2.
È facile capire come il jīva
assuma un altro corpo e come vada in un altro mondo, perché il jīva è sempre associato alla mente. Ma
Īśvara non ha affatto mente; non essendo localizzato, in quanto onnipervadente,
come può avere un’avatāraṇa?
Īśvara non ha né un mondo esterno né uno stato di veglia o di sogno in cui
collocarsi, perché gli stati sono in lui.
Se il jīva è libero dalla mente, allora è Īśvara, è un Brahma jñāni. Il jñāni trascende del tutto il livello mentale, quindi anche il jñāni ha solo un’apparenza essendo esattamente nella situazione dell’avatāra. Dal punto di vista esteriore, jñāni e avatāra possono apparire diversi, ma dal punto di vista dell’anubhava sono la stessa Realtà. Come l’attore che assume ruoli diversi: cambia personaggio solo per gli altri, ma in sé è sempre lo stesso. Il jñāni, come l’avatāra, è Caitanya, la Coscienza. Quindi il jñāni in sé non è un jīva e non è nel mondo: il mondo è in lui. Ma per gli altri appare come fosse un essere umano. Non s’identifica nemmeno a spazio e tempo, è indipendente dal corpo. È il corpo che appare su di lui. Quindi è onnipervadente: vede tutto lo spazio in sé, tutto il mondo in sé, come il sogno che rientra nel Sākṣin all’attimo del risveglio. Allora si ha il pensiero del sogno; ma dov’è il sogno? All’attimo del risveglio, come ti relazioni con il sogno? Sei la base di tutto il sogno. Tutto il sogno è entrato in te. Così per il jñāni tutto è in Sé, intatto, senza spazio e tempo, senza come né dove né chi. Perché questi sono i personaggi del dramma, ma egli ne è libero. Questo è il jñāni, questo è Īśvara[24].
L’avatāra
non appare soltanto in forma umana. Īśvara, Parameśvara, Paramātman, comunque
lo si chiami, è sempre auto esistente (svayambhū).
Īśvara non è una persona che sta in un luogo. L’affermazione di Kṛṣṇa di non
essere nato (aja) significa che
non ha neppure morte. Essendo Pura Coscienza, è la base (adhiṣṭhāna[25])
su cui il mondo appare. È il supremo controllore di tutti gli esseri e, come
tale, tiene sotto controllo anche la prakṛti,
cioè i tre guṇa. Ciò significa
che, mentre gli altri esseri quando nascono, sono sotto il controllo di prakṛti, non è così per Īśvara. Perciò,
quando usa questa prakṛti per
apparire, appare sotto una certa forma dal punto di vista del mondo rimanendo
se stesso. Che nasca, cresca e muoia è un’apparenza per gli altri, non essendo
in realtà sottoposto ad alcun cambiamento. Questo è il significato di “avendo prakṛti sotto il mio controllo”.
Nell’espressione ‘la mia māyā’,
con ‘mia’ s’intende che è sotto il suo controllo. Il potere regale non
controlla il Re, sono i sudditi a esserne sottoposti. Per il Re è il suo stato
naturale, la sua natura. Perciò “mio potere” significa che per Kṛṣṇa è
naturale. Qui prakṛti, non è
usata nel senso del Sāṃkhya. Prakṛti non è diversa da lui: ‘la mia prakṛti’ significa che è lui stesso. È
una sua qualità, come il calore e la luce permettono agli altri di riconoscere
il fuoco: ma in realtà le qualità sono per gli altri, non per se stesso. Dal
punto di vista dal mondo sembra che Īśvara abbia un potere. Invece dal suo
punto di vista māyā è lui.
Īśvara ha dunque la sua propria natura e il modo in cui appare. Egli, vale a
dire Brahman, essendo indipendente (svatantra),
appare con tutto il suo potere. Come quando si colpisce una pietra e si
constata che è dura. La durezza è per chi la colpisce, mentre per la pietra è
la sua propria natura. Perciò la prakṛti,
la māyā, la śakti di Īśvara sono viste come suoi
poteri dal punto di vista del mondo. Il Brahman non duale appare come Īśvara
con poteri. È come il sole che non può immaginare la propria assenza durante la
notte, giorno e notte essendo una relazione imposta dal nostro punto di vista.
Il sole non conosce il dì e la notte, non conosce nemmeno la luce e l’oscurità.
