René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
20. L’arteria coronale e il «raggio solare»
Dobbiamo ora tornare a quel che avviene all’essere che, non ancora «liberato» al momento stesso della morte, deve percorrere una serie di gradi, rappresentati simbolicamente come tappe di un viaggio, e che sono altrettanti stati intermedi, non definitivi, che egli deve attraversare prima di giungere alla meta finale.
È importante notare che, d’altronde, tutti questi stati, essendo ancora relativi e condizionati, non hanno alcuna misura comune con quello che è l’unico stato assoluto e incondizionato; per quanto elevati siano alcuni di essi se paragonati allo stato corporeo, sembra dunque che il loro conseguimento non avvicini affatto l’essere al suo scopo ultimo, che è la «Liberazione»; e poiché, rispetto all’Infinito, l’intera manifestazione è rigorosamente nulla, anche le differenze fra gli stati che la costituiscono devono evidentemente esserlo, per quanto considerevoli siano in se stesse e finché si considerano soltanto i diversi stati condizionati che esse separano gli uni dagli altri. Tuttavia, è anche vero che il passaggio a certi stati superiori costituisce una specie di avviamento alla «Liberazione», che allora è «graduale» (krama-mukti), così come l’uso di certi metodi appropriati, per esempio quelli dello Hatha-Yoga, è una preparazione efficace, sebbene non esista certo alcun paragone possibile fra questi metodi contingenti e l’«Unione» che si deve realizzare usandoli come «supporti».[1] Ma deve essere ben chiaro che la «Liberazione», allorché sarà realizzata, implicherà sempre una discontinuità rispetto allo stato in cui si troverà l’essere che l’otterrà; inoltre, quale che sia questo stato, la discontinuità non sarà per questo né più né meno profonda, poiché, in tutti i casi, fra lo stato dell’essere «non-liberato» e quello dell’essere «liberato» non esiste alcun rapporto del genere di quelli esistenti fra stati condizionati differenti. Ciò è vero anche per quegli stati che sono a tal punto al di sopra dello stato umano da apparire, nella prospettiva di quest’ultimo, come il termine a cui l’essere deve tendere finalmente; questa illusione è anche possibile per stati che in realtà sono semplici modalità dello stato umano, ma lontanissime, sotto ogni aspetto, dalla modalità corporea; abbiamo pensato che fosse necessario attirare l’attenzione su questo punto, al fine di prevenire qualunque equivoco ed errore di interpretazione, prima di riprendere la nostra esposizione delle modificazioni postume a cui può essere soggetto l’essere umano.
«Quando l’“anima vivente” (jîvâtmâ), con le facoltà vitali in essa riassorbite (e che vi restano quali possibilità, come abbiamo spiegato precedentemente), si è ritratta nella propria sede (il centro dell’individualità, simboleggiato dal cuore, come abbiamo visto all’inizio, e dove essa infatti risiede, in quanto, nella sua essenza e indipendentemente dalle sue condizioni di manifestazione, è realmente identica a Purusha, da cui è distinta solo in modo illusorio), l’apice (vale a dire la parte più sublimata) di questo organo sottile (immaginato come un loto con otto petali) brilla[2] e illumina il passaggio dal quale l’anima deve uscire (per raggiungere i diversi stati di cui si parlerà in seguito): esso è la corona della testa, se l’individuo è un Sapiente (vidwân), e un’altra parte dell’organismo (corrispondente fisiologicamente al plesso solare),[3] se è un ignorante (avidwân).[4] Cento e una arterie (nâdî, egualmente sottili e luminose)[5] escono dal centro vitale (come i raggi di una ruota escono dal mozzo), e una di queste arterie (sottili) attraversa la corona della testa (regione considerata corrispondente agli stati superiori dell’essere, per quanto concerne le loro possibilità di comunicazione con l’individualità umana, come si è visto nella descrizione delle membra di Vaishwânara); essa è chiamata sushumnâ».[6] Oltre a questa nâdî, che occupa una posizione centrale, ve ne sono altre due che hanno una funzione particolarmente importante (specialmente per ciò che nell’ordine sottile corrisponde alla respirazione, e di conseguenza per le pratiche dello Hatha-Yoga): l’una, posta alla sua destra, è chiamata pingalâ; l’altra, a sinistra, è chiamata idâ. Inoltre, si dice che la pingalâ corrisponda al Sole e l’idâ alla Luna; ora, abbiamo visto sopra che il Sole e la Luna sono detti essere i due occhi di Vaishwânara; essi sono dunque rispettivamente in relazione con le due nâdî in discussione, mentre la sushumnâ, essendo nel mezzo, è in rapporto con il «terzo occhio», vale a dire con l’occhio frontale di Shiva;[7] ma a queste considerazioni possiamo soltanto accennare di sfuggita, dato che esulano dal tema che ora dobbiamo trattare.
