"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 27 settembre 2020

Gian Giuseppe Filippi, A proposito di un’alleanza anomala

Gian Giuseppe Filippi
A proposito di un’alleanza anomala

Ha del prodigioso come la comparsa di un Sito che illustra la dottrina della non dualità abbia avuto l’effetto istintivo, presso alcuni ambienti dell’esoterismo italico, di appianare le rivalità tra gruppetti “tradizionali” finora avversi e in concorrenza tra loro. 
La collusione davanti a quello che hanno recepito come un pericolo, ha messo in oblio tutte le antiche differenze. La Rivista di Torino, che non ha mai brillato per produzione di contributi particolarmente elevati, oggi, in evidente difficoltà a mantenere unito il suo gregge, ha chiesto l’ausilio di Alberto Ventura. Questa volta un accademico non è più trattato con l’aduso disprezzo riservato finora agli universitari. Il curatore multi-firme della Rivista si compiace, anzi, a rendere noto ai suoi lettori che Ventura è autore di numerosi testi sull’esoterismo islamico. E noi, da parte nostra, non possiamo che confermare questa informazione riguardante il nostro collega. Infatti ci è gradito ricordare ai medesimi lettori il suo Il crocifisso dell'Islam. Al-Hallaj, storia di un mistico del IX secolo, come anche I segreti dei fiori e degli uccelli. Le allegorie mistiche di un maestro sufi del XIII secolo. Non si devono nemmeno dimenticare altri libri tradizionali, sebbene di portata più religiosa, scritti in collaborazione con un celebre “esperto di taṣawwuf”, il prof. Khaled Fouad Allam. Il sig. Masetto ci informa, inoltre, che la competenza del suo illustre ospite “si estende non soltanto alla tradizione islamica ma anche a quella indù”. Questo non lo sapevamo, ma deve essere vero, giacché Ventura è autore anche di un libro intitolato Lo Yoga dell’Islam.
Ci sia consentita questa parentesi sorridente per compensare alla deprimente lettura dell’articolo “Su una interpretazione del Vedânta e il «ridimensionamento» dell’esoterismo islamico”; articolo scritto in stile giornalistico, con un tono moralistico che nasconde messaggi velenosi ad personas, in particolare di Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī e mia; articolo che Masetto impudentemente definisce obiettivo ed equilibrato. Evidentemente il factotum della Rivista ha una interpretazione assai personale dei termini che usa.
Ci si può chiedere ancora che cos’hanno in comune l’ambiente della Rivista con Ventura. Ventura, almeno, una iniziazione regolare l’ha ricevuta quand’era giovanetto, essendo avvenuta davanti ai nostri stessi occhi. Che cosa ne abbia fatto poi, in epoche successive, sono affari suoi. Lungi da screditare la persona degli avversari per evitare di affrontarli sulla dottrina che, come vedremo di seguito, è suo stile insinuante e comportamento sfacciato della sua corte dei miracoli di “Scienza inferiore”, della sua vita privata, anche se nota, non ci interessa proprio nulla.
La collusione tra maridortiani e Ventura non può dipendere nemmeno dalla comune adesione alla massoneria, essendo l’affiliazione Atanòr-massonica di Ventura non compatibile con quella rigorosamente guénoniana prescritta dalla Rivista. E la convergenza non può dipendere nemmeno dalla fratellanza sharaitica, poiché per molti lustri hanno evitato di frequentarsi guardandosi in cagnesco.
Ma c’è di più: in una recensione malevola a firma di Masetto, apparsa sullo stesso numero della Rivista di Torino, si cita, evidentemente approvandolo, un brano sgangherato tratto da Cahiers de l’Unité (nn. 12-13), a firma di tale Breq, vâlsaniano e fiero avversatore di Maridort, che qui riassumiamo fedelmente: nel brano si citano alcuni quaderni del giovane Guénon su cui si troverebbe la trascrizione in sanscrito (?) di certe Upaniṣad, accompagnate ogni tanto dalla traduzione inglese pubblicata nei Sacred Books of the East. Seguirebbero poi molti testi vedāntini (quest’ultima parola è rigorosamente scritta “vêdântini”, con i circonflessi anche in italiano per non discostarsi nemmeno in questo dalla traslitterazione francese scelta da Guénon) che si riferiscono ai Sūtra (quali? I Brahma Sūtra?), un altro documento che stabilisce le corrispondenze esistenti fra adhikaraṇa (quali?) e Sūtra (Brahma Sūtra?, insomma un semplice indice degli argomenti?); un altro documento è costituito da un indice di 347 termini tecnici provenienti dai Vedānta Sūtra (che è soltanto un altro titolo per Brahma Sūtra), con la loro traduzione in inglese (evidentemente copiata dalla versione di Thibaut, aggiungiamo noi); e ancora, la versione integrale dei Brahma Sūtra, di cui, in 44 pagine, Guénon dà la versione integrale secondo Śaṃkara, in sanscrito e in inglese (44 pagine! Evidentemente Guénon usava un tipo di super-stenografia!); appunti sulle differenze tra Śaṃkara e Rāmānuja, più quattro quaderni contenenti 689 articoli (?) di nomi propri, di titoli di opere tradizionali ecc.
Appare evidente che, secondo l’autore dell’articolo di Cahier de l’Unité, questo elenco di esercizi scolastici starebbe a prova che Guénon apprese le dottrine indù e più particolarmente gli insegnamenti metafisici e iniziatici di Śaṃkarācārya, per trasmissione diretta e orale, presso dei rappresentanti dell’advaita Vedānta ricollegati effettivamente alla (sic.) sampradāya del più grande dei Maestri indù (titolo inesistente, evidentemente ricalcato su quello di Ibn ‘Arabi), via tradizionale che privilegia il punto di vista śaiva (altro mito dei post-guénoniani, lo scivaismo di Śaṃkara!). Citazione finale: “Appoggiandoci sempre sui testi in questione, abbiamo anche potuto determinare che fu al più tardi all’inizio dell’anno 1906 che egli fu autorizzato ad esercitare la funzione di insegnamento”. Masetto fa suo tutto questo insieme di corbellerie, inghiottendo il rospo di un magistero attribuito a Guénon, da lui sempre negato, e addirittura vedāntico!
Perché questa citazione data come realistica? Ma è chiaro: vâlsaniani, maridortiani, Ventura… Tutti a difendere l’Advaita guénoniano. Ma non sono tutti grandi iniziati al Taṣawwuf e alla Massoneria? Cosa importa loro del Vedānta che hanno scartato nella loro scelta di vita perché ritenuto inaccessibile?
Palesemente si tratta di una mobilitazione contro il Vedānta esposto dal Sito Veda Vyāsa Maṇḍala. Quello che si trova nelle Upaniṣad, nei Bhāṣya di Śaṃkara, negli insegnamenti orali di guru viventi. Un Vedānta che osa non essere filtrato dai libri di Guénon, che si permette di essere attinto direttamente alla fonte, che ha l’ardire di esporre, per quanto possibile, il metodo della conoscenza di cui in Guénon non c’è traccia.
Stiamo a vedere chi ancora si unirà a questa grande ammucchiata. Confidiamo non le rare persone che, partendo dagli indispensabili libri di Guénon, sono stati poi iniziati in autentiche turuq a cui si rifanno anche dottrinalmente, mantenendo la mente aperta e puntata alla meta. Ma sono davvero rare.
Due parole sulla verminosa tattica della calunnia metodica usata nell’articolo di Ventura e dalla corte dei miracoli della pagina FB di cui sopra. Non è nostra intenzione rintuzzare gli strali grossolani diretti alla nostra persona. Non siamo particolarmente affezionati a essa. La cosa perciò non ci tocca, non ci offende; può offendere solamente l’intelligenza di chi legge e per la stessa immagine di chi ne è l’autore. In ambito accademico la calunnia e la diffamazione possono talvolta essere utili per fare carriera, ma nell’ambito tradizionale rappresentano il marchio di una mente impura.
Diversamente, restiamo increduli per l’uso della diffamazione nei confronti di un saṃnyāsin paramahaṃsa, un guru noto in tutta l’India per la sua sapienza, regolarmente iniziato fin dalla giovinezza all’advaita vicāra, riconosciuto come l’incorporazione del Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (dehin) dai Jagadguru di Śṛṅgerī e Kāṅchī, punto di riferimento dottrinale in tutti gli altri Śaṃkara Pīṭham. Paramapūjya Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī ha avuto il merito di intervenire su un equivoco dottrinale che si trascinava da alcuni secoli a margine di certe paramparā dell’advaita, demolendo la dottrina errata della mūlāvidyā. Di che cosa si tratta? Una nostra collaboratrice ha curato l’edizione italiana, comparsa anche per Ekatos Ed. Pr., di un libro di Svāmījī sull’argomento: L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’avidyā. Il testo non è semplice né leggero; siamo consapevoli che le persone che non sono interessate all’argomento o che semplicemente non lo capiscono, possano fare a meno di leggerlo. Ma se lo si vuole criticare ci si deve applicare. Veniamo, tuttavia, in soccorso di chi ha voluto criticarlo senza sapere di cosa si tratta. Saremo semplicissimi, in modo che anche i cocci possano intendere. Tre testi antichi di Vedānta (Pañcapādika, Bhāmatī e Vivaraṇa), cercando di spiegare alcuni passaggi del Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, hanno fatto alcune affermazioni espresse in forma ambigua. Questi passaggi poco chiari, che invece nel Śaṃkara Bhāṣya erano chiarissimi, sono stati in seguito interpretati da alcuni discepoli dell’Advaita in modo distorto. Costoro cosa hanno affermato? Che l’ignoranza di cui l’individuo è affetto, non è una falsa conoscenza o una sbagliata immaginazione della mente, ma è l’effetto di una sostanza eterna coesistente con il Brahman Supremo. Hanno chiamato questa sostanza mūlāvidyā, la radice dell’ignoranza. Poiché di una sostanza si tratta, e non di un abbaglio, essa deve essere distrutta, demolita, smantellata. Solo facendo così si farebbe scomparire di conseguenza anche l’avidyā. L’Advaita, al contrario, insegna che l’ignoranza non è una sostanza, ma è conoscenza errata. Basta correggere il punto di vista, basta riconoscere l’errore e avidyā se ne va. Si riconosce che l’ignoranza non c’era prima né dopo, che non c’è mai stata. Questa è la via della conoscenza, jñāna mārga. Quando si riconosce la corda si capisce che il serpente non c’è mai stato: era solo conoscenza errata. Ma se si sostiene che la mūlāvidyā è una sostanza reale, per rimuoverla bisogna distruggerla. Perciò i mūlāvidyāvādin considerano che la conoscenza è solo propedeutica, è teorica, è virtuale. Per distruggere l’ignoranza si deve agire: yantra, mantra, tantra. Come si fa per distruggere un vaso: si deve agire per mezzo di un martello. Questa non è la via della conoscenza, ma dell’azione (karma mārga). E, poiché con l’azione non ci si libera dal dominio dell’azione, una simile via iniziatica sarà limitata al karma kāṇḍa, alla conoscenza del non-Supremo. Gli advaitin che si sono fatti influenzare dalla teoria della mūlāvidyā riducono il Vedānta a una via dell’azione. Questo è l’importante chiarimento che ha operato Svāmī Satchidānandendra Mahārāja.
Invece, prosegue colui la cui competenza “si estende non soltanto alla tradizione islamica ma anche a quella indù”, questa sarebbe una innovazione, una “recisa contestazione di interpretazioni vedāntiche diverse dalla propria”, che “manifesta a tratti un certo esclusivismo”. Evidentemente, secondo Ventura, contro l’errore non si deve essere troppo esclusivisti. Infatti egli aggiunge che “non bisogna dimenticare che, nella metafisica tradizionale, a questo punto di vista che potremmo definire per semplicità come «radicale» si sono sempre affiancate prospettive diverse, per le quali la realizzazione può dirsi completa solo quando in essa siano compresi al tempo stesso il manifestato e il non-manifestato, il suono e il silenzio, il non-Supremo e il Supremo.” Così Ventura ci “insegna” che, accanto alla prospettiva non-duale si sono sempre affiancate prospettive “metafisiche” diverse…