Lui stesso è luce e per lui non c’è tenebra. Luce e oscurità sono per noi che
parliamo dal punto di vista della veglia in cui abbiamo i sensi. Illusa da
questa māyā, la gente vive come
jīva, in quanto māyā significa nāma-rūpa, tutto il mondo manifestato.
Īśvara è il sostrato; sostrato dell’apparenza che è
proiettata su di lui dalla mente, come la falsa immagine è proiettata sulla
realtà della corda-sostrato; l’apparenza è solo per il mondo, non per lui. Ciò
che appare al conoscitore, vale a dire il conosciuto, non appare a Brahman,
perché esso è entrambi. Ciò che appare: appare perché ha un limite e avendo una
forma è finito. La coscienza non ha limite, perciò non ha forma. Se ne avesse
una, si potrebbe modellarla in un’altra forma. Īśvara, pur non avendo una
forma, ed essendo onnipervadente in ogni cosa, appare come tutte queste cose:
come lo spazio su cui si possono immaginare forme diverse, triangolo, quadrato,
cerchio. Come il sogno ha forme che appaiono sulla coscienza, così su Īśvara il
mondo è solo un’apparenza. La coscienza non si modifica, solo appare, così
Īśvara appare come molti. È come nella magia, in cui la cosa rimane la stessa,
ma appare al pubblico in forma diversa[26].
In questo modo Kṛṣṇa spiega che può assumere qualsiasi forma, di uomo, di
animale, di pianta, di oggetto; ma queste sono forme solo dal punto di vista
dei jīva. Questa svapna māyā, pura apparenza, non è
causata dal karma, è causata
dall’ignoranza; è l’ignoranza che fa trasmigrare i jīva, lasciando un corpo e assumendone un altro, cambiando
anche la mente. È la forma del corpo e della mente che è dovuta al karma. Ma l’avatāra non ha né corpo né mente. Tutto quello che appare è
solo dal punto di vista degli uomini.
O Bhārata, ogni qual volta il dharma declina e l’adharma prevale, io appaio (BhG IV.7)
Lo śloka
afferma che ogni volta che il dharma
ha bisogno di lui e l’adharma
prevale, allora quello è il tempo in cui appare l’avatāra. La sua apparizione-apparenza è solo per il mondo,
perché in realtà, egli c’è sempre. Questa apparizione avviene quando c’è una
necessità condivisa, quando l’umanità sente di aver bisogno di aiuto. È la
risposta alla preghiera della mente collettiva. Si tratta di un’apparenza
condivisa, come il blu del cielo. L’errore del serpente sulla corda, è un
errore individuale. Invece il cielo blu e la sua concavità sono per tutti. È un
pratibhāsa (apparenza
illusoria) collettivo e non individuale.
Io nasco in ogni yuga per rettificare il mondo, per proteggere i dhārmika e punire gli adhārmika. (BhG IV.8)
Citiamo a questo punto la parafrasi esplicativa degli śloka 5-8 che ci ha fornito Svāmī
Prakāśānandendra Sarasvatī: «O Arjuna molte vite sono passate, sia tue sia mie.
Io conosco tutte queste nascite, le tue e le mie, ma queste nascite non sono
che apparenze dal punto di vista del mondo. Pur essendo solo apparenti, sono
inseparabili dalla Coscienza in quanto io ne sono il Sākṣin. Questo io lo so, ma tu no. Tu non
sei consapevole di questo. Non riconosci questa verità di te. Io, in realtà,
sono āja, senza nascita, avyayātma coscienza incorruttibile, e
reggitore di tutti gli esseri viventi, dalle piante all’essere cosmico, Hiraṇyagarbha.
Io sono l’Īśvara di tutti i bhūta,
gli esseri. Sono nato solo nella mia falsa apparenza (ātmamāyā), a causa di māyā o prakṛti,
che rimane sotto il mio controllo. Avendola controllata, appaio attraverso māyā. Cioè, la mia è solo un’apparizione,
io non divento. Rimango quello che sono, quindi non sono modificato, rimango la
stessa Coscienza. Ogni qualvolta il dharma è
in declino, sebbene esso non possa mai essere spazzato via del tutto, faccio di
me un’apparenza: faccio sì da apparire in un modo o in un altro, in forme
diverse: di libro, di saggio, d’un avvenimento che scuote la gente e che induce
a pensare a ciò che sta accadendo». L’avatāra
appare diverso a seconda delle necessità. «È quindi giunto il momento per me di
apparire, per raddrizzare il mondo e la società. Io appaio da yuga a yuga»,
dice alla fine dell’ottavo śloka,
cioè di tanto in tanto. Ciò non significa che ci debba essere un avatāra per ogni yuga: a seconda delle necessità ce ne
possono essere vari. E questo vale sia per la società sia per l’individuo.”
