Śrī Śrī Satcidānandendra Sarasvatī Svāmījī
Avidyā e Māyā
Distinzione tra l’Ignoranza e l’Illusione nelle sue applicazioni metodiche[1]
Si sa che l’unico insegnamento delle Upaniṣad è che la Realtà è il Tutto unico senza secondo e che quella Realtà è chiamata Brahman, Principio più grande di qualsiasi grandezza, non essendo limitato da nulla. Esso è anche chiamato Ātman, perché è il vero Sé di ogni cosa e di ognuno di noi.
Il così detto Universo, com’è inteso dalla gente, è solo un’apparenza. In altre parole, l’Universo è ignoranza (avidyā) e la verifica che esso è proprio così è conoscenza (vidyā). Questo modo di spiegare la verità e la realtà con il sostegno delle Upaniṣad appartiene alla tradizione di Śaṃkarācārya e di Gauḍapādācārya, suo maestro. Ci sono state altre scuole di Advaitin sia prima sia dopo Śaṃkara, e perfino tra i suoi discepoli sono sorte differenze d’opinione su come interpretare correttamente le Upaniṣad. Queste differenze sono nate perché è stato ignorato il metodo upaniṣadico dell’adhyāropāpavāda, che Śaṃkara ha spiegato nel suo Brahma Sūtra Bhāṣya. Non ci è possibile entrare qui nei dettagli
[2], perciò ci accontenteremo di affermare il vero insegnamento delle Upaniṣad e di citare importanti passaggi tratti dalle opere di Śaṃkara a sostegno del nostro punto si vista.
Sarà utile ricordare che le Upaniṣad usano i termini
vidyā e avidyā nel senso preciso di conoscenza autentica e
conoscenza erronea, mentre con prakṛti e māyā indicano
l’apparenza degli oggetti proiettata da avidyā.
Poiché
queste due, l'avidyā e ciò che è noto come vidyā, sono molto distanti, reciprocamente
opposti tra loro e in movimento verso direzioni diverse, io considero te, o Naciketas,
come un aspirante alla vidyā, in base al fatto che i molteplici oggetti di
piacere non ti hanno fatto desistere dalla tua meta.
Si
deve conoscere prakṛti come māyā.
A questo proposito Śaṃkara scrive:
Nome
e forma, considerati a causa di avidyā come identici al Signore onnisciente, [ma] che non possono
essere definiti né identici né diversi da Lui, che costituiscono quel seme
dell'intero sviluppo del saṃsāra, sono definiti dalla śruti e dalla smṛti māyā,
prakṛti e śakti del Signore onnisciente. (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya,
II.1.14)
Nonostante
ciò, c'è lo spontaneo comportamento umano (che concerne le azioni della mente,
della parola e del corpo) che si manifesta con "Io sono questo" e
"Questo è mio". Così facendo, mescola il reale e il non reale per
colpa della conoscenza errata di entrambi questi [ahaṃkāra e mamakāra]
e dei loro attributi che sono del tutto contraddittori, sovrapponendo la natura
e le proprietà dell'uno sull'altro a causa della mancanza di discriminazione
dell'uno dall'altro. (BSŚBh, Adhyāsa Bhāṣya)
Di fronte alla precedente definizione inequivocabile di avidyā
e māyā, i sottocommentari al Brahma Sūtra Bhāṣya di Śaṃkara hanno dato il via a una processione di
ciechi guidati da un cieco, affermando enfaticamente l'identità di avidyā
e māyā, e definendo l'avidyā non come l’ignoranza del soggetto,
bensì come fosse un qualche oggetto che si sovrappone ad Ātman. In
questo modo hanno distorto la natura di quest’ultimo, convertendo il purissimo
Brahman in un'anima trasmigrante e nascondendo così la sua natura essenziale.
Citiamo di seguito un breve estratto dalla Pañcapādikā, che
probabilmente è il più antico commentario (Ṭīkā) al Brahma Sūtra Śaṃkara
Bhāṣya, che ha segnato l’inizio di questa deviazione dalla tradizione śaṃkariana:
Ciò
che è variamente descritto in contesti differenti della Śruti, Smṛti, Itihāsa e
Purāṇa come nāmarūpa, avyākṛta, avidyā, māyā, prakṛti, agrahaṇa, avyakta (non manifestato)
,
tamas, karaṇa, laya, śakti, mahāsupti, nidrā, akṣara, ākāśa; ciò che, avendo impedito
a Caitanya di manifestare se stesso nella natura di Brahman, cioè nella sua
caratteristica essenziale, porta alla sua individuazione (jīvatva); ciò che
serve da schermo per immagini, illusioni, azioni e impressioni residue di
cognizioni passate; ciò che esiste nel sonno profondo e che copre (āvaraṇa) la
luce [dell’
Ātman]
rimanendo solo come impressioni mentali della proiezione del mondo (vikṣepa),
questa è l’avidyā senza inizio. (
Pañcapādikā, XXVI-95)
Nella
citazione di cui sopra, intesa a descrivere avidyā come causa materiale
di ahaṃkāra,
è particolarmente degno di nota che nāmarūpa (il nome e la forma), avyākṛta
(lo stato indifferenziato del mondo), avidyā, māyā, prakṛti,
agrahaṇa (l’incomprensibile) e avyakta (il non manifestato) sono
tutti dati come sinonimi di avidyā, in piena contraddizione con il Bhāṣya
śaṃkariano che afferma espressamente che māyā o avyākṛta è avidyā
kalpita, cioè una proiezione (o creazione) di avidyā detta anche adhyāsa
(sovrapposizione).
