René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
19. Differenza delle condizioni postume secondo i gradi della Conoscenza
«Finché è in questa condizione (ancora individuale, di cui si parlava), lo spirito (che, di conseguenza, è ancora jîvâtmâ) di chi ha praticato la meditazione (durante la sua vita, senza raggiungere il possesso effettivo degli stati superiori del suo essere) resta unito alla forma sottile (che può anche essere considerata come il prototipo formale dell’individualità, poiché la manifestazione sottile rappresenta uno stadio intermedio fra il non-manifestato e la manifestazione grossolana, e ha la funzione di principio immediato rispetto a quest’ultima); in questa forma sottile esso è associato alle facoltà vitali (nello stato di riassorbimento o di contrazione principiale descritto in precedenza)».
Poiché l’essere si trova in una condizione che appartiene ancora all’ordine individuale, è necessario, in effetti, che sia rivestito ancora di una forma; e questa forma non può essere che quella sottile, poiché esso è uscito da quella corporea, e perché, d’altronde, la forma sottile deve essere posteriore all’altra, avendola preceduta nell’ordine dello sviluppo in modo manifestato, che si trova riprodotto in senso inverso nel ritorno al non-manifestato; ma ciò non significa che la forma sottile debba conservarsi allora esattamente quale era durante la vita corporea, come veicolo dell’essere umano nello stato di sogno.[1] Abbiamo già detto che la condizione individuale, in via del tutto generale e non soltanto per quel che concerne lo stato umano, può essere definita come lo stato dell’essere che è limitato da una forma; chiaramente, però, questa forma non è necessariamente determinata in modo spaziale e temporale, come nel caso particolare dello stato corporeo; essa non può affatto esserlo negli stati non-umani, che non sono sottomessi allo spazio e al tempo, ma a tutt’altre condizioni. Quanto alla forma sottile, se non sfugge interamente al tempo (benché questo non sia più il tempo nel quale si svolge l’esistenza corporea), sfugge per lo meno allo spazio, e perciò non bisogna affatto rappresentarsela come una specie di «doppio» del corpo,[2] e nemmeno si deve pensare che ne sia lo «stampo», quando diciamo che è il prototipo formale dell’individualità all’origine della sua manifestazione;[3] sappiamo troppo bene con quanta facilità gli Occidentali arrivino a rappresentazioni assolutamente grossolane, e quali gravi errori ne possono risultare non prendendo a questo riguardo tutte le precauzioni necessarie.
«L’essere può restare così (in questa stessa condizione individuale, nella quale è unito alla forma sottile) fino alla dissoluzione esteriore (pralaya, il ritorno allo stato indifferenziato) dei mondi manifestati (del ciclo attuale, che comprendono allo stesso tempo lo stato grossolano e quello sottile, vale a dire l’intero dominio dell’individualità umana considerata nella sua totalità),[4] dissoluzione nella quale esso è sommerso (con l’insieme degli esseri di questi mondi) nel Brahma Supremo; anche allora, tuttavia, esso può essere unito a Brahma solamente come nel sonno profondo (vale a dire senza la realizzazione piena ed effettiva dell’“Identità Suprema”)». In altri termini, per usare il linguaggio di certe scuole esoteriche occidentali, l’ultimo caso qui menzionato corrisponde solamente a una «reintegrazione in modo passivo», mentre la vera realizzazione metafisica è una «reintegrazione in modo attivo», la