Devadatta Kīrtideva Aśvamitra
Alcune note riguardanti il prāna
Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārājajī, in un suo memorabile upadeśa, produsse la seguente metafora: “Il nostro corpo è come una grande casa dalle porte e finestre aperte, attraverso cui entra il vento (vāyu o prāṇa); esso percorre le nostre stanze e corridoi, per poi uscire. Quando si trova fuori del corpo lo chiamiamo “vento”; quando, invece, sta circolando per il corpo, lo chiamiamo “il nostro vento”.
Da questa prima immagine prendiamo lo spunto per cercare di capire cosa sia il prāṇa. Infatti, non è facile comprenderne appieno la natura e la portata. Il Vaiśeṣika, che descrive il vento dal punto di vista più grossolano, afferma che vāyu è lo stesso elemento (bhūta) aria, ed è percepito solamente dal tatto (sparśa)[1]. Infatti, esso è invisibile e, percependone la carezza sulla nostra pelle, noi abbiamo la prova diretta che l’aria esiste. L’esperienza tattile è il segnale (liṅga) dell’esistenza dell’aria[2]; questo non vuol dire che vāyu non possa essere riconosciuto come esistente indirettamente, cioè per deduzione (anumāna). Quando infatti vediamo l’erba piegarsi, deduciamo che è l’aria che la piega. L’aria rimane invisibile, ma indirettamente possiamo constatarne la presenza vedendo il piegarsi dell’erba. Così sentendo le fronde stormire non udiamo il vento, ma deduciamo la sua esistenza dal rumore prodotto dalle foglie. Analogamente, ne deduciamo indirettamente la presenza attraverso le informazioni che gli altri sensi ci forniscono, come un odore trasportato da lontano o il sapore salato di un po’ di schiuma di mare arrivato alla nostra bocca. Considerando l’aria attraverso l’esperienza tattile diretta o indiretta, tratta per deduzione dall’esame delle altre percezioni sensoriali, possiamo concludere che la caratteristica principale (guṇa) dell’aria è la motilità, l’azione, lo spostamento[3]. Questa osservazione, come vedremo in seguito, è gravida di conseguenze importanti. Più avanti Kaṇāda[4], si addentra in considerazioni sulle diverse applicazioni della motilità provocata dall’aria. I commentatori si sono occupati di questa caratteristica mobile dell’aria sia per quello che riguarda la manifestazione non cosciente (acit) come, per esempio, la sferza del vento[5] che provoca le onde sulla superficie acquea, sia per quanto concerne gli esseri coscienti (cit), in primis l’essere umano. Come si può notare, la tangibilità dell’aria è dipendente dal suo movimento. Quando l’aria è immota, allora la superficie tattile della pelle non la percepisce. Ciò non significa che essa non sia tangibile: è la condizione di bonaccia momentanea in cui si trova immerso il corpo umano che determina questa apparente sensazione d’assenza dell’aria. Basterà, però, che l’individuo si muova per ritornare a percepirne la resistenza. E più veloce si muoverà, maggiormente l’aria apparirà sferzante. Si potrebbe obiettare che questa percezione è dovuta allo spostamento del corpo e non dell’aria. Invece è sempre l’aria che provoca il movimento. Però questa volta l’aria di cui si tratta è quella interna, quella che fa muovere il corpo, per mezzo della volontà e del karmendriya della motilità (pāda). Il tatto, perciò, appare come il risultato dello scontro tra l’aria interna e quella esterna[6]. Questa volta, però, il Vaiśeṣika si occupa dell’aria come principio di movimento all’interno del corpo umano e per questa ragione non usa più il termine vāyu, bensì quello di prāṇa che significa esattamente “ciò che riempie, ciò che pervade, ciò che espande”:
Da questa prima immagine prendiamo lo spunto per cercare di capire cosa sia il prāṇa. Infatti, non è facile comprenderne appieno la natura e la portata. Il Vaiśeṣika, che descrive il vento dal punto di vista più grossolano, afferma che vāyu è lo stesso elemento (bhūta) aria, ed è percepito solamente dal tatto (sparśa)[1]. Infatti, esso è invisibile e, percependone la carezza sulla nostra pelle, noi abbiamo la prova diretta che l’aria esiste. L’esperienza tattile è il segnale (liṅga) dell’esistenza dell’aria[2]; questo non vuol dire che vāyu non possa essere riconosciuto come esistente indirettamente, cioè per deduzione (anumāna). Quando infatti vediamo l’erba piegarsi, deduciamo che è l’aria che la piega. L’aria rimane invisibile, ma indirettamente possiamo constatarne la presenza vedendo il piegarsi dell’erba. Così sentendo le fronde stormire non udiamo il vento, ma deduciamo la sua esistenza dal rumore prodotto dalle foglie. Analogamente, ne deduciamo indirettamente la presenza attraverso le informazioni che gli altri sensi ci forniscono, come un odore trasportato da lontano o il sapore salato di un po’ di schiuma di mare arrivato alla nostra bocca. Considerando l’aria attraverso l’esperienza tattile diretta o indiretta, tratta per deduzione dall’esame delle altre percezioni sensoriali, possiamo concludere che la caratteristica principale (guṇa) dell’aria è la motilità, l’azione, lo spostamento[3]. Questa osservazione, come vedremo in