«Da questo passaggio (la sushumnâ e la corona della testa dove sbocca), in virtù della Conoscenza acquisita e della coscienza della Via meditata (coscienza che è essenzialmente di ordine extra-temporale, poiché, anche quando viene considerata nello stato umano, è sempre un riflesso degli stati superiori),[8] l’anima del Sapiente, dotata (in virtù della rigenerazione psichica che ha fatto di lui un uomo “due volte nato”, dwija)[9] della Grazia spirituale (Prasâda) di Brahma, che risiede in questo centro vitale (relativamente all’individuo umano considerato), quest’anima, si diceva, sfugge (si libera da tutti i legami che possono ancora rimanere con la condizione corporea) e incontra un raggio solare (vale a dire, simbolicamente, una emanazione del Sole spirituale, che è Brahma stesso, considerato però questa volta nell’Universale: questo raggio solare non è altro che una particolarizzazione in rapporto all’essere in questione o, se si preferisce, una “polarizzazione” del principio sopra-individuale Buddhi o Mahat, da cui i molteplici stati manifestati dell’essere sono collegati fra loro e messi in comunicazione con la personalità trascendente, Âtmâ, identica al Sole spirituale stesso); è per questa via (indicata come il percorso del “raggio solare”) che essa si incammina, di notte o di giorno, d’inverno o d’estate.[10] Il contatto di un raggio del Sole (spirituale) con la sushumnâ è costante, per tutto il tempo in cui il corpo permane (come organismo vivente e veicolo dell’essere manifestato);[11] i raggi della Luce (intelligibile), emanati da questo Sole, pervengono a questa arteria (sottile) e, inversamente (in modo riflesso), vanno dall’arteria al Sole (come un prolungamento indefinito che stabilisce la comunicazione, virtuale o effettiva, dell’individualità con l’Universale)».[12]
Ciò che abbiamo detto è del tutto indipendente dalle circostanze temporali, e da ogni altra contingenza simile, che accompagnano la morte; non che queste circostanze non abbiano mai alcuna influenza sulla condizione postuma dell’essere, ma vanno prese in considerazione soltanto in alcuni casi particolari, che d’altronde qui possiamo solo accennare, ma non trattare approfonditamente. «La preferenza per l’estate, di cui si cita come esempio il caso di Bhîshma, che attese per morire il ritorno di questa stagione favorevole, non concerne il Sapiente che, nella contemplazione di Brahma, ha compiuto i riti (relativi all’“incantesimo”)[13] quali sono prescritti dal Vêda, e che, di conseguenza, ha raggiunto (per lo meno virtualmente) la perfezione della Conoscenza Divina;[14] essa concerne invece quelli che hanno seguito le regole insegnate dal Sânkhya o dallo Yoga-Shâstra, secondo il quale il momento del giorno e la stagione dell’anno non sono indifferenti, ma hanno (per la liberazione dell’essere che esce dallo stato corporeo dopo una preparazione compiuta conformemente a questi metodi) un’azione effettiva, in quanto, elementi inerenti al rito (nel quale essi intervengono come condizioni da cui dipendono gli effetti che possono esserne ottenuti)».[15] È evidente che in quest’ultimo caso la restrizione considerata si applica unicamente a esseri che hanno raggiunto soltanto gradi di realizzazione corrispondenti a estensioni dell’individualità umana; per chi ha effettivamente oltrepassato i limiti dell’individualità, la natura dei mezzi usati all’inizio della realizzazione non può più influire in alcun modo sulla sua condizione ulteriore.
