"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 18 settembre 2020

René Guénon, Studi sull'Induismo - IX - Nâma-Rûpa

René Guénon, Studi sull'Induismo

IX - Nâma-Rûpa[1]

È noto che nella tradizione indù si considera l’individualità costituita dall’unione di due elementi, o più esattamente da due insiemi di elementi, rispettivamente indicati con i termini nâma e rûpa, termini che significano letteralmente «nome» e «forma», e sono in genere riuniti nell’espressione composta nâma-rûpa, la quale comprende in tal modo l’intera individualità.
Di tale individualità nâma corrisponde al lato «essenziale», e rûpa al lato «sostanziale»; si tratta perciò più o meno dell’equivalente dell’eidos e della hylé di Aristotele, o di quelle a cui gli scolastici dettero il nome di «forma» e «materia»; sennonché, in quest’ultimo caso occorre far molta attenzione a un’imperfezione abbastanza molesta della terminologia occidentale: la «forma» in effetti equivale allora a nâma, mentre, se si interpreta la stessa parola nel suo significato abituale, è al contrario rûpa che si è obbligati a tradurre con «forma»[2]. Poiché la parola «materia» non manca di presentare inconvenienti, per ragioni che abbiamo già spiegato in altre occasioni e sulle quali non ritorneremo ora, noi riteniamo di gran lunga preferibile l’uso dei termini «essenza» e «sostanza», compresi naturalmente nel senso relativo in cui è possibile applicarli a una individualità.
Secondo un altro punto di vista, un po’ diverso, nâma corrisponde anche alla parte sottile dell’individualità, e rûpa alla sua parte corporea o sensibile; sennonché tale distinzione coincide in fondo con la precedente, giacché sono precisamente queste due parti, quella sottile e quella corporea, che nell’insieme dell’individualità hanno tutto sommato un ruolo di «essenza» e di «sostanza» nei confronti l’una dell’altra. In ogni caso, quando l’essere si sia affrancato dalla condizione individuale, si può dire che egli sia con ciò stesso «al di là del nome e della forma», giacché questi due termini complementari sono propriamente costitutivi dell’individualità in quanto tale; ciò che si deve ben comprendere, allora, è che questa è la situazione di un essere che sia passato a uno stato sovraindividuale, giacché, in un altro stato individuale, quindi ancora «formale», esso ritroverebbe necessariamente l’equivalente di nâma e di rûpa, anche se la «forma» non sarebbe più, in tal caso, corporea com’essa è nello stato umano.
Occorre tuttavia dire, inoltre, che nâma è passibile di una certa trasposizione, in virtù della quale non è più il correlativo di rûpa; ciò si vede in particolare quando si trova detto che quel che permane quando un uomo muore è nâma[3]. Vero è che si potrebbe a tutta prima pensare che si tratti soltanto dei prolungamenti extracorporei dell’individualità umana; questo modo di vedere è del resto accettabile, in un certo senso, in quanto rûpa sia identificato al corpo; in questo caso non si tratterebbe però di una vera trasposizione, e la parte sottile dell’individualità continuerebbe semplicemente a essere indicata come nâma anche dopo la scomparsa della parte corporea. Così potrebbe essere, anche, quando tale nâma sia detto essere «senza fine», potendo ciò intendersi unicamente con riferimento alla perpetuità ciclica; un qualsiasi ciclo può infatti essere detto «senza fine» nel senso che la sua fine si congiunge analogicamente con il suo principio, come si vede in particolare nell’esempio del ciclo annuale (samvatsara)[4]. Però le cose non stanno più così, di tutta evidenza, quando sia precisato che l’essere che permane come nâma sia passato nel mondo dei dêva[5], vale a dire in uno stato «angelico» o sovraindividuale; essendo tale stato «informale», non si può più parlare di rûpa, mentre nâma è trasposto in un senso superiore, cosa che è possibile in virtù del carattere sovrasensibile che è ad esso attribuito pur nella sua accezione ordinaria e individuale; in tal caso, l’essere è ancora «al di là della forma», ma non sarebbe anche «al di là del nome» se non nel caso che esso sia giunto allo stato incondizionato, e non soltanto a uno stato che, per quanto elevato, appartenga ancora alla sfera dell’esistenza manifestata. Possiamo far notare che senza dubbio questo significa, nelle dottrine teologiche occidentali, la concezione secondo cui la natura angelica (dêvatwa) è una «forma» pura (espressione che in sanscrito potrebbe esser resa con shuddha-nâma), ovverosia non unita a una «materia»; in effetti, tenendo conto delle particolarità del linguaggio scolastico da noi prima segnalate, ciò equivale esattamente a dire che si tratta di quello che è da noi denominato uno stato «informale»[6].