Il fatto è che quella non duale non è una prospettiva, è la Realtà. Tutte le altre prospettive (queste sì sono solo prospettive!), che il nostro oppositore pretende di affiancare alla dottrina non duale, sono semplicemente diverse vie della conoscenza non-suprema. Questo grave fraintendimento difficilmente può accadere nell’ambito del sanātana dharma, perché in esso vi sono ben distinti il jñāna kāṇḍa e il karma kāṇḍa, il nivṛtti dharma e il pravṛtti dharma. E perciò è difficile fare confusione tra l’ambito della conoscenza e quello dell’azione. E quando un simile fraintendimento sorge e si propaga vi è sempre un guru, un ācārya, un saṃnyāsin che rimette le cose a posto. Purtroppo, invece, questa confusione è diffusa tra gli esoteristi occidentali per l’assenza tra di loro di un’autentica autorità tradizionale qualificata a illustrare la metafisica; nonché per il protervo rifiuto di riconoscerla presso le tradizioni in cui è vivente. Perciò non appena si alza una voce dissonante si assiste all’alzata di scudi come quella in esame. La prova di tale inveterata confusione ce la fornisce lo stesso Alberto Ventura proprio quando afferma che “la realizzazione può dirsi realmente completa solo quando in essa siano compresi al tempo stesso il manifestato e il non-manifestato, il suono e il silenzio, il non-Supremo e il Supremo”. Questa, miei cari lettori dotati del ben dell’intelletto, non ha nulla a che fare con la realizzazione suprema, la mukhya mukti, che non può essere completa o incompleta, ma semplicemente essere: quella descritta da Ventura è una semplice via di reintegrazione, quella che erroneamente si suole chiamare “piccoli misteri” (altrove abbiamo spiegato che anche i grandi misteri eleusini si basavano sui riti, perfino collettivi, e che perciò non possono rappresentare la via della conoscenza. Lo abbiamo già spiegato abbondantemente altrove). Sappiamo di sprecare tempo, ma correggere l’errore è un dovere per tutti gli advaitin. La correzione, poi, potrà essere utile per pochi e motivo di ulteriore scandalo per i più. Ma ciò è del tutto indifferente. L’errore va denunciato e spiegato. Poi ognuno è libero di trovarcisi bene e rimanere in esso.
Vediamo gli errori della citazione appena prodotta: manifestato e non-manifestato (vyakta avyakta) nelle Upaniṣad, vale a dire nel Vedānta, non significa mai quello che pensano i nostri coalizzati oppositori. Vyakta significa manifesto perché presente, come è il mondo della veglia per chi è sveglio. Avyakta significa non manifesto, come è il sogno per chi è in veglia. E viceversa se si assume l’ottica dello stato di sogno. Così suono e silenzio non sono in opposizione tra loro, perché sono di natura diversa. Il silenzio è libertà sia dal suono, che è vyakta, sia dal non suono, che è avyakta. Per esempio: io posso pensare al suono che è vyakta, ma questo suono non è udibile, è un non-suono perché è un pensiero, è avyakta. Il silenzio è al di là di entrambi. Il silenzio è l’Assoluto. Rispetto alle prime due che riguardano entrambe la relazione vyaktāvyakta, l’ultima affermazione, evidentemente, si situa a un altro ordine di realtà, o meglio alla Realtà stessa. Così l’intero mondo quando è proiettato è vyakta, e quando non è proiettato è avyakta. Avyakta, applicato alla sua massima estensione è māyā e non può dunque designare il Supremo: “La natura di questa māyā è conosciuta in quanto è la sua proiezione come limitazione aggiuntiva (upādhi) sul Brahman, che allora appare come se fosse la causa del nome e della forma” (Muṇḍaka Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya, II.1.2). Nome e forma, dunque sono una proiezione mentale sul Supremo, l’unico informale, (arūpin), prodotta dall’ignoranza, che induce ad attribuirgli la forma di “creatore”. Il non-Supremo è dunque la forma che la mente attribuisce al Supremo per poterlo menzionare, argomentare su di lui, rivolgergli rituali o meditare su di esso. Essendo una forma proiettata dalla mente, una creazione dell’immaginazione individuale, una proiezione sulla realtà dell’Assoluto per poterselo figurare, il non-Supremo è una forma prodotta della māyā. Come tale è non reale, è asat è un effetto dell’ignoranza: “Come i fiumi gettandosi nel mare diventano indistinguibili da esso perdendo i loro nomi e forme, così anche il sapiente, quando si libera da nome e forma, raggiunge l’autoluminoso Puruṣa superiore a ciò che è (ritenuto) superiore (la māyā). (Muṇḍaka Upaniṣad, III.2.8). Poiché ci sono ostinati sostenitori dell’esistenza positiva di una “manifestazione informale”, ritorneremo più avanti sul tema, certi, nondimeno di parlare al vento. La fede è così potente da far muovere le montagne e da far credere a qualcosa che pur essendo manifestato sia anche privo di forma.
Questi sono i gravi errori di chi immagina ci siano punti di vista diversi per affrontare la metafisica, di chi sostiene che l’Assoluto comprenda distinzioni varie, presenza-assenza, coesistenza di Supremo e non-Supremo, essere e non-essere, possibilità ecc. Questa impostazione semplicemente dimostra che non si capisce cosa significhi non dualità: tale prospettiva fa parte dell’errore della mūlāvidyā, anche senza saperlo. Chi prende posizione contro la dottrina tradizionale advitīya insegnata dai veri maestri di Vedānta, proprio quella definita «radicale», e assume un atteggiamento che varia dalla presuntuosa gravità alla sufficienza, ne otterrà la ricaduta degli effetti corrispondenti; quelli che il Vedānta chiama adṛṣṭa phala e che la Pūrva Mīmāṃsā definisce apūrva. Perché anche l’atteggiamento, il pensiero e la parola sono karma e quindi, prima o poi, daranno i loro frutti.
Certo, tutto questo, per chi di Vedānta è totalmente digiuno, appare “strano” “sui generis”, “un’interpretazione”, “qualcosa di inedito”, come si sono espressi i nostri oppositori nei confronti della dottrina che abbiamo appreso dai nostri maestri e riportato sul Sito e nei nostri libri. Se ne facciano una ragione: l’Advaita Vedānta è così. La loro reazione di sconcerto è comprensibile, perché pensarla in un determinato modo produce dei saṃskāra mentali che, alla lunga, diventano come una seconda natura (dvitīyaka svabhāva). Una mente elastica, libera da pregiudizi e intellettualmente qualificata, con la riflessione sulla realtà si libera facilmente di quei saṃskāra. Ma quando quelle impressioni mentali si sono sclerotizzate nel tempo, allora è assai duro rimuoverle. C’è anche chi ci si trova a suo agio. Se ne trae soddisfazione, rimanga pure lì: ma non giochi a fare il “metafisico” e, soprattutto non pretenda di dare lezioni su quanto non conosce.
Ma andiamo per ordine. Fin dall’apertura l’articolo gioca sull’equivoco. Nessuno dei collaboratori di Veda Vyāsa Maṇḍala ha mai disconosciuto la tradizionalità (non “la legittimità”, che è espressione adatta all’esteriore) dell’esoterismo islamico, tanto meno ha condannato in blocco la forma tradizionale islamica (non la civiltà, che è un concetto profano). Si è soltanto constatato il grave collasso dell’islam contemporaneo nel suo insieme, impensabile e inaspettato fino alla metà del secolo scorso. Questo fenomeno ha innegabilmente coinvolto anche l’ambiente umano dell’esoterismo islamico. Ventura ha perfettamente ragione a rilevare che i nostri bersagli preferiti “sono tutti coloro che avrebbero monopolizzato l’insegnamento di René Guénon, indirizzandolo ad esclusivo vantaggio dell’Islam a scapito della tradizione indù”. Ma, poiché anch’egli si colloca tra “tutti coloro”, s’affretta ad aggiungere: “Già il semplice fatto di supporre una rivalità così priva di senso fra due diversi orientamenti tradizionali dovrebbe essere sufficiente a screditare una simile opinione ecc.” (Poi si contraddice, ammettendo, a pag. 58, che nel caso di Vâlsan la freccia aveva colpito il bersaglio, scaricando così sul solo povero muqaddam ribelle di Schuon tutte le responsabilità di aver “monopolizzato l’insegnamento di René Guénon, indirizzandolo ad esclusivo vantaggio dell’Islam a scapito della tradizione indù”).
Di fatto non c’è mai stata alcuna rivalità così insensata: non c’è stata tra gli invasori arabi, turchi, mongoli, persiani da una parte e l’induismo dall’altra. C’è stata soltanto una plurisecolare, continua, rovinosa e crudele aggressione monodirezionale che prosegue ancora nella sua moderna forma pakistana. Ma se la rivalità di cui parla l’oppositore si riferisce al più ristretto ambito dei gruppuscoli post-guénoniani, vorrei richiamare la sua attenzione che tutto partì dalle sciocche affermazioni di Frithjof Schuon sull’induismo che spinsero Guénon a scrivere imprudentemente l’abusato articolo I misteri della lettera Nûn (rimandiamo all’esaustivo studio del sig. Enzo Cosma su tale argomento, apparso sul blog “Scienza sacra”. Qualche buontempone ha anche insinuato che quello fosse un mio pseudonimo!). Lo stesso articolo ha poi dato lo spunto a Michel Vâlsan per altre distorsioni mirate all’islamizzazione dell’India. Infine, quando è apparso Veda Vyāsa Maṇḍala, la Rivista e la sua più puntuale costola FB dei torinesi hanno subito esumato la menzogna che tiene uniti i circoli esoterici occidentali circa l’impossibilità dell’iniziazione per chi non è hindū dalla nascita o non appartiene a una qualche casta. Schuoniani, vâlsaniani, maridortiani, tutti solidali per difendere l’ineluttabilità della scelta sufica. E nulla è valso che avessimo pubblicato smentite basate sulla scrittura e confermate dai Jagadguru. È ferma convinzione comune in questi ambienti di sufi fai-da-te di saperne ben di più dei testi sacri dell’India, di Śaṃkara e di ogni ācārya risalente alla sua paramparā. A questo punto, quale opinione appare davvero screditante? Infine, con il vittimismo tipico della mentalità monoteistica, rovesciano l’evidenza e osano dichiarare di essere loro gli aggrediti.
La verità che tutti intuiscono, perfino i nostri più o meno gentili contraddittori, ma che nessuno vuole ammettere, è la seguente: tutti, dopo la lettura di Guénon, hanno sognato di entrare nel Vedānta. Quello è stato il primo amore di tutti. Poi hanno ripiegato sul taṣawwuf, condizionati dalla menzogna che i falsi shuyukh hanno fatto girare. Scoprire, dopo decenni, che invece era possibile, è un boccone troppo amaro: meglio, dunque, negare questa possibilità e rimanere nella propria aurea mediocritas. Difficile cambiare le abitudini dopo così tanto tempo; ne hanno tutto il diritto. Ma non è lecito che inveiscano contro chi, invece, aspirasse a romperle, le abitudini sedimentate.
Non mi soffermerò a commentare le troppo superficiali critiche mosse al Dr. Jean-Louis Gabin; critiche lievemente edulcorate dal fatto che a questo nostro amico è concesso il riconoscimento d’essere guénoniano. Infatti nulla conta che costui sia da molti lustri discepolo di un Jagadguru, seguendone rigorosamente gli insegnamenti. L’importante, per questa anomala categoria di sostenitori della tradizione, è solo la testimonianza di fede negli scritti di Guénon. Senza tale testimonianza di fede non si è tradizionali. Infatti egli afferma che “chi fa riferimento all’opera di Guénon, anche quando si abbiano differenti opinioni, vi è almeno il terreno comune di una autorità riconosciuta in modo condiviso […] non cercheremo di «dimostrare» qualcosa a chi non ne potrebbe in nessun modo esserne convinto, vista la mancanza di un pur minimo comune denominatore in fatto di autorità tradizionale” (p. 56). Da quanto sopra riportato si ricavano diverse ammissioni. Anzitutto che sono lecite “differenti opinioni” dell’opera di Guénon. Magnifico esempio di linguaggio politico accademico che, esplicitato, vuole semplicemente dire: “Cari maridortiani, cari vâlsaniani, cari altri ancora che potreste unirvi a noi, abbiamo tutti opinioni diverse sull’opera di Guénon; finora ci siamo scannati su quelle differenze; ma ora dobbiamo stringere un patto d’alleanza contro il pericolo advitīya!” Ed è vero che tutti costoro sono accomunati per aver istituzionalizzato come unica autorità tradizionale riconosciuta l’opera, cioè gli scritti, di René Guénon. Non sono colti mai dal dubbio che l’autorità tradizionale è per forza di cose esercitata e riconosciuta nell’ambiente di riferimento e, se iniziatica, deve soprattutto poter essere trasmessa personalmente. Abbiamo perfino letto, in uno dei tanti deliranti attacchi che ci sono stati indirizzati, che lo Shaykh at-Tadili ingiungeva la lettura di Guénon ai suoi discepoli europei. Come si può essere tanto creduli? Un noto maestro di taṣawwuf non possedeva forse una propria dottrina specificamente correlata al metodo che trasmetteva? Aveva bisogno di richiedere che i suoi discepoli europei fossero edotti sul triplice recinto druidico, sull’Yin-Yang, sul quinto Veda e quant’altro, per poter procedere all’esperienza dei primi aḥwāl? Ma su questo aspetto grottesco del post-guénonismo ritorneremo in chiusura. Quanto al Dr. Gabin, sarà lui stesso a rispondere alle critiche di “pregiudizio” anti islamico, se lo riterrà opportuno o degno di attenzione.
Di seguito, Ventura ci imputa, inoltre, di ignorare le “numerose deviazioni che negli ultimi tempi hanno colpito l’India”. Nulla di più falso. Infatti abbiamo scritto:

Tra le tradizioni viventi rimane ancora da esaminare la condizione in cui versa l’induismo. Certamente, nemmeno in questo caso la situazione è rosea: il regime secularist, indipendentemente da quale partito sia al governo, si dimostra scopertamente avverso alla tradizione. La stessa struttura delle istituzioni statali, nate dalla costituzione gandhiano-nehruviana, ha lavorato per decenni in quella direzione con decisione e astuzia. E ciò accadeva fin da prima che l’India raggiungesse l’agognata indipendenza dal rāj britannico, quando la struttura del nuovo stato si trovava ancora allo stato embrionale sotto tutela coloniale. Sta di fatto che il cosiddetto ceto medio, a lungo preparato in chiave anticastale, ma ora di fatto padrone coloniale dell’India ufficiale contemporanea, è stato allevato nella vergogna della propria tradizione, che gli è stata sempre raffigurata da ogni istituto di formazione e di informazione come “superstiziosa”, “antidemocratica”, “egoista” e “oscurantista”. Un tale condizionamento, usato senza scrupolo alcuno dai rappresentanti indiani pilotati dalla contro-tradizione mondiale, ha pochi esempi storicamente paragonabili e ha creato un’India virtuale, conosciuta e apprezzata soltanto nei circuiti internazionali, ben diversa dall’India reale; quell’India reale che gli occidentali evitano, disprezzano e schifano, senza neppure rendersi conto di esserne essi stessi respinti con repulsione. L’India ufficiale, quella virtuale per intenderci, è un guazzabuglio di tutte le peggiori tendenze della civiltà tecnologica più avanzata. Tra queste tendenze la new age fa da regina: per questo motivo la politica, la finanza, l’industria, il commercio, i media fanno da sostegno alla new age, considerata la nuova “religione” preparata per l’India, ossia il “neo-induismo”, ovviamente “progressista”, “democratico”, “olistico” e “illuminato”. Ciò spiega gli appoggi, i finanziamenti e le coperture che i falsi guru riscuotono presso le strutture pubbliche e private. I media sono poi i diffusori capillari di questa follia e le televisioni sono prese d’assalto da predicatori sciocchi, ignoranti e fanatici che riversano sugli spettatori i loro melensi messaggi d’amore e pace universale, con una originalità che oseremmo definire “californiana”. 

L’altra India è molto più discreta. Anche su questo versante si assiste a una chiusura sempre maggiore, con vie iniziatiche che degenerano con rapidità sia esteriorizzandosi in culti “popolari” sia scomparendo puramente e semplicemente. I guru qualificati non trovano più discepoli o preferiscono interrompere la trasmissione del magistero per indegnità delle nuove generazioni. Quei maestri, che sono tali soltanto di nome, affidano a individui squalificati o addirittura pericolosi la loro virtuale eredità, confluendo, infine, nella deriva new age. Anche in India l’uomo fa fatica a guardare dentro di sé; alcuni sprofondano nell’Acheronte della psicanalisi, altri si rifugiano in un evoluzionismo positivista completamente ottocentesco, ma che essi credono d’avanguardia.” (Il Serpente e la Corda I).

Ma il nostro oppositore non lo sapeva, fingeva di non saperlo o, più semplicemente reiterava l’uso della consueta tecnica per screditarci agli occhi degli ingenui.
Il nostro esperto di Vedānta, però, tra le varie cose, ignora anche che “immaginazione creatrice” (avidyākṛta kalpitam) è un termine tecnico dell’Advaita, per indicare la māyā prodotta dalla fantasia della mente che si proietta sulla Realtà come mondo creato. Egli ignora anche che noi stessi abbiamo stigmatizzato l’uso improprio che ne ha fatto Corbin: “Il fatto che Henri Corbin attribuisca a Ibn ‘Arabi una “immaginazione creatrice” dà la misura della sua comprensione dei “Grandi Misteri”. H. Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme d’Ibn ‘Arabi, Paris, Flammarion, 1977” (Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī, Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta, Aprilia, Novalogos, 2015, p. 12, n. 7). Siamo altresì convinti che Corbin avesse usato erroneamente questo termine per puro caso, senza voler fare alcun riferimento al Vedānta. Invece Ventura, che critica con sufficienza l’uso di “immaginazione creatrice” applicato al Vedānta, solleva a sproposito tale argomento, dimostrando sempre più la sua inadeguatezza.
Un altro punto, anche questo esposto con la usata ambiguità, riguarda l’efficacia della conoscenza quale metodo per la Liberazione. Conoscenza (jñāna) che, non essendo attività conoscitiva (jñāpti, pramā), non dipende dalle limitazioni del nome e della forma, e perciò è immediata, cioè priva di qualsiasi mediazione e istantanea, cioè indipendente dalla condizione temporale, come anche da qualsiasi altra condizione limitativa. “Ora, Guénon non ha mai sostenuto altro” commenta il nostro oppositore: “e cioè che solo la conoscenza è l’unico mezzo di ogni realizzazione, solo che per lui questa conoscenza, inaccessibile in una forma così diretta per la maggior parte degli uomini della nostra Età, può essere notevolmente facilitata da tutta una serie di metodi sussidiari che la preparino gradualmente” (p. 61). Questo sunto che Ventura fa del pensiero di Guénon, appare a prima vista rispondente all’insegnamento del Vedānta, perciò non si coglie subito la critica velenosa che seguirà. È verissimo che la maggior parte degli uomini del kali yuga non è qualificata da una nascita tanto favorevole da poter avere accesso diretto alla conoscenza. Per questa ragione, infatti, è stata approntata una “serie di metodi sussidiari che la preparino gradualmente”. Si spera che con “la preparino” non si alluda alla conoscenza, che non può essere preparata con strumenti sussidiari, ma che si riferisca a la maggior parte degli uomini della nostra Età”, il che è verissimo, soprattutto in Occidente. Infatti la preparazione della maggioranza degli uomini scarsamente qualificati del kali yuga consiste in quella che il Vedānta chiama purificazione della mente; cioè l’ottenimento della qualificazione che la sola nascita umana non aveva soddisfatto. Trattasi cioè delle vie del non-Supremo che rappresentano non esattamente “una serie di metodi sussidiari” quanto piuttosto di metodi preliminari. Cioè preparatori, basati sull’azione sempre più pura, fino a raggiungere il massimo grado possibile di sattvātman. Ma sempre di azione si tratta. Solamente dopo la purificazione della mente è possibile accedere alla conoscenza con rinuncia al karma. Il termine “sussidiario” allude a qualcosa che aiuta la conoscenza, che è un’idea da respingere: la conoscenza non ha bisogno di aiuti.
Arriviamo dunque alla conclusione velenosa preparata da Ventura in coda al suo sunto del pensiero di Guénon: “Lo stesso metodo «diretto» (si notino i caporali che insinuano il dubbio) propugnato da Satchidanandendra Saraswatī (niente Svāmī, orsù, siamo democratici!) implica peraltro che nelle sue tre articolazioni – shravana (l’ascolto), manana (la riflessione) e nididhyāsana (l’attenzione contemplativa) – si debbano utilizzare tali strumenti conoscitivi in maniera ripetuta, fino a che uno o più di essi non abbiano procurato l’illuminazione finale. Dunque, anche in questo caso si tratta di mezzi, certamente più immediati e meno graduali dei metodi consueti, ma nondimeno appartenenti al dominio dell’azione; e non si capisce perché nel loro caso tale azione risulterebbe diversa da quella che si svolge attraverso fasi o tappe progressive” (p. 61). Con l’ammissione “non si capisce perché” si dimostra ulteriormente l’incapacità del nostro oppositore di capire cosa sia la conoscenza pura, la vera conoscenza metafisica; Śrī Sūreśvarācārya infatti descriveva in questo modo coloro che dimostravano tale incapacità:

In conclusione, alcuni, in base alla loro scuola, proclamano che questa conoscenza del mahāvākya “Io sono Brahman”, che s’ottiene dall’ascolto del testo vedāntico, all’inizio non rimuove del tutto l’ignoranza, ma, meditando giorno dopo giorno per un lungo periodo su questo [mahāvākya], si elimina tutta l’ignoranza senza che ne rimanga alcun residuo, come risultato dell’accumulo di un intenso sentimento, perché, come dice la śruti: «Si diventa un Dio e si è allora annoverati tra gli Dei.»” (Sūreśvara, Naiśkarmyasiddhi, I.67).

Vediamo dunque cosa dice il Vedānta vero, quello non modificato ad arte, della vera conoscenza immediata e istantanea:

La ripetizione di mantra può essere usata nel caso della meditazione che deve produrre dei risultati, in quanto è possibile che una certa intensità, con la pratica della ripetizione, possa produrre tali effetti. Ma nel caso della conoscenza del Supremo Brahman, che rivela che il Brahman è proprio il Sé del cercatore, eternamente puro, cosciente e libero, a quale scopo servirebbe la sua ripetizione? […] Se si dice che la conoscenza dell’identità di Brahman e Ātman non nasce ascoltando l’insegnamento soltanto una volta e perciò la sua meditazione ripetuta deve considerarsi necessaria, noi replichiamo che questo non può essere; perché non è concepibile che si ottenga un risultato nel caso della ripetizione. [Per intenderci,] se ascoltare una sola volta l’insegnamento vedāntico, come per esempio “tu sei Quello” non produce la conoscenza dell’identità di Brahman e Ātman, non c’è alcuna speranza che lo stesso mahāvākya, ascoltato ripetutamente, possa produrre quella conoscenza” (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya IV.1.2).