sola che implichi veramente la presa di possesso, da parte dell’essere, del suo stato assoluto e definitivo. Ciò è precisamente indicato dal paragone con il sonno profondo, quale si verifica durante la vita dell’uomo ordinario: come vi è un ritorno da questo stato alla condizione individuale, vi può anche essere, per chi è unito a Brahma solamente «in modo passivo», un ritorno a un altro ciclo di manifestazione, sicché il risultato da lui ottenuto, prendendo come punto di partenza lo stato umano, non è ancora la «Liberazione» o la vera immortalità, e il suo caso può essere in fin dei conti paragonato (quantunque con una differenza notevole per quanto riguarda le condizioni del suo nuovo ciclo) a quello dell’essere che, invece di restare fino al pralaya nei prolungamenti dello stato umano, è passato, dopo la morte corporea, a un altro stato individuale. Accanto a questo, occorre considerare il caso in cui la realizzazione degli stati superiori e anche quella dell’«Identità Suprema», non compiute durante la vita corporea, sono effettuate nei prolungamenti postumi dell’individualità; l’immortalità, da virtuale, diviene allora effettiva, e ciò, d’altra parte, non può aver luogo che alla fine stessa del ciclo; è la «Liberazione differita», di cui abbiamo parlato precedentemente. Sia nell’uno che nell’altro caso, l’essere, che deve essere considerato come un jîvâtmâ congiunto alla forma sottile, si trova, per tutta la durata del ciclo, in qualche modo «incorporato»[5] in Hiranyagarbha, che è considerato come jîvaghana, secondo quanto abbiamo già detto; esso resta dunque sottomesso a quella condizione speciale d’esistenza che è la vita (jîva), da cui è delimitato il dominio proprio di Hiranyagarbha nell’ordine gerarchico dell’Esistenza universale.
«Questa forma sottile (in cui, dopo la morte, risiede l’essere che resta così nello stato individuale umano) è (in confronto alla forma corporea o grossolana) impercettibile ai sensi per le sue dimensioni (vale a dire perché essa è fuori della condizione spaziale) e anche per la sua consistenza (o per la sua sostanza, che non è costituita da una combinazione degli elementi corporei); di conseguenza, sfugge alla percezione (o alle facoltà esterne) di coloro che sono presenti quando si separa dal corpo (dopo che l’“anima vivente” si è ritirata). Inoltre non patisce offesa dalla combustione o da altri trattamenti che il corpo subisce dopo la morte (che è il risultato di questa separazione, in conseguenza della quale nessuna azione di ordine sensibile può più avere ripercussioni sulla forma sottile, né sulla coscienza individuale che, rimanendo ad essa legata, non ha più ormai relazione col corpo). Essa è sensibile soltanto per il suo calore animatore (la sua qualità propria in quanto è assimilata al principio igneo),[6] per tutto il tempo in cui è unita alla forma grossolana, che diviene fredda (e quindi inerte come insieme organico) alla morte, non appena la forma sottile l’abbandona (mentre le altre qualità sensibili della forma corporea permangono ancora, senza cambiamento apparente), e che era scaldata (e vivificata) dalla forma sottile quando essa vi risiedeva (il principio della vita individuale sta infatti propriamente nella forma sottile, ed è soltanto perché questa comunica le sue proprietà che anche il corpo può esser detto vivente, per il legame che esiste fra le due forme, finché sono l’espressione di stati dello stesso essere, e precisamente fino al momento stesso della morte).
