A. K. Coomaraswamy
Il Mare
Per Platone, la
vita divina è un’«essenza che fluisce incessantemente» (άέναος ό ρία, Leggi, 966E).
Per Meister Eckhart, che chiamava Platone “il grande sacerdote”, l’Anima è un fiume alimentato dalle acque che traboccano dall’inestinguibile sorgente divina» (Pfeiffer, p. 581); egli aggiunge: Quando mi trovavo nella profondità delle acque della sorgente divina, non v’era nessuno a domandarmi dove sarei andato o che cosa avrei fatto... E quando sarò ritornato nella profondità delle acque della sorgente divina, nessuno mi domanderà da dove vengo e che cosa ho fatto. (ibid., p. 181).
Per Meister Eckhart, che chiamava Platone “il grande sacerdote”, l’Anima è un fiume alimentato dalle acque che traboccano dall’inestinguibile sorgente divina» (Pfeiffer, p. 581); egli aggiunge: Quando mi trovavo nella profondità delle acque della sorgente divina, non v’era nessuno a domandarmi dove sarei andato o che cosa avrei fatto... E quando sarò ritornato nella profondità delle acque della sorgente divina, nessuno mi domanderà da dove vengo e che cosa ho fatto. (ibid., p. 181).
Analogamente, Sciamsi-i-Tabriz: «Nessuno che entra qui crede di essere
qualcuno... Chiunque entra dicendo “questi sono io”, incorrerà di certo nella
collera divina. (Diwân, trad. Nicholson, Ode 15, 28) [1].
L’incessante
scorrere della vita implica un’inesauribile fonte, la pitagorica «sorgente
della fluente natura» (…, Versi Aurei, 48).
«Immagina – dice Piotino – una sorgente (…) la cui origine è essa stessa; essa
alimenta tutti i fiumi, mai si esaurisce per quel che ad essi dona, rimanendo
integralmente quella che... la sorgente della vita, la sorgente
dell’intelletto, l’origine degli esseri, la causa del bene, la radice
dell’Anima» (Enneadi, III, 8, 10 e 6, 8, 9). Questo,
come dice Filone commentando Ger., 2, 13, …, è Dio, l’origine antica non solo
della vita, ma di ogni conoscenza: è «la sorgente dalla quale scaturiscono
innumerevoli ruscelli... qui la Grazia si trova contenuta in essenza in una
fontana ricolma per riversarsi in tutte le potenze dell’Anima. (Ruysbroek, Adorment of the Spiritual Marriage 35).
Con le stesse
parole si esprime Sciamsi-i-Tabriz: «Pensa all’Anima come ad una fontana e agli
esseri creati come a dei fiumi; e non credere che l’acqua possa esaurirsi,
perché è un’acqua che non ha fine. (Dîwân, Ode 12). Sempre Meister Eckhart,
parla della vita divina riferendola sia alla profondità della fonte, sia al
fluire delle sue acque. La concezione del ritorno dell’Anima alla sua sorgente,
quando il suo ciclo si è concluso, quando, come osserva Blake, «L’uomo Eterno
ritorna in possesso della sua antica beatitudine» è invero universale. E il
mare, quale sorgente di tutte le esistenze, è nello stesso tempo il simbolo del
loro fine ultimo o entelechia. Tale fine può apparire a prima vista come una perdita
di coscienza, una sorta di morte; ma non bisogna dimenticare che in ogni caso
il vecchio uomo deve pur sempre morire, che ogni ascesa comporta d’inoltrarsi
per un sentiero segnato dalla nostra morte individuale, e che il contenuto del
“presente senza durata” (sanscr.: kshana = …), cioè dell’eternità,
è infinito se paragonato con quello di qualsiasi estensione di tempo passato o
futuro. L’obiettivo finale non è una distruzione, bensì una liberazione da
tutte le limitazioni dell’individualità e delle sue funzioni nel tempo e nello
spazio.
Per i buddisti,
la vita è estremamente breve: «siamo quel che siamo» per la durata che impiega
una sensazione od un pensiero ad essere sostituito da un altro; la vita «è come
una goccia di rugiada, una bolla d’acqua... o come un rapido torrente che
trascina a valle ogni cosa incessantemente... o come il segno lasciato da un
bastone quando lo si immerge nell’acqua. (Angutara Nikâya, 4137).