Possiamo
citare un ulteriore passaggio di Śaṃkara che stabilisce espressamente che nāmarūpa
o avyākṛta (lo stato seminale indifferenziato del mondo) è una
immaginazione prodotta da avidyā.
Il
Brahman diventa oggetto di "trasformazione" e di altri simili concetti,
nel suo apparente aspetto di nome e forma, che l'avidyā Gli sovrappone. In
questo modo, [questa
idea di un Brahman] inteso sia come differenziato sia come indifferenziato, non
può essere né definito tale [come Brahman] né diverso da Esso. Nella sua
vera natura, tuttavia, Esso rimane al di là di tutti questi concetti. (BSŚBh
II.1.27)
Secondo
Śaṃkara, tuttavia, non sarebbe sempre sbagliato parlare in forma figurata di avidyā
come māyā e anche di māyā come avidyā. Nel suo senso
primario avidyā, senza dubbio, significa ignoranza, perciò è una nozione
riferita al soggetto; ma in un senso secondario, la parola può essere estesa a designare
qualsiasi oggetto immaginato dall'ignoranza. In tal caso, l'uso consentirebbe
affermazioni come "Tutto questo è avidyā", con cui s’intende
che ogni oggetto è solo frutto dell'avidyā e, dunque, non del tutto
reale. Allo stesso modo,
quando il termine avidyā è inteso nel senso di una modifica della mente,
è evidentemente incluso nel mondo fenomenico e quindi può essere opportunamente
chiamato māyā. Per evitare la confusione, dovremo usare i termini avidyā
e māyā per denotare rispettivamente l'ignoranza e nāmarūpa; e avidyā
sarà impiegata per denotare la reciproca sovrapposizione del Sé e del non sé, indipendentemente
dal significato che qualsiasi altra scuola attribuisca a queste due parole.
In
conclusione, questi termini sono usati nel Vedānta per indicare la falsa
conoscenza e gli oggetti fenomenici, ma solo come uno strumento per mettere in
contatto il cercatore, per mezzo dell’adhyāropāpavāda, con quel
principio trascendente chiamato Testimone, cioè con l’Ātman, e non per
formulare teorie al fine di difendere un sistema. Quest’ultimo errore dilaga
ancor oggi in certi ambienti: Rāmānujācārya, per esempio, ha confuso
l’insegnamento di Śaṃkara su avidyā e māyā, da una parte con la
teoria sulla natura dell’ignoranza dei post-śaṃkariani, dall’altra con la dottrina
sulla māyā dei Buddhisti. Quel maestro si è impegnato a elaborare una
complessa confutazione della teoria dell'avidyā e a chiamare gli advaitin
con l’odioso epiteto di “cripto-buddhisti” (pravhanna māyāvādin). E il
dott. Murti ha fatto le seguenti osservazioni su Śaṃkara e Gauḍapāda:
Gauḍapāda
e Śaṃkara mettono semplicemente in evidenza le implicazioni di questo punto di
vista (dei
Vedāntin più antichi) quando dichiarano il cambiamento, la differenza e
la pluralità come illusorie; formulano, dunque, la dottrina complementare di
avidyā per spiegare l'aspetto della differenza.