seguito, è gravida di conseguenze importanti. Più avanti Kaṇāda[4], si addentra in considerazioni sulle diverse applicazioni della motilità provocata dall’aria. I commentatori si sono occupati di questa caratteristica mobile dell’aria sia per quello che riguarda la manifestazione non cosciente (acit) come, per esempio, la sferza del vento[5] che provoca le onde sulla superficie acquea, sia per quanto concerne gli esseri coscienti (cit), in primis l’essere umano. Come si può notare, la tangibilità dell’aria è dipendente dal suo movimento. Quando l’aria è immota, allora la superficie tattile della pelle non la percepisce. Ciò non significa che essa non sia tangibile: è la condizione di bonaccia momentanea in cui si trova immerso il corpo umano che determina questa apparente sensazione d’assenza dell’aria. Basterà, però, che l’individuo si muova per ritornare a percepirne la resistenza. E più veloce si muoverà, maggiormente l’aria apparirà sferzante. Si potrebbe obiettare che questa percezione è dovuta allo spostamento del corpo e non dell’aria. Invece è sempre l’aria che provoca il movimento. Però questa volta l’aria di cui si tratta è quella interna, quella che fa muovere il corpo, per mezzo della volontà e del karmendriya della motilità (pāda). Il tatto, perciò, appare come il risultato dello scontro tra l’aria interna e quella esterna[6]. Questa volta, però, il Vaiśeṣika si occupa dell’aria come principio di movimento all’interno del corpo umano e per questa ragione non usa più il termine vāyu, bensì quello di prāṇa che significa esattamente “ciò che riempie, ciò che pervade, ciò che espande”:
I prāṇa ascendenti e discendenti, l'apertura e chiusura degli occhi, la vita, le azioni degli organi che stanno nel corpo, le funzioni delle facoltà di sensazione e d’azione, il piacere e il dolore, l’attrazione, la repulsione e la volizione sono tutti segni dell’esistenza dell’anima.[7]
Questo aforisma ci dà il destro per ampliare notevolmente la prospettiva che abbiamo considerato fino a questo momento. Infatti, il prāṇa (o i prāṇa) è qui considerato non più soltanto a livello grossolano (jaḍa): esso si amplia all’individualità integrale. L’apertura e chiusura degli occhi è un’attività dei karmendriya che concerne il corpo grossolano (sthūla śarīra); ma quest’ultimo è considerato come attivato dalla vita, ossia come un organismo vivente e cosciente (prāṇi) e non come un cadavere non-cosciente (acit śava) e privo di vita (ajīvana, aprāṇa). Come muove gli organi esterni (bahirindriya), il prāṇa attiva anche gli organi interni (antarindriya), polmoni, cuore, apparato digestivo ecc[8]. Esso provoca anche le sensazioni della mente (manas) che sono comprese tra i due estremi del piacere e del dolore. Così, grazie al prāṇa l’intelletto (buddhi) prova attrazione e repulsione e decide di conseguenza, per mezzo della volontà, che posizione assumere[9]. A questo punto dobbiamo trarre le prime conseguenze di quanto si è detto. Il vento, l’aria è sia esterna sia interna all’individuo e, comunque, è il principio di motilità, di forza e, talora, di violenza[10].
Cominciamo a prendere in considerazione l’aria dal punto di vista macrocosmico, ma per comprendere meglio l’argomento è necessario fare una digressione che riguarda il processo cosmogonico. Da diversi testi veniamo a conoscenza che, in origine, Brahmā manifestò il mondo sotto forma d’un uovo, il Brahmāṇḍa: egli stesso si collocò al suo interno come tuorlo, l’embrione d’oro, Hiraṇyagarbha. Una volta rotto il guscio, egli si manifestò sotto forma di Prajāpati, che letteralmente significa ‘Signore (pati) dei suoi sudditi (prajā)’. Possiamo affermare al di fuori di ogni ragionevole dubbio, che Prajāpati, in quanto ‘Signore’ del mondo e delle creature, corrisponde all’idea del Dio delle religioni.
La descrizione della Chāṅdogya Upaniṣad è la seguente:
In principio tutto questo era Non Essere. Esso divenne l’Essere [Brahmā], crebbe e prese la forma d’un Uovo. Così rimase inattivo per un anno intero. Quindi si spezzò. Le due metà dell’Uovo divennero d’oro e d’argento.[11]
Di esse, la metà d’argento è la terra, quella d’oro, il cielo. La membrana testacea[12] sono le montagne, la membrana vitellina[13], che vi è contenuta, sono la nebbia e le nuvole[14]. Quelle che sono arterie sono le nāḍī, l’albume, compreso nella vescica [formata dalle membrane], è il mare[15].[16]
Il Mahābhārata ci dà una descrizione più dettagliata, che riassumiamo così:
- Dall’uovo cosmico Brahmāṇḍa venne fuori Brahmā, l’unico Prajāpati [o l’aureo Hiranyagarbha].
- Poi Manu, Ka e Parameṣṭhin; quindi Pracetas e Dakṣa; e ancora i sette figli di Dakṣa; e i Viśvedeva, gli Āditya, i Vasu, i due Aśvin, gli yakṣa, i sādhya, i piśāca, i guhyaka, i pitṛ; poi apparvero i sapienti brahmarṣi e i numerosi rājarṣi, dotati d’ogni virtù.
- Così si manifestarono l’acqua, il cielo, la terra, l’aria, l’etere, i punti cardinali [divisioni spaziali], gli anni, le stagioni, i mesi, le quindicine di giorni chiamate pakṣa, con il dì e la notte alternati [divisioni temporali].