L’individualità
non è un’entità, bensì un “processo” che diventa
senza pausa una cosa dopo l’altra, senza
mai arrestarsi per essere uno
dei suoi transeunti aspetti; è come il fiume di Eraclito, nel quale non ci si
può mai immergere per una seconda volta: …Ma a questo perpetuo flusso del Samsâra si contrappone il concetto del silente Mare da cui hanno origine le acque
di tutti i fiumi ed in cui esse dovranno infine ritornare. Parlando di questo
Mare, simbolo del Nirvâna, i buddisti vogliono anzitutto riferirsi
alle sue immote profondità: «Così come nelle profondità degli abissi del
possente Oceano non vi sono onde e tutto è in quiete, parimenti il monaco
appacificato, non più turbato (thito
anejo) non provochi più
nessun movimento. (Sutta Nipâta,
290). Essendo il Mare un simbolo del Nirvâna,
i buddisti parlano del fine ultimo usando il termine “immersione” (ogadha), proprio come Meister Eckhart,
il quale vi si riferisce con il simbolo dell’affogamento.
«E così la goccia di rugiada scivola nel
mare lucente»: con queste parole si conclude Light of Asia di Edwin Arnold; il lettore potrebbe esser portato a
ritenerle l’espressione di un’aspirazione unicamente buddista e a connetterle
con l’erronea interpretazione del Nirvâna
inteso come “annientamento”; egli potrebbe, infatti, non aver mai sentito
parlare di quella “eresia dell’annientamento” così sovente attaccata dal
Buddha, o non aver mai riflettuto sul fatto che l’annientamento di qualcosa di
reale, di qualcosa che è, è metafisicamente un’impossibilità. Questa concezione
del fine ultimo e beatifico dell’uomo, simboleggiata dall’immersione
nell’abisso senza fine della sorgente divina ed espressa in termini di gocce di
rugiada o di fiumi che si perdono nel Mare, lungi dall’essere una dottrina esclusivamente
buddista, è enunciata con parole quasi identiche nelle tradizioni brahmaniche,
taoiste, islamiche e cristiane. Considerandone per primo la formulazione in
termini buddisti, troviamo: «Così come i grandi fiumi, sfociando nel possente
Oceano, perdono i loro nomi e le loro caratteristiche, per cui si può parlare
solo più del Mare, così anche queste quattro classi di uomini, i sacerdoti, i
guerrieri, i mercanti e gli artigiani, quando abbandonano le loro case per
entrare nella “vita senza casa”, nella regola stabilita da chi ha trovato la
verità, perdono i loro nomi, scordano il loro proprio linguaggio e vengono
chiamati gli “asceti”, i “figli del Buddha”. (Aigutara Nikâya, 4202; cfr. Majjhima
Nikâya, I, 489; Udana, 55).
Questa immagine simbolica è l’equivalente
dell’idea vedica dell’origine e della fine “oceanica” delle Acque Viventi, così
com’è espressa, ad esempio nel Rig-Veda,
7, 49: «Dal Mare fluisce l’incessante moto delle acque... ed il Mare è il loro
fine (samudrârthâh)». Parole che sono
un’eco diretta di molti passi delle Upanishad,
in particolare, questo della Prasha
Upanishad, 6, 5: «Così come quando i fiumi fluenti (syandamânâh, …) verso il Mare, raggiungendolo, ritornano a casa e
si parla di loro solo più come del Mare, parimenti questo Testimone o
Spettatore[2] (paridrashtr), queste sedici parti[3] che
tendono verso la Personalità, quando la raggiungono, sono arrivate a casa, ed
essendo i loro nomi-forma ormai distrutti, si parla di loro solo più come della
Personalità (purusha) immortale e
senza parti».
Analogamente, nella Chandogya Upanishad, 6, 10, 1, 2: «Questi fiumi scendono a oriente
verso le coste per poi riformarsi dal Mare[4]. Allorché
sono nel Mare non hanno più coscienza d’essere questo o quel fiume. Egualmente,
amico mio, tutti questi figlix[5], pur
nascendo dall’Essere (sat = …) non sanno che provengono dall’Essere e
diventano, in questo mondo, tigri, leoni... o moscerini», credono cioè d’essere
questo o quello. Mentre, nella Maitri
Upanishad, 6, 22, troviamo: «Coloro che passano oltre questa diversità,
questi suoni di fiumi, di campane o di pioggia scrosciante, ritornano nel
Brahma immanifesto, nel Suono Supremo. Ivi perdono ogni loro caratteristica
individuale, diventando come fiori dai sapori diversi che danno il medesimo
miele»[6].