E in perfetta linea con il fondatore della sua linea iniziatica Svāmī Satcidānandendra Mahārāja aggiunge: “La ripetizione di śravaṇa e di manana è necessaria per coloro che non hanno compreso il significato di quei termini” (Dottrina e Metodo, cit. p. 154).
Non ci soffermiamo sull’osservazione riguardante il fatto che śravaṇa, manana e nididhyāsana siano azioni mentali (mānasa kriyā) perché ciò comporterebbe una serie di nozioni metodiche complesse che il nostro contraddittore non conosce. Basterà dire che śravaṇa, manana e nididhyāsana sono azioni che non producono effetto, perciò non sono propriamente parte del karma. Infatti servono per riconoscere che l’apparenza, l’ignoranza, la sovrapposizione non esistono. Riconoscere l’illusorietà non è azione, né è un risultato dell’azione. È conoscenza.
Tuttavia ci si consenta una ultima osservazione su questo argomento: yantra, mantra e upāsanā sono tre strumenti del metodo usato nelle vie della conoscenza del non-Supremo. Quelle tecniche favoriscono l’ottenimento di stati, gradi o, se si preferisce il raggiungimento di tappe, stazioni, lungo il percorso di reintegrazione dell’individuo e del suo avvicinamento al proprio Dio (iṣṭadevatā). Sono questi ottenimenti a essere le “fasi o tappe progressive” di cui parla Ventura, e non i differenti yantra, mantra e upāsanā usati per raggiungerle. Ovviamente non è detto che un sādhaka di una via karmica li debba usare tutti simultaneamente o in successione; ciò dipenderà dalle ingiunzioni che gli darà il suo maestro. Analogamente, nella via della conoscenza del Supremo śravaṇa, manana e nididhyāsana sono strumenti per il Vedānta vicāra. Queste tecniche favoriscono il superamento dell’ignoranza, trascesa la quale emerge la Libertà totale della propria natura di Brahmātman, il mokṣa. Śravaṇa, manana e nididhyāsana possono essere usati tutti e tre simultaneamente o in successione, a seconda del consiglio personale del guru e delle qualifiche del discepolo. È mortificante che dopo decenni di pratica ci sia ancora chi confonde gli strumenti del metodo con le possibili tappe raggiunte con la sua applicazione!
Quanto all’affermazione che l’esoterismo islamico si propone di rimuovere il falso per fare apparire il vero, è cosa buona e giusta. Lo affermano tutte le tradizioni, a forma religiosa o no, anche nel dominio più esteriore. Il punto cruciale è che quel “vero” da scoprire “sono Io”, non è altro da me: questo Ātman è Brahman (ayam Ātmā Brahma), la coscienza è Brahman (prajñānam Brahma), io sono Brahman (aham Brahmāsmi). Questa è la conoscenza, non altro. Ventura cerca di paragonare lo śravaṇa con la pratica islamica del samā‘, solamente sulla base che entrambi significano ascolto (di questo passo s’arriverà a sostenere che la dottrina del Sākṣin è presente anche nel sufismo per il semplice motivo che uno dei novantanove nomi è ash-Shāhid che significa testimone!). Ma il samā‘ è un semplice rituale collettivo in cui si ascolta la ripetizione di un passo coranico, non di un insegnamento metafisico, e che può provocare stati di rapimento ch’egli definisce “profonde ripercussioni interiori”.
Śravaṇa è l’ascolto della spiegazione dei passi metafisici delle Upaniṣad da parte di un guru di Advaita al singolo discepolo, al fine di far emergere l’intuizione della realtà sulla base del testo udito e della logica. Non provoca affatto degli aḥwāl, perché questi sono i risultati psichici delle tecniche usate nelle vie del non-Supremo. Come rimuovere l’ignoranza è argomento di cui abbiamo pubblicato sul nostro Sito e per Ekatos molteplici contributi che vanno a fondo dell’argomento. È inutile perciò che ci ripetiamo: il cercatore sincero (jijñāsu) potrà accedere direttamente a quelle pagine.
Anche il fatto per cui il sanātana dharma sia il nome tradizionale di quello che si usa chiamare induismo, ovvero “tradizione primordiale” è stato da noi trattato a più riprese. Che il sanātana dharma non sia una tradizione che ha avuto origine temporale, tanto meno durante il kali yuga, è cosa nota a tutti; poiché proprio non ha avuto una origine durante la storia, esso non potrà nemmeno avere una fine. Come diceva Palingenius prima di cambiare parere, la tradizione primordiale è un tronco da cui si sono dipartiti diversi rami e ramoscelli, ogni volta rappresentando una continuità e una deviazione rispetto al tronco. Da un altro punto di vista si può dire che tutte le forme tradizionali, compreso il karma kāṇḍa dell’induismo, colleghino la circonferenza esteriore al centro. Ognuno di questi raggi conduce al centro, laddove si realizza lo stato primordiale da cui tutte le tradizioni si sono dipartite. Questo è il significato vero di “forma tradizionale completa”, poiché esse adempiono al fine per il quale si sono adattate nei tempi e negli ambienti umani. A causa della decadenza, alcuni di questi raggi non raggiungono più il centro, fermandosi a una distanza variabile da esso. Certamente le forme tradizionali completamente defunte non possono più essere annoverate nemmeno tra quelle che sono ridotte a essere punti sulla circonferenza, senza alcun avvicinamento radiale verso il centro. Per esempio, il cattolicesimo, che era uno di quei punti, da pochi decenni è diventato un ramo che si è rotto e staccato dall’albero.
L’Advaita Vedānta, è lo strumento per saltare fuori da questo sistema grafico che, in ogni caso, rappresenta il saṃsāra. Questa unicità, questa non dualità, appare a Ventura “evidentemente inferiore, perché essa comprende solo uno degli aspetti della Realtà e rivela una certa mancanza quanto al suo grado di universalizzazione” (p. 63). Anche se gli appare inferiore alle altre forme tradizionali e iniziatiche (ognuno ha l’opinione adeguata al proprio livello di comprensione), il nostro oppositore ha in parte ragione: l’Advaita infatti trascende ogni grado di universalizzazione, essendo fuori dall’illusoria molteplicità dei gradi dell’universo mondo.
Egli prosegue affermando che i guru dell’induismo, “anche quando siano giunti al di là delle forme, continuano a indossare la veste del rinunciante ecc.”. Egli dimentica che anche lo stesso Guénon ha correttamente spiegato che i quattro stadi della vita dell’hindū comprendono il saṃnyāsa; ma il vero saṃnyāsin trascende tutti gli stadi della vita ed è ativarṇāśrami. Il vero saṃnyāsin (che poi non è altri se non colui che ha raggiunto in simultaneità pāṇḍitya, bālya e mauna) perciò è completamente fuori dall’induismo come forma tradizionale, perché lo ha trasceso. Perciò è libero di rimanere con le forme esteriori del saṃnyāsāśrama o di liberarsene. In quest’ultimo caso il saṃnyāsin è denominato aliṅgasaṃnyāsin, libero dai simboli. Tuttavia trascendere non significa abbandonare o, peggio, apostatare, come può pensare un profano occidentale, ma superare, inglobare, integrare in una sintesi superiore. Questo, se si possono produrre piccoli esempi per grandi cose, è anche esperienza diretta dello scrivente (e di qualche altro) che, se è arrivato all’Advaita Vedānta, lo deve a tutta la preparazione precedente. Preparazione preliminare che non è affatto disprezzata e contraddetta; sta di fatto che è stata riconosciuta valida dai maestri di Advaita. È, semplicemente, collocata nella sua corretta dimensione.
Segue un intero paragrafo inteso a dimostrare che anche il taṣawwuf è provvisto di una metafisica paragonabile a quella dell’Advaita. Che ci sia metafisica è innegabile, che questa sia paragonabile a quella dell’Advaita è falso. Ci sono alcuni rari testi che espongono dottrine per qualche verso simili a quelle advitīya. Evidentemente gli autori di quei testi, dotati di alte qualifiche intellettuali, hanno potuto raggiungere una personale intuizione che ha permesso loro di vedere una Realtà altrimenti fortemente coperta. Tuttavia non esiste alcuna scuola, corrente e ṭariqa che insegni ufficialmente la metafisica pura; nessun maestro che insegni la conoscenza suprema e il metodo per riconoscere la propria vera natura (svarūpa), al di là di ogni forma, azione e credenza. I guénoniani che sono passati all’islam desiderosi della liberazione (mumukṣu) non sanno dove e a chi rivolgersi. E nessuno sa dare loro l’indicazione richiesta. L’akbariyyah è un simbolo, è un bell’ideale, ma dov’è? E, soprattutto, tutti questi convertiti all’islam che sproloquiano di Vedānta, hanno ricevuto l’insegnamento dell’Advaita da qualche loro shaykh? Se sì, perché non si qualificano e indicano ad altri a chi rivolgersi, invece di continuare a illustrare una dottrina del non-Supremo e metodi rituali come “vie della metafisica pura”? L’unica cosa che sanno fare è citare qualche frase o un paio di aḥādīth in cui si allude a qualcosa che echeggia alla lontana la dottrina advitīya. In India, invece, si sa dove andare ad attingere l’insegnamento vivente (soltanto il guénoniano John Levy [quello che ha regalato villa Fatma a RG] si è recato in India e non ha saputo rivolgersi a un pīṭha o a un maṭha, cadendo poi male e diventando un accanito antiguénoniano).
Veniamo all’argomentazione di Ventura: “Chi conosce se stesso (nafsahu) conosce il suo Signore”. A cui dottamente aggiunge che “nafs significa effettivamente anima (la radice rimanda al senso di «respirare»), ma al tempo stesso è termine usato per designare il pronome riflessivo («sé»): abbiamo dunque qualcosa di esattamente equivalente al sanscrito Ātmā, che serve sì a indicare il Sé, ma che etimologicamente deriva dalla radice an, «respirare», proprio come l’arabo nafs” (pp. 65.66). Molto accademico: infatti che Ātman sia derivato da una radice an che significa respirare è un’invenzione degli indoeuropeisti, per apparentare forzosamente il termine sanscrito al greco ἀτμος. In nessun testo sanscrito infatti si può trovare che Ātman sia relazionato al respiro. La radice di Ātman, infatti è ād-ad e at che significano pervadere includere ed esistere. Con ciò è dimostrato che nafs e Ātman non sono equivalenti. Dobbiamo riconoscere, però, che in alcuni casi l’uso del riflessivo nafs assomiglia in qualche modo a quello di Ātman. Come nell’esempio prodotto “Chi conosce se stesso (nafsahu) conosce il suo Signore”. C’è però qualcosa che non quadra nella lettura advitīya di questa pur notevole sentenza araba. Non si tiene d’acconto del “chi”, cioè del soggetto che dovrebbe conoscere come oggetto la propria nafs per conoscere come oggetto il proprio Signore (Rabb). Né l’Ātman né il Brahman possono essere oggetto di conoscenza. Per essere puramente metafisica, la sentenza araba dovrebbe suonare: “il mio Sé (nafs) è il Signore”. Perciò anche in questo caso con nafs s’intende l’anima individuale.
Abbiamo riconosciuto che la sentenza araba, sebbene forzata da Ventura per trasformarla in un mahāvākya, è tuttavia notevole perché rappresenta uno dei gradi più alti della aparabrahma vidyā. Passi simili e ancor più aperti alla metafisica si trovano nel Kitâb al-yâ’ wa Huwa kitâb al-Huwa di Ibn ‘Arabī. Ma ciò sposta di poco la questione di fondo. Già in passato ci era stato notificato un passaggio di Nāblusī che affermava che Allah, “glorificato ed esaltato, unico e solo esistente, dotato di un essere (wujūd) eterno ed esclusivamente Suo, e non te, che non sei affatto esistente e che allora (cioè prima di questo svelamento) eri un puro nulla.” Anche questo passaggio rispecchia una metafisica del non-Supremo particolarmente elevata; ma il punto della metafisica pura è che “Io sono l’Esistente” e non un puro nulla. Il puro nulla è semplicemente una impossibilità. Invece “Io” (jivātman) sono in realtà il Brahman. Infatti, poi, il passaggio di Nāblusī si conclude con un percorso che va da ‘ilmul yaqīn, ‘aynul yaqīn fino a haqqul yaqīn, le tre tappe di certezza: conoscenza teorica, conoscenza virtuale, conoscenza realizzata. Per il Vedānta non ci sono gradi, soste o tappe di conoscenza: tutto ciò che non è jñāna è soltanto ignoranza.
Sorvoliamo su quanto poi afferma su ittihād che sostanzialmente conferma quanto da noi sostenuto. L’unione di relativo e Assoluto anche per il Vedānta è un errore logico oltre che ontologico che, per esempio, molti sostenitori dello Yoga Darśana peraltro condividono. È l’errore di chi confonde il mokṣa con il samādhi. Per questa ragione il taṣawwuf si esprime nei termini di amicizia, prossimità, vicinanza, evitando l’errore. In questo modo si evita quella contraddizione logica che Rāmānuja esprimeva con la formula “non dualità con distinzione” (viśiṣṭādvaita). Ma, in ogni caso, non si tratta della conoscenza suprema, il riconoscersi eternamente Assoluto. Ventura, preso dall’hubris della contestazione non capisce nemmeno quando casualmente siamo d’accordo. E imputa questo presunto nostro errore a una scarsa conoscenza della tradizione islamica o, meglio, di non possedere “la minima cognizione della dottrina sufi”. In questo ha parzialmente ragione, non avendo nel nostro curriculum di lavoro profano alcuna competenza accademica in merito, cosa di cui non ci rammarichiamo affatto, visti i risultati. Ciò nonostante personalmente abbiamo frequentato più a lungo e più intensamente del nostro contestatore l’unico shaykh di ṭariqa compiutamente qualificato ch’egli abbia mai avuto. È stata tale frequentazione che ci consente di vedere le cose dal di dentro: quindi che non possediamo “la minima cognizione della dottrina sufi” è l’ennesima bassa insinuazione.
Poi Ventura insiste incredibilmente sul reiterato errore che considera l’universale come qualcosa di superiore al dominio individuale. Su questo argomento nelle menti dei post-guénoniani si è fossilizzato un saṃskāra, una distorsione mentale, davvero insuperabile. Per l’ultima volta cercheremo di spiegare qual è la vera dottrina metafisica che spiega come affrontare l’indagine su questo punto. Posto e confermato dalla śruti che il mondo è una proiezione della māyā e che questa agisce per mezzo di nāma-rūpa (perciò la manifestazione avviene per karma-nāma-rūpa), ne consegue che non può esserci alcuna manifestazione priva della forma. Il dominio della forma è il dominio individuale perché è solo una proiezione dell’immaginazione (kalpanā) individuale. Nel dominio della forma si distinguono una dimensione particolare e una universale. Nello stato della veglia (Vaiśvānara), la dimensione particolare, il singolo individuo, è viśva, mentre la dimensione universale, cioè l’individuale preso come un tutto, è Virāṭ. Nello stato di sogno (Taijasa), il singolo individuo sottile è antaḥprajña e la dimensione universale, cioè l’individuale sottile preso come un tutto, è Hiraṇyagarbha. Poiché l’uomo ordinario considera sempre il terzo pāda di Ātman dal punto di vista della veglia, egli attribuisce al proprio stare lì nel sonno profondo a una sua supposta individualità che chiama prājña e il “luogo” del sonno profondo dove si trova mentre dorme, lo chiama Īśvara. Tuttavia, in realtà, quando si è in sonno profondo non c’è nessun io né alcun Īśvara: questa è l’esperienza.

A proposito dell’affermazione secondo cui il Veda, imponendo l’uso di manana in aggiunta a śravaṇa, dimostrerebbe che anche la ragione ha qui un suo posto, noi replichiamo che la semplice ragione non può aver accesso a questo dominio. Perché la sola ragione ammessa dalla śruti è accettabile se è a servizio dell’intuizione; per esempio, la ragione che prova che l’Ātman non è contaminato dalle avasthā (di Ātman), perché sia lo stato di veglia sia quello di sogno sono assenti quando si ottiene l’altro (suṣupti); (vale a dire, la ragione che prova) che jīvātman è essenzialmente libero per sua natura dall’intera molteplicità quando si scrolla di dosso il mondo della dualità e diventa uno con l’Ātman come Essere puro nello stato di sonno profondo; e anche quella ragione che prova che l’universo molteplice emergente dal Brahman non è altro dal Brahman, in base al principio di non-distinzione dell’effetto dalla causa” (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya II.1.6.)

Il terzo pāda è solo il Brahman su cui la mente di chi veglia proietta le false apparenze di prājña e Īśvara. Poiché Īśvara, il non-Supremo, proiettato su suṣupti è una immaginazione della mente della veglia, è una forma su cui poter meditare. Perciò, in questo senso anche il non-Supremo è sottoposto a nāma-rūpa. Per capire cosa sia veramente il binomio nāma-rūpa e come si identifichi alla māyā citiamo un altro brano di Śaṃkara:

Il nome e la forma, che sono la causa di questo mondo molteplice di vita mondana (laukika) e che sono falsamente immaginati dall’ignoranza (avidyākalpita), sebbene siano identici all’onnisciente Īśvara, non sono definibili né come identici a Īśvara stesso né da lui distinti, e sono chiamati nella śruti e nella smṛti māyā, śakti e prakṛti” (BSŚBh II.1.14).