- Così vennero a manifestarsi tutte le cose [inanimate] e gli esseri [animali e vegetali] che sono ben noti all’intera umanità.[19]
Il prosieguo è narrato dalla Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad:
Ed ecco che Brahmā-Prajāpati fu colto dalla fame e cominciò a divorare. Comprendendo che ora il suo nutrimento era cresciuto, Prajāpati decise di divorare qualunque cosa egli proiettasse [fuori di Sé], fosse questa l’azione, i mezzi per agire o i risultati dell’azione.[20]
Questa fase di riassorbimento del cosmo corrisponde alla morte dell’individuo:
Da che tipo di Morte era contenuto l’universo mondo? Si risponde così: dalla Fame, ovvero dal desiderio di sfamarsi, che è caratteristico della Morte. Com’è che la Morte è la Fame? La risposta è: “Perché la Fame è la Morte. […] Chi desidera sfamarsi si mette subito a uccidere animali.[21]”
Il creatore, Prajāpati-Brahmā, dopo aver manifestato o vomitato l’intero universo, una volta svuotatosi e affamatosi, divora il suo prodotto. Egli diventa la Morte del cosmo. Egli è la Fame e l’universo il suo cibo.
Ciò che si deve tenere presente ora è che ci sono tre tipi di alimenti: l’alimento solido (anna), che corrisponde all’elemento terra (pṛthivī); l’alimento liquido (pāna), corrispondente all’elemento acqua (āpas); e infine il respiro come alimento (prāṇa), che corrisponde all’elemento aria (vāyu)[22]. Tutto quello che è detto nelle Upaniṣad a proposito di Prajāpati che, dopo aver manifestato, diventa la Fame, divora il mondo come cibo, e perciò diventa la sua morte o pralaya, può essere espresso secondo il simbolismo dell’espirazione e dell’inspirazione o riassorbimento. Questa esalazione cosmica dell’ultimo respiro fa “crollare” il cielo sulla terra[23].
Una tradizione purāṇica vuole che fosse lo stesso Brahmā, sotto forma di haṃsa (cigno), a deporre l’uovo cosmico sulla superficie delle acque primordiali. Ora, haṃsa è composto da due sillabe: ham, che è il rumore che si emette inspirando, e sa, il rumore sibilante della nostra espirazione. La manifestazione del mondo sotto la forma sintetica di Uovo del Mondo è dunque una espirazione di Brahmā, mentre l’inspirazione è il riassorbimento del cosmo in Brahmā. Haṃsa, dunque, sintetizza le due fasi opposte della respirazione, intervallate dal pralaya, che corrisponde alla ritenzione del soffio. Naturalmente il cigno che depone l’uovo rappresenta prevalentemente l’atto della manifestazione (sṛṣṭi). Al contrario, con il suo anagramma soham, prevale l’idea della reintegrazione del creato nel suo principio. È ben noto, infatti, che haṃsa non è altro che l’anagramma di “Questo sono Io (so’ham)” che esprime la ricostituzione dell’unità[24].
Nel momento in cui la manifestazione è riassorbita, il cielo e la terra aderiscono tra loro[25], perciò l’espirazione di Brahmā separa e allontana il cielo e la terra. Ecco perché prāṇa significa “ciò che riempie, ciò che pervade, ciò che espande”[26]. Il prāṇa, in questa visione cosmogonica, riempie uniformemente l’Uovo del Mondo, che per questo assume la sua forma sferica. Separando il cielo dalla terra, l’aria si pone come un terzo ambiente visibile tra i due (antarikṣa). Quando il Brahmāṇḍa si rompe, formando il cielo con la calotta superiore del guscio e con quella inferiore la terra, allora l’universo ci appare diviso in un trimundio (tribhuvana), formato da terra (bhū), atmosfera (bhuvas) e cielo (svar). Se ci si rifà alla dottrina dei tre guṇa espressa dal Sāṃkhya darśana, alla terra corrisponde la qualità di tamas, l’inerzia, la gravità e l’oscurità; al cielo sattva, l’intelligenza, l’elevazione e la luce; all’atmosfera rajas, l’agitazione, l’espansione orizzontale e l’ardore vitale. Con bhuvas, perciò, ci ritroviamo nuovamente nel dominio di vāyu e delle sue correnti che spazzano in ogni direzione orizzontale (rājasa) la superficie della terra e la parte inferiore concava del cielo. Le direzioni in cui vāyu si muove nell’atmosfera sono segnate da innumerevoli nāḍī.
Tutto questo grandioso affresco ci trasmette una immagine dell’universo corrispondente a un Macrantropo, esattamente come il Virāṭsvarūpa del capitolo undecimo della Bhagavad Gītā. A questo proposito sarà utile ricordare che il macrocosmo grossolano (adhibhūta o virāṭ) è anche definito prapañca e l’individuo umano, considerato come il riflesso microcosmico del cosmo, è chiamato prapañca puruṣa. Prapañca significa composto da cinque, quintuplice, con una sfumatura che allude all’espansione. L’individuo, infatti, è composto da cinque componenti (aṅśa) che si espandono dal centro cardiaco verso l’esterno: la testa, le due braccia e le due gambe. Si tratta dell’uomo vitruviano, ben noto a tutti nella sua iconografia leonardesca. Inoltre, le mani e i piedi sono caratterizzati sempre dal cinque nel numero delle dita. Anche le aperture del corpo sono due volte cinque, considerando come prima e più elevata fra esse anche la fontanella, brahmarandhra, al centro del loto dai mille petali, così importante per lo Yoga. Ma si ritrova ripetutamente il numero cinque nel corpo umano. Infatti cinque sono gli organi (bāhyendriya) corrispondenti alle dieci facoltà individuali (indriya), orecchi, pelle, occhi, lingua e naso, che sono i terminali corporei dei cinque sensi sottili (jñānendriya); l’udito (śrotra), il tatto (tvac), la vista (cakṣus), il gusto (rasana), l’olfatto (ghrāna). Gli altri cinque organi d’azione sono: la bocca, i genitali, gli organi di escrezione, comprese le ghiandole sudoripare; le mani per la prensione e le gambe per deambulare, ossia gli strumenti corporei delle cinque sottili facoltà di azione (karmendriya): la parola (vāc), la generazione (upastha), l’escrezione (pāyu), la prensione (pāṇi), la deambulazione (pāda).