[1] Si potrà notare un’analogia fra quello che diciamo qui e quello che, dal punto di vista della teologia cattolica, si potrebbe affermare circa i sacramenti: anche in essi, infatti, le forme esteriori sono propriamente dei «supporti», e questi mezzi eminentemente contingenti hanno un risultato di ordine completamente differente da quello a cui appartengono essi stessi. L’individuo umano, per la sua stessa costituzione e per le sue condizioni proprie, ha bisogno di questi «supporti» come punto di partenza per una realizzazione che lo superi; la sproporzione fra i mezzi e il fine corrisponde semplicemente a quella che esiste fra lo stato individuale, preso come base di questa realizzazione, e lo stato incondizionato che ne è il fine. Non possiamo sviluppare qui una teoria generale sull’efficacia dei riti; per farne capire il principio essenziale, ci limiteremo a dire che tutte le cose che sono contingenti in quanto manifestazione (a meno che si tratti di determinazioni puramente negative) non lo sono più se considerate come possibilità permanenti e immutabili, e che tutto ciò che ha qualche esistenza positiva deve così ritrovarsi nel non-manifestato, e appunto questo permette la trasposizione dell’individuale nell’Universale, mediante la soppressione delle condizioni limitative (dunque negative) inerenti a ogni manifestazione.
[2] È evidente che questa parola è anch’essa da intendere simbolicamente, poiché non si tratta qui del fuoco sensibile, bensì di una modificazione della Luce intelligibile.
[3] I plessi nervosi, o più esattamente ciò che a loro corrisponde nella forma sottile (finché questa è legata alla forma corporea), sono chiamati simbolicamente «ruote» (chakra), o anche «loti» (padma o kamala). Quanto alla corona della testa, essa ha ugualmente una parte importante nelle tradizioni islamiche concernenti le condizioni postume dell’essere umano; e sicuramente si potrebbero trovare anche altrove usanze che si riferiscono a considerazioni dello stesso ordine (la chierica dei preti cattolici, per esempio), quantunque la ragione profonda talvolta sia stata dimenticata.
[4] Brihad-Âranyaka Upanishad, 4° Adhyâya, 4° Brâhmana, shruti 1 e 2.
[5] Ricordiamo che non si tratta delle arterie corporee della circolazione sanguigna, e nemmeno di canali che contengono l’aria respirata; è evidente, del resto, che nell’ordine corporeo nessun canale passa per la corona della testa, poiché non vi sono aperture in questa parte dell’organismo. D’altronde, occorre notare che, quantunque il precedente ritrarsi di jîvâtmâ implichi già l’abbandono della forma corporea, nella fase ora in discussione non è ancora cessata ogni relazione fra questa forma e quella sottile, poiché è sempre possibile, descrivendola, continuare a parlare dei diversi organi sottili secondo la corrispondenza che esisteva nella vita fisiologica.
[6] Katha Upanishad, 2° Adhyâya, 6a Valli, shruti 16.
[7] Per l’aspetto di questo simbolismo che si riferisce alla condizione temporale, il Sole e l’occhio destro corrispondono al futuro, la Luna e l’occhio sinistro al passato; l’occhio frontale corrisponde al presente, che, dal punto di vista del manifestato, non è che un istante inafferrabile, paragonabile, nell’ordine spaziale, al punto geometrico senza dimensioni: perciò uno sguardo di questo terzo occhio distrugge ogni manifestazione (ciò è simbolicamente espresso dicendo che riduce tutto in cenere), e questa è anche la ragione per cui tale occhio non è rappresentato da alcun organo corporeo; ma, allorché ci eleviamo al di sopra di questo punto di vista contingente, il presente contiene ogni realtà (come il punto racchiude in se stesso tutte le possibilità spaziali) e, quando la successione è trasmutata in simultaneità, tutte le cose restano nell’«eterno presente», così che la distruzione apparente è in realtà una «trasformazione». Questo simbolismo è identico a quello dello Janus Bifrons dei Latini, che ha due facce, l’una rivolta al passato, l’altra all’avvenire, ma il cui vero volto, quello che guarda il presente, non è né l’uno né l’altro di quelli visibili. Segnaliamo ancora che le nâdî principali, in virtù della stessa corrispondenza che abbiamo indicato, hanno un particolare rapporto con ciò che nel linguaggio occidentale si può chiamare l’«alchimia umana»; nella quale l’organismo è rappresentato come l’athanor ermetico, e che, a parte la differente terminologia, è del tutto paragonabile allo Hatha-Yoga.
