L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
18. Il riassorbimento delle facoltà individuali
«Quando un uomo sta per morire, la parola, seguita dalle restanti dieci facoltà esterne (le cinque facoltà d’azione e le cinque di sensazione, manifestate esteriormente tramite gli organi corporei che vi corrispondono, ma non confuse con essi, poiché qui se ne separano),[1] è riassorbita nel senso interno (manas), poiché l’attività degli organi esteriori cessa prima di questa facoltà interiore (che è così la conclusione di tutte le altre facoltà individuali, come ne è il punto di partenza e l’origine comune).[2]
Questa, nello stesso modo, si riassorbe poi nel “soffio vitale” (prâna), accompagnata similmente da tutte le funzioni vitali (i cinque vâyu, che sono modalità di prâna, e che ritornano così allo stato indifferenziato), poiché queste funzioni sono inseparabili dalla vita stessa; d’altronde, lo stesso riassorbimento del senso interno si osserva anche nel sonno profondo e nel deliquio estatico (con la cessazione completa di ogni manifestazione esteriore della coscienza)». Aggiungiamo che questa cessazione non implica tuttavia sempre necessariamente la sospensione totale della sensibilità corporea, che potremmo definire come una sorta di coscienza organica, quantunque la coscienza individuale propriamente detta non abbia allora alcuna parte nelle manifestazioni di questa, con la quale non comunica più come avviene normalmente negli stati ordinari dell’essere vivente; la ragione è facile a comprendersi, perché, a dire il vero, in questi casi la coscienza individuale non c’è più, in quanto la coscienza vera dell’essere si è trasferita in un altro stato, che, in realtà, è uno stato sopra-individuale. Questa coscienza organica, alla quale alludevamo, non è una coscienza nel vero senso della parola, ma ne partecipa in qualche modo, dovendo la sua origine alla coscienza individuale di cui è come un riflesso; separata da questa, essa non è più che un’illusione di coscienza, ma può ancora averne la parvenza per coloro che osservano le cose solamente dall’esterno,[3] così come, dopo la morte, la persistenza di certi elementi psichici più o meno dissociati può offrire la stessa parvenza, non meno illusoria, quando sia loro possibile manifestarsi, come abbiamo spiegato in altre circostanze.[4]
Questa, nello stesso modo, si riassorbe poi nel “soffio vitale” (prâna), accompagnata similmente da tutte le funzioni vitali (i cinque vâyu, che sono modalità di prâna, e che ritornano così allo stato indifferenziato), poiché queste funzioni sono inseparabili dalla vita stessa; d’altronde, lo stesso riassorbimento del senso interno si osserva anche nel sonno profondo e nel deliquio estatico (con la cessazione completa di ogni manifestazione esteriore della coscienza)». Aggiungiamo che questa cessazione non implica tuttavia sempre necessariamente la sospensione totale della sensibilità corporea, che potremmo definire come una sorta di coscienza organica, quantunque la coscienza individuale propriamente detta non abbia allora alcuna parte nelle manifestazioni di questa, con la quale non comunica più come avviene normalmente negli stati ordinari dell’essere vivente; la ragione è facile a comprendersi, perché, a dire il vero, in questi casi la coscienza individuale non c’è più, in quanto la coscienza vera dell’essere si è trasferita in un altro stato, che, in realtà, è uno stato sopra-individuale. Questa coscienza organica, alla quale alludevamo, non è una coscienza nel vero senso della parola, ma ne partecipa in qualche modo, dovendo la sua origine alla coscienza individuale di cui è come un riflesso; separata da questa, essa non è più che un’illusione di coscienza, ma può ancora averne la parvenza per coloro che osservano le cose solamente dall’esterno,[3] così come, dopo la morte, la persistenza di certi elementi psichici più o meno dissociati può offrire la stessa parvenza, non meno illusoria, quando sia loro possibile manifestarsi, come abbiamo spiegato in altre circostanze.[4]
«Il “soffio vitale”, accompagnato similmente da tutte le altre funzioni e facoltà (già riassorbite in esso e che vi sussistono soltanto come possibilità, poiché sono ormai ritornate allo stato di indifferenziazione da cui erano dovute uscire per manifestarsi effettivamente durante la vita), è a sua volta riassorbito nell’“anima vivente” (jîvâtmâ, manifestazione particolare del “Sé” al centro dell’individualità umana, come abbiamo visto in precedenza, e distinta dal “Sé” finché questa individualità sussiste come tale, benché questa distinzione sia d’altronde del tutto illusoria rispetto alla realtà assoluta, nella quale non vi è altro che il “Sé”); ed è questa “anima vivente” (come riflesso del “Sé” e principio centrale dell’individualità) che governa l’insieme delle facoltà individuali (considerate nella loro interezza, e non soltanto in ciò che concerne la modalità corporea).