Vi è, dunque, una perfetta corrispondenza tra il microcosmo umano (viśva) e il macrocosmo (Virāṭ). Però prima di considerare l’aria in relazione all’individuo, dobbiamo osservare che essa può essere intesa a due livelli diversi. Il primo livello corrisponde all’aria che si respira o s’inghiotte assieme al cibo, e che così viene assimilata e diventa uno dei tre umori (tridoṣa)[27] che scorrono nei nostri organi grossolani. Nell’Āyurveda questa aria è denominata con il nome di vāta. Si tratta dell’aria intesa in senso materiale ed è perciò definita come un dhātu, un componente fluido del corpo fisico (deha). La distinzione tra vāta e vāyu è antichissima ed era già presente nella Ṛg Veda Samhitā. Vāyu era considerato come una delle divinità maggiori, mentre vāta veniva messo in relazione con un dio minore, Parjanya[28], preposto alla crescita delle piante e del corpo dell’embrione nel ventre materno. C’è da determinare dunque qual è la differenza qualitativa tra aria e aria. O, meglio, tra vāta e prāṇa-vāyu. La differenza è fondamentale, perché il prāṇa non è solo l’elemento fisico dell’aria, ma è il veicolo della vita (jīvana kaya). Il corpo pesante (sthūla śarīra), di cui fa parte integrante vāta, è animato dal prāṇa. Non per nulla è scritto che al momento della morte tutte le facoltà individuali si raccolgono nel prāṇa e, assieme a esso e all’anima individuale (jīvātman), abbandonano il corpo.
[…] Quando egli se ne va, il prāṇa lo segue e quando il prāṇa se ne va tutte facoltà individuali lo seguono […] (BU IV.4.2).
Ma nel cadavere rimane ancora del vāta sotto forma gassosa, che sarà restituito alla natura circostante durante il processo di decomposizione. Tralasceremo, dunque, di occuparci del vāta, per studiare il prāṇa. Osserveremo che il prāṇa è importante non per la sua componente aeriforme, ma per la forza vitale che convoglia. Il corpo pesante (sthūla śarīra), animato dai soffi vitali, è uno strumento (karaṇa) nel quale soggiorniamo durante il breve periodo della nostra vita terrena. Durante questo periodo, per gli esseri è possibile agire in modo da migliorare il proprio destino in una futura esistenza; o, persino, di poter affrancarsi dalla ronda perpetua di nascite e morti, rinascite e ri-morti, ottenendo la Liberazione. La nascita in questo corpo vivente (prāṇi śarīra) offre, perciò, l’occasione per svolgere quelle azioni che consentono di procedere a tappe sulla via del perfezionamento di sé, prendendo il controllo del proprio prāṇa tramite una via di Yoga e, in modo particolare, tramite lo haṭhayoga. Per questa ragione è di grande importanza e utilità conoscere esattamente, non soltanto le tecniche offerte dal metodo, ma anche conoscere l’oggetto sul quale tali tecniche si devono applicare: esattamente come si comporta il padrone del campo (kṣetrājña) nei confronti del campo (kṣetra) che dovrà coltivare[29].
La Taittirīya Upaniṣad narra che Bhṛgu chiese al padre Varuṇa d’insegnargli il Brahman, ottenendo, tra gli altri, questo insegnamento:
[il Brahman] è cibo, è soffio, vista, udito e parola; [...] Esso è ciò da cui gli esseri nascono, con cui, dopo la nascita, vivono, in cui rientrano quando muoiono. Sforzati di conoscere questo Brahman [...].[30]
Egli [Bhṛgu] comprese che il Brahman è prāṇa, perché dal prāṇa nascono tutti questi esseri; una volta nati, per suo mezzo vivono e, alla morte, rientrano nel prāṇa [...].[31]
L’essere, il jīva o anima individualizzata, quando si stabilisce in un corpo e lo anima, vi si colloca spazialmente e temporalmente. Esso è prigioniero del corpo; ma questa prigione diventa allo stesso tempo strumento (karaṇa) per il suo affrancamento. Infatti, solamente quando è libero di agire, l’essere umano può modificare in meglio o in peggio la propria situazione all’interno della trasmigrazione. Ci sono tre tipi di azioni che l’essere umano mette in opera durante la vita corporea: la mānasa kriyā, la śābdika kriyā e la daihika kriyā, quelle che la religione cristiana definisce “pensieri, parole e opere”. Se prendiamo in considerazione il corpo (deha) come strumento per le azioni nel mondo esterno, ci renderemo conto che queste sono in numero illimitato e che non basterebbe una vita intera (ipoteticamente della durata massima di centovent’anni) per poterle attuare. Per questa ragione lo haṭhayoga sintetizza tutti i possibili movimenti del corpo umano in 84 posizioni, situate su tre piani: stante (sthāna), seduta (āsana) e sdraiata (śāya), coprendo così tutte le direzioni dello spazio comprese in uno sferoide. Si può riconoscere l’analogia con la forma dell’uovo cosmico che contiene tutti i possibili prolungamenti spaziali dell’Embrione d’oro. Con la pratica degli āsana l’intero spazio-tempo è conquistato e racchiuso nella propria modalità corporea. Non solamente lo spazio, com’è evidente, ma anche il tempo, poiché il movimento manifesta le posture corporee nello spazio, ma dilazionate nel corso del tempo. Vi è una stretta analogia tra questa concezione e quella della danza (nāṭya), in cui la danzatrice afferma la propria identità immutabile attraverso la conquista dei ritmi spaziali e temporali per mezzo del numero illimitato delle posture che assume. E anche la danzatrice diventa la proiezione microcosmica di Śiva come re dei danzatori (Naṭarāja), quando il Dio riempie e assimila tutto lo spazio cosmico. Ugualmente si può dire delle mosse innumerevoli dell’arte marziale (mallayuddha) che si rifanno al potere (siddhi) di Hanumān, Dio protettore dei lottatori, di riempire l’intero cosmo con il suo corpo. Analogamente alle posizioni corporee, l’attività della parola si esprime tramite i bīja mantra, i mantra seminali, che sintetizzano tutti i suoni e tutte le parole; e l’attività della mente per mezzo della concentrazione meditativa su un unico punto, che riepiloga e riunisce l’intero processo produttore di pensieri. In definitiva con la pratica degli āsana il praticante esaurisce e ingloba con il suo corpo fisico tutte le sue possibilità spazio-temporali della manifestazione grossolana (Virāṭ). Si ritorna dunque alla concezione dell’espansione nello spazio e nel tempo dell’essere umano tramite il corpo caratterizzato dalla sua quintuplicità, di cui s’è trattato in precedenza[32].