Quindi l’avatāra è
ilvero Jagadguru perché svolge
tre funzioni tradizionali: per prima cosa restaura l’ordine cosmico,
indebolendo i malvagi e gli empi (diśkṛta).
In secondo luogo, aiuta i dhārmika
a ristabilire l’ordine nel regno, nella società, nella casta, nella famiglia e
nell’individuo. Queste due funzioni corrispondono al karma kāṇḍa. La terza riguarda
l’insegnamento in quanto guru di
Vedānta. Queste sono i suoi tre
‘interventi’ nei domini ādhidaivika,
ādhibhautika e ādhyātmika.
Per il karma kāṇḍa
egli è un Re molto potente che distrugge i malvagi e ristabilisce il dharma per tutti gli esseri. Quando
invece il karma kāṇḍa è rivolto
alla persona, allora si tratta di upāsana
kāṇḍa, come sarà descritto nei capitoli VII o IX, quando Kṛṣṇa
inviterà a meditare su di lui per ottenere il Vaikuṇṭha[27].
Nell’upāsana bhakti è saguṇa rūpa, cioè Paramātman assume una
forma con qualità per la meditazione, il jāpa
e la devozione. In un tempio, in un’immagine o in un mantra, è il supporto per la meditazione.
In qualsiasi forma lo si pensi, come Śiva, Viṣṇu, Devī ecc., cioè con forme e
qualità individuali e universali, il pensiero su di lui purifica la mente.
Quegli Dei sono descritti come creatori, dissolutori e mantenitori del mondo,
onniscienti e onnipotenti. Ma nella loro forma di līlā hanno varie braccia con cui brandiscono armi e altri
attributi. A seconda delle situazioni, ogni forma divina ha una particolare līlā, o apparente attività, a cui l’avatāra si adatta. Ma la sua natura reale
rimane la stessa. Quindi ha i due aspetti di Saguṇa
e di līlā. Qualunque sia la līlā è sempre divino e non è mai
sottomesso a puṇya e pāpa. Può apparire, dunque, con qualsiasi
forma perfino simultaneamente, non essendo legato da alcun karma[28].
L’avatāra ha, dunque, ogni
potere come si legge nell’XI capitolo in cui appare in forma universale (Virāṭ svarūpa).
Per il jñāna kāṇḍa l’avatāra ha due aspetti. Anzitutto è
maestro di conoscenza[29].
Meditare su di lui in modo vedāntico, cioè fare nididhyāsana, serve per trascendere il proprio corpo, sensi
e mente, esattamente come si fa con il metodo di indagine delle tre avasthā (avasthātraya viveka prakriyā), con cui il mumukṣu dissolve l’individualità,
rimanendo Sākṣin. Così, l’avatāra è veramente il Sākṣin Caitanya sotto falsa apparenza. Si
medita sul suo corpo come appare e sul suo svarūpa,
vale a dire che si va dall’apparenza al suo reale svarūpa, come si fa con le avasthā, dalle quali ci si distingue (neti neti) per ritrovarsi Sākṣin. Così, quando si capisce che
qualunque cosa faccia è solo apparenza, anche la vita dell’avatāra è una prakriyā, un metodo[30].
Continuare in questa riflessione è tattva
vicāra. Più si riflette su questo, più si capisce che lo stesso
vale per la propria vita, perché il proprio corpo e sensi sono solo apparenze,
mentre l’essenza è la sua Realtà.
Il jñāni, in
questo modo, usa l’avatāra per
il Vedānta vicāra. Questo è il
senso dello śloka successivo:
Chi in realtà conosce la mia nascita e il mio karma come divini (divyam) non rinasce. Dopo aver abbandonato il corpo; egli raggiunge me, o Arjuna. (BhG IV.9)
Le sue ‘attività’, vale a dire la nascita o manifestazione,
la crescita o mantenimento e la morte o dissolvimento devono essere capite come
divyam. Quest’ultimo termine
equivale ad aprakṛtam, non
sotto il controllo di prakṛti.
