René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
16. Rappresentazione simbolica di Âtmâ e delle sue condizioni mediante il monosillabo sacro Om
Il seguito della Mândûkya Upanishad riguarda la corrispondenza del monosillabo sacro Om e dei suoi elementi (mâtrâ) con Âtmâ e le sue condizioni (pâda); da una parte esso indica le ragioni simboliche di questa corrispondenza, e dall’altra gli effetti della meditazione incentrata sul simbolo e su ciò che esso rappresenta, vale a dire sull’Om e sull’Âtmâ, in cui il primo funge da «supporto» per ottenere la conoscenza del secondo. Daremo ora la traduzione di quest’ultima parte del testo; ma non ci sarà possibile corredarla di un commento esauriente, poiché ciò ci allontanerebbe troppo dal tema del presente studio.
«Questo Âtmâ è rappresentato dalla sillaba (per eccellenza) Om, che a sua volta è rappresentata da caratteri (mâtrâ), (per cui) le condizioni (di Âtmâ) sono le mâtrâ (di Om), e (inversamente) le mâtrâ (di Om) sono le condizioni (di Âtmâ): esse sono A, U e M.
«Vaishwânara, la cui sede è nello stato di veglia, è (rappresentato da) A, la prima mâtrâ, perché essa è la connessione (âpti, di tutti i suoni, in quanto il suono primordiale A, quello emesso dagli organi della parola nella loro posizione naturale, è come immanente in tutti gli altri, che ne sono modificazioni diverse e che si unificano in esso, come Vaishwânara è presente in tutte le cose del mondo sensibile e ne costituisce l’unità), e anche perché essa è il principio (âdi, allo stesso tempo dell’alfabeto e del monosillabo Om, come Vaishwânara è la prima delle condizioni di Âtmâ e la base partendo dalla quale deve compiersi, per l’essere umano, la realizzazione metafisica). Chi conosce questo ottiene in verità (la realizzazione di) tutti i suoi desideri (poiché, attraverso la sua identificazione con Vaishwânara, tutti gli oggetti sensibili divengono dipendenti da lui e parte integrante del suo stesso essere), ed egli diventa il primo (nel dominio di Vaishwânara o di Virâj, di cui viene a essere il centro in virtù di questa conoscenza stessa e per l’identificazione che essa implica quando è pienamente effettiva).
«Taijasa, la cui sede è nello stato di sogno, è (rappresentato da) U, la seconda mâtrâ, perché essa è l’elevazione (utkarsha, del suono, prendendo come punto di partenza la sua prima modalità, così come lo stato sottile appartiene, nella manifestazione formale, a un ordine più elevato dello stato grossolano), e anche perché partecipa di entrambe (ubhaya, vale a dire che, per natura e posizione, è intermedia fra i due elementi estremi del monosillabo Om, così come lo stato di sogno è un elemento intermedio, sandhyâ, fra la veglia e il sonno profondo). Chi conosce questo progredisce in verità sulla via della Conoscenza (in virtù della sua identificazione con Hiranyagarbha), e (così illuminato) è in armonia (samâna, con tutte le cose, poiché considera l’Universo manifestato come produzione della propria conoscenza, che gli è inseparabile), e nessuno dei suoi discendenti (nel senso di “posterità spirituale”)[1] ignorerà Brahma.
«Prâjna, la cui sede è nello stato di sonno profondo, è (rappresentato da) M, la terza mâtrâ, perché essa è la misura (miti, delle altre due mâtrâ, così come, in un rapporto matematico, il denominatore è la misura del numeratore), e anche perché è la conclusione (del monosillabo Om, considerato come ciò che racchiude la sintesi di tutti i suoni; allo stesso modo, il non-manifestato contiene, sinteticamente e in principio, tutto il manifestato con le sue diverse modalità possibili, e quest’ultimo può essere considerato come parte del non-manifestato, da cui non si è mai distinto se non in modo contingente e transitorio: la causa prima è allo stesso tempo la causa finale, e la fine è necessariamente identica al principio).[2] Chi conosce ciò misura in verità questo tutto (vale a dire l’insieme dei “tre mondi” o dei differenti gradi dell’Esistenza universale, di cui l’Essere puro è il “determinante”),[3] e diviene la conclusione (di tutte le cose, mediante la concentrazione nel proprio Sé o nella sua personalità, in cui si ritrovano, “trasformati” in possibilità permanenti, tutti gli stati di manifestazione del suo essere).[4]
«Il Quarto è “non-caratterizzato” (amâtra, dunque incondizionato); esso è non-agente (avyavahârya), senza alcuna traccia di sviluppo della manifestazione (prapancha-upashama), tutto Beatitudine e senza dualità (Shiva Adwaita): ciò è Omkâra (il monosillabo sacro considerato indipendentemente dalle sue mâtrâ), ciò sicuramente è Âtmâ (in Sé, al di fuori e indipendentemente da qualsiasi condizione o determinazione, non esclusa la determinazione principiale che è l’Essere stesso). Chi conosce questo entra in verità nel proprio “Sé” per mezzo di questo stesso “Sé” (senza un tramite di qualunque ordine, senza l’uso di alcuno strumento, quale una facoltà di conoscenza, che può solo raggiungere uno stato del “Sé” e non Paramâtmâ, il “Sé” supremo e assoluto)».[5]
Il seguito della Mândûkya Upanishad riguarda la corrispondenza del monosillabo sacro Om e dei suoi elementi (mâtrâ) con Âtmâ e le sue condizioni (pâda); da una parte esso indica le ragioni simboliche di questa corrispondenza, e dall’altra gli effetti della meditazione incentrata sul simbolo e su ciò che esso rappresenta, vale a dire sull’Om e sull’Âtmâ, in cui il primo funge da «supporto» per ottenere la conoscenza del secondo. Daremo ora la traduzione di quest’ultima parte del testo; ma non ci sarà possibile corredarla di un commento esauriente, poiché ciò ci allontanerebbe troppo dal tema del presente studio.