Questa quintuplicità sia del corpo umano sia del mondo esteso si spiega e si sostiene sui cinque elementi (ākāśa; vāyu; tejas; āpa; prithivī) che rappresentano le fondamenta della manifestazione grossolana. La fase dedicata agli āsana fa sì che lo haṭhayoga ponga ordine a questi elementi e a tutti i loro composti grossolani, equilibrando l’individuo corporeo e mettendolo in armonia con il macrocosmo. Facendo così, l’essere che è ospitato nel corpo, e che sta nel suo centro nella caverna del cuore, si colloca al centro dell’universo, nel cuore del mondo. Si può comprendere come in questo modo malattie, debolezze e difetti scompaiano. L’India conosce molti miti che raccontano che gli uomini, che hanno raggiunto questo grado, sono perfetti nel corpo, belli e splendenti, e tra loro indistinguibili, poiché si sono identificati con il modello dell’essere umano.
La Taittirīya Upaniṣad descrive il Sé, l’Ātman di tutti gli esseri, come dotato di cinque involucri (kośa) nei quali esso si nasconde e s’avviluppa. Essi sono, a partire dall’alto, l’involucro fatto di Beatitudine (Ānandamayakośa) che corrisponde all’ordine divino; l’involucro fatto di coscienza distintiva (Vijñānamayakośa), che corrisponde all’intelletto discriminativo o buddhi; l’involucro fatto di mente (Manomayakośa), che consiste nella sfera della ragione e dei sentimenti; e, infine, i due involucri fatti di soffio vitale (Prāṇamayakośa) e di cibo (Annamayakośa)[33]. Da questa śruti traiamo che l’involucro fatto di prāṇa è mediatore tra il corpo fisico e le componenti più sottili in cui s’è avvolto lo spirito. Il prāṇa partecipa così alla duplice natura degli elementi grossi (bhūta) e dell’aggregato sottile e animico (liṅga śarīra). Grazie alla sua mediazione, la mente (manas) e la volontà (buddhi) sono in grado di muovere il corpo.
Il corpo grosso o pesante è composto prevalentemente da tre bhūta, la terra, l’acqua e il fuoco. In altri termini il corpo è composto dal cibo solido e dalle bevande, a cui s’aggiunge il fuoco come funzione assimilativa della digestione[34]. Ma vi è un altro strumento di assimilazione di un cibo più sottile: si tratta della respirazione che consente soprattutto di nutrirsi di aria e, tramite l’aria, dell’etere[35]. Questi due elementi sono comparativamente più leggeri o meno grossi di terra, acqua e fuoco. Ma la loro importanza consiste nel fatto che per il tramite di questi due bhūta che nutrono il corpo con componenti aeriformi, gli esseri umani assimilano anche elementi sottili che, pur appartenendo alla manifestazione individuale, non sono ancora o non sono più incorporati in un determinato individuo. In questo modo un singolo individuo è messo in relazione sottile sia con l’ammasso sintetico di vita, che è propriamente Hiraṇyagarbha, sia con la collettività di tutti gli esseri viventi. Hiraṇyagarbha è il condensato di vita (jīva ghana) che rende viventi tutti gli esseri per partecipazione. Tramite la circolazione atmosferica del vento, la vita circola attraverso gli innumerevoli canali sottili del cosmo, portando il soffio vitale a tutti gli esseri. Il prāṇa porta con sé ovunque non soltanto la vita, ma anche l’oggetto della contemplazione, le idee, i concetti che sono il prodotto della meditazione universale di Brahmā-Hiraṇyagarbha. Così i viventi, aspirando le arie apportatrici di vita, inconsapevolmente si appropriano anche dei pensieri del Signore del mondo. Ecco, dunque, l’immagine con cui abbiamo aperto questa disquisizione: il vento penetra nella nostra casa attraverso tutte le aperture. E quando è dentro la nostra casa lo chiamiamo “la mia aria”, per poi ritornare a essere il vento di tutti una volta uscito. Assieme al prāṇa che respiriamo, acquisiamo concetti e idee da esso trasportate. Se li tratteniamo, possiamo rielaborarli e poi trasmetterli con le modificazioni da noi apportate. Quante invenzioni e scoperte sono state fatte in questo modo! Invenzioni che poi attribuiamo a noi stessi, invece che al loro vero autore, Prajāpati Hiraṇyagarbha. Con la continua circolazione del prāṇa, inspirato ed emesso dalla massa degli uomini, si diffondono le mode, le mentalità, le credenze. A questa circolazione di aria già respirata ed espulsa partecipano anche i residui psichici lasciati dai defunti e i sortilegi dei maghi. L’individuo ordinario non si rende conto delle grandi opportunità e dei pericoli che il passaggio del prāṇa nel proprio corpo comporta. Solamente