"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 5 dicembre 2020

Śrī Śrī Satcidānandendra Sarasvatī Svāmījī, Avidyā e Māyā

Śrī Śrī Satcidānandendra Sarasvatī Svāmījī
Avidyā e Māyā
Distinzione tra l’Ignoranza e l’Illusione nelle sue applicazioni metodiche
[1]

Si sa che l’unico insegnamento delle Upaniṣad è che la Realtà è il Tutto unico senza secondo e che quella Realtà è chiamata Brahman, Principio più grande di qualsiasi grandezza, non essendo limitato da nulla. Esso è anche chiamato Ātman, perché è il vero Sé di ogni cosa e di ognuno di noi. 
Il così detto Universo, com’è inteso dalla gente, è solo un’apparenza. In altre parole, l’Universo è ignoranza (avidyā) e la verifica che esso è proprio così è conoscenza (vidyā). Questo modo di spiegare la verità e la realtà con il sostegno delle Upaniṣad appartiene alla tradizione di Śaṃkarācārya e di Gauḍapādācārya, suo maestro. Ci sono state altre scuole di Advaitin sia prima sia dopo Śaṃkara, e perfino tra i suoi discepoli sono sorte differenze d’opinione su come interpretare correttamente le Upaniṣad. Queste differenze sono nate perché è stato ignorato il metodo upaniṣadico dell’adhyāropāpavāda, che Śaṃkara ha spiegato nel suo Brahma Sūtra Bhāṣya. Non ci è possibile entrare qui nei dettagli[2], perciò ci accontenteremo di affermare il vero insegnamento delle Upaniṣad e di citare importanti passaggi tratti dalle opere di Śaṃkara a sostegno del nostro punto si vista.

Sarà utile ricordare che le Upaniṣad usano i termini vidyā e avidyā nel senso preciso di conoscenza autentica e conoscenza erronea, mentre con prakṛti e māyā indicano l’apparenza degli oggetti proiettata da avidyā.

Poiché queste due, l'avidyā e ciò che è noto come vidyā, sono molto distanti, reciprocamente opposti tra loro e in movimento verso direzioni diverse, io considero te, o Naciketas, come un aspirante alla vidyā, in base al fatto che i molteplici oggetti di piacere non ti hanno fatto desistere dalla tua meta.[3]

Si deve conoscere prakṛti come māyā.[4]

A questo proposito Śaṃkara scrive:

Nome e forma, considerati a causa di avidyā come identici al Signore onnisciente, [ma] che non possono essere definiti né identici né diversi da Lui, che costituiscono quel seme dell'intero sviluppo del saṃsāra, sono definiti dalla śruti e dalla smṛti māyā, prakṛti e śakti del Signore onnisciente. (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, II.1.14)

Nonostante ciò, c'è lo spontaneo comportamento umano (che concerne le azioni della mente, della parola e del corpo) che si manifesta con "Io sono questo" e "Questo è mio". Così facendo, mescola il reale e il non reale per colpa della conoscenza errata di entrambi questi [ahaṃkāra e mamakāra] e dei loro attributi che sono del tutto contraddittori, sovrapponendo la natura e le proprietà dell'uno sull'altro a causa della mancanza di discriminazione dell'uno dall'altro. (BSŚBh, Adhyāsa Bhāṣya)

Di fronte alla precedente definizione inequivocabile di avidyā e māyā, i sottocommentari al Brahma Sūtra Bhāṣya di Śaṃkara hanno dato il via a una processione di ciechi guidati da un cieco, affermando enfaticamente l'identità di avidyā e māyā, e definendo l'avidyā non come l’ignoranza del soggetto, bensì come fosse un qualche oggetto che si sovrappone ad Ātman. In questo modo hanno distorto la natura di quest’ultimo, convertendo il purissimo Brahman in un'anima trasmigrante e nascondendo così la sua natura essenziale. Citiamo di seguito un breve estratto dalla Pañcapādikā, che probabilmente è il più antico commentario (Ṭīkā) al Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, che ha segnato l’inizio di questa deviazione dalla tradizione śaṃkariana:

Ciò che è variamente descritto in contesti differenti della Śruti, Smṛti, Itihāsa e Purāṇa come nāmarūpa, avyākṛta, avidyā, māyā, prakṛti, agrahaṇa, avyakta (non manifestato), tamas, karaṇa, laya, śakti, mahāsupti, nidrā, akṣara, ākāśa[5]; ciò che, avendo impedito a Caitanya di manifestare se stesso nella natura di Brahman, cioè nella sua caratteristica essenziale, porta alla sua individuazione (jīvatva); ciò che serve da schermo per immagini, illusioni, azioni e impressioni residue di cognizioni passate; ciò che esiste nel sonno profondo e che copre (āvaraṇa) la luce [dell’Ātman] rimanendo solo come impressioni mentali della proiezione del mondo (vikṣepa), questa è l’avidyā senza inizio. (Pañcapādikā, XXVI-95)

Nella citazione di cui sopra, intesa a descrivere avidyā come causa materiale di ahaṃkāra[6], è particolarmente degno di nota che nāmarūpa (il nome e la forma), avyākṛta (lo stato indifferenziato del mondo), avidyā, māyā, prakṛti, agrahaṇa (l’incomprensibile) e avyakta (il non manifestato) sono tutti dati come sinonimi di avidyā, in piena contraddizione con il Bhāṣya śaṃkariano che afferma espressamente che māyā o avyākṛta è avidyā kalpita, cioè una proiezione (o creazione) di avidyā detta anche adhyāsa (sovrapposizione).

Possiamo citare un ulteriore passaggio di Śaṃkara che stabilisce espressamente che nāmarūpa o avyākṛta (lo stato seminale indifferenziato del mondo) è una immaginazione prodotta da avidyā.

Il Brahman diventa oggetto di "trasformazione" e di altri simili concetti, nel suo apparente aspetto di nome e forma, che l'avidyā Gli sovrappone. In questo modo, [questa idea di un Brahman] inteso sia come differenziato sia come indifferenziato, non può essere né definito tale [come Brahman] né diverso da Esso. Nella sua vera natura, tuttavia, Esso rimane al di là di tutti questi concetti. (BSŚBh II.1.27)

Secondo Śaṃkara, tuttavia, non sarebbe sempre sbagliato parlare in forma figurata di avidyā come māyā e anche di māyā come avidyā. Nel suo senso primario avidyā, senza dubbio, significa ignoranza, perciò è una nozione riferita al soggetto; ma in un senso secondario, la parola può essere estesa a designare qualsiasi oggetto immaginato dall'ignoranza. In tal caso, l'uso consentirebbe affermazioni come "Tutto questo è avidyā", con cui s’intende che ogni oggetto è solo frutto dell'avidyā e, dunque, non del tutto reale. Allo stesso modo, quando il termine avidyā è inteso nel senso di una modifica della mente, è evidentemente incluso nel mondo fenomenico e quindi può essere opportunamente chiamato māyā. Per evitare la confusione, dovremo usare i termini avidyā e māyā per denotare rispettivamente l'ignoranza e nāmarūpa; e avidyā sarà impiegata per denotare la reciproca sovrapposizione del Sé e del non sé, indipendentemente dal significato che qualsiasi altra scuola attribuisca a queste due parole.