«Ma colui che ha ottenuto (prima della morte, sempre intesa come separazione dal corpo) la vera Conoscenza di Brahma (che implica il possesso effettivo di tutti gli stati del suo essere, in virtù della realizzazione metafisica, senza la quale non vi sarebbe che una conoscenza imperfetta e del tutto simbolica) non attraversa (in modo successivo) tutti gli stessi gradi di ritorno (o di riassorbimento della sua individualità, dallo stato di manifestazione grossolana a quello di manifestazione sottile, con le diverse modalità che comporta, e poi allo stato non-manifestato, nel quale le condizioni individuali sono infine interamente soppresse). Egli procede direttamente (in quest’ultimo stato, e anche oltre se lo si considera soltanto come principio della manifestazione) all’Unione (già realizzata per lo meno virtualmente durante la sua vita corporea)[7] con il Brahma Supremo, al quale è identificato (in modo immediato), come un fiume (che qui rappresenta la corrente dell’esistenza attraverso tutti gli stati e tutte le manifestazioni) alla sua foce (che è la conclusione o il termine finale di questa corrente) si identifica (per intima penetrazione) con le onde del mare (samudra, il luogo di raccolta delle acque, che simboleggia la somma totale delle possibilità nel Principio Supremo). Le sue facoltà vitali e gli elementi di cui era costituito il suo corpo (tutti considerati in principio e nella loro essenza sopra-sensibile),[8] le sedici parti (shodasha-kalâh) che compongono la forma umana (ossia i cinque tanmâtra, il manas e le dieci facoltà di sensazione e d’azione), passano completamente allo stato non-manifestato (avyakta, dove, per trasposizione, si ritrovano tutti in modo permanente come possibilità immutabili), passaggio che del resto non implica per l’essere stesso alcun cambiamento (al contrario di quanto accade negli stadi intermedi che, appartenendo ancora al “divenire”, comportano necessariamente una molteplicità di modificazioni). Il nome e la forma (nâmarûpa, vale a dire la determinazione della manifestazione individuale quanto alla sua essenza e alla sua sostanza, come precedentemente abbiamo spiegato) cessano ugualmente (in quanto condizioni limitative dell’essere); ed egli, essendo “non-diviso”, dunque senza le parti o membra che componevano la sua forma terrena (allo stato manifestato, e in quanto questa era sottomessa alla quantità in diversi modi),[9] è liberato dalle condizioni dell’esistenza individuale (come pure da tutte le altre condizioni attinenti a un qualunque stato speciale e determinato di esistenza, anche sopra-individuale, poiché l’essere è ormai nello stato principiale, assolutamente incondizionato)».[10]
Parecchi commentatori dei Brahma-Sûtra, per mettere ancora più nettamente in rilievo il carattere di questa «trasformazione» (usiamo la parola in senso rigorosamente etimologico, quello di «passaggio al di fuori della forma»), la paragonano alla scomparsa dell’acqua versata su una pietra rovente. Infatti, l’acqua è «trasformata» al contatto con la pietra, per lo meno nel senso relativo che ha perduto la sua forma visibile (e non ogni sua forma, poiché essa continua evidentemente ad appartenere all’ordine corporeo), senza che però si possa dire per questo che sia stata assorbita dalla pietra, perché, in realtà, è evaporata nell’atmosfera, dove resta in uno stato impercettibile alla vista.[11] Parimenti, l’essere non è affatto «assorbito» quando ottiene la «Liberazione», anche se così può sembrare dal punto di vista della manifestazione, per la quale la «trasformazione» appare come una «distruzione»;[12] se ci si pone nella prospettiva della realtà assoluta, la sola che gli rimanga, è invece dilatato oltre ogni limite, se possiamo usare un tal modo di esprimerci (che traduce esattamente il simbolismo del vapore acqueo che si diffonde indefinitamente nell’atmosfera), poiché ha effettivamente realizzato la pienezza delle sue possibilità.
[1] Vi è una certa continuità fra i differenti stati dell’essere, e a maggior ragione fra le diverse modalità che fanno parte di uno stesso stato di manifestazione; l’individualità umana, anche nelle sue modalità extra-corporee, deve necessariamente subire l’effetto della scomparsa della sua modalità corporea, e del resto vi sono elementi psichici, mentali o d’altro tipo, che hanno una ragione d’essere soltanto in relazione all’esistenza corporea, per cui la disintegrazione del corpo deve comportare la disintegrazione di questi elementi, che vi rimangono legati e che, di conseguenza, sono anche abbandonati dall’essere al momento della morte intesa nel senso ordinario della parola.
[2] Gli stessi psicologi riconoscono che il «mentale» o il pensiero individuale, l’unico a loro accessibile, è al di fuori della condizione spaziale; è necessaria tutta l’ignoranza dei «neo-spiritualisti» per voler «localizzare» le modalità extra-corporee dell’individuo e pensare che gli stati postumi possano situarsi da qualche parte nello spazio.