lo yogin è in grado di controllare consapevolmente questo complesso fenomeno. Lo strumento ne è il prāṇayāma. Sta dunque al praticante di prāṇayāma respingere i prāṇa nocivi e accogliere consapevolmente lo scambio prāṇico con Hiraṇyagarbha, per mezzo della più accurata disciplina e seguendo la guida del maestro. Così facendo il praticante di Yoga collega il Macrocosmo con il suo microcosmo, compiendo una prima unificazione (ekagratā) del suo “io” particolare con l’“io” generale, l’Embrione d’oro. Penetrando nel quintuplice corpo dell’essere umano, il prāṇa, benché di per sé sia unico (mukhya prāṇa, il prāṇa principale), si disgiunge in cinque funzioni differenziate che corrispondono alle caratteristiche dei taṅmātra e dei loro prodotti grossi, i bhūta, che costituiscono il corpo; inoltre si dispongono, in tutta evidenza, in armonia con le qualità e le funzioni dei jñānendriya e karmendriya. Queste cinque funzioni sono chiamate pañcaprāṇa sia dal Sāṃkhya[36] sia dallo Yoga[37]. Questi prāṇa o soffi vitali, vāyu, sono:
- prāṇa: il primo soffio vitale. Per questa ragione porta lo stesso nome del prāṇa indifferenziato, perché così arriva dall’esterno. Si tratta dell’inspirazione, considerata come una insufflazione attraverso le narici, dapprima in direzione ascendente fino alla base del cervello (mastiṣka), dove purifica la mente (antaḥkāraṇa) apportando pensieri ed emozioni. Poi discende fino al cuore e polmoni, dove deposita gli elementi sottili vitali assorbiti dall’ambiente esterno, provenienti sia dal jīva ghana sia dalle eiezioni sottili emesse per espirazione dalla collettività degli esseri viventi;
- apāna: l’aspirazione, che scende dai polmoni fino alla base della colonna vertebrale (merudaṇḍa), differenziando gli elementi assunti dall’esterno e diffondendoli in tutte le vene sottili (nāḍī) presenti nel corpo. Apāna deposita gli elementi utili che saranno assimilati nella fase successiva, all’altezza dell’ombelico, ossia nella regione del corpo dedicata alla funzione di assimilazione, mentre fa cadere verso il basso gli elementi inutili o i rifiuti non digeriti, per essere espulsi. Questo soffio è anche preposto ad attuare altre funzioni d’espulsione, come l’eiezione del feto o di corpi estranei o impurità dalle ferite o pustole;
- samāna: questo prāṇa conclude la fase dell’ingestione di aria. Per questa ragione è considerato una pausa nel duplice processo della respirazione e, allo stesso tempo, esso coincide con il trattenimento del soffio nella regione inferiore del plesso solare. Samāna è la funzione assimilatrice e discriminatrice. Questa pausa, volontariamente attuata con il trattenimento del respiro, corrisponde al pralaya macrocosmico, la fase di stasi tra riassorbimento e ri-manifestazione del mondo;
- vyāna: l’espansione del soffio in tutto il corpo. Generalmente messo in relazione con il sistema circolatorio del sangue per la sua capillare diffusione in tutto il corpo, è il prāṇa che colloca all’interno degli organi corporei gli elementi amorfi assimilati, rendendoli partecipi dell’organismo vivente. È perciò tra i pañcaprāṇa quello che anima e fa muovere il corpo. Allo stesso tempo sostituisce con gli elementi recenti quelli già sfruttati, abbandonandoli ad apāna per essere secreti;
- udāna: l’espirazione, ovvero la seconda fase della respirazione. Tramite l’aria emessa con udāna il corpo si libera anche delle componenti sottili da rimuovere: per esempio, se i rifiuti costituiti dagli elementi terra, acqua e fuoco, sono eliminati dagli organi di escrezione e dalla pelle (con il sudore), i rifiuti o i componenti esausti dell’aria e dell’etere sono restituiti all’ambiente circostante proprio tramite l’espirazione. Similmente si disperdono anche gli scarti di componenti sottili sia prāṇici sia concettuali, e in questo modo si restituisce a Hiraṇyagarbha quanto si era da lui assimilato con l’inspirazione. Poiché Hiraṇyagarbha deve essere considerato l’anima prāṇica generale del mondo in cui viviamo, le nostre componenti sottili così espirate si vanno a mescolare con quelle emesse da tutti gli altri esseri, viventi o già defunti, dando così forma a quella che abbiamo chiamato “la mentalità”, che muta nel tempo proprio grazie a questa circolazione cosmica. Con udāna avviene anche l’esalazione dell’ultimo respiro, che determina l’uscita del jīva accompagnato da tutte le componenti sottili e la conseguente morte del corpo (dehānta).