[5] Come i servi di un re si riuniscono intorno a lui quando è in procinto di intraprendere un viaggio, così tutte le funzioni vitali e le facoltà (esterne e interne) dell’individuo si riuniscono intorno all’“anima vivente” (o meglio, in essa, da cui tutte procedono e nella quale sono riassorbite) nell’ultimo istante (della vita nel senso ordinario della parola, vale a dire dell’esistenza manifestata nello stato grossolano), quando questa “anima vivente” sta per ritirarsi dalla sua forma corporea.[6] Così, accompagnata da tutte le sue facoltà (poiché le contiene e le conserva in sé a titolo di possibilità),[7] essa si ritira in un’essenza individuale luminosa (cioè nella forma sottile, assimilata a un veicolo igneo, come abbiamo visto a proposito di Taijasa, la seconda condizione di Âtmâ), composta dei cinque tanmâtra o essenze elementari sopra-sensibili (così come la forma corporea è composta dei cinque bhûta o elementi corporei e sensibili), in uno stato sottile (in opposizione allo stato grossolano, che è quello della manifestazione esteriore o corporea, il cui ciclo è ormai compiuto per l’individuo in questione).
«Di conseguenza (in virtù di questo passaggio nella forma sottile, descritta come luminosa), si dice che il “soffio vitale” si ritira nella Luce, senza che con ciò occorra intendere il principio igneo in modo esclusivo (poiché si tratta in realtà di un riflesso individualizzato della Luce intelligibile, riflesso la cui natura è in fondo la stessa di quella del “mentale” durante la vita corporea, e che, d’altronde, presuppone come supporto o veicolo una combinazione dei principi essenziali dei cinque elementi), e senza che questo ritrarsi si compia necessariamente con una transizione immediata, perché si dice che un viaggiatore si reca da una città a un’altra anche se egli attraversa in successione una o più città intermedie.
«Questo ritrarsi o abbandono della forma corporea (quale è stato fin qui descritto) è d’altronde comune alla gente ignorante (avidwân) e al Saggio contemplativo (vidwân), fino al punto in cui hanno inizio, per l’uno e per l’altro, le loro rispettive vie (d’ora innanzi differenti); l’immortalità (amrita, senza tuttavia che l’Unione immediata con il Brahma Supremo sia subito ottenuta) è il risultato della semplice meditazione (upâsanâ, compiuta durante la vita, senza però essere stata accompagnata da una realizzazione effettiva degli stati superiori dell’essere), quando i vincoli individuali, che derivano dall’ignoranza (avidyâ), non possono ancora essere completamente distrutti».[8]
È il caso di fare un’importante precisazione sul senso in cui va intesa l’«immortalità» di cui si parla qui: infatti, abbiamo detto altrove che la parola sanscrita amrita si riferisce esclusivamente a uno stato che è superiore a ogni cambiamento, mentre, con la parola corrispondente, gli Occidentali intendono semplicemente un’estensione delle possibilità dell’ordine umano, che consiste in un prolungamento indefinito della vita (ciò che la tradizione estremo-orientale chiama «longevità»), in condizioni che sono in un certo qual modo trasposte, ma che restano sempre più o meno paragonabili a quelle dell’esistenza terrena, poiché concernono anche l’individualità umana. Ora, nel caso presente, si tratta di uno stato che è ancora individuale, eppure si sostiene che l’immortalità può essere ottenuta in questo stato; ciò può sembrare contraddittorio con quanto abbiamo ricordato, poiché si potrebbe credere che si tratti dell’immortalità relativa, intesa in senso occidentale; ma non è affatto così in realtà. È vero che l’immortalità, in senso metafisico e orientale, per essere pienamente effettiva non può essere raggiunta che al di là di tutti gli stati condizionati, individuali e non, sicché si identifica con l’Eternità stessa, essendo assolutamente indipendente da ogni possibile modalità di successione; sarebbe dunque del tutto indebito attribuire lo stesso nome alla «perpetuità» temporale o all’indefinitezza di una qualsiasi durata; ma non è così che bisogna intenderla. Si deve considerare che l’idea di «morte» è essenzialmente sinonimo di cambiamento di stato, il che, come già abbiamo spiegato, corrisponde alla sua accezione più ampia; quando si dice che l’essere ha virtualmente raggiunto l’immortalità, bisogna intendere che esso non dovrà più passare per altri stati condizionati, differenti da quello umano, o percorrere altri cicli di manifestazione. Non è ancora la «Liberazione» attualmente realizzata, e con la quale l’immortalità verrebbe resa effettiva, poiché i «vincoli individuali», vale a dire le condizioni limitative alle quali l’essere è sottomesso, non sono interamente distrutti; ma è la possibilità di ottenere questa «Liberazione» prendendo come punto di partenza lo stato umano, nel cui prolungamento l’essere si trova mantenuto per tutta la durata del ciclo al quale questo stato appartiene (ciò che costituisce propriamente la «perpetuità»),[9] affinché tale essere possa trovarsi compreso nella «trasformazione» finale che si compirà quando questo ciclo sarà concluso, e che ricondurrà tutto ciò che allora vi sarà contenuto allo stato principiale di non-manifestazione.[10]