In conclusione, questi termini sono usati nel Vedānta per indicare la falsa conoscenza e gli oggetti fenomenici, ma solo come uno strumento per mettere in contatto il cercatore, per mezzo dell’adhyāropāpavāda, con quel principio trascendente chiamato Testimone, cioè con l’Ātman, e non per formulare teorie al fine di difendere un sistema. Quest’ultimo errore dilaga ancor oggi in certi ambienti: Rāmānujācārya, per esempio, ha confuso l’insegnamento di Śaṃkara su avidyā e māyā, da una parte con la teoria sulla natura dell’ignoranza dei post-śaṃkariani, dall’altra con la dottrina sulla māyā dei Buddhisti. Quel maestro si è impegnato a elaborare una complessa confutazione della teoria dell'avidyā e a chiamare gli advaitin con l’odioso epiteto di “cripto-buddhisti” (pravhanna māyāvādin). E il dott. Murti ha fatto le seguenti osservazioni su Śaṃkara e Gauḍapāda:

Gauḍapāda e Śaṃkara mettono semplicemente in evidenza le implicazioni di questo punto di vista (dei Vedāntin più antichi) quando dichiarano il cambiamento, la differenza e la pluralità come illusorie; formulano, dunque, la dottrina complementare di avidyā per spiegare l'aspetto della differenza.[7]

Che Śaṃkara non abbia formulato alcuna "dottrina di avidyā" per spiegare qualcosa, ma abbia semplicemente attirato la nostra attenzione su una naturale tendenza della mente umana, è stato reso abbondantemente chiaro citando le sue dichiarazioni esplicite. Da quanto segue sarà evidente che nemmeno Gauḍapāda può essere accusato di tale dottrina, poiché si era preoccupato semplicemente di richiamare l'attenzione dei cercatori sull'incontestabile Essere non duale, Coscienza o Ātman delle Upaniṣad che dir si voglia:

Il sogno è di chi lo prende come [se fosse una realtà] diversa, e il sonno è di chi non ne conosce la realtà; Quando l'equivoco su entrambi viene rimosso, si raggiunge la quarta dimora. (Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā, I,15)

In questo passaggio Gauḍapāda con sogno vuole intendere sia la veglia sia il sogno, in quanto essi rappresentano una visione errata della Realtà, e con sonno profondo uno stato di non conoscenza. Per lui entrambe queste due sono idee sbagliate (viparyāsa) dal punto di vista del vero Ātman, che trascende sia la Coscienza sia la non-coscienza. Di fatto, Gauḍapāda in nessuna parte della sua opera ha usato la parola avidyā. Per lui sono errori (viparyāsa) sia il concetto falso (anyathāgrahaṇa) sia la non-coscienza (agrahaṇa), che chiama rispettivamente effetto (kārya) e causa (kāraṇa).

Questa dualità è solo māyā, la Realtà è solo non duale. (MUGK I.17)

Qui il termine māyā è applicato al mondo della dualità: non c'è alcuna teoria sulla māyā da sostenere. In Gauḍapāda c'è solo un'apparente eccezione all’uso di quella parola:

Perché vi è la śruti che afferma: "Qui non c'è alcuna dualità " (KU IV.11), e anche Indra [il Signore Supremo] appare come multiforme tramite le māyā (BU II.5.10). Non essendo nato, è tuttavia nato in forme diverse per mezzo della māyā" (Taittirīya Āraṇyaka, III.13). (MUGK III.24)

Queste sono citazioni dalla śruti, perciò egli qui non avanza alcuna teoria propria. L’espressione della Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad “tramite le māyā" vuol significare “attraverso le percezioni sensoriali”, poiché nei Veda, la parola māyā è anche usata nel senso di conoscenza [tramite i sensi], com’è spiegato nel Nirukta di Yāska. Ci sono cinque sensi, ognuno dei quali presenta la Realtà in una forma particolare, come suono, tatto, ecc. Questa caleidoscopica varietà di conoscenze sensoriali è evidentemente illusoria quando si riferisce alla Realtà in sé. Qui il nome māyā è, dunque, applicato alla varietà della percezione dei sensi.