Si deve aggiungere che nei testi sacri dell’India con la parola prāṇa al plurale, non s’intendono solamente i pañcaprāṇa di cui abbiamo appena parlato. In questo termine spesso sono compresi, in sovrappiù, i jñānendriya, i karmendriya e i taṅmātra corrispondenti. Questo perché è all’interno dei prāṇa che essi si muovono per svolgere le loro funzioni sottili. Quando si dice “io vedo”, la vista si diparte dalla mente (manas) in cui dimora, entra nel prāṇa e quest’ultimo, attraverso i suoi canali sottili, conduce il senso della vista all’occhio. Quindi è grazie al prāṇa che la vista può percepire. E così analogamente per ogni facoltà di senso (jñānendriya). Quando si dice “io cammino”, il karmendriya della deambulazione (pāda), attraverso prāṇa e nādī raggiunge gli organi preposti alla locomozione, le gambe, e allora si cammina. Così i principi sottili (taṅmātra), tramite i prāṇa rinnovano e accrescono gli elementi grossolani (bhūta) che costituiscono il nostro corpo solido. Perciò il prāṇayāma usato nella sua massima estensione, sotto la guida d’un istruttore spirituale esperto, è in grado di armonizzare e purificare non solamente i pañcaprāṇa, ma anche i jñānendriya, i karmendriya e i taṅmātra, giungendo perfino a estenderne i poteri (siddhi) fino agli estremi limiti concessi al dominio dell’individualità. Per questa ragione il prāṇayāma deve essere considerato uno strumento prodigioso, divino e, allo stesso tempo, pericoloso.
Questa disquisizione non sarebbe completa se non si accennasse a una realtà ben più elevata, che va al di là della sfera del sottile (sūkṣmatā) a cui volutamente ci siamo attenuti. Infatti, quando si parla di Hiraṇyagarbha, Brahmā o Prajāpati, intendendo con questi nomi un solo principio che dà origine al cosmo, non si deve dimenticare che non si sta parlando di qualcosa d’altro da Sé. Anzi, queste forme apparenti dell’Assoluto nascondono una realtà metafisica (paramārtha sattā) a cui solamente i più qualificati (uttamādhikāri) tra i cercatori della conoscenza (jijñāsu) possono arrivare. Ātman, l’unico Sé di tutti, non è soltanto una forma simbolicamente fissata del pronome riflessivo sé, se stesso, ma è etimologicamente identica al greco atmós (ἀτμός), autmós (αὐτμός)[38] che significano espirazione, esalazione, soffio. E se consideriamo il Grande Detto (mahāvākya) che afferma ayam ātmā brahma[39], l’Ātman è il Brahman, arriveremo a concepire che ognuno di noi è quel soffio (Ātman) onnipervadente (brahman). Questo è il prāṇa dell’Advaita Vedānta.
Dal sito: https://www.vedavyasamandala.com/
[1] Kaṇāda, Vaiśeṣika Sūtra, II.4. Nei sūtra precedenti si afferma che la terra è percepita dalla vista, dal gusto, dall’odorato e dal tatto; l’acqua è percepita dalla vista, dal gusto, dal tatto, ma non dall’odorato; il fuoco è percepito dalla vista e dal tatto, ma non dal gusto e dall’odorato. Di seguito il Sūtra dichiara che l’etere o spazio è percepito soltanto dall’udito.
[2] Vaiśeṣika Sūtra, II.9.
[3] Vaiśeṣika Sūtra, II.12. Invece, per esempio, la caratteristica del fuoco è il calore.
[4] Tralasciamo le considerazioni che Kaṇāda elabora sulla teoria atomistica applicata all’aria, che ci allontanerebbe dal tema che ci proponiamo d’affrontare.
[5] Vāyu, infatti, deriva da una radice va che significa muoversi, urtare, colpire.
[6] “Lo scontro di aria con aria è un segno della sua molteplicità.” Vaiśeṣika Sūtra, II.14. L’immobilità dell’aria è qui spiegata come l’equilibrio tra due forze uguali e contrapposte, che rimane tale finché una delle due arie prende il sopravvento. Nell’esempio prodotto, la rottura dell’equilibrio è provocata dalle arie interne che “aggrediscono” l’aria esterna. Da questo śloka si inferisce che l’aria è suddivisibile in una molteplicità. Ne vedremo l’applicazione dalla divisione dell’unico prāṇa nei cinque prāṇa che circolano nel corpo.
[7] Vaiśeṣika Sūtra, III.4.
[8] Dolore e piacere del corpo sono percepiti tramite il senso del tatto, che ha come organo corrispondente la pelle. I dolori e i piaceri interni, per esempio una colica o il senso di soddisfazione della sazietà ecc., non sono percepiti dalla pelle, bensì direttamente dai prāṇa.
[9] Tutte queste attività prāṇiche, secondo Kaṇāda, sono prove dirette dell’esistenza dell’Ātman. Con questa affermazione il Vaiśeṣika si espone troppo: infatti è evidente che l’Ātman non può essere nemmeno dedotto, bensì solamente ipotizzato, come direbbe un naiyāyika.
[10] Non per nulla due eroi celebri per la loro motilità, forza e violenza sono collegati al vento: nel Rāmāyaṇa, Hanuman e nel Mahābharata, Bhīma sono entrambi descritti come figli di Vāyu, il dio del vento.
[11] ChU III.19.1.
[12] Jarāyu, la membrana più resistente, adiacente al guscio e che contiene l’albume.
[13] Ulba, la membrana amniotica, sottile e trasparente che contiene il tuorlo.
[14] In questo modo si può identificare all’atmosfera che s’estende dalla nebbia alle nuvole.
[15] Samudra, mare, oceano, comprende le acque superiori e quelle inferiori.
[16] ChU III.19.2.