[8] È dunque un errore grave parlare qui di «ricordo», come ha fatto Colebrooke nell’esposizione già menzionata; la memoria, condizionata dal tempo nel senso più stretto della parola, è una facoltà relativa alla sola esistenza corporea, e non oltrepassa i limiti di questa modalità speciale e ristretta dell’individualità umana; essa fa dunque parte di quegli elementi psichici ai quali alludevamo e la cui dissociazione è una conseguenza diretta della morte corporea.
[9] La concezione della «seconda nascita», come abbiamo già fatto notare altrove, è di quelle comuni a tutte le dottrine tradizionali; nel Cristianesimo, in particolare, la rigenerazione psichica è assai chiaramente rappresentata dal battesimo. Cfr. questo passo del Vangelo: «Se un uomo non nasce di nuovo, non può vedere il Regno di Dio... In verità vi dico, se uno non rinasce dall’acqua e dallo spirito, non può entrare nel Regno di Dio... Non vi meravigliate se vi ho detto: dovete nascere di nuovo» (Giovanni, 3, 3-7). L’acqua è ritenuta da molte tradizioni l’ambiente originario degli esseri, e la ragione di ciò è nel suo simbolismo, che abbiamo spiegato sopra, e in base al quale essa rappresenta Mûla-Prakriti; in un senso superiore, e per trasposizione, essa rappresenta la Possibilità Universale stessa; chi «nasce dall’acqua» diviene «figlio della Vergine», dunque fratello adottivo del Cristo e coerede del «Regno di Dio». D’altra parte, se si osserva che lo «spirito», nel testo citato, è il Ruahh ebraico (qui associato all’acqua come principio complementare, come all’inizio del Genesi), e che questo designa nello stesso tempo l’aria, si ritroverà l’idea della purificazione per mezzo degli elementi, quale si riscontra in tutti i riti iniziatici, come pure in quelli religiosi; d’altronde, l’iniziazione stessa è considerata sempre come una «seconda nascita», simbolica quando essa si riduce a un formalismo più o meno esteriore, ma effettiva quando è conferita in modo reale a chi è debitamente qualificato a riceverla.
[10] Chhândogya Upanishad, 8º Prapâthaka, 6° Khanda, shruti 5.
[11] Basterebbe questo, prescindendo da ogni altra considerazione, per dimostrare chiaramente che non può trattarsi di un raggio solare in senso fisico (con esso il contatto non sarebbe sempre possibile), e perciò tale designazione è puramente simbolica. Anche il raggio in relazione con l’arteria coronale è chiamato sushumnâ.
[12] Chhândogya Upanishad, 8º Prapâthaka, 6° Khanda, shruti 2.
[13] Con la parola «incantesimo», nel senso in cui la usiamo qui, si deve intendere essenzialmente un’aspirazione dell’essere verso l’Universale, il cui scopo è quello di ottenere un’illuminazione interiore, quali che siano, d’altronde, i mezzi esteriori, gesti (mudrâ), parole o suoni musicali (mantra), figure simboliche (yantra), e altri metodi che possono essere usati accessoriamente come supporti dell’atto interiore, e il cui effetto è quello di determinare vibrazioni ritmiche che si ripercuotono nella serie indefinita degli stati dell’essere. Un tale «incantesimo» non ha dunque assolutamente nulla in comune con le pratiche magiche a cui talvolta in Occidente si dà lo stesso nome, né con un atto religioso quale la preghiera; tutto ciò di cui si parla qui si riferisce esclusivamente alla realizzazione metafisica.
[14] Diciamo virtualmente perché, se questa perfezione fosse effettiva, la «Liberazione» sarebbe già stata ottenuta; la Conoscenza può essere teoricamente perfetta, quantunque la realizzazione corrispondente sia stata compiuta solo parzialmente.
[15] Brahma-Sûtra, 4° Adhyâya, 2° Pâda, sûtra 17-21.
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