«Questo Âtmâ è rappresentato dalla sillaba (per eccellenza) Om, che a sua volta è rappresentata da caratteri (mâtrâ), (per cui) le condizioni (di Âtmâ) sono le mâtrâ (di Om), e (inversamente) le mâtrâ (di Om) sono le condizioni (di Âtmâ): esse sono A, U e M.
«Vaishwânara, la cui sede è nello stato di veglia, è (rappresentato da) A, la prima mâtrâ, perché essa è la connessione (âpti, di tutti i suoni, in quanto il suono primordiale A, quello emesso dagli organi della parola nella loro posizione naturale, è come immanente in tutti gli altri, che ne sono modificazioni diverse e che si unificano in esso, come Vaishwânara è presente in tutte le cose del mondo sensibile e ne costituisce l’unità), e anche perché essa è il principio (âdi, allo stesso tempo dell’alfabeto e del monosillabo Om, come Vaishwânara è la prima delle condizioni di Âtmâ e la base partendo dalla quale deve compiersi, per l’essere umano, la realizzazione metafisica). Chi conosce questo ottiene in verità (la realizzazione di) tutti i suoi desideri (poiché, attraverso la sua identificazione con Vaishwânara, tutti gli oggetti sensibili divengono dipendenti da lui e parte integrante del suo stesso essere), ed egli diventa il primo (nel dominio di Vaishwânara o di Virâj, di cui viene a essere il centro in virtù di questa conoscenza stessa e per l’identificazione che essa implica quando è pienamente effettiva).
«Taijasa, la cui sede è nello stato di sogno, è (rappresentato da) U, la seconda mâtrâ, perché essa è l’elevazione (utkarsha, del suono, prendendo come punto di partenza la sua prima modalità, così come lo stato sottile appartiene, nella manifestazione formale, a un ordine più elevato dello stato grossolano), e anche perché partecipa di entrambe (ubhaya, vale a dire che, per natura e posizione, è intermedia fra i due elementi estremi del monosillabo Om, così come lo stato di sogno è un elemento intermedio, sandhyâ, fra la veglia e il sonno profondo). Chi conosce questo progredisce in verità sulla via della Conoscenza (in virtù della sua identificazione con Hiranyagarbha), e (così illuminato) è in armonia (samâna, con tutte le cose, poiché considera l’Universo manifestato come produzione della propria conoscenza, che gli è inseparabile), e nessuno dei suoi discendenti (nel senso di “posterità spirituale”)[1] ignorerà Brahma.
