei capitoli, come se fossero state aggiunte, e che alcune di esse obbediscono a preoccupazioni «apologetiche», se non addirittura «missionarie», di ordine piuttosto inferiore; in queste condizioni, non c’è forse da chiedersi legittimamente se simile ignoranza non sia «voluta», per lo meno in una certa misura? Comunque stiano le cose, è assai spiacevole che un lavoro che per altri versi presenta meriti ben reali sia in tal modo sfigurato dall’intrusione di uno spirito che preferiamo limitarci a definire soltanto come una delle forme del «proselitismo» occidentale, anche se gli starebbe bene un termine ancor più severo...
Hari Prasad Shastri: Vêdânta light, from Shrî Dadaji Maharaj (Londra, The Shanti-Sadan Publishing Committee). Questo opuscolo porta la traduzione di alcune conversazioni del guru dell’autore su diversi argomenti che hanno riferimento con gli insegnamenti del Vêdânta, in particolare per ciò che riguarda i mezzi preparatori della realizzazione spirituale; la forma è semplice e il contenuto piuttosto elementare, ma non vi si trova nulla che sia tale da sollevare obiezioni serie. Rileveremo soltanto un’affermazione che ci pare un po’ contestabile: come, e in qual senso, si può attribuire a Zoroastro l’origine del Karma-Yoga?
Ananda K. Coomaraswamy e Duggirala Gopalakrishnayya: The Mirror of Gesture, being the Abhinaya Darpana of Nandikeshwara, translated into English, with introduction and illustrations (New-York, E. Weyhe). Questo libro è la traduzione di un antico trattato indù sull’arte del teatro e della danza (l’uno e l’altra sono denominati in sanscrito con la stessa parola: nâtya); qui si tratta, naturalmente, di un’arte rigorosamente tradizionale, la cui origine è riferita a Brahmâ stesso e situata all’inizio del Trêta-Yuga. In essa tutto ha un significato preciso, e di conseguenza nulla può essere demandato alla fantasia individuale; i gesti (soprattutto i mudrâ, o segni formati dalla posizione delle mani) costituiscono un vero linguaggio ieratico, che del resto si ritrova in tutta l’iconografia indù. Per cui questo trattato dev’essere, nell’intenzione dei suoi traduttori, considerato innanzitutto come «un’illustrazione dei principi generali di un’arte della comunicazione a gesti, e di qualsiasi arte tradizionale e normale»; del resto «la divisione moderna della vita in compartimenti stagni e indipendenti è una pura e semplice aberrazione, e le arti tradizionali di un popolo non sono una sorta di escrescenza, ma fanno parte integrante della sua vita». Alla fine, il volume è corredato da bellissime illustrazioni, costituite dalla riproduzione di esempi presi dalla scultura e dalla pittura, e insieme con esse si trova la raffigurazione di un certo numero di atteggiamenti e di mudrâ che facilitano moltissimo la comprensione del testo.


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