Se si volessero ricordare come sono stati definiti con precisione la natura di avidyā, la sua funzione e il suo effetto nell’Adhyāsa Bhāṣya di Śaṃkara[8], numerosi inutili dubbi e distinguo svanirebbero all’istante. Anzitutto avidyā è solo un termine tecnico per identificare la tendenza naturale, sedimentata nella mente umana, e non una teoria qualunque. In second’ordine, esso è usato dal Vedānta solo come strumento allo scopo di insegnare la verità e mai come qualcosa davvero reale che debba essere sostenuto. In terzo luogo, la sua funzione consiste nel postulare che ci sia un non-sé irreale come fosse qualcosa di diverso rispetto al Sé veramente reale e, confondendo il Reale con l’irreale (satyānṛte mithunīkṛtya), scambiasse l’identità e gli attributi dell’uno con quelli dell’altro. Tuttavia di fatto questo irreale non-sé non è una entità differente correlata all’Ātman reale, poiché Ātman è assolutamente privo di ogni attributo e, di conseguenza, non è un “numero uno” che richieda dopo di sé un “numero due”. Infine il suo effetto è quello di indurre a immaginare d’essere realmente un agente di azioni e uno sperimentatore dei loro frutti, sebbene azioni, strumenti utili a produrre azioni e i loro frutti siano realmente māyā, solo falsa apparenza.

La forma di questo universo illusorio (māyika prapañca) non è percepita come è in realtà, e nemmeno la sua dissoluzione, il suo mantenimento e la sua comparsa[9]. L’avidyā che dà origine a questa apparizione è altrettanto senza inizio e senza fine, non essendo altro che una naturale sovrapposizione della mente umana e una nozione errata.

È una perdita di tempo indulgere a una seriosa discussione sulla sua causa, la sua collocazione, il suo oggetto e numero come hanno fatto numerosi advaitin post-śaṃkariani. Infatti tutte quelle categorie appartengono ai fenomeni di magia prodotta da avidyā e che, inoltre, nemmeno possono mai essere attribuite all’avidyā medesima che proietta queste fantasmagorie.

Le Upaniṣad perciò esortano alla conoscenza dell’unità di Ātman come unico antidoto per curare questa malattia, fonte di tutti i mali della vita.

OṂ Tat Sat


Pubblicato da Edizioni Ekatos in
Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, La Via della Conoscenza e le altre Vie


















Note

[1] Tratto da: “Avidyā and Māyā”, in Essays on Vedanta, Holenarasipura, Adhyātma Prakāsha Karyālaya, 2008, pp. 41-48. Traduzione e note di Gian Giuseppe Filippi.

[2] Il lettore che fosse interessato a questo argomento è invitato ad affrontarne lo studio in Śrī Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, How to Recognize the Method of Vedānta, Holenarasipura, Adhyātma Prakāsha Karyālaya, 1995.

[3] Kaṭha Upaniṣad, I. 2.4. Con queste parole Yama inizia a insegnare a Naciketas l’Ātma vidyā.

[4] Śvetāśvatara Upaniṣad, IV.10.

[5] Nāmarūpa, nome e forma; avyākṛta, causa seminale; avidyā, ignoranza; māyā, arte o potere manifestante; prakṛti, materia prima; agrahaṇa, inconoscibile; avyakta (non manifestato), tamas, tenebra; karaṇa, causa; laya, occultamento; śakti, potenza; mahāsupti, sonno; nidrā, sonnolenza; akṣara, immobile; ākāśa; spazio, etere. [N.d.T.]

[6] La forma della mente che vorrebbe essere l'attribuzione condizionante dell'Ātman, per la quale quest’ultimo è preso erroneamente per lo sperimentatore individuale dei frutti delle azioni.

[7] Tiruppattur R. Venkatachala Murti, Central Philosophy of Buddhism: A Study in Madhyamika System, London, George Allen and Unwin., 1960. [N.d.T.]

[8] Si tratta dell’introduzione al commento dei Brahma Sūtra. [N.d.T.]

[9] Cfr. Bhagavad Gītā, XV.3.

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