Un’analoga espressione si trova nel Tao-Te-King,
32: «Tutto quel che è sotto il Cielo entrerà nel Tao, come torrenti che si
riversano nel grande fiume o nel mare»; ed anche in Dante: «Nostra pace è quel
mare, al qual tutto si move» (Paradiso,
III, 85, 86), e nel Rig-Veda (7, 86,
2): «Quando saremo nuovamente in Varuna?», cioé in Brahma «il cui mondo sono le
acque» (Kaushîtaki Upanishad, I, 7),
o in Agni che «è nato come Varuna» (Rig-Veda,
3, 5, 4) ed è «il solo Mare, lo scrigno di tutti i tesori» (Rig-Veda, 10, 5, 1). Parimenti, in
Gialâlu’d-Dîn Rûmî, leggiamo: «Il fine ultimo d’ogni corso d’acqua è il Mare...
le opposizioni e le discordanze appartengono alle onde, non al Mare» (Mathnawî, 4, 3164 e 6, 1622; cfr.
Filone, Immut., 164).
Concetti analoghi ricorrono in altri
testi islamici; ad esempio, in Sciams-i-Tabrîz (Dîwân, Ode 12 e 7): «Penetra in quell’oceano! Che la tua goccia
possa diventare un Mare grande cento volte il mare di Oman... Quando il mio
cuore si trovò di fronte al mare dell’Amore, mi lasciò immediatamente e vi si tuffò»
(che corrisponde al «Tuffati! È qui che ti devi annegare» di Meister Eckhart).
Il suo grande discepolo Gialâlu’d-Dîn Rûmî, alla domanda «Che cos’è l’Amore?»
risponde: «L’Amore è il Mare della Non-esistenza»[7]: «Lo
conoscerai quando diventerai Me» (Mathnawî,
3, 4723). L’uomo è come una goccia d’acqua che il vento asciuga o che la terra
assorbe, ma «se si getta nel Mare da cui venne, essa è libera... la sua forma
esteriore scompare, ma la sua essenza rimane inviolata... lascia andare la tua
goccia e ricevi in cambio il Mare»; «versa la tua caraffa[8]... perché,
quando la sua acqua si unisce a quella del fiume, vi scompare e diventa “il
fiume”» (Mathnawî, 4, 2616 e 3, 3923)
– il Fiume, cioé la «sempre fluente
Natura» di Platone[9].
Sono queste,
tutte espressioni del linguaggio metafisico universale; nessuna di esse si
discosta da un’aspirazione specificamente cristiana: «Dio è un infinito ed
indeterminato Mare di essenza. (San Girolamo Damasceno, De
Fid. Orth., I) e la deificazione, la theosis, fine ultimo dell’uomo, richiede l’ablatio omnis alteritatis et diversitatis (Nicola Cusano, De
filiatìone Dei).
«Tutte le cose
– dice Meister Eckhart – si ritrovano in Dio come gocce nel mare burrascoso,
per cui
l’anima,
ingoiata da Dio, viene deificata; perde il suo nome e le sue potenze, ma non la
sua essenza
(ed. Pfeiffer,
p. 314). E Ruysbroek: «Immergendoci nell’Amore possediamo Dio nella misura in
cui rinunciamo a noi stessi: Dio è nostro e noi siamo Suoi. Immergiamoci dunque
in questo nostro possesso, che è Dio, in modo definitivo e per sempre... come
un fiume che senza posa penetra nel Mare, la sua meta, il suo riposo... Ciò
avviene fuori dal tempo, senza un prima e un dopo, in un eterno presente che è
la dimora e il principio di tutte le vite e di tutti i divenire. Quivi si
ritrovano tutte le creature che sono andate oltre la loro individualità, sì da
formare solo più un’unica Vita con Dio, come era nella loro eterna origine.
(Ruysbroek, The Sparkling Stone, cap. IX, e The
Book of Truth, cap. X). Ed anche Angelus Silesius: «Wenn du das Tröpflein im
grosse Meere nennen, Denn wirst du meine Seel’ im grossen Gott erkennen. (Der
Cherubinsche Wandersmann, 2, 25). Alla medesima tradizione appartengono le
ultime parole del bellissimo testamento spirituale di Labadie: «Io consegno la
mia anima a Dio, restituendola come una goccia d’acqua alla sua sorgente,
ponendo l’intera mia fiducia in Lui; pregando Dio, mia origine e mio oceano, di
accogliermi in Lui, e di sommergermi eternamente nell’abisso del Suo essere»...
Ma quando perverremo ad «essere veramente in Varuna»?