«Prâjna, la cui sede è nello stato di sonno profondo, è (rappresentato da) M, la terza mâtrâ, perché essa è la misura (miti, delle altre due mâtrâ, così come, in un rapporto matematico, il denominatore è la misura del numeratore), e anche perché è la conclusione (del monosillabo Om, considerato come ciò che racchiude la sintesi di tutti i suoni; allo stesso modo, il non-manifestato contiene, sinteticamente e in principio, tutto il manifestato con le sue diverse modalità possibili, e quest’ultimo può essere considerato come parte del non-manifestato, da cui non si è mai distinto se non in modo contingente e transitorio: la causa prima è allo stesso tempo la causa finale, e la fine è necessariamente identica al principio).[2] Chi conosce ciò misura in verità questo tutto (vale a dire l’insieme dei “tre mondi” o dei differenti gradi dell’Esistenza universale, di cui l’Essere puro è il “determinante”),[3] e diviene la conclusione (di tutte le cose, mediante la concentrazione nel proprio Sé o nella sua personalità, in cui si ritrovano, “trasformati” in possibilità permanenti, tutti gli stati di manifestazione del suo essere).[4]
«Il Quarto è “non-caratterizzato” (amâtra, dunque incondizionato); esso è non-agente (avyavahârya), senza alcuna traccia di sviluppo della manifestazione (prapancha-upashama), tutto Beatitudine e senza dualità (Shiva Adwaita): ciò è Omkâra (il monosillabo sacro considerato indipendentemente dalle sue mâtrâ), ciò sicuramente è Âtmâ (in Sé, al di fuori e indipendentemente da qualsiasi condizione o determinazione, non esclusa la determinazione principiale che è l’Essere stesso). Chi conosce questo entra in verità nel proprio “Sé” per mezzo di questo stesso “Sé” (senza un tramite di qualunque ordine, senza l’uso di alcuno strumento, quale una facoltà di conoscenza, che può solo raggiungere uno stato del “Sé” e non Paramâtmâ, il “Sé” supremo e assoluto)».[5]
Per ciò che concerne gli effetti che si ottengono con la meditazione (upâsanâ) sul monosillabo Om, prima in ciascuna delle sue tre mâtrâ, e poi in se stesso, indipendentemente da queste mâtrâ, aggiungeremo soltanto che tali effetti corrispondono alla realizzazione di differenti gradi spirituali, che possono essere caratterizzati come segue: il primo è il pieno sviluppo dell’individualità corporea; il secondo è l’estensione integrale dell’individualità umana nelle sue modalità extra-corporee; il terzo è l’ottenimento degli stati sopra-individuali dell’essere; il quarto, infine, è la realizzazione dell’«Identità Suprema».
[1] Questo senso ha qui, in virtù dell’identificazione con Hiranyagarbha, anche un rapporto più specifico con l’«Uovo del Mondo» e con le leggi cicliche.
[2] Per comprendere il simbolismo qui accennato, bisogna considerare che i suoni A e U si uniscono in O, e che in certo qual modo questo si dissolve nel suono finale e nasale di M, senza tuttavia essere distrutto, ma anzi prolungandosi indefinitamente, pur divenendo indistinto e impercettibile. D’altra parte, le forme geometriche che corrispondono rispettivamente alle tre mâtrâ sono una linea retta, una semicirconferenza (o meglio un elemento di spirale) e un punto: la prima simboleggia il dispiegarsi completo della manifestazione; la seconda, uno stato di relativo inviluppamento rispetto a questo dispiegarsi, ma tuttavia uno stato ancora sviluppato o manifestato; la terza, lo stato informale e «senza dimensioni» o condizioni limitative particolari, vale a dire il non-manifestato. Si noterà anche che il punto è il principio fondamentale di tutte le figure geometriche, come il non-manifestato è il principio di tutti gli stati di manifestazione, e che esso è, nel suo ordine, l’unità vera e indivisibile, il che lo rende un simbolo naturale dell’Essere puro.
[3] Se non fosse qui fuori luogo, si potrebbero fare interessanti considerazioni linguistiche sulle espressioni che designano l’Essere concepito come «soggetto ontologico» e «determinante universale»; ci limiteremo a dire che, in ebraico, è il nome divino El che vi si riferisce più specificamente. Tale aspetto dell’Essere è chiamato dalla tradizione indù Swayambhû, «Colui che sussiste di per Se stesso»; nella teologia cristiana è il Verbo Eterno considerato come il «luogo dei possibili»; anche il simbolo estremo-orientale del Dragone vi si riferisce.
[4] Soltanto in questo stato di universalizzazione, e non in quello individuale, è davvero possibile dire che «l’uomo è la misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, e di quelle che non sono in quanto non sono», vale a dire, metafisicamente, del manifestato e del non-manifestato, quantunque, rigorosamente parlando, non si possa parlare di «misura» del non-manifestato, se con ciò si intende la determinazione da parte di particolari condizioni di esistenza, come quelle che definiscono ciascuno stato di manifestazione. D’altra parte, è chiaro che il sofista greco Protagora, a cui si attribuisce la formula che abbiamo riportato, trasponendone il significato per riferirlo all’«Uomo Universale», è stato certo molto lontano dall’elevarsi fino a questa concezione; perciò, riferendola all’essere umano in quanto individuo, egli intendeva semplicemente esprimere ciò che i moderni chiamerebbero un «relativismo» radicale, mentre, per noi, si tratta evidentemente di tutt’altra cosa, come comprenderanno senza fatica coloro che sanno quali rapporti intercorrono fra l’«Uomo Universale» e il Verbo Divino (cfr. specialmente san Paolo, Prima lettera ai Corinzi, 15).
[5] Mândûkya Upanishad, shruti 8-12. Sulla meditazione di Om e i suoi effetti in ordini diversi, in relazione con i tre mondi, si possono trovare altre indicazioni nella Prashna Upanishad, 5º Prashna, shruti 1-7. Cfr. anche Chhândogya Upanishad, 1º Prapâthaka, 1º, 4° e 5º Khanda.
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