In simile trasposizione, nâma equivale ancora al greco eidos, inteso però questa volta in senso platonico più che in senso aristotelico: si tratta dell’«idea», non nell’accezione psicologica e «soggettiva» attribuitale dal moderni, ma nel senso trascendente di «archetipo», intesa cioè come realtà del «mondo intelligibile», e di cui il «mondo sensibile» offre soltanto un riflesso o un’ombra[7]; del resto, seguendo questa interpretazione, si può assumere qui che il «mondo sensibile» rappresenti simbolicamente l’intero dominio della manifestazione formale, e il «mondo intelligibile» sia allora il mondo della manifestazione informale, vale a dire il mondo dei dêva. In questo stesso modo bisogna intendere l’applicazione del termine nâma al modello «ideale» che l’artista deve dapprima contemplare interiormente, e seguendo il quale realizza poi la propria opera in forma sensibile, forma sensibile che è propriamente rûpa, per modo che, quando l’«idea» abbia così «preso corpo» l’opera d’arte può essere considerata, proprio alla stregua dell’essere individuale, una combinazione di nâma e di rûpa[8]. Si è così di fronte, per così dire, a una «discesa» (avatarana) dell’«idea» nella sfera del formale; non, ovviamente, che l’«idea» sia da ciò «modificata» in se stessa, bensì, piuttosto, essa si riflette in una determinata forma sensibile, la quale procede da essa e alla quale essa dà in certo qual modo la vita; si potrebbe anche dire, a tal proposito, che l’«idea» in sé corrisponde allo «spirito», e che il suo aspetto che «prende corpo» corrisponde all’«anima». Tale assimilazione con l’opera d’arte permette di capire in modo ancor più preciso la vera natura del rapporto esistente tra l’«archetipo» e l’individuo e, di conseguenza, la vera natura del rapporto che c’è tra i due significati del termine nâma a seconda che esso sia applicato nella sfera «angelica» o in quella umana, ovverosia a seconda che esso indichi, da un lato il principio informale o «spirituale» dell’essere, che può esser detto anche la sua pura «essenza», e dall’altro la parte «sottile» dell’individualità, la quale è «essenza» solo in un senso del tutto relativo e in rapporto alla sua parte corporea, ma che, a tale titolo, rappresenta l’«essenza» nella sfera individuale e può perciò essere considerata come un riflesso, in essa, della vera «essenza» trascendente.
Resta ora da spiegare il simbolismo inerente ai termini stessi nâma e rûpa, simbolismo che permette di passare dal loro significato letterale, ossia dall’accezione che ne fa gli equivalenti dei termini «nome» e «forma» alle applicazioni che abbiamo esaminato poco fa. A prima vista il rapporto può sembrare più evidente per la «forma» che non per il «nome», forse perché in fin dei conti non usciamo dalla sfera del sensibile, sfera alla quale si riferisce in modo diretto il senso abituale delle parole; per lo meno, così è nel caso dell’esistenza umana; se si trattasse di un altro stato individuale sarebbe in ogni caso sufficiente tener conto che deve necessariamente esserci una certa corrispondenza tra la costituzione dell’essere manifestato in tale stato e quella dell’individuo umano, per la buona ragione che si tratta pur sempre di uno stato «formale». Per ben capire il vero significato di nâma occorre invece far ricorso a nozioni meno comunemente diffuse, e bisogna innanzi tutto ricordarsi che, come abbiamo già spiegato in altra occasione, il «nome» di un essere, quand’anche inteso letteralmente, è di fatto un’espressione della sua «essenza»; esso è del resto un «nome» che è nel contempo un «numero» nel senso pitagorico e kabbalistico, ed è risaputo che, anche sotto il semplice profilo della filiazione storica, la concezione dell’«idea» platonica, di cui parlavamo prima, si ricollega in modo diretto a quella del «numero» pitagorico.
Ma non è tutto: è importante far rilevare anche che il «nome», in senso letterale, è propriamente un suono, quindi appartiene al campo dell’audizione, mentre la «forma» appartiene a quello della visione; l’«occhio» (o la vista) è in questo caso assunto come simbolo dell’esperienza sensibile, mentre l’«orecchio» (o l’udito) è assunto come simbolo dell’intelletto «angelico» o intuitivo[9]; ed è in tal modo, parimenti, che la «rivelazione», ovvero l’intuizione diretta delle verità intelligibili, viene rappresentata come un’«audizione» (da cui la significazione tradizionale del termine shruti)[10]. È cosa ovvia che, in se stessi, l’udito e la vista appartengono entrambi alla sfera del sensibile; ma quanto alla loro trasposizione simbolica, allorché essi sono in questo modo messi in relazione l’uno con l’altra, vi è da tener conto, tra di loro, di una certa gerarchia, la quale trae la sua origine dall’ordine di sviluppo degli elementi, e, di conseguenza, delle qualità sensibili che ad essi rispettivamente si riferiscono. La qualità auditiva, che si riconduce all’etere ‑ il primo degli elementi ‑, è più «primordiale» della qualità visiva, che si riconduce al fuoco; e da questo si può vedere come il significato del termine nâma si ricolleghi in maniera diretta a idee tradizionali che nella dottrina indù posseggono un carattere veramente fondamentale, intendiamo riferirci all’idea della «primordialità del suono» e a quella della «perpetuità del Vêda».