Chi capisce questo, conosce esattamente com’è (tattvam). Lo si deve conoscere al di là di māyā, lo si deve vedere nella sua
essenza, Coscienza di Paramātman. Chi conosce così rinuncia al corpo (deham). In altri contesti lasciare il
corpo comporta l’assunzione di un altro. Ma qui per corpo s’intende tutti i
corpi, cioè il superamento di tutta l’individualità, cioè il saṃsāra. Deham è l’individualità che si abbandona con il mokṣa, che in quest’ottica è chiamato videha mukti[31].
Superando l’identificazione con il corpo e comprendendo il sostrato (adhiṣṭhāna) di tutto lo stato, o meglio,
di tutti e tre gli stati, si supera l’individualità, cioè la precedente
identificazione con i tre stati. Quando tutto scompare, non si rinasce più,
perché la rinascita è dovuta all’individualità. Quando l’hai superata la
riconosci come falsa e ciò che è riconosciuto falso non può ritornare. Non è
una temporanea dimenticanza del corpo, come quando si dorme e poi ci si
risveglia. Non si torna più al jīva,
perché essendo l’individualità un’illusione, si scopre che la vera natura è
Brahman. “O, Arjuna, ottieni me”,
cioè Īśvara, ovvero l’adhiṣṭhāna.
Qual è la natura dell’illusione? È Brahman stesso. Così il
serpente che appare è prakṛti,
ma la sua realtà è la corda. Se l’apparenza è falsa, la sua realtà sarà la
verità. Perché il serpente reale non può essere ricondotto alla corda. Chi
conosce così è liberato. Contemplando in questo modo si capisce sempre di più
la falsità del corpo, sensi ecc. La realtà dell’individualità è solo Brahman.
Il Brahman, quando non è conosciuto, è preso per l’individualità. L’avatāra è un’apparenza di cui Brahman è
l’adhiṣṭhāna. Gli stati di
veglia e di sogno, presi come un tutto, sono un’apparenza che non è dovuta al karma, perché karma e karma phala sono
nello stato[32]. È
la persona nello stato che è sottomessa al karma.
Ma lo stato come un tutto è solo la falsa apparenza del Sākṣin. Quindi l’avatara di Īśvara è come lo stato, è divyam, che significa una forma māyika. La sua apparizione in forma umana
è come l’apparenza della veglia o del sogno in quanto stato. Lo stato come un tutto
è adhyāsa, la sovrapposizione sull’adhiṣṭhāna, sulla Coscienza, sulla
Realtà.
In questo modo, chi capisce la reale natura dell’avatāra è libero da nascita e morte,
libero dall’individualità, conoscendolo come se stesso. È lo stesso Brahman.
Ciò significa che non esiste nello stato perché nello stato sarebbe un
individuo. Quando si conosce che anche lo stato è una falsa apparenza su di Sé,
si rimane come Sākṣin.
Liberi dalla passione, dalla paura e dall’ira, colmi di me, abbandonandosi solo a me, purificati dalla via della conoscenza, molti ottengono la mia natura. (BhG IV.10)
Chi medita sull’avatāra,
prima è libero da rāga e dveśa e con il karma yoga ottiene la purificazione della
mente. Allora può cominciare il jñāna
tāpasa, cioè l’indagine sul Sé. “Quindi con questo raggiunge la mia
natura. Questo è avvenuto anche prima, perché molti hanno capito il loro Sé
come Ātman, in cui tutto è uno.
Come costoro, anche tu lo puoi ottenere, perché è la tua natura”.
Questo è l’insegnamento di Īśvara o di un jñāni che così conosce.
Infatti nel IX capitolo Kṛṣṇa dirà di essere ugualmente
presente in tutti gli esseri. Non c’è nessuno che gli sia particolarmente caro
né oggetto della sua avversione. È nel cuore di ognuno in quanto antarātman. “Chiunque mi ami e si rivolga
a me, io lo aiuto. Se si allontana da me, io non lo abbandono, anche se pensa
di essere abbandonato.” È l’individuo che pensa di essere abbandonato, a causa
della sua incapacità di capire. Da parte di Īśvara non c’è mai distanza da
nessuno. “Io non amo una persona in base a ciò che ha o fa. Io sono come il
sole che brilla e illumina tutti indiscriminatamente”. Si porta
tradizionalmente l’esempio del sole o della pioggia che quando arrivano sono
ricevuti da tutti; così il fiume è per tutti, il fuoco è per tutti, per buoni e
cattivi. Qualora se ne voglia fare un uso malevolo, il fuoco non oppone
resistenza. La distinzione è determinata dal recipiente, cioè da colui che
riceve, che cambia da persona a persona e dipende dalla mente del jīva. Ma Īśvara in sé è uno e
onnipervadente: Dio è ugualmente presente nei cieli e negli inferni. “Perciò,
quando sarai pronto a ricevere, io ci sarò”.