[3] Come abbiamo spiegato precedentemente, in sanscrito la parola pinda designa esattamente questo prototipo sottile, non l’embrione corporeo; questo prototipo, d’altronde, preesiste alla nascita dell’individuo, poiché è contenuto in Hiranyagarbha fin dall’origine della manifestazione ciclica, come una delle possibilità che dovranno svilupparsi durante questa manifestazione; ma la sua preesistenza non è allora che virtuale, nel senso che non c’è ancora uno stato dell’essere di cui esso sia destinato a diventare la forma sottile, poiché questo essere non è attualmente nello stato corrispondente, dunque non esiste come individuo umano; la stessa considerazione può analogicamente applicarsi al germe corporeo, se è parimenti considerato come preesistente in certo qual modo negli avi dell’individuo in questione, e ciò fin dall’origine dell’umanità sulla Terra.
[4] L’insieme della manifestazione universale è spesso designato in sanscrito con la parola samsâra; come già abbiamo mostrato, esso comporta un numero indefinito di cicli, cioè di stati o gradi di esistenza, di modo che ciascuno di questi cicli, avendo fine nel pralaya, come quello qui in discussione, non costituisce propriamente che un momento del samsâra. D’altronde, ricorderemo ancora una volta, per evitare ogni equivoco, che il concatenamento di questi cicli è in realtà di ordine causale e non successivo, e che le espressioni usate a questo riguardo per analogia con l’ordine temporale devono dunque essere ritenute puramente simboliche.
[5] Questa parola, che usiamo qui per farci capire meglio con l’aiuto dell’immagine che essa evoca, non va intesa letteralmente, poiché non si tratta affatto di uno stato corporeo.
[6] Come abbiamo accennato sopra, questo calore animatore, rappresentato come un fuoco interno, è talvolta identificato con Vaishwânara, considerato, in questo caso, non più come la prima condizione di Âtmâ, di cui abbiamo parlato, ma come il «Reggitore del Fuoco», come vedremo più avanti; Vaishwânara è allora uno dei nomi di Agni, di cui designa una funzione e un aspetto particolari.
[7] Se l’«Unione» o l’«Identità Suprema» non è stata realizzata che virtualmente, la «Liberazione» ha luogo immediatamente al momento stesso della morte; ma la «Liberazione» può anche essere realizzata durante la vita, se l’«Unione» è già allora attuata pienamente ed effettivamente; la differenza tra questi due casi sarà esposta più compiutamente in seguito.
[8] Può anche accadere, in alcuni casi eccezionali, che la trasposizione di questi elementi si compia in modo tale che la stessa forma corporea svanisca, senza lasciare tracce sensibili, e che, invece di venire abbandonata dall’essere come avviene di solito, essa passi così interamente o nello stato sottile o in quello non-manifestato, sicché non si può propriamente parlare di morte; abbiamo altrove ricordato, a questo proposito, gli esempi biblici di Enoch, Mosè ed Elia.
[9] I modi principali della quantità sono menzionati espressamente in questa formula biblica: «Tu hai tutto disposto con peso, numero e misura» (Sapienza, 11, 20), alla quale corrisponde parola per parola (salvo l’inversione dei primi due) il Mane, Thekel, Phares (contato, pesato, diviso) della visione di Baldassar (Daniele, 5, 25-28).
[10] Prashna Upanishad, 6° Prashna, shruti 5; Mundaka Upanishad, 3° Mundaka, 2º Khanda, shruti 8. Brahma-Sûtra, 4º Adhyâya, 2° Pâda, sûtra 8-16.
[11] Commento di Ranganâtha ai Brahma-Sûtra.
[12] Perciò Shiva, secondo l’interpretazione più comune, è considerato «distruttore», mentre in realtà è «trasformatore».
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