Diremo solo più
che fare un’analisi storico-letteraria di tutte queste sorprendenti concordanze
sarebbe di ben scarso interesse; poco importa che le fonti indiane siano le più
antiche, dal momento che si può quasi sempre ritenere che ogni dottrina è
certamente più antica dei documenti che la riguardano. Le citazioni fatte nel
corso di questo studio stanno a dimostrare, in un caso particolare, che sono
ben poche, per non dire nessuna, le dottrine fondamentali d’una tradizione
ortodossa che non possano essere confortate dall’autorità di tutte le altre
tradizioni ortodosse o, in altre parole, dalla tradizione unanime della Philosophia
Perennis et Universalis.
Articolo pubblicato in The Journal of Philosophy, marzo 1940.
Traduzione in italiano di U. Zalino in Rivista di Studi Tradizionali n°
38
[1] Cfr. Rûmî, Mathnawî, 6, 3644: «Chiunque non è un Amante vede riflessa nell’acqua la sua
propria immagine... ma quando l’immagine dell’Amante scompare in Lui, chi mai
potrà egli scorgere nell’acqua? Ditemi che cosa.....
Parimenti nella Chândogya
Upanishad, VIII, 8, sempre a
proposito della propria immagine riflessa nell’acqua.
[2] Il Testimone, o lo
Spettatore, è anzitutto quello, dei due uccelli o “sé”, che non mangia del
frutto dell’Albero della Vita, ma osserva solamente. È «il Sé vivente a noi
vicino, il Signore di quel che è stato e che sarà... sempre presente (pravisya
= …) nella cavità del cuore, che osserva attraverso le potenze
dell’anima. (bhutebhir vyapasyat, Katha Upanishad, 4, 5, 6); «L’unico
invisibile osservatore» (Brihadâranyaka
Upanishad, 3, 7, 23; 2, 8, 11).
Il termine upadrashtr (spettatore), il cui
significato coincide con quello di paridrashtr,
è particolarmente significativo tenendo conto della sua connessione con Agni,
il Sacerdotium in divinis e dentro di
noi, che gli Dei «destinarono a star di guardia» (aupadrashtryaya, Jaimin.a Brâhmana, 3, 261-263); Agni è lo
Spettatore o «colui che sta di guardia», Vayu è «colui che sta in ascolto»,
Aditya è l’Annunciatore (Taittirîya
Samhita, III, 8, 5); ed è da Agni che il Buddha riceve l’epiteto di “Occhio
del Mondo”. La posizione di Krishna rispetto a Argiuna è identica a quella di
Agni rispetto ad Indra, del Sacerdotium rispetto al Regnum : corrisponde a quella, descritta in un testo più antico, in
cui il Purohita ha la funzione di cocchiere del re, per consigliarlo e «per
vedere che non compia errori» («aupadrashstryâya
ned ayain pâam karavat», Jaiminîya
Brâhmana, III, 394). È questa la relazione esistente anche in noi stessi e
che corrisponde a quella che, per i cinesi, intercorre tra il Sacerdote Interiore
e il Re Esteriore; la funzione dello Spettatore è quella del demone socratico,
lo Spirito immanente, sinderesi e coscienza.
[3] Vi sono due forme
di Brahma, una temporale e l’altra intemporale, con o senza “parti” (Maitri Upanishad, 6, 15). Nella sua forma
temporale, Pragiâpati (il Progenitore), l’Anno, è concepito con sedici parti,
di cui quindici sono i suoi “possedimenti”, mentre la sedicesima, costante (dhruva), coincide con Egli stesso; con
quest’ultima Egli penetra (anupravishya = … ) in tutto ciò che respira (Brihadâranyaka Upanishad, I, 5, 14, 5);
ed è proprio con essa che «voi ora potete comprendere i Veda» (Chândogya Upanishad, VI, 7, 1, 5)
allorquando il fuoco della vita è attenuato dal digiuno («così come di un
gigantesco incendio rimane solo più un tizzone non più grande di una lucciola,
per poi divampare nuovamente, quando il digiuno cesserà»). Questa “costante”
sedicesima parte è la “Scintilla”, il «Dio in me che conosce tutte queste cose»
di Jacob Boehme e che, come dice S. Agostino, ha il suo trono in Cielo, ma
insegna nella cavità del cuore («Et
constat secundum Augustinum et alios sanctos, quod “Christus habens cathedram
in coelo docet interìus”; nec aliquo modo aliqua veritas sciri potest nisi per
illam veritatem. Nam idem est principium essendi et cognoscendi» (S.
Bernardo, In hexaëm, I, 13).