[1] Pubblicato in «Études Traditionnelles», marzo 1940. [N.d.T.]
[2] In inglese si potrebbe fino a un certo punto evitare l’equivoco mediante la convenzione che si renda lo scolastico «forma» con form e la «forma» in senso abituale con shape; in francese [e in italiano], però, è impossibile trovare due parole che permettano una simile distinzione.
[3] Brihad-Aranyaka Upanishad, III, 2, 12.
[4] Jaiminîya Upanishad Brâhmana, I, 35.
[5] Ibid., III, 9.
[6] Non è tuttavia men vero che la natura angelica, così come tutto ciò che è manifestato, implica necessariamente una mescolanza di «atto» e di «potenza»; sembra che qualcuno abbia accomunato in modo puro e semplice i due termini alla «forma» e alla «materia», le quali in effetti vi corrispondono, ma hanno normalmente un’accezione più limitata; tali differenze di terminologia non hanno mancato di provocare un certo numero di confusioni.
[7] Si ricorderà a tal proposito il simbolismo della caverna di Platone.
[8] Su questo punto, così come su buona parte delle altre considerazioni che esponiamo in questo articolo, si veda A.K. Coomaraswamy, The Part of Art in Indian Life, nella raccolta commemorativa del centenario di Shrî Râmakrishna, The Cultural Heritage of India, vol. III, pagg. 487-513.
[9] Cfr. Brihad-Aranyaka Upanishad, I, 4,17.
[10] È tuttavia opportuno aggiungere che in certi casi la vista e il suo organo possono anche simboleggiare l’intuizione intellettuale (l’«occhio della Conoscenza» nella tradizione indù, ovvero l’«occhio del Cuore» nella tradizione islamica); si tratta però allora di un altro aspetto del simbolismo della luce, e di conseguenza della «visibilità», diverso da quello che dobbiamo esaminare ora, poiché in quest’ultimo intervengono soprattutto i rapporti della vista e dell’udito, o delle qualità sensibili corrispondenti; è necessario ricordarsi sempre che il simbolismo tradizionale non è mai «sistematico».

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