Ma tralasciamo queste cose complicate che possono aumentare la confusione nella mente di chi non le conosce. La veglia e il sogno, dunque, sono il dominio dell’individuale e l’idea (kalpanā) di suṣupti non è affatto l’“informale”, ma semplicemente una creazione dell’immaginazione. Se la tanto conclamata “manifestazione informale” in realtà non esiste, il termine in-formale esiste e designa, in forma negativa, il Brahman stesso, come anche in-finito, in-descrivibile, in-condizionato ecc. Vediamo cosa dice Śaṃkara a questo proposito commentando il già di per sé esplicito sūtra III.2.14:

“«Brahman è certamente l’unico privo di forma (arūpin) perché questo è il suo senso principale.» Brahman deve essere conosciuto esclusivamente come privo di forme quali il colore ecc. e mai come formale. Perché deve essere così? «Perché questo è il senso principale» della śruti, come è affermato dal sūtra: «Tuttavia quel Brahman è conosciuto per mezzo delle Upaniṣad, poiché esse sono connesse al Brahman che è il loro principale argomento" (I.1.4); [infatti] i testi che seguono hanno come loro scopo principale il Brahman assoluto che è il Sé, e nessun altro argomento. "Non è né grossolano né sottile, né breve né lungo" (BU III.8.8), "Senza udito, senza tatto, senza vista, senza decadenza" (Ka I.3.15), "Ciò che è conosciuto come spazio è colui che proietta il nome e la forma, ciò in cui sono inclusi è Brahman" (ChU VIII.14 .1), "Puruṣa è assoluto poiché è senza forma; e pervade tutto ciò che è esterno e interno, in quanto è senza nascita" (MuU II.1.2), "Quel Brahman è né causa né effetto ed è privo di oggetti interni ed esterni. Il Sé, che tutto conosce, è Brahman" (BU II.5.19). Quindi, in frasi di questo tipo, deve essere accettato che Brahman è l’unico privo di forma, come gli stessi testi affermano. Ma gli altri testi, che parlano di un Brahman formale, hanno come obiettivi principali le ingiunzioni per le meditazioni. Finché non suscitano alcuna contraddizione, il loro significato apparente dovrebbe essere accettato. Ma quando suscitano una qualche contraddizione, il principio da seguire per scegliere tra essi è che quelli che hanno come scopo principale il Brahman non formale sono più autorevoli degli altri che non hanno tale scopo. In base a ciò si deve concludere che il Brahman è senza forma e non il contrario, anche se i testi presentano entrambe le prospettive.

Sul tribhūvana non ritorneremo; abbiamo già spiegato chiaramente altrove che esso è compreso separatamente sia nella veglia sia nel sogno e che perciò è un errore confondere la triplice divisione del prapañca con l’avasthātraya. Approfittiamo dell’occasione per inviare, tramite la persona a cui sono rivolte queste note, un messaggio a uno dei suoi maleducati e poco intelligenti discepoli. Ciò che illusoriamente rappresenta la totalità dello stato di suṣupti è Īśvara e non Vaiśvānara come è dimostrato dalla Māṇḍūkya Upaniṣad:

Quella è suṣupti in cui il dormiente non desidera nulla di fruibile né vede alcun sogno. Il terzo pāda è prājña che ha come campo il sonno profondo, in cui tutte le cose sono indifferenziate, che è un agglomerato di coscienza, che è pieno di beatitudine di cui fruisce e che è la porta cosciente per l’esperienza. Questo è il Signore di tutto (sarva Īśvara), l’Onnisciente il regolatore interno (antaryīamin), Origine di tutto e, invero, inizio e fine di tutti gli esseri” (MU 5-6)

Come è evidente a ogni persona non stupida, la śruti a proposito di terzo pāda parla di Īśvara, non di Vaiśvānara, come sostiene chi vuole inventarsi una dottrina indo-musulmana sull’Uomo Universale.
Ma ritorniamo a passare in rassegna le cantonate di Ventura che, nella fretta di concludere il suo lungo parto, presta meno attenzione a quello che afferma. Infatti egli aggiunge: “Crediamo che non risulterà difficile scorgere la differenza, tutt’altro che sottile, fra la concezione tradizionale (quale?) di un Principio che si autodetermina in una serie di stati […] e una simile visione tutta psicologica che riduce ogni realtà a mera fantasia individuale. Inutile dire, poi, che di questa costruzione teorica, tendente a minare le stesse fondamenta della metafisica esposta da Guénon (su questo punto ritorneremo in chiusura), non ci viene fornita altra giustificazione se non la forzatura dei testi addotti per sostenerla. Chi si oppone a queste tesi viene tacciato di «dogmatismo e cieca fede», di possedere una mera cultura libresca, lasciando con questo intendere che, dall’altra parte, vi sia una qualche esperienza diretta della Verità assoluta. Siamo fiduciosi che i lettori imparziali sapranno cogliere la diversità fra questi opposti atteggiamenti” (p. 68). Effettivamente esiste una concezione tradizionale di un Principio che si autodetermina in una serie di stati. Ed è precisamente quella della conoscenza non-suprema. Lo stesso termine “Principio”, che sottintende una serie di stati, è un termine che è naturalmente correlato a ”Fine”. Fa tenerezza che la dottrina śaṃkariana della proiezione dell’ignoranza sia descritta come una “visione tutta psicologica che riduce ogni realtà a mera fantasia individuale”. L’ignoranza, peraltro, non può essere ricondotta a una visione psicologica, perché l’individuo nasce con l’avidyā connaturata (svabhāva). Non è uno stato transitorio nell’individuo; infatti per superarla si deve acquisire la conoscenza che rimuove l’illusione dell’individualità. Questa è la dottrina di Śaṃkara. Le forzature dei testi sono per esempio voler dimostrare che le tre avasthā sono il tribhūvana: è uno stile che appartiene al campo avverso. Piuttosto, visioni psicologiche sono gli aḥwāl che fanno da pietre miliari lungo la via del non-Supremo. Quindi confermiamo che chi si oppone alla dottrina advitīya per promuovere a metafisica solamente quello che si è stati capaci di capire dalla lettura di libri è «dogmatismo e cieca fede». Abbiamo sempre dichiarato quali sono le nostre fonti dirette, da cui traiamo la certezza di quanto esponiamo, mentre (a proposito di forzatura di testi!) in nessun luogo abbiamo parlato di nostre esperienze, riguardando queste noi e noi soltanto. Non siamo noi che abbiamo a suo tempo diffuso una lettera in cui si millantava di essere diventato l’Uomo Universale (sic.), esperienza talmente devastante da costringere a un ricovero d’urgenza. Siamo dunque noi a dichiarare con maggiore convinzione: “Siamo fiduciosi che i lettori imparziali sapranno cogliere la diversità fra questi opposti atteggiamenti”!
E Ventura prosegue di male in peggio. Afferma che Veda Vyāsa, da cui ha preso nome il nostro Sito, era un liberato e che perciò, secondo le nostre affermazioni dottrinali, non avrebbe dovuto discendere di nuovo nella manifestazione. Invece egli avrebbe compiuto la “realizzazione discendente”, riesumando questa dottrina che non esiste da nessuna parte e che è metafisicamente impossibile. La parola finale sull’argomento si trova nell’articolo di Maitreyī sulla Dottrina dell’avatāraṇa pubblicata in VVM. In verità, la dottrina tradizionale annovera Veda Vyāsa tra i 28 (o 29) Vyāsa, che furono “anime liberate”; essi dovettero ritornare sulla terra per esaurire il loro karma positivo (puṇya) svolgendo la funzione di adattamento del dharma alle condizioni del dvāpara yuga. Alcuni di essi, durante quella rinascita, ottennero la jīvan mukti. E Ventura peggiora la situazione affermando che la famosa “realizzazione discendente” non consiste “in un ritorno all’indietro […], ma in realtà è un progredire sino alla fonte comune del manifestato e del non-manifestato”. Questa confusione tra “ridiscesa sulla terra” ovvero la rinascita, una presunta “regressione” che attribuisce fraudolentemente a noi, e la ridiscesa per raggiungere la “fonte comune del manifestato e del non-manifestato” dà davvero molto da pensare. Infatti si spinge ad aggiungere che pochi testi islamici parlano di questa fantomatica “realizzazione discendente”; ma, prudentemente, non ne cita nessuno. Questa è una costante di tutti i critici di Veda Vyāsa Maṇḍala: non viene mai fuori la dottrina, foss’anche una loro dottrina, non si citano testi se non frammentati e interpretati in modo viziato, come quello “chi conosce la sua nafs conosce il suo Signore” la cui interpretazione abbiamo considerato sopra; e, alla fin fine, l’estremo ricorso è sempre e solo qualche citazione di Guénon ripetuta con fede dogmatica.
La realizzazione (sākṣātkāra), la Liberazione suprema (mukhya mukti) è riconosciuta solamente con la conoscenza della Realtà, senza aver bisogno di salite e discese. Il punto centrale della questione è che quando si ottiene la conoscenza suprema, la mukti che si ottiene senza “salire”, non c’è null’altro da raggiungere, non esiste proprio alcuna discesa: il mokṣa non è il prodotto di un avvicinamento e poi di una ridiscesa per recuperare il contingente. Questa è azione, è karma, non è la via della conoscenza: “Inoltre la śruti come quella che segue, dichiara che mokṣa avviene immediatamente all’insorgenza della conoscenza di Brahman e così si preclude la necessità che si debba fare qualcos’altro nell’attesa della Liberazione: «Chi conosce Brahman diventa lo stesso Brahman»” (BSŚBh I.1.4). Ma che razza di idea si sono fatti i post-guénoniani (e, per la verità anche i guénoniani suoi contemporanei) della Liberazione? “[…] La śruti esclude l’idea che debba essere compiuto qualcosa nell’intervallo tra la conoscenza di Brahman e la totalizzazione dell’essere nell’intero universo. Questo passo è analogo all’affermazione «egli canta stando in piedi» da cui si trae che nessuna azione s’interpone tra lo stare in piedi e cantare” (ibid.).
Quanto all’associazione fondata da Svāmī Satcidānandendra Mahārāja, è stata diversi anni fa riformata da un board che non annovera più alcun discepolo del grande ācārya. Fu in origine ideata da Svāmījī per diffondere il vero Advaita e per contrastare l’invadenza del neo-Vedānta. L’uso dell’inglese in alcune pubblicazioni, era usato per rivolgersi agli hindū che non avevano conoscenza del kannada e del sanscrito e non per fare “missionarismo all’estero” come sempre velenosamente insinua Ventura. Sta di fatto che, pur avendo śiṣya occidentali tanti da poter essere contati sulle dita di una sola mano, il pītham di Svāmījī, che non è la Fondazione di cui sopra, all’estero non ha alcuna filiale, alcun rappresentante, alcun luogo di raduno, diversamente dalla proliferazione numerosa e, generalmente, assai scadente, di origine sufica.
Concludendo, il nostro oppositore lamenta che sul nostro Sito compaiano alcune firme di signore che partecipano attivamente con scritti sul Vedānta o su Śrī Vidyā. Anche in questo caso egli non affronta la dottrina che vi è racchiusa, ma manifesta l’irriflesso pregiudizio semitico nei confronti del gentil sesso. Senza accorgersi, commette una gaffe, perché questi poco cortesi apprezzamenti compaiono su una Rivista di un gruppo di “Figli della Vedova”: doppiamente “Figli della Vedova”, non solo in senso muratorio, ma anche in senso “sufico”, “dove in genere le donne detengono ruoli di primo piano” (p. 72). E compara la presenza di signore sulle pagine di VVM con gli ambienti dei guru californiani, dove proliferano le “donne”. E dove anche è in uso lo squallido costume di portare via le mogli altrui.