Perciò si attribuisce a questa possibilità il nome di «Liberazione differita» o di «Liberazione per gradi» (krama-mukti), perché essa non sarà ottenuta che per mezzo di tappe intermedie (stati postumi condizionati), e non direttamente e immediatamente come negli altri casi di cui sarà fatta parola più avanti.[11]
«Questo ritrarsi o abbandono della forma corporea (quale è stato fin qui descritto) è d’altronde comune alla gente ignorante (avidwân) e al Saggio contemplativo (vidwân), fino al punto in cui hanno inizio, per l’uno e per l’altro, le loro rispettive vie (d’ora innanzi differenti); l’immortalità (amrita, senza tuttavia che l’Unione immediata con il Brahma Supremo sia subito ottenuta) è il risultato della semplice meditazione (upâsanâ, compiuta durante la vita, senza però essere stata accompagnata da una realizzazione effettiva degli stati superiori dell’essere), quando i vincoli individuali, che derivano dall’ignoranza (avidyâ), non possono ancora essere completamente distrutti».[8]
È il caso di fare un’importante precisazione sul senso in cui va intesa l’«immortalità» di cui si parla qui: infatti, abbiamo detto altrove che la parola sanscrita amrita si riferisce esclusivamente a uno stato che è superiore a ogni cambiamento, mentre, con la parola corrispondente, gli Occidentali intendono semplicemente un’estensione delle possibilità dell’ordine umano, che consiste in un prolungamento indefinito della vita (ciò che la tradizione estremo-orientale chiama «longevità»), in condizioni che sono in un certo qual modo trasposte, ma che restano sempre più o meno paragonabili a quelle dell’esistenza terrena, poiché concernono anche l’individualità umana. Ora, nel caso presente, si tratta di uno stato che è ancora individuale, eppure si sostiene che l’immortalità può essere ottenuta in questo stato; ciò può sembrare contraddittorio con quanto abbiamo ricordato, poiché si potrebbe credere che si tratti dell’immortalità relativa, intesa in senso occidentale; ma non è affatto così in realtà. È vero che l’immortalità, in senso metafisico e orientale, per essere pienamente effettiva non può essere raggiunta che al di là di tutti gli stati condizionati, individuali e non, sicché si identifica con l’Eternità stessa, essendo assolutamente indipendente da ogni possibile modalità di successione; sarebbe dunque del tutto indebito attribuire lo stesso nome alla «perpetuità» temporale o all’indefinitezza di una qualsiasi durata; ma non è così che bisogna intenderla. Si deve considerare che l’idea di «morte» è essenzialmente sinonimo di cambiamento di stato, il che, come già abbiamo spiegato, corrisponde alla sua accezione più ampia; quando si dice che l’essere ha virtualmente raggiunto l’immortalità, bisogna intendere che esso non dovrà più passare per altri stati condizionati, differenti da quello umano, o percorrere altri cicli di manifestazione. Non è ancora la «Liberazione» attualmente realizzata, e con la quale l’immortalità verrebbe resa effettiva, poiché i «vincoli individuali», vale a dire le condizioni limitative alle quali l’essere è sottomesso, non sono interamente distrutti; ma è la possibilità di ottenere questa «Liberazione» prendendo come punto di partenza lo stato umano, nel cui prolungamento l’essere si trova mantenuto per tutta la durata del ciclo al quale questo stato appartiene (ciò che costituisce propriamente la «perpetuità»),[9] affinché tale essere possa trovarsi compreso nella «trasformazione» finale che si compirà quando questo ciclo sarà concluso, e che ricondurrà tutto ciò che allora vi sarà contenuto allo stato principiale di non-manifestazione.[10]
Perciò si attribuisce a questa possibilità il nome di «Liberazione differita» o di «Liberazione per gradi» (krama-mukti), perché essa non sarà ottenuta che per mezzo di tappe intermedie (stati postumi condizionati), e non direttamente e immediatamente come negli altri casi di cui sarà fatta parola più avanti.[11]
[1] La parola è ultima nell’elenco quando le facoltà sono considerate nel loro ordine di sviluppo; deve dunque essere la prima nell’ordine di riassorbimento, inverso rispetto all’ordine precedente.