Che
Śaṃkara non abbia formulato alcuna "dottrina di avidyā" per
spiegare qualcosa, ma abbia semplicemente attirato la nostra attenzione su una
naturale tendenza della mente umana, è stato reso abbondantemente chiaro
citando le sue dichiarazioni esplicite. Da quanto segue sarà evidente che nemmeno
Gauḍapāda può essere accusato di tale dottrina, poiché si era preoccupato
semplicemente di richiamare l'attenzione dei cercatori sull'incontestabile Essere
non duale, Coscienza o Ātman delle Upaniṣad che dir si voglia:
Il
sogno è di chi lo prende come [se fosse una realtà] diversa, e il sonno è
di chi non ne conosce la realtà; Quando l'equivoco su entrambi viene rimosso,
si raggiunge la quarta dimora. (Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā,
I,15)
In
questo passaggio Gauḍapāda con sogno vuole intendere sia la veglia sia il sogno,
in quanto essi rappresentano una visione errata della Realtà, e con sonno
profondo uno stato di non conoscenza. Per lui entrambe queste due sono idee
sbagliate (viparyāsa) dal punto di vista del vero Ātman, che
trascende sia la Coscienza sia la non-coscienza. Di fatto, Gauḍapāda in nessuna
parte della sua opera ha usato la parola avidyā. Per lui sono errori (viparyāsa)
sia il concetto falso (anyathāgrahaṇa) sia la non-coscienza (agrahaṇa),
che chiama rispettivamente effetto (kārya) e causa (kāraṇa).
Questa
dualità è solo māyā,
la Realtà è solo non duale. (MUGK I.17)
Qui
il termine māyā è applicato al mondo della dualità: non c'è alcuna teoria
sulla māyā da sostenere. In Gauḍapāda c'è solo un'apparente eccezione all’uso
di quella parola:
Perché
vi è la śruti che afferma: "Qui non c'è alcuna dualità " (KU IV.11),
e anche Indra [il
Signore Supremo] appare come multiforme tramite le māyā (BU II.5.10). Non
essendo nato, è tuttavia nato in forme diverse per mezzo della māyā" (Taittirīya
Āraṇyaka, III.13). (MUGK III.24)
Queste
sono citazioni dalla śruti, perciò egli qui non avanza alcuna teoria
propria. L’espressione della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad “tramite le māyā"
vuol significare “attraverso le percezioni sensoriali”, poiché nei Veda,
la parola māyā è anche usata nel senso di conoscenza [tramite i sensi],
com’è spiegato nel Nirukta di Yāska. Ci sono cinque sensi, ognuno dei
quali presenta la Realtà in una forma particolare, come suono, tatto, ecc.
Questa caleidoscopica varietà di conoscenze sensoriali è evidentemente
illusoria quando si riferisce alla Realtà in sé. Qui il nome māyā è,
dunque, applicato alla varietà della percezione dei sensi.
Se
si volessero ricordare come sono stati definiti con precisione la natura di avidyā,
la sua funzione e il suo effetto nell’Adhyāsa Bhāṣya di Śaṃkara, numerosi inutili dubbi e distinguo
svanirebbero all’istante. Anzitutto avidyā è solo un termine tecnico per
identificare la tendenza naturale, sedimentata nella mente umana, e non una
teoria qualunque. In second’ordine, esso è usato dal Vedānta solo come
strumento allo scopo di insegnare la verità e mai come qualcosa davvero reale
che debba essere sostenuto. In terzo luogo, la sua funzione consiste nel
postulare che ci sia un non-sé irreale come fosse qualcosa di diverso rispetto
al Sé veramente reale e, confondendo il Reale con l’irreale (satyānṛte
mithunīkṛtya), scambiasse l’identità e gli attributi dell’uno con quelli
dell’altro. Tuttavia di fatto questo irreale non-sé non è una entità differente
correlata all’Ātman reale, poiché Ātman è assolutamente privo di
ogni attributo e, di conseguenza, non è un “numero uno” che richieda dopo di sé
un “numero due”. Infine il suo effetto è quello di indurre a immaginare d’essere
realmente un agente di azioni e uno sperimentatore dei loro frutti, sebbene
azioni, strumenti utili a produrre azioni e i loro frutti siano realmente māyā,
solo falsa apparenza.
La
forma di questo universo illusorio (māyika prapañca) non è percepita
come è in realtà, e nemmeno la sua dissoluzione, il suo mantenimento e la sua
comparsa. L’avidyā che dà origine a
questa apparizione è altrettanto senza inizio e senza fine, non essendo altro
che una naturale sovrapposizione della mente umana e una nozione errata.
È
una perdita di tempo indulgere a una seriosa discussione sulla sua causa, la
sua collocazione, il suo oggetto e numero come hanno fatto numerosi advaitin
post-śaṃkariani. Infatti tutte quelle categorie appartengono ai fenomeni di
magia prodotta da avidyā e che, inoltre, nemmeno possono mai essere
attribuite all’avidyā medesima che proietta queste fantasmagorie.
Le
Upaniṣad perciò esortano alla conoscenza dell’unità di Ātman come
unico antidoto per curare questa malattia, fonte di tutti i mali della vita.
OṂ Tat Sat
Pubblicato da Edizioni Ekatos in:
Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, La Via della Conoscenza e le altre Vie
Note
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