Śaṃkara introduce il seguente śloka con queste parole: “Quindi tu sei soggetto ad
attrazione e repulsione; riconosci ad alcuni il tuo stesso stato, ma non a
tutti. Ascolta dunque:”
Qualunque
sia il modo in cui mi avvicinano, io allo stesso modo mi rivolgo loro; perché,
o Arjuna, gli uomini, qualunque sentiero percorrano, seguono la mia via. Gli
uomini nel mondo offrono sacrifici agli Dei desiderando i risultati delle loro
azioni, perché in questo mondo il risultato dell’azione s’ottiene rapidamente.
Il sistema delle quattro caste è stato istituito da me in base ai guṇa di prakṛti.
Sebbene io ne sia l’autore, devi conoscermi come l’immutabile non agente (akartā).(BhG IV.11-13)
In qualsiasi forma lo si segua, coscientemente o
inconsapevolmente, Īśvara è sempre disponibile perché è l’Ātman che esiste anche sotto l’apparenza
di iṣṭadevatā, di ordine
sociale e di legge naturale. Perciò chi medita su un Dio, chi compie rituali
agli Dei, chi segue le regole dharmiche e di casta, oppure semplicemente
l’ordine naturale, otterrà i frutti corrispondenti alle sue azioni.
In qualsiasi modo gli uomini mi avvicinino e qualsiasi frutto essi desiderino ottenere, allo stesso modo io li ricambio. Poiché non cercano la Liberazione, li benedico garantendo loro tutti quei frutti. In verità non si può allo stesso tempo cercare un frutto finito e la Liberazione. Perciò, così, in armonia con le loro mete, io garantisco i loro risultati. Ai pochi eletti, d’altra parte, che non desiderano alcun risultato e che cercano la Liberazione, io garantisco la conoscenza; ai jñāni che hanno rinunciato al mondo per ottenere la Liberazione io garantisco la Liberazione. A quelli che soffrono, io concedo sollievo, rimovendo le loro sofferenze. Io concedo ai miei devoti nello stesso modo in cui essi si rivolgono a me. Questo è il senso dello śloka. Io non concedo per attaccamento, repulsione o illusione. In tutti i modi concepibili gli uomini seguono vie che conducono a me, il Signore, nei miei innumerevoli stati. Qui si riferisce a coloro che compiono azioni avendo in vista mete diverse. (BhGŚBh IV.11)
Molti con il jñāna yoga raggiungono
Paramātman. “Sebbene io appaia come creatore[33]
di tutto questo mondo, non sono un creatore perché sono un akartā (che non compie azione). Dal punto
di vista del mondo appaio come kartā.
Ma nella mia natura reale non sono saṃsāri
per cui sono akartā. La
creazione del mondo, la distribuzione di karma
e phala ai jīva e averne cura, questi sono i miei karma, ma essi sono dovuti solo a māyā. La mia nascita è māyika, illusoria, e così anche il mio karma e la mia vita nel mondo. In me sono
Īśvara, sono Paramātman. Solo quando mi si attribuisce forma umana allora
faccio quelle cose.”
La nascita individuale di Īśvara come avatāra è la sua vyaṣṭi janma, e la sua manifestazione
universale, quando appare come mondo, è la sua samaṣṭi janma. Quindi l’avatāra
nasce, appare e mantiene. Dopo di ciò dissolve la sua forma di avatāra. Anche la forma samaṣṭi, il cosmo, è avatārica, perché
anch’essa nasce, perciò è un viśvarūpa
avatāra, in forma universale. Ma c’è anche una nascita e una
continuità all’interno del mondo che poi egli dissolve in Sé; è il Veda, la conoscenza, in quanto avatāra, che nasce con la nascita del
mondo, si perpetua nella società, protetto e trasmesso dai brāhmaṇa e che si dissolve alla
dissoluzione del mondo. Quindi questa nascita è duplice, una è cosmica, l’altra
individuale.