[2] Chhândogya Upanishad, 6° Prapâthaka, 8º Khanda, shruti 6.
[3] Così, in un’operazione chirurgica, l’anestesia più completa non sempre inibisce i sintomi esteriori del dolore.
[4] La coscienza organica di cui parliamo rientra naturalmente in ciò che gli psicologi chiamano «subconscio»; ma il loro grave torto consiste nel credere di avere sufficientemente spiegato quello a cui in realtà si sono limitati ad attribuire una semplice denominazione, sotto la quale, del resto, classificano gli elementi più disparati, senza poter nemmeno distinguere fra ciò che è veramente cosciente a qualche grado e ciò che ne ha soltanto l’apparenza, né fra il «subconscio» vero e proprio e il «superconscio», vogliamo dire fra ciò che procede da stati rispettivamente inferiori e superiori rispetto allo stato umano.
[5] Si può notare che prâna, pur manifestandosi esteriormente con la respirazione, è in realtà tutt’altro che la respirazione stessa, poiché sarebbe evidentemente inintelligibile dire che la respirazione, funzione fisiologica, si separa dall’organismo e si riassorbe nell’«anima vivente»; ricordiamo inoltre che prâna e le sue diverse modalità appartengono essenzialmente allo stato sottile.
[6] Brihad-Âranyaka Upanishad, 4° Adhyâya, 3º Brâhmana, shruti 38.
[7] Del resto, una facoltà è propriamente un potere, vale a dire una possibilità che, in se stessa, è indipendente da ogni esercizio attuale.
[8] Brahma-Sûtra, 4º Adhyâya, 2° Pâda, sûtra 1-7.
[9] La parola greca αίώνιος significa in realtà «perpetuo», non «eterno», poiché deriva da αίών (identico al latino aevum), che designa un ciclo indefinito, e questo, del resto, era anche il significato primitivo del latino saeculum, «secolo», col quale talvolta lo si traduce.
[10] Vi sarebbero alcune considerazioni da fare sulla traduzione di questa «trasformazione» finale in linguaggio teologico nelle religioni occidentali, e in particolare sulla concezione del «Giudizio Universale» che ad essa è strettamente legata; ma sarebbero necessarie spiegazioni troppo circostanziate e una messa a fuoco troppo complessa perché ci sia possibile soffermarci sulla questione, tanto più che, di fatto, il punto di vista propriamente religioso si limita alla considerazione della fine di un ciclo secondario, di là dal quale può esservi ancora una continuazione dell’esistenza nello stato individuale umano, ciò che sarebbe impossibile se si trattasse della totalità del ciclo al quale appartiene questo stato. Ciò non significa, però, che la trasposizione non possa essere fatta partendo dal punto di vista religioso, come abbiamo mostrato sopra per la «resurrezione dei morti» e il «corpo di gloria»; in pratica, però, questa trasposizione non è compiuta da coloro che si attengono alle concezioni ordinarie ed «esteriori», e per i quali non esiste nulla al di là dell’individualità umana; ritorneremo su queste considerazioni a proposito della differenza essenziale che esiste fra la nozione religiosa di «salvezza» e quella metafisica di «Liberazione».
[11] È evidente che la «Liberazione differita» è la sola che possa essere presa in considerazione per la stragrande maggioranza degli esseri umani, ma ciò non significa che tutti, indistintamente, vi perverranno, poiché bisogna ancora considerare il caso in cui l’essere, non avendo ottenuto nemmeno l’immortalità virtuale, deve passare a un altro stato individuale, nel quale avrà naturalmente la stessa possibilità di raggiungere la «Liberazione» che nello stato umano, ma anche, se così si può dire, la stessa possibilità di non pervenirvi.
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