[17] Dobbiamo far notare che le vibrazioni sonore di cui parla la Chāṅdogya corrispondono al suono primordiale (sphota) provocato dall’emissione e immissione fricativa del prāṇa divino, il so’ham di cui tratteremo tra poche righe.
[18] ChU III.19.3.
[19] Mahābhārata, Ādi Parvan, VII. 27-37.
[20] BU I. 4. 16.
[21] BU I. 2. 1
[22] L’assunzione di cibo e bevande provoca la sensazione interna di calore; al contrario l’inspirazione dell’aria rinfresca gli organi interni.
[23] In origine il padre cielo (Dyaus Pitār) e la madre terra (Pṛthivī Mātar) erano separati solo dalla linea dell’orizzonte (ṚV III.55.20); spesso per la loro adiacenza il Veda li denomina come un’unica entità: dyāvāpṛthivī. Cfr. Geb e Nut della mitologia egizia; la separazione di Urano e Gea in Esiodo; Enlil, il vento che separa cielo e terra nel mito sumero; Pan Ku di quella cinese ecc.
[24] BU, I. 4. 1. Śaṃkara, nel suo commento, specifica che si tratta del raggiungimento dell’unione con Hiraṇyagarbha.
[25] Analogamente, nel neonato le pareti dei polmoni aderiscono e si staccano tra loro con la prima inalazione dell’aria. Inversamente avviene con l’esalazione dell’ultimo respiro del morente.
[26] Questo anche il significato di Brahman. Troviamo qui una delle ragioni per le quali il prāṇa può rappresentare il Principio assoluto.
[27] Gli altri due umori essendo pitta e kapha, la bile e la flemma.
[28] ṚV V.83.
[29] BhG XIII.1-6.
[30] TU III. 1. 1.
[31] TU III. 3. 1.
[32] Tradizionalmente anche la vita umana è suddivisa in cinque parti: infanzia, adolescenza, maturità, decadenza, morte. A questi cinque spesso s’aggiunge una sesta precondizione temporale che corrisponde alla durata della vita intrauterina, qui considerata come adṛṣṭa, o avyākta, non visibile, ossia come “assenza della presenza”.
[33] TU III.10.5-6.
[34] Sarà utile menzionare la prescrizione tradizionale hindū che non consente l’ingestione di cibo non cotto A questa prescrizione fa eccezione la consumazione della frutta.
[35] Sarebbe di grande importanza spiegare le relazioni tra il soffio vitale (prāṇa) e l’etere o spazio (ākāśa). Tuttavia, il tema ci allontanerebbe dall’argomento di cui stiamo trattando. Sarà sufficiente dire che sia prāṇa sia l’etere sono onnipervadenti e, per questo motivo, possono essere entrambi usati per illustrare l’onnipervasività del Brahman.
[36] “Vediamo ora la funzione comune dei cinque prāṇa; vale a dire prāṇa, apāna, samāna, vyāna e udāna, che svolgono una funzione comune [coadiuvante] dei cinque sensi. Prāṇa ha come sede la bocca e il naso; esso agisce uniformemente a tutti i tredici indriya [5 jñānendriya, 5 karmendriya, manas, citta e buddhi], che possono operare solo grazie a questo prāṇa. Prāṇa, che ha un movimento verso l’alto, è come un uccello in gabbia che agitandosi sommuove tutto. Si chiama così perché è insufflato verso l’alto. Apāna, invece, si chiama così perché scende verso il basso. Samāna è situato nel petto e distribuisce equamente l’alimento ecc. Anch’esso mette in moto ugualmente tutti i sensi. Vyāna che muove verticalmente tra l’ombelico e la testa, è così detto perché spinge verso l’alto. Anch’esso mette in moto tutti i sensi. L’ultimo è udāna che pervade e si distribuisce all’interno di tutto il corpo; si chiama in tal modo perché permea il corpo come l’etere; anch’esso mette in moto tutti i sensi. I pañcaprāṇa sono spiegati come funzioni comuni a tutti gli indriya, perciò sono funzionali a tutti e tredici” (Īśvarakṛṣṇa, Sāṃkhyakārikā Gauḍapāda Bhāṣya, XXIX).
[37] “Avendo sotto controllo udāna si ottiene l’invulnerabilità dall’acqua, fango, spine e oggetti del genere e [alla morte] si esce verso l’alto” Patañjali, Yoga Sūtra, III.39). Il commento tradizionale, attribuito a Vyāsa, non si discosta dall’insegnamento del Sāṃkhya: “L’azione alternata dell’insieme dei sensi, caratterizzata dai diversi prāṇa, è la vita stessa. La sua attività è quintuplice. Prāṇa si muove verso l’alto attraverso la bocca e il naso e raggiunge poi il cuore. Samāna, poiché si distribuisce a partire dal centro, ha sede nell’ombelico. Apāna, che tende al basso, raggiunge le piante dei piedi. Udāna, che conduce verso l’alto, muove fino alla testa. Vyāna è pervasivo; tra questi prāṇa è il principale. Avendo soggiogato udāna, non c’è più modo di essere vittime dell’acqua, del fango, delle spine o di oggetti consimili, e, al momento della morte, si raggiunge l’uscita più alta. Ottiene ciò chi padroneggia udāna” (Yoga Sūtra Vyāsa Bhāṣya, III.39).
[38] Da quest’ultima forma greca arcaica deriva il sostantivo autós (αὐτός), con il significato primario di “essere provvisto di soffio vitale”, che poi è diventato il pronome riflessivo sé, se stesso.
[39] Māṇḍūkya Upaniṣad, I.2.
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