[4] Questo simbolismo
può intendersi in due modi: secondo l’interpretazione di Shankarâchârya,
riferendolo alla generale circolazione delle acque, le quali originano dal mare
per l’azione del sole per poi ritornarvi sotto forma di fiumi; o, e a me sembra
più plausibile, riferendolo alle maree che investono i grandi fiumi come il
Gange, per cui si può parlare di “fiume” quando queste alternativamente si
alzano e si abbassano, e di “mare” quando la marea non si verifica. In tutti i
casi, si tratta sempre della “circolazione” dei Fiumi della Vita; cfr. Rig Veda, I, 164, e Jaiminîya Brâhmana,
I, 2, 7.
[5] Pragiâ , “bambini”, “figli”; tutti gli esseri viventi sono considerati
come figli di Pragiâpati e si devono distinguere dai bhûtâni , “esseri” nel senso dei “soffi”, cioé delle facoltà o potenze
dell’anima (le … di Pitagora, le … di Filone). Quanto all’attribuzione di pragiâ
a tutti gli esseri viventi, siano essi umani o no, cfr. Brihadâranyaka Upanishad, I, 4, 3, 4: «Da
cià nacquero tutti gli esseri... Così Egli (Purusha
, la Personalità) tutti emanò (sarvam
asrgiata), sino alle formiche». Dal contesto appare inoltre chiaro che srishti, troppo sovente tradotto con
“creazione”, dovrebbe essere piuttosto reso con “emanazione” o “espressione”. È
un unico e medesimo “Sé” che vivifica tutte le cose, ma «è più chiaramente
manifestato negli animali che nelle piante e ancor più nell’uomo che negli
animali» (Aitareya Aranyaka, II, 3,
2). Per Meister Eckhart, non solo «Dio è in ogni creatura, anche in una mosca»,
ma «una pulce, quando è (idealmente) in Dio, è superiore al più elevato degli
Angeli».
Ancora a proposito del
termine “emanazione”, che sovente si evita d’usare per tema d’una possibile interpretazione
“panteistica”, cfr. S. Tommaso, Sum.
Theol., I, 45, 1: «Oportet
considerare... emanationem totius entis
a causa universali quae est Deus... Crealio, quae est emanatio totius esse, est
ex non ente, quod est nihil».
Dio è la suprema identità
dell’Essere con il Non-Essere, della Natura con l’Essenza; dal Non-Essere sorge
l’Essere, quale prima determinazione, e dall’Essere scaturiscono tutte le
esistenze.
[6] «Chi aspira a realizzare
la conoscenza... porrà tutta la sua fede nell’Uno, al di là del numero e della
varietà, nell’Uno dove viene cancellata ogni proprietà ed ogni distinzione.
(Meister Eckhart).
[7] Cioé l’Essere
sopra-esistenziale, non limitato dalle condizioni dell’“e-sistenza” (ex alio sistens), le quali fan sì che ci
sia “questo” o l’“altro”. «Non vi è crimine peggiore della tua e-sistenza.
(Sciams-i-Tabrîz, Dîwân, Ode 12); «Ben
più soffre chi sa e sente di esistere; le altre sofferenze, in suo confronto,
non sono veramente tali; la vera sofferenza è di chi sa, non che cosa è, ma che
egli è» (Cloud of Unknowing, cap.
44). L’Identità Suprema è quella dell’«Essere con il Non-Essere». (satasat) al di là di ogni affermazione e
di ogni negazione; ma per raggiungere questo fine ultimo, non è sufficiente
aver cessato d’“essere esistenzialmente”.
[8] A proposito della
“caraffa”, quale simbolo dell’individualità psico-fisica, vedere Rîmî, Mathnawî , I, 2710- 2715; cfr. il
simbolo vedantino della giara: lo spazio in essa contenuto e quello che la
contiene, quando viene spezzata, si identificano. Per il paragone buddista tra
il corpo e la giara, vedere Dhammapada
, 40: Kumbhûpamam kâyam imam viditvâ.
[9] Si noterà che gli
elementi del simbolismo non sono sempre gli stessi. La sorgente eterna può
essere chiamata il Mare o il Fiume, mentre le esistenze temporali possono
essere le onde del mare o i fiumi che vi si riversano, oppure gli affluenti del
Fiume. La sorgente eterna è nello stesso tempo immota e fluente, mai
“stagnante”; cosicché, come afferma Meister Eckhart, vi è «ein brunne in der gotheit der an allen dingen ûz flinzet in der
ewikeit und in der zît» (Pfeiffer, p. 530), come è anche suggerito
dall’“enigma” del Rig Veda, V, 47, 5:
«Sebbene i fiumi scorrano, le Acque restano immote».
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