Le quattro indispensabili qualifiche che includono la discriminazione tra ciò che è reale e ciò che è irreale, nityānitya viveka, la rinuncia, vairāgya, sono evidentemente implicate nel personaggio di Maitreyī. La narrazione introduttiva afferma che, pur essendo donna e quindi non qualificata per compiere sacrifici vedici, ella poté raggiungere la conoscenza del vero Ātman sotto la guida di un maestro competente, anche se i due erano diversamente qualificati” (Śrī Śrī Satchidānandendra Sarasvatī Svāmījī, The Vision of Ātman, Holenarasipura, APK, 1995, p. 118).

A noi ciò che importa è la correttezza e la profondità dottrinale dei contributi pubblicati sul nostro Sito, non l’individualità degli autori.
René Guénon è stato il punto di partenza indispensabile delle nostre scelte di vita. Egli ci ha indicato la luna e noi ci siamo rivolti alla luna, grati per la sua indicazione. Altri invece sono rimasti a guardare il dito, facendo del dito la fonte di ogni sapere e di ogni autorità. Il lettore di queste righe concorderà che da ogni parte ci viene rimproverato il solo fatto di criticare, contraddire, ed essere “nemici di Guénon” e altre sciocchezze consimili. Per questa genia, questo è l’unico metro di misura, l’unico indice di ortodossia, l’unico inappellabile mezzo di condanna. Di Guénon, i post-guénoniani hanno fatto un idolo, un dogma, una religione, un insegnamento iniziatico, in avatāra.
Tuttavia, c’è per loro il problema della mancanza di trasmissione diretta ricevuta da Guénon, ma non è tenuta in considerazione, è occultata. L’iniziazione islamica o massonica surroga questa assenza di trasmissione, ed è strumentale a una distorsione tutta occidentale, per cui gli stessi maestri che alcuni ha in terra islamica, quando ci sono, sono tenuti in un limbo, perché è il loro rappresentante guénoniano che forma i discepoli occidentali. Lì, la conoscenza libresca dell’opera di Guénon supera per importanza qualsiasi insegnamento shaykh-murīd. Si sono così formati questi gruppuscoli, tenuti assieme dall’opprimente controllo reciproco sulle persone e sulle famiglie, dal timore dei “maghi neri” e “contro-iniziati” contro cui fare obbedientemente quadrato, dall’imposizione massiva di regole esteriori, che ha provocato continue fughe, fatte passare poi per “espulsioni”. Imparare a memoria i libri di Guénon (capirli o meno è facoltativo, visti gli scadenti prodotti scritti) e accettazione di testi tradizionali diversi purché in linea con i libri di Guénon.
Ciò non ha nulla a che fare con una organizzazione iniziatica; più che una setta ricorda l’ambiente mafioso, con giuramenti, minacce, intimidazioni, accuse di tradimento e di apostasia.
Sulla base di un diverso approccio e dagli insegnamenti diretti dei nostri guru, noi abbiamo verificato che in Guénon ci sono alcune affermazioni non rispondenti alla dottrina vedāntica. Il nostro atteggiamento, che è quello tradizionale, è di correggere l’errore commesso da persone tradizionali, senza metterle alla berlina. E così ci comportiamo e ci comporteremo. Certamente saremo sempre inflessibili con chi reitera l’errore e lo vuole imporre con cattiveria e presunzione.
Per i nostri accesi contraddittori René Guénon è invece l’unico punto di riferimento e pietra di paragone cui confrontare l’ortodossia o meno di chiunque parli di dottrina. Questo è errato: tutt’al contrario, è la dottrina che deve essere il punto di riferimento, non René Guénon; tutti, René Guénon compreso, devono dar prova di aderenza alla dottrina. Da qui l’errore in cui si cade, come nel caso dell’articolo di Ventura sulla Rivista di Torino, pensando che sia chi si accetta come autorità tradizionale a legittimare la dottrina quando invece è vero il contrario: è la dottrina che legittima l’autorità tradizionale che a essa deve conformarsi. Se poi René Guénon in occidente, tra tutti, è stato colui che maggiormente abbia dato prova di questa adesione è da noi riconosciuto senza remore; ma questa è tutt’altra questione.
A questo punto ci si può chiedere: il nostro censore ha le carte in regola per atteggiarsi a difensore e depositario della dottrina di Guénon? Non si direbbe, poiché Ventura è stato il curatore per Atanòr della pubblicazione del libro L’Archeometra (sic.), coacervo di ogni fantasia occultistica mescolata a qualche annotazione parzialmente condivisibile, attribuendone tout court la paternità a Guénon. Ha così fatto la felicità dei suoi detrattori che hanno usato questa pubblicazione spuria per le loro polemiche riguardo l’Ordine del Tempio “Rinnovato”. La Rivista di Torino adesso non ha più nulla da obiettare in merito?
Sappiano nondimeno i nostri contraddittori che se le Upaniṣad, Śaṃkara e i suoi legittimi successori affermano in base alla logica e all’intuizione qualcosa che differisce da quanto scritto da Guénon, nonostante il dovuto rispetto e gratitudine, noi staremo sempre dalla parte dell’Advaitavāda.


185 commenti:

  1. "…Ciò non ha nulla a che fare con una organizzazione iniziatica; più che una setta ricorda l’ambiente mafioso, con giuramenti, minacce, intimidazioni, accuse di tradimento e di apostasia. (cit.)": certo che per essere uno, il Filippi intendo, che avrebbe la superiorità ontologica derivante dalla non intenzione di “…rintuzzare gli strali grossolani diretti alla nostra persona. Non siamo particolarmente affezionati a essa. (cit.)”, la sensazione che lascia questa sconvolgente affermazione, che scomoda nientepopodimeno che la Mafia, è una di quelle che fa pensare che al suo ego ci tenga tantissimo invece, come tiene tantissimo pure, non solo a rintuzzare, ma a scaricare vagonate di veleno su chi osa contraddire la sua sicumera, malgrado ci assicuri che sarebbe “Lungi da screditare la persona degli avversari per evitare di affrontarli sulla dottrina…(cit.).”.
    Non sono riuscito – magari di questo il Filippi andrà estremamente orgoglioso - a finire l’articolo, tanto è il livore che trasuda tale “dottrina”, però se lui si domanda: “Ma non sono tutti grandi iniziati al Taṣawwuf e alla Massoneria? Cosa importa loro del Vedānta che hanno scartato nella loro scelta di vita perché ritenuto inaccessibile? (cit.)”, viene spontaneo chiedergli: ma se lui è un grande iniziato al Vedānta, che cosa gli importa dell’Islam, della Libera Muratoria e di tutte le altre forme tradizionali che ha scartato nella sua scelta di vita, a maggior ragione perché ritenute inferiori, e che è andato a scomodare esclusivamente per coprirle di ridicolo?
    Al Filippi che tanto tiene all’aneddoto del serpente e la corda, vorremmo sommessamente, anzi no: irrispettosamente far notare che, se scambiare la corda per un serpente è da pavidi ignoranti, viceversa, scambiare il serpente per una corda è tipico degli impavidi!
    Firmato,
    …una delle “…rare persone che, partendo dagli indispensabili libri di Guénon, sono stati poi iniziati in autentiche turuq a cui si rifanno anche dottrinalmente, mantenendo la mente aperta e puntata alla meta (cit.)”!

    RispondiElimina
  2. Articolo molto importante che chiarisce ancora una volta che solo la conoscenza dell’identità con il supremo Brahman porta alla effettiva ed incondizionata liberazione dell’essere

    RispondiElimina
  3. Una nota positiva della ignoranza (del oppositore) è che questa genera errori che poi qualcuno (G.G.Filippi) è costretto a rettificare. Grazie a queste rettificazioni noi tutti traiamo beneficio. Una nota positiva dell'acredine di certe persone, che in teoria da anni percorrono una via interiore, è che ci fanno capire quale via non intraprendere...

    RispondiElimina
    Risposte
    1. "Una nota positiva della ignoranza (DEL oppositore)...": per dire da dove arriva la predica...

      Elimina
    2. Grazie anonimo della precisazione. Il mio errore ortografico denota che l'italiano non è la mia madre lingua. Certamente questo non lo giustifica, ma sucede quando si ha a che fare con lingue che non padroneggiamo fino in fondo (si veda ad esempio l'errore della lettera nūn del quale si sono addirittura scritti articoli su riviste ma non correggendo l'errore bensì persistendo in questo!) ma c'è sempre per fortuna chi l'errore lo vede e ci lo fa notare per poter correggerlo,questo è un bene. Certo che bisogna essere disposti a comprendere la rettifica e sapere ringraziare, due cose che in certi ambienti sono una rarità. Cordiali saluti.

      Elimina
  4. Grazie per le sue parole, Sig. Martin, sebbene il merito non sia certamente mio, ma di chi insegna la dottrina. Non si preoccupi se un povero di spirito ha fatto notare che si è dimenticato un apostrofo. Se quell’Anonimo sapesse scrivere nella sua lingua come lei in italiano, probabilmente ne andrebbe fiero. Ma, in assenza di dottrina, si rivalgono sugli stranieri per mezzo della grammatica italiana!

    RispondiElimina
  5. Non se ne abbia a male Sig. Filippi se le dico che è completamente fuori luogo il suo intervento, e che la mia precisazione non era stata fatta per correggere l'errore in sé di uno straniero (e come avrei mai potuto sapere che lo fosse?), ma per evidenziare che prima di parlare di ignoranza altrui bisognerebbe conoscere la propria, e questo a prescindere che si sia poveri o ricchissimi, come tanti qui in questo consesso, di spirito; dopotutto, non mi pare di aver intrapreso nei mie commenti, in luogo di dottrina, la funzione del fu maestro Manzi! Non è "Mai troppo tardi" per spostare l'attenzione dal significante al significato di ciò che si sta leggendo.

    RispondiElimina
  6. Il Sig. Filippi (non creda il Filippi che manchiamo di rispetto al suo sudato titolo di Professore, anzi, è solo per il motivo che ci piace credere che: “Signori si nasce e il resto si diventa”, quindi anche Professori; nel caso desiderasse invece essere definito con tale titolo, ce lo faccia sapere, ma sarebbe peggio per lui comunque!), in questo lungo articolo, con una prosa non proprio educata - visto che si lamenta della maleducazione altrui - con la quale condisce la (sua) “dottrina” (“Come è evidente a ogni persona non stupida…”, si permette il lusso di dire agli interlocutori…), come abbiamo già fatto notare in un altro nostro commento, perentoriamente afferma: “Poiché ci sono OSTINATI SOSTENITORI DELL’ESISTENZA POSITIVA DI UNA “MANIFESTAZIONE INFORMALE”, ritorneremo più avanti sul tema, certi, nondimeno di parlare al vento. La fede è così potente da far muovere le montagne e da FAR CREDERE A QUALCOSA CHE PUR ESSENDO MANIFESTATO SIA ANCHE PRIVO DI FORMA (…) Posto e confermato dalla śruti che il mondo è una proiezione della māyā e che questa agisce per mezzo di nāma-rūpa (perciò la manifestazione avviene per karma-nāma-rūpa), ne consegue che NON PUÒ ESSERCI ALCUNA MANIFESTAZIONE PRIVA DELLA FORMA (…) Se la tanto conclamata “manifestazione informale” in realtà non esiste, il termine in-formale esiste e designa, in forma negativa, il Brahman (sic) stesso, come anche in-finito, in-descrivibile, in-condizionato ecc. (cit.)”.

    Sarà bene iniziare con una precisazione sulla questione nāma-rūpa: (lasciamo nelle citazioni, anastaticamente intonsa la traslitterazione non proprio ortodossa dei termini sanscriti, certi che, per uno al quale non fa specie la mancanza di apostrofi e di preposizioni articolate errate nella lingua italiana, ciò non costituirà affatto un problema):

    “È noto che nella tradizione indù si considera l’individualità costituita dall’unione di due elementi, o più esattamente da due insiemi di elementi, rispettivamente indicati con i termini nâma e rûpa, termini che significano letteralmente «nome» e «forma», e sono in genere riuniti nell’espressione composta nâma-rûpa, la quale comprende in tal modo l’intera individualità […] Occorre tuttavia dire, inoltre, che nâma è passibile di una certa trasposizione, in virtù della quale non è più il correlativo di rûpa; ciò si vede in particolare quando si trova detto che quel che permane quando un uomo muore è nâma. Vero è che si potrebbe a tutta prima pensare che si tratti soltanto dei prolungamenti extracorporei dell’individualità umana; questo modo di vedere è del resto accettabile, in un certo senso, in quanto rûpa sia identificato al corpo; in questo caso non si tratterebbe però di una vera trasposizione, e la parte sottile dell’individualità continuerebbe semplicemente a essere indicata come nâma anche dopo la scomparsa della parte corporea. […] Però le cose non stanno più così, di tutta evidenza, quando sia precisato che l’essere che permane come nâma sia passato nel mondo dei dêva, vale a dire in uno stato «angelico» o sovraindividuale; essendo tale stato «informale», non si può più parlare di rûpa, mentre nâma è trasposto in un senso superiore, cosa che è possibile in virtù del carattere sovrasensibile che è ad esso attribuito pur nella sua accezione ordinaria e individuale; in tal caso, L’ESSERE È ANCORA «AL DI LÀ DELLA FORMA», MA NON SAREBBE ANCHE «AL DI LÀ DEL NOME» se non nel caso che esso sia giunto allo stato incondizionato, e non soltanto a uno stato che, per quanto elevato, appartenga ancora alla sfera dell’esistenza manifestata.
    (continua...)

    RispondiElimina
  7. (seconda parte...)
    "...Però le cose non stanno più così, di tutta evidenza, quando sia precisato che l’essere che permane come nâma sia passato nel mondo dei dêva, vale a dire in uno stato «angelico» o sovraindividuale; essendo tale stato «informale», non si può più parlare di rûpa, mentre nâma è trasposto in un senso superiore, cosa che è possibile in virtù del carattere sovrasensibile che è ad esso attribuito pur nella sua accezione ordinaria e individuale; in tal caso, L’ESSERE È ANCORA «AL DI LÀ DELLA FORMA», MA NON SAREBBE ANCHE «AL DI LÀ DEL NOME» se non nel caso che esso sia giunto allo stato incondizionato, e non soltanto a uno stato che, per quanto elevato, appartenga ancora alla sfera dell’esistenza manifestata. Possiamo far notare che senza dubbio questo significa, nelle dottrine teologiche occidentali, la concezione secondo cui la natura angelica (dêvatwa) è una «forma» pura (espressione che in sanscrito potrebbe esser resa con shuddha-nâma), ovverosia non unita a una «materia»; in effetti, tenendo conto delle particolarità del linguaggio scolastico da noi prima segnalate, ciò equivale esattamente a dire che SI TRATTA DI QUELLO CHE È DA NOI DENOMINATO UNO STATO «INFORMALE» [Studi Sull’induismo. Cap.9]”: ecco come deve essere giustamente inteso l’aggettivo “informale”!

    Ma proseguiamo:

    “Altresì, negli stati in cui vi è ancora una distinzione, cioè in tutti i gradi dell’Esistenza, non escludendo quelli che non appartengono all’ordine individuale, l’universalizzazione dell’essere non potrebbe essere effettiva; ed anche l’unione all’Essere Universale, secondo come essa si compie nella condizione di Prajna (o nello stato postumo che corrisponde a questa condizione), NON È NEANCHE L’«UNIONE» NEL SENSO PIENO DELLA PAROLA; SE LO FOSSE, IL RITORNO AD UN CICLO DI MANIFESTAZIONE, ANCHE NELL’ORDINE INFORMALE, SAREBBE IMPOSSIBILE…”.

    Di passata, qui è bene fare una precisazione: abbiamo lasciato appositamente questo inciso per mettere al corrente che Guénon era perfettamente cosciente di ciò che sembra invece, per il Filippi, una cosa chiara solo a lui e ai suoi accoliti (citiamo testualmente: “Veda Vyāsa, da cui ha preso nome il nostro Sito, era un liberato e che perciò, secondo le nostre affermazioni dottrinali, non avrebbe dovuto discendere di nuovo nella manifestazione. Invece (per il Ventura, ndr.) egli avrebbe compiuto la “realizzazione discendente”, riesumando questa dottrina che non esiste da nessuna parte e che è metafisicamente impossibile.”).

    Allora la domanda è molto semplice: perché Guénon avrebbe parlato anche di “realizzazione discendente”? L’ironia sarebbe sin troppo facile; forse, inshallah, torneremo sull’argomento se avremo tempo e voglia di farlo…

    RispondiElimina
  8. (terza parte...)
    Continuiamo perciò la citazione precedente:

    “È ben vero che l’Essere è oltre qualsiasi distinzione, poiché la prima distinzione è quella dell’«essenza» e della «sostanza», o Purusha e Prakriti; tuttavia Brahma, in quanto Ishwara o l’Essere Universale, è detto savishesha, vale a dire «che implica la distinzione», poiché ne è principio determinante immediato; solo lo stato incondizionato d’Atma, oltre l’Essere, è prapancha-upashama, «senza traccia alcuna di sviluppo della manifestazione». L’Essere è uno, o meglio è la stessa Unità metafisica; ma l’Unità racchiude in sé la molteplicità, poiché la produce per il solo dispiegarsi delle sue possibilità; perciò, nell’Essere stesso, si può considerare una molteplicità d’aspetti, che ne sono altrettanti attributi o qualifiche, quantunque questi aspetti non vi siano affatto distinti in realtà, se non perché noi li concepiamo in tal modo; ma pure è necessario che essi vi siano compresi in qualche modo, perché ci sia possibile concepirveli. Si potrebbe dire anche che ogni aspetto si distingua dagli altri, in un certo rapporto, quantunque nessuno si distingua veramente dall’Essere, essendo tutti l’Essere stesso (Nella teologia cristiana, ciò può trovare riscontro nella concezione della Trinità: ogni persona divina è Dio, senza essere le altre persone. – Nella filosofia scolastica, si potrebbe dire la stessa cosa per i «trascendentali», di cui ognuno è coestensivo all’Essere); vi è dunque una specie di distinzione principiale, che non è una distinzione nel senso in cui questa parola si riferisce all’ordine della manifestazione, ma ne è la trasposizione analogica. Nella manifestazione, la distinzione implica una separazione; ma questa non è niente di positivo in realtà, poiché non è che un modo di limitazione (NEGLI STATI INDIVIDUALI, LA SEPARAZIONE È DETERMINATA DALLA PRESENZA DELLA FORMA; NEGLI STATI NON-INDIVIDUALI, DEVE ESSERE DETERMINATA DA UN’ALTRA CONDIZIONE, PERCHÉ QUESTI STATI SONO INFORMALI); l’Essere puro è invece oltre la «separatività». Così, quello che è al grado dell’Essere puro è «non-distinto», considerando la distinzione (vishesha) nel senso in cui la comportano gli stati manifestati; tuttavia, in un altro senso, si può ancora rilevare qualche cosa di «distinto» (vishishta): nell’Essere, TUTTI GLI ESSERI (INTENDIAMO LE LORO PERSONALITÀ) SONO «UNO» SENZA CONFONDERSI, E SONO DISTINTI SENZA SEPARARSI (Ciò spiega appunto la principale differenza fra la veduta di Ramanuja, che mantiene la distinzione principiale, e quella di Shankaracharya, che la oltrepassa). Di là dall’Essere non vi è più distinzione possibile, anche se principiale, quantunque non si possa nemmeno asserire che vi sia confusione; siamo di là dalla molteplicità, ma anche di la dall’Unita; nell’assoluta trascendenza di questo stato supremo, non uno di questi termini può più usarsi, neanche per trasposizioni analogiche, perciò è necessaria una parola di forma negativa, quella di «non-dualità», secondo quanto precedentemente abbiamo spiegato; la stessa parola «Unione» è indubbiamente imperfetta, poiché evoca l’idea di unità, ma tuttavia siamo obbligati ad usarla per tradurre la parola Yoga, non avendone altre a nostra disposizione nelle lingue occidentali. [L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta; cap. 