“Io non compio azioni, appaio come se le compissi. Ma in me
non sono né il creatore né il mantenitore né il dissolutore. Soltanto appaio in
questi modi. Perché se fossi davvero un agente (kartā) sarei un jīva.
Non avendo un karma,diversamente
dai jīva, io non sono legato
all’azione. Essere legato al karma
vuol dire produrre puṇya e pāpa”. Queste cose per Īśvara non ci
sono, perché manifestazione, mantenimento e dissoluzione del mondo, sono come
un sogno. Īśvara, che è sonno profondo, proietta uno stato di veglia e anche
mentre appare come stato di veglia, in sé è libero dallo stato. Perciò dice
“Anche se mantengo il mondo sono akartā”.
Questo deve essere applicato sia all’avatāra
sia alla manifestazione cosmica.
Perché Īśvara non produce puṇya
e pāpa creando,
mantenendo e dissolvendo il mondo?
L’azione non mi contamina né desidero i suoi frutti. Chi mi conosce così è libero dal karma. (BhG IV.14)
Īśvara manifesta con “mente” distaccata. Creare, sostenere
il mondo e il pensiero che Īśvara abbia una mente è il punto di vista del
mondo. Per lui non c’è né mondo né creazione né mente. Quindi non è contaminato
(limpanti), perché solo il karma fatto con identificazione produce puṇya e pāpa. Perciò non ha abhimāna
(identificazione), non ha kartṛtva
né bhoktṛtva. Chi
conosce Īśvara così sarà libero da nascite (janma),
da karma e da phala, perché quel jīva realizza che il ‘suo’ Ātman è lo stesso Īśvara.
Gli antichi mumukṣu, sapendo questo, facevano karma yoga. Quindi anche tu, Arjuna, agisci come fecero gli antichi nei tempi passati. (BhG IV.15)
Gli antichi mumukṣu,
sapendo questo, facevano karma yoga
per purificarsi al fine di proseguire con il jñāna
yoga e trascendere l’intero mondo (saṃsāra). È un errore supporre che sia il karma a legare; quello che lega è
l’attaccamento. “Perciò, senza attaccamento e senza aspettativa di risultati,
Arjuna, comportati come gli antichi mumukṣu,
essendo quella la sādhanā”.
In precedenza Kṛṣṇa aveva detto che i karma non lo contaminano. Chi fa il karma con ahaṃkāra e con l’ego è contaminato. Ma non è così per colui che non ha l’ego. “Io non ho alcuna identificazione con corpo e sensi, perciò non sono contaminato dal karma.” Perché le azioni e l’apparenza del corpo umano non toccano l’avatāra? Perché sono mithyā, false apparenze. Questa considerazione è un po’ più tecnica; comunemente si dice che non ha individualità. Perché l’ego è identificarsi al corpo. L’ego si sviluppa a causa dell’ignoranza. Dato che l’avatāra non ha adhyāsa, non ha ego, e se non c’è ego non c’è individualità, è solo un’apparenza. “Se non sei un jñāni non hai trasceso kartṛtva e allora sei un sādhaka, un mumukṣu, e in quanto tale hai bisogno di fare karma yoga[34]; perciò fallo come offerta a Īśvara”. Evidentemente quest’ultima ingiunzione non può essere rivolta a un jñāni, quindi Śaṃkara propone una seconda lettura: nel caso del jñāni non si tratta di un’ingiunzione, ma di una richiesta da parte della società umana per il proprio bene, e quindi il suo ‘agire’ è per compassione verso gli altri esseri[35]. Si può ordinare a chi ha bisogno di qualcosa. Ma non si può dare ordini a chi non ha bisogni né desideri. La sua azione è solo līlā. In questo modo il mondo è benedetto, ed egli diventa un esempio per gli altri[36]. Il jñāni si comporta come un avatāra, ‘agisce’ per loka anugraha, benedizione al mondo, per indicare una via agli altri. A questo punto sarà ben compreso che né l’avatāra né il jñāni, in realtà, compiono azioni o svolgono funzioni, essendo assolutamente akartā.
Fine seconda parte: II/III.
Dal sito Veda Vyāsa Maṇḍala: https://vedavyasamandala.com/
[24] Īśvara, il Signore, nel Vedānta è sempre rigorosamente il Brahman
Supremo (Parabrahman). È
Signore perché assolutamente indipendente da altro, in quanto non duale. Nella
prospettiva della conoscenza non suprema (Aparabrahman
vidyā) Īśvara, invece, è considerato il Dio che manifesta, mantiene
e dissolve il mondo. Egli allora è il Signore della Signoria (aiśvarya cioè il prapañca) e dei sudditi (prajā cioè i jīva), vale a dire dell’universo.
[25] Il Brahman è il sostrato (adhiṣṭhāna) di tutta l’apparenza. Si deve
capire la differenza tra adhiṣṭhāna e
āśraya, il supporto. Il
conoscitore della realtà empirica, il pramātṛ
è āśraya. Il jīva è āśraya
per la conoscenza del mondo, per puṇya
e pāpa per sukha e duḥkha, per janma
e māraṇa.
[26] In India non c’è differenza
tra miracolo e magia. La cosa rimane la stessa, ma appare diversa.
[27] Il Brahmaloka come è concepito soprattutto
dai vaiṣṇava. Gli śaiva invece lo definiscono
preferibilmente Kailāsa e gli śākta, Maṇi
Dvīpa. Brahmaloka è
termine upaniṣadico.
[28] Perciò è libero anche dal prārabdha.
[29] Jñāna guru: non dīkṣā guru se si tratta di uno kṣatriya, come in questo caso di Kṛṣṇa.
[30] Si passa cioè da una visione
erronea (adhyāropa) alla
conoscenza diretta non duale (apavāda),
senza passaggi intermedi. Perciò l’adavaitavāda
esclude che nel jñāna
esistano tappe lungo la sua via. Invece, a seconda delle differenti correnti
del karma kāṇḍa, le tappe sono
descritte in numero diverso, anche se sono generalmente sintetizzate in tre
tappe fondamentali. La tappa di partenza è una conoscenza preliminare, teorica
o virtuale che sia, presa come una certezza ottenuta tramite uno sforzo
mentale, la quale indica la direzione verso cui procedere; la seconda è
rappresentata da uno sforzo metodico d’avvicinamento e, infine la terza,
raggiunta la prossimità dell’oggetto contemplato, consiste nella certezza della
reale natura della meta prefissata. Quest’ultima tappa, salvo nei casi di
qualifiche eccezionali, è ottenuta dopo la morte nel Brahmaloka. Queste tre tappe o ‘certezze’
appartengono, in tutta evidenza, alla conoscenza non suprema.
[31] La videha mukti, la liberazione dalla forma,
è quindi un altro modo per esprimere la jīvan
mukti. Perciò è un errore considerare che videha significhi la morte del corpo. La
Liberazione avviene solamente tramite conoscenza. Il corpo grossolano non può
in alcun modo essere d’ostacolo alla conoscenza. Perciò la teoria per cui si
debba attendere la morte per ottenere mokṣa
è un errore metafisico.
[32] Questa considerazione non
vale per il sonno profondo che, in realtà è libero da karma, perché è Turīya.
[33] Non abbiamo alcuna esitazione
a usare il termine di creatore, creatura, creazione, in quanto in tale
prospettiva tutti questi termini sono una pura illusione proiettata
dall’ignoranza della mente. Non avendo una loro reale esistenza autonoma,
possono davvero essere spiegati come una creatio
ex nihilo.
[34] Con karma yoga il Vedānta intende la purificazione della mente come
preparazione alla via della conoscenza. Non ha, perciò, in vista l’ottenimento
dei risultati in vita o dopo la morte dei riti iniziatici, yantra, mantra e tantra. Yantra è la meditazione sul simbolo compiuta con il corpo, mantra la meditazione sul simbolo
parlato, tantra la meditazione
interiorizzata, al di là del simbolo.
[35] La compassione è qui dovuta
alla natura di ānanda del
liberato; non è affatto un’‘azione compassionevole’ operata da ānandamaya kośa,come quella compiuta dal bodhisattva della tradizione mahāyāna.
[36] L’ignorante (ajñāni) che si identifica al corpo pensa che anche il jñāni sia nella sua stessa condizione. Invece il jñāni non è nel corpo. Il corpo pare agire, parlare, ma egli vede tutto ciò come un pensiero; invece l’ignorante gli attribuisce un corpo ‘reale’. Quest’ultimo si chiede perché per il jñāni il mondo non sia definitivamente scomparso. Invece per il jñāni il mondo non è mai apparso né è mai scomparso perché egli è la Realtà immutabile.
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