"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 22 giugno 2019

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 21. Il «viaggio divino» dell’essere in via di liberazione

René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

21. Il «viaggio divino» dell’essere in via di liberazione

Il seguito del viaggio simbolico compiuto dall’essere nel suo processo di liberazione graduale, dall’estremità dell’arteria coronale (sushumnâ), che comunica costantemente con un raggio del Sole spirituale, fino alla sua ultima destinazione, si effettua seguendo la Via tracciata dal percorso di questo raggio in senso inverso (secondo la sua direzione riflessa) fino alla sua sorgente, che è appunto questa destinazione stessa.

Tuttavia, poiché una descrizione del genere può riferirsi agli stati postumi percorsi in successione sia dagli esseri che otterranno la «Liberazione» prendendo come punto di partenza lo stato umano, sia da coloro che, dopo il riassorbimento dell’individualità umana, dovranno al contrario passare in altri stati di manifestazione individuale, è necessario che vi siano due itinerari differenti corrispondenti a questi due casi: si dice, in effetti, che i primi seguono la «Via degli Dei» (dêva-yâna), mentre i secondi seguono la «Via degli Avi» (pitri-yâna). Questi due itinerari simbolici sono riassunti nel seguente passo della Bhagavad-Gîtâ: «O Bhârata, ti spiegherò in quali momenti coloro che tendono all’Unione (senza averla effettivamente realizzata) lasciano l’esistenza manifestata, per non più ritornarvi o per ritornarvi. Fuoco, luce, giorno, luna crescente, semestre del sole ascendente verso nord: sotto questi segni luminosi gli uomini che conoscono Brahma raggiungono Brahma. Fumo, notte, luna calante, semestre del sole discendente verso sud: sotto questi segni d’ombra essi raggiungono la Sfera della Luna (letteralmente: “attingono la luce lunare”) per poi ritornare (a nuovi stati di manifestazione). Queste sono le due Vie permanenti, l’una chiara, l’altra oscura, del mondo manifestato (jagat); per l’una si va là donde non c’è ritorno (dal non-manifestato al manifestato); per l’altra, là donde si torna indietro (nella manifestazione)».[1]
Lo stesso simbolismo è esposto, con maggiori dettagli, in diversi passi del Vêda; e come prima cosa, per ciò che concerne il pitri-yâna, faremo soltanto rilevare che esso non conduce al di là della Sfera della Luna, sicché, seguendola, l’essere non è liberato dalla forma, vale a dire dalla condizione individuale intesa nel suo senso più generale, poiché, come abbiamo già detto, è proprio la forma a definire l’individualità come tale.[2] Secondo le corrispondenze che già abbiamo indicato, la Sfera della Luna rappresenta la «memoria cosmica»;[3] perciò è la dimora dei Pitri, vale a dire degli esseri del ciclo anteriore, che sono considerati i generatori del ciclo attuale per quel concatenamento causale di cui la successione dei cicli non è che il simbolo, proprio da ciò deriva la denominazione di pitri-yâna, mentre quella di dêva-yâna designa naturalmente la Via che conduce verso gli stati superiori dell’essere, dunque verso l’assimilazione all’essenza stessa della Luce intelligibile. Nella Sfera della Luna si dissolvono le forme che hanno concluso il corso completo del loro sviluppo; e là sono contenuti anche i germi delle forme non ancora sviluppate, poiché, per la forma come per qualsiasi altra cosa, il punto di partenza e il punto d’arrivo si trovano necessariamente nello stesso ordine di esistenza. Per precisare meglio queste considerazioni, bisognerebbe potersi riferire espressamente alla teoria dei cicli; ma qui ci basta ripetere che, ogni ciclo essendo in realtà uno stato d’esistenza, la vecchia forma che un essere non liberato dall’individualità lascia e la forma nuova di cui si riveste appartengono necessariamente a due stati differenti (e il passaggio dall’uno all’altro si effettua nella Sfera della Luna, dove si trova il punto comune ai due cicli), perché un essere, qualunque esso sia, non può passare due volte per un medesimo stato, come abbiamo spiegato altrove mostrando l’assurdità delle teorie «reincarnazioniste» inventate da certi occidentali moderni.[4]
Insisteremo un po’ più a lungo sul dêva-yâna, che si riferisce all’identificazione effettiva del centro dell’individualità,[5] dove tutte le facoltà sono state precedentemente riassorbite nell’«anima vivente» (jîvâtmâ), con il centro stesso dell’essere totale, residenza del Brahma Universale. Questo processo non trova dunque applicazione, lo ripetiamo, che nel caso in cui l’identificazione non sia stata realizzata durante la vita terrena né al momento stesso della morte; d’altro canto, quando l’identificazione è compiuta, non vi è più alcuna «anima vivente» distinta dal «Sé», poiché l’essere ormai è al di fuori della condizione individuale: questa distinzione, che non è mai esistita se non in modo illusorio (illusione inerente a questa stessa condizione), cessa per lui non appena egli raggiunge la realtà assoluta; l’individualità svanisce con tutte le determinazioni limitative e contingenti, e resta la sola personalità nella pienezza dell’essere, che, in sé, contiene principialmente tutte le sue possibilità allo stato permanente e non-manifestato.
Secondo il simbolismo vedico, quale lo troviamo in numerosi testi delle Upanishad,[6] l’essere che compie il dêva-yâna, avendo lasciata la Terra (Bhû, vale a dire il mondo corporeo o la manifestazione grossolana), è dapprima condotto alla luce (archis), da intendersi qui come il Regno del Fuoco (Têjas), il cui Reggente è Agni, chiamato anche Vaishwânara in un significato speciale. Occorre peraltro osservare che, quando nell’enumerazione di questi stadi successivi incontriamo i nomi degli elementi, essi non possono che essere simbolici, poiché i bhûta appartengono tutti propriamente al mondo corporeo, rappresentato interamente dalla Terra (che, in quanto elemento, è Prithvî); si tratta dunque in realtà di differenti modalità dello stato sottile. Dal Regno del Fuoco l’essere è condotto ai diversi domini dei reggenti (dêvatâ, «deità») o distributori del giorno, della mezza lunazione chiara (periodo crescente o prima metà del mese lunare),[7] dei sei mesi d’ascensione del sole verso nord e infine dell’anno, e tutto ciò va riferito alla corrispondenza di queste divisioni del tempo (i «momenti» della Bhagavad-Gîtâ) trasposte analogicamente nei prolungamenti extra-corporei dello stato umano, e non alle divisioni stesse, che, prese alla lettera, sono applicabili soltanto allo stato corporeo.[8] Di lì, l’essere passa al Regno dell’Aria (Vâyu), il cui Reggente (designato con lo stesso nome) lo guida verso la Sfera del Sole (Sûrya o Âditya), partendo dal limite superiore del suo Regno, attraverso un passaggio paragonato al mozzo della ruota di un carro, cioè a un asse fisso intorno al quale ha luogo la rotazione o il mutamento di tutte le cose contingenti (non bisogna dimenticare che Vâyu è essenzialmente il principio «movente»), mutamento a cui l’essere ormai sta per sfuggire.[9] Esso passa poi nella Sfera della Luna (Chandra o Soma), dove, al contrario di chi ha seguito il pitri-yâna, non rimane, ma da cui sale alla regione del lampo (vidyut),[10] al di sopra della quale vi è il Regno dell’Acqua (Ap), il cui Reggente è Varuna[11] (come, analogicamente, il fulmine scoppia sotto le nubi gravide di pioggia). Si tratta qui delle Acque superiori o celesti, che rappresentano l’insieme delle possibilità informali,[12] in opposizione alle Acque inferiori, che rappresentano l’insieme delle possibilità formali; non può più trattarsi di queste ultime dal momento che l’essere ha oltrepassato la Sfera della Luna, poiché essa è, come abbiamo detto sopra, l’ambiente cosmico dove si elaborano i germi di tutta la manifestazione formale. Infine, la parte restante del viaggio si svolge attraverso la regione luminosa intermedia (Antariksha, di cui si è parlato in precedenza[13] nella descrizione delle sette membra di Vaishwânara, ma in un senso un po’ diverso), che è il Regno di Indra,[14] e che è occupata dall’Etere (Âkâsha, il quale rappresenta qui lo stato primordiale di equilibrio indifferenziato), fino al Centro spirituale dove risiede Prajâpati, il «Signore degli esseri prodotti», che è, come abbiamo già accennato, la manifestazione principiale e l’espressione diretta di Brahma stesso, relativamente al ciclo totale o al grado di esistenza al quale appartiene lo stato umano, perché questo deve essere ancora considerato qui, anche se solo in linea di principio, come lo stato che l’essere ha preso quale punto di partenza, e con cui, anche quando è uscito dalla forma o dall’individualità, conserva alcuni legami finché non ha raggiunto lo stato assolutamente incondizionato, vale a dire fino a che per lui la «Liberazione» non diviene pienamente effettiva.
Nei vari testi in cui è descritto il «viaggio divino», vi sono tuttavia certe oscillazioni, d’altronde di poca importanza e in definitiva più apparenti che reali, riguardanti il numero e l’ordine nell’enumerazione delle tappe intermedie; ma l’esposizione che precede risulta da una collazione generale di questi testi, e perciò può essere considerata come l’espressione rigorosa della dottrina tradizionale su tale argomento.[15] Del resto, non è nostra intenzione dilungarci oltre misura in una spiegazione più particolareggiata di questo simbolismo, che tutto sommato è di per sé abbastanza chiaro, nel suo insieme, per chiunque abbia anche solo un po’ di dimestichezza con le concezioni orientali (potremmo anche dire puramente e semplicemente con le concezioni tradizionali) e con i modi in cui sono in genere espresse; la sua interpretazione è del resto ancora più facilitata da tutte le considerazioni da noi già esposte, e in cui il lettore avrà trovato moltissimi esempi di queste trasposizioni analogiche, che costituiscono il fondo di ogni simbolismo.[16] Ricorderemo soltanto ancora una volta, a rischio di ripeterci, e perché è assolutamente essenziale per la comprensione di queste cose, che, per esempio quando si parla delle Sfere del Sole e della Luna, deve essere ben chiaro che non si tratta mai del sole e della luna quali astri visibili, che appartengono semplicemente al mondo corporeo, bensì dei principi universali che questi astri rappresentano in un certo modo nel mondo sensibile, o per lo meno della manifestazione di questi principi a gradi diversi, in virtù delle corrispondenze analogiche che collegano fra loro tutti gli stati dell’essere.[17] Infatti, i vari Mondi (Loka), Sfere planetarie e Regni elementari, che sono descritti simbolicamente come altrettante regioni (ma soltanto simbolicamente, poiché l’essere che li percorre non è più sottomesso allo spazio), non sono in realtà che stati differenti;[18] e questo simbolismo spaziale (come pure il simbolismo temporale che serve specialmente a esprimere la teoria dei cicli) è abbastanza naturale e di uso sufficientemente diffuso da poter trarre in inganno soltanto coloro che sono incapaci di scorgere altra cosa che non sia il senso più grossolanamente letterale; costoro non comprenderanno mai che cos’è un simbolo, poiché le loro concezioni sono irrimediabilmente limitate all’esistenza terrena e al mondo corporeo, in cui, per la più ingenua delle illusioni, essi vogliono racchiudere tutta la realtà.
Il possesso effettivo di questi stati può essere ottenuto identificandosi con i principi che sono designati come i loro rispettivi Reggenti, identificazione che in ogni caso si effettua per mezzo della conoscenza, a condizione che questa non sia semplicemente teorica; la teoria deve essere considerata solamente come preparazione, peraltro indispensabile, alla realizzazione corrispondente. Ma per ciascuno di questi principi, considerato singolarmente e isolatamente, i risultati di una tale identificazione non si estendono oltre il suo dominio, così che l’ottenimento di tali stati, ancora condizionati, non costituisce che una tappa preliminare, una sorta di avviamento (nel senso da noi specificato sopra e con le restrizioni che è necessario apportare a un tal modo di esprimersi) verso l’«Identità Suprema», fine ultimo raggiunto dall’essere nella sua totale e completa universalizzazione, il cui realizzarsi, per coloro che devono prima compiere il dêva-yâna, può, come si è detto in precedenza, essere differito fino al pralaya, poiché il passaggio da uno stadio a quello successivo è possibile solo per chi ha ottenuto il grado corrispondente di conoscenza effettiva.[19]
Dunque, nel caso ora considerato, quello della krama-mukti, l’essere, fino al pralaya, può restare nell’ordine cosmico e non raggiungere il possesso effettivo di stati trascendenti, nel quale consiste propriamente la vera realizzazione metafisica; nondimeno ha ottenuto fin da allora, per il fatto stesso di avere oltrepassato la Sfera della Luna (cioè di essere uscito dalla «corrente delle forme»), quella «immortalità virtuale» che già abbiamo definito. Appunto perciò il Centro spirituale di cui si diceva è ancora solo il centro di un certo stato o di un certo grado di esistenza, quello cui apparteneva l’essere in quanto essere umano, e al quale in un certo modo continua ad appartenere, poiché la sua totale universalizzazione, in modo sopra-individuale, non è realizzata attualmente; ed è anche questa la ragione per cui abbiamo detto che, in una tale condizione, i vincoli individuali non possono essere ancora completamente distrutti. È esattamente a questo punto che si fermano le concezioni che potremmo definire propriamente religiose, le quali si riferiscono sempre a estensioni dell’individualità umana, cosicché gli stati che esse permettono di raggiungere devono necessariamente conservare qualche rapporto con il mondo manifestato, anche quando lo superano, e non sono affatto quegli stati trascendenti ai quali non esiste altra via d’accesso che la Conoscenza metafisica pura. Ciò può applicarsi in particolar modo agli «stati mistici»; quanto agli stati postumi, fra l’«immortalità» o la «salvezza» in senso religioso (l’unico che concepiscano ordinariamente gli Occidentali) e la «Liberazione» la differenza è esattamente la stessa che c’è fra la realizzazione mistica e quella metafisica compiuta durante la vita terrena; a rigore non si può dunque qui parlare che di «immortalità virtuale» e, come esito finale, di «reintegrazione in modo passivo»; quest’ultima meta sfugge d’altronde al punto di vista religioso, quale è comunemente inteso, eppure soltanto a causa di esso è giustificabile l’uso della parola «immortalità» in un senso relativo, ed è possibile stabilire una specie di collegamento o di passaggio da questo senso relativo a quello assoluto e metafisico che gli Orientali attribuiscono a tale parola. Tutto ciò peraltro non ci impedisce di ammettere che le concezioni religiose siano suscettibili di una trasposizione per mezzo della quale esse ricevono un senso superiore e più profondo, e questo perché tale senso è presente anche nelle Sacre Scritture sulle quali esse si fondano; ma, con tale trasposizione, perdono il loro carattere specificamente religioso, perché esso è legato a certe limitazioni, al di fuori delle quali siamo nel puro ordine metafisico. D’altra parte, una dottrina tradizionale che, come quella indù, non si pone dallo stesso punto di vista delle religioni occidentali, riconosce tuttavia l’esistenza degli stati che sono più specialmente considerati da queste ultime; né può essere altrimenti, dal momento che questi stati sono effettivamente possibilità dell’essere; ma la dottrina indù non può attribuire loro una importanza eguale a quella che ricevono dalle dottrine che non si spingono al di là (la prospettiva, per così dire, cambia col mutare del punto di vista) e, poiché li supera, essa colloca questi stati nel posto esatto che loro conviene nella gerarchia totale.
Perciò, quando si dice che la meta del «viaggio divino» è il Mondo di Brahma (Brahma-Loka), non si tratta, per lo meno immediatamente, del Brahma Supremo, ma soltanto della sua determinazione come Brahmâ, vale a dire di Brahma «qualificato» (saguna) e, in quanto tale, considerato come «effetto della Volontà produttrice (Shakti) del Principio Supremo» (Kârya-Brahma).[20] Quando qui parliamo di Brahmâ, occorre in primo luogo considerarlo come identico a Hiranyagarbha, principio della manifestazione sottile, dunque di tutto il dominio dell’esistenza umana nella sua interezza; abbiamo infatti detto in precedenza che l’essere il quale ha ottenuto l’«immortalità virtuale» è, per così dire, «incorporato», per assimilazione, in Hiranyagarbha; e questo stato, nel quale può restare sino alla fine del ciclo (per il quale esiste soltanto Brahmâ come Hiranyagarbha), è ciò che di solito si considera come il Brahma-Loka.[21] Tuttavia, come il centro di ogni stato di un essere ha la possibilità di identificarsi con il centro dell’essere totale, così il centro cosmico dove risiede Hiranyagarbha si identifica virtualmente con il centro di tutti i mondi;[22] vogliamo dire che all’essere il quale ha superato un certo grado di conoscenza Hiranyagarbha appare identico a un aspetto più elevato del «Non-Supremo»,[23] che è Îshwara o l’Essere Universale, principio primo di ogni manifestazione. A questo grado, l’essere non è più nello stato sottile, anche soltanto in linea di principio; è invece nel non-manifestato; tuttavia egli conserva qualche rapporto con l’ordine della manifestazione universale, poiché Îshwara è propriamente il principio di questa, quantunque non sia più legato da vincoli speciali allo stato umano e al ciclo particolare di cui questo fa parte. Tale grado corrisponde alla condizione di Prâjna, e riguardo all’essere che non prosegue oltre si dice che anche al momento del pralaya è unito a Brahma solo come lo si è durante il sonno profondo; da questa condizione il ritorno a un altro ciclo di manifestazione è ancora possibile; ma, poiché l’essere è liberato dall’individualità (contrariamente a quel che avviene per colui che ha seguito il pitri-yâna), questo ciclo non potrà essere che uno stato informale e sopra-individuale.[24] Infine, nel caso in cui la «Liberazione» debba essere ottenuta partendo dallo stato umano, va precisato che la vera meta non è più l’Essere Universale, ma il Brahma Supremo stesso, vale a dire Brahma «non-qualificato» (nirguna) nella Sua Totale Infinità, che comprende allo stesso tempo l’Essere (o le possibilità di manifestazione) e il Non-Essere (o le possibilità di non-manifestazione) ed è il principio dell’uno e dell’altro, dunque di là da entrambi,[25] e al contempo li contiene anche, secondo l’insegnamento che già abbiamo riferito in merito allo stato incondizionato di Âtmâ, che è precisamente ciò di cui ora si tratta.[26] In questo senso la dimora di Brahma (o di Âtmâ in questo stato incondizionato) è addirittura «al di là del Sole spirituale» (il quale è Âtmâ nella sua terza condizione, identico a Îshwara),[27] come è al di là di tutte le sfere degli stati particolari di esistenza, individuali o extra-individuali; ma questa dimora non può essere direttamente raggiunta da coloro che hanno meditato su Brahma soltanto per mezzo di un simbolo (pratîka), poiché ogni meditazione (upâsanâ) ha allora unicamente un risultato definito e limitato.[28]
L’«Identità Suprema» è dunque la finalità dell’essere «liberato», vale a dire svincolato dalle condizioni dell’esistenza individuale umana, come pure da tutte le altre condizioni particolari e limitative (upâdhi), considerate come altrettanti legami.[29] Quando l’uomo (o meglio l’essere che era precedentemente nello stato umano) è così «liberato», il «Sé» (Âtmâ) è realizzato pienamente nella sua natura «indivisa», ed è allora, secondo Audulomi, una coscienza onnipresente (avendo per attributo chaitanya); lo stesso insegna anche Jaimini, specificando altresì che tale coscienza manifesta gli attributi divini (aishwarya) come facoltà trascendenti, appunto perché unita all’Essenza Suprema.[30] Tale è il risultato della liberazione completa, ottenuta nella pienezza della Conoscenza Divina; quanto a coloro la cui contemplazione (dhyâna) è stata solamente parziale, quantunque attiva (realizzazione metafisica incompleta), o è stata puramente passiva (come quella dei mistici occidentali), essi godono di certi stati superiori,[31] senza poter tuttavia raggiungere subito l’Unione perfetta (Yoga), che fa tutt’uno con la «Liberazione».[32]



[1] Bhagavad-Gîtâ, VIII, 23-26.
[2] Sul pitri-yâna, cfr. Chhândogya Upanishad, 5º Prapâthaka, 10º Khanda, shruti 3-7; Brihad-Âranyaka Upanishad, 6° Adhyâya, 2° Brâhmana, shruti 16.
[3] Appunto perciò anche in Occidente si dice talvolta simbolicamente che in questa Sfera si ritrova tutto ciò che è stato perduto nel mondo terrestre (cfr. Ariosto, Orlando Furioso).
[4] Tutto ciò che è stato detto qui ha inoltre attinenza con il simbolismo di Janus: la Sfera della Luna determina la separazione degli stati superiori (non-individuali) e degli stati inferiori (individuali); da qui la duplice funzione della Luna come Janua Coeli (cfr. le litanie della Vergine nella liturgia cattolica) e Janua Inferni, che corrisponde in un certo senso alla distinzione fra dêva-yâna e pitri-yâna. Jana o Diana non è altro che la forma femminile di Janus; d’altra parte, yâna deriva dalla radice verbale i, «andare» (latino ire), che secondo alcuni, e Cicerone in particolare, sarebbe anche la radice del nome Janus.
[5] Ovviamente si tratta dell’individualità integrale, e non ridotta alla sola modalità corporea, che, d’altronde, non esiste più per l’essere in questione, poiché qui si sta parlando di stati postumi.
[6] Chhândogya Upanishad, 4° Prapâthaka, 15º Khanda, shruti 5 e 6; 5º Prapâthaka, 10º Khanda, shruti 1 e 2; Kaushîtaki Upanishad, 1º Adhyâya, shruti 3; Brihad-Âranyaka Upanishad, 5º Adhyâya, 10º Brâhmana, shruti l; 6° Adhyâya, 2° Brâhmana, shruti 15.
[7] Il periodo crescente della lunazione è chiamato pûrva-paksha, «prima parte», e il periodo decrescente uttara-paksha, «ultima parte» del mese. Queste espressioni, pûrva-paksha e uttara-paksha, hanno anche, d’altro canto, un’accezione del tutto differente: in una discussione, esse designano rispettivamente una obiezione e la sua confutazione.
[8] Sarebbe interessante stabilire la concordanza di questa descrizione simbolica con quelle proposte da altre dottrine tradizionali (cfr. specialmente il Libro dei Morti degli antichi Egizi e la Pistis Sophia degli Gnostici alessandrini, come pure il Bardo-Thödol tibetano); ma questo ci porterebbe troppo lontano. Nella tradizione indù, Ganêsha, che rappresenta la Conoscenza, è designato allo stesso tempo come il «Signore delle divinità»; il suo simbolismo, in rapporto alle divisioni temporali in discussione, darebbe adito a sviluppi estremamente interessanti, e anche a raffronti molto istruttivi con le antiche tradizioni occidentali; tutte queste considerazioni, che non possono trovare posto qui, saranno forse da noi riprese in qualche altra occasione.
[9] Per usare il linguaggio dei filosofi greci, si potrebbe dire che l’essere sta per sfuggire alla «generazione» (γένεσις) e alla «corruzione» (φθορά), parole che sono sinonimi di «nascita» e di «morte», quando questi ultimi sono riferiti a tutti gli stati di manifestazione individuale; da quello che abbiamo detto in merito alla Sfera della Luna e al suo significato è anche facile comprendere che cosa intendessero dire quegli stessi filosofi, e specialmente Aristotele, quando insegnavano che solo il mondo sublunare è sottomesso alla «generazione» e alla «corruzione»: il mondo sublunare, infatti, rappresenta in realtà la «corrente delle forme» della tradizione estremo-orientale, e i Cieli, essendo gli stati informali, sono necessariamente incorruttibili, vale a dire che nessuna dissoluzione o disintegrazione è più possibile per l’essere che li ha raggiunti.
[10] La parola vidyut sembra da mettere anch’essa in relazione con la radice vid, data la connessione con la luce e la vista; la sua forma è vicinissima a quella di vidyâ: il lampo illumina le tenebre, che sono il simbolo dell’ignoranza (avidyâ), e la conoscenza è un’«illuminazione» interiore.
[11] Facciamo notare, per inciso, che questo nome è palesemente identico al greco Ούρανός, quantunque alcuni filologi abbiano voluto, non si sa bene perché, contestarne l’identità; il Cielo, chiamato Ούρανός, è infatti identico alle «Acque superiori» di cui parla il Genesi, e che noi ritroviamo qui nel simbolismo indù.
[12] Le Apsarâ sono le Ninfe celesti, che simboleggiano anch’esse queste possibilità informali; corrispondono alle Hûri del Paradiso islamico (El-Jannah), che, salvo nelle trasposizioni di cui è suscettibile dal punto di vista esoterico e che conferiscono ad esso significati di ordine più elevato, è propriamente l’equivalente dello Swarga indù.
[13] Avevamo detto allora che è l’ambiente in cui si elaborano le forme, perché, quando si considerano i «tre mondi», questa regione corrisponde al dominio della manifestazione sottile e va dalla Terra fino ai Cieli; qui, al contrario, la regione intermedia di cui si tratta è posta di là dalla Sfera della Luna, dunque nell’informale, e si identifica allo Swarga, intendendo con questa parola non più i Cieli o gli stati superiori nel loro insieme, ma soltanto la loro parte meno elevata. Si noterà inoltre, a questo proposito, come l’osservanza di certi rapporti gerarchici permetta l’applicazione di uno stesso simbolismo a livelli differenti.
[14] Indra, il cui nome significa «potente», è anche indicato come il Reggente dello Swarga, e questo si spiega con l’identificazione menzionata nella nota precedente; questo Swarga è uno stato superiore, ma non definitivo, e ancora condizionato, benché informale.
[15] Per la descrizione delle diverse fasi del dêva-yâna, cfr. Brahma-Sûtra, 4° Adhyâya, 3° Pâda, sûtra 1-6.
[16] Cogliamo l’occasione per scusarci di avere moltiplicato le note e di avere dato loro dimensioni maggiori del solito; l’abbiamo fatto soprattutto per offrire proprio interpretazioni di questo genere e anche raffronti con altre dottrine; ciò si è reso necessario per non interrompere la nostra esposizione con digressioni troppo frequenti.
[17] I fenomeni naturali in genere, e specialmente quelli astronomici, non sono mai considerati dalle dottrine tradizionali che a titolo di semplici mezzi di espressione, come simboli di certe verità di ordine superiore; e se essi di fatto le simboleggiano, è perché le loro leggi non sono altro, in fondo, che un’espressione di queste stesse verità in un ambito particolare, una specie di traduzione dei principi corrispondenti, adattata naturalmente alle condizioni particolari dello stato corporeo e umano. Si può dunque comprendere da ciò quanto grande sia l’errore di coloro che vogliono scorgere del «naturalismo» in tali dottrine, o che credono che esse si propongano semplicemente di descrivere e spiegare i fenomeni come può farlo la scienza «profana», benché sotto forme differenti; ciò vuol dire invertire i rapporti e scambiare il simbolo stesso per ciò che rappresenta, il segno per la cosa o l’idea significata.
[18] La parola sanscrita loka è identica al latino locus, «luogo»; a questo proposito si può osservare che nella dottrina cattolica il Cielo, il Purgatorio e l’Inferno sono analogamente designati come altrettanti «luoghi» assunti, anche in questo caso, a rappresentare simbolicamente degli stati, poiché non sarebbe assolutamente possibile, nemmeno per la più esteriore delle interpretazioni di questa dottrina, situare nello spazio tali stati postumi; un equivoco del genere ha potuto prodursi soltanto nelle teorie «neospiritualistiche» nate nell’Occidente moderno.
[19] È molto importante notare qui che i Brâhmana si sono sempre dedicati quasi esclusivamente alla realizzazione immediata dell’«Identità Suprema», mentre gli Kshatriya hanno preferito coltivare lo studio degli stati che corrispondono ai diversi stadi sia del dêva-yâna che del pitri-yâna.
[20] La parola kârya, «effetto», è derivata dalla radice verbale kri, «fare», e dal suffisso ya, che indica un compimento futuro: «ciò che dev’esser fatto» (o meglio «ciò che va fatto», poiché ya è una modificazione della radice i, «andare»); questa parola implica dunque una certa idea di «divenire», il che presuppone necessariamente che ciò a cui si riferisce sia considerato solamente in rapporto alla manifestazione. A proposito della radice verbale kri, faremo notare che essa è identica a quella del latino creare; ciò dimostra dunque che quest’ultima parola, nella sua accezione primitiva, non aveva altro senso che quello di «fare»; l’idea di «creazione», come oggi è intesa, idea di origine ebraica, le si è aggiunta soltanto quando la lingua latina è stata usata per esprimere le concezioni giudaico-cristiane.
[21] Il Brahma-Loka è ciò che corrisponde con maggiore esattezza ai «Cieli» o ai «Paradisi» delle religioni occidentali (fra le quali, sotto questo aspetto, includiamo anche l’islamismo); quando esiste una pluralità di «Cieli» (spesso rappresentata da corrispondenze planetarie), con ciò occorre intendere tutti gli stati superiori alla Sfera della Luna (essa stessa talvolta considerata come il «primo Cielo», nel suo aspetto di Janua Coeli), fino al Brahma-Loka incluso.
[22] Anche qui applichiamo la nozione dell’analogia costitutiva fra «microcosmo» e «macrocosmo».
[23] Questa identificazione di un certo aspetto con un altro superiore, e così di seguito a diversi gradi fino al Principio Supremo, non è, tutto sommato, che lo svanire di altrettante illusioni «separative», che certe iniziazioni rappresentano come una serie di veli che cadono in successione.
[24] Simbolicamente, si dirà che tale essere è passato dalla condizione degli uomini a quella dei Dêva (che si potrebbe chiamare uno stato «angelico», in linguaggio occidentale); per contro, alla fine del pitri-yâna vi è un ritorno al «mondo dell’uomo» (mânava-loka), vale a dire a una condizione individuale, così designata per analogia con la condizione umana, quantunque ne sia necessariamente differente, poiché l’essere non può ritornare a uno stato per il quale è già passato.
[25] Ricordiamo che si può tuttavia intendere il Non-Essere metafisico, come pure il non-manifestato (in quanto esso non è solo il principio immediato del manifestato, che è l’Essere), in un senso totale, nel quale si identifica al Principio Supremo. In ogni modo, fra il Non-Essere e l’Essere, come fra il non-manifestato e il manifestato (e ciò anche se, in quest’ultimo caso, non si va al di là dell’Essere), la correlazione non è che pura apparenza, poiché la sproporzione che esiste metafisicamente fra i due termini non permette davvero alcun paragone.
[26] A questo proposito, citeremo ancora una volta, per meglio mettere in evidenza le concordanze fra le differenti tradizioni, un brano del Trattato dell’Unità (Risâlatu-l-Ahadiyah) di Mohyîddîn lbn Arabî: «Questo pensiero immenso (dell’“Identità Suprema”) può confarsi solo a colui la cui anima è più vasta dei due mondi (manifestato e non-manifestato). Quanto a colui la cui anima non è vasta come i due mondi (vale a dire chi raggiunge l’Essere Universale, ma non lo supera), esso non gli si addice. Poiché, in verità, questo pensiero è più grande del mondo sensibile (o manifestato; la parola “sensibile” deve qui essere trasposta analogicamente, non limitata al senso letterale) e del mondo sopra-sensibile (o non-manifestato, secondo la stessa trasposizione) messi insieme».
[27] Gli orientalisti, che non hanno capito cosa veramente significa il Sole, e che lo intendono in senso fisico, su questo punto hanno avanzato interpretazioni davvero strane; così Oltramare scrive ingenuamente: «Con le sue albe e i suoi tramonti, il sole consuma la vita dei mortali; l’uomo liberato esiste di là dal mondo del sole». Ciò non dà forse l’idea di una fuga dalla vecchiaia e di una ricerca di immortalità del corpo simile a quella inseguita da certe sette occidentali contemporanee?
[28] Brahma-Sûtra, 4º Adhyâya, 3º Pâda, sûtra 7-16.
[29] Per indicare tali condizioni vengono usate parole come bandha e pâsha, il cui senso proprio è «legame»; da pâsha deriva la parola pashu, che significa etimologicamente un qualunque essere vivente, vincolato da tali condizioni. Shiva è chiamato Pashupati, il «Signore degli esseri legati», perché essi sono «liberati» dalla sua azione «trasformatrice». La parola pashu è spesso usata in un’accezione speciale per designare la vittima animale del sacrificio (yajna, yâga o mêdha), la quale è d’altronde «liberata», per lo meno virtualmente, dal sacrificio stesso; ma qui non possiamo pensare di esporre, nemmeno sommariamente, una teoria del sacrificio che, così inteso, è destinato essenzialmente a stabilire una certa comunicazione con gli stati superiori, ed è completamente alieno dalle idee occidentalissime di «riscatto» o di «espiazione» e altre dello stesso genere, idee che si possono comprendere solo da un punto di vista specificamente religioso.
[30] Cfr. Brahma-Sûtra, 4º Adhyâya, 4º Pâda, sûtra 5-7.
[31] Il possesso di tali stati, identici ai diversi «Cieli», costituisce per l’essere che ne gode un’acquisizione personale e permanente, malgrado la sua relatività (si tratta sempre di stati condizionati, anche se sopra-individuali), acquisizione cui non si può in alcun modo applicare l’idea occidentale di «ricompensa», perché si tratta del risultato, non dell’azione, bensì della conoscenza; questa idea è d’altronde, come quella di «merito» di cui è un corollario, una nozione di ordine esclusivamente morale che è fuori luogo in ambito metafisico.
[32] La Conoscenza, a questo riguardo, è dunque di due specie, ed è detta «suprema» o «non-suprema», secondo che concerna Para-Brahma o Apara-Brahma, e secondo che conduca, di conseguenza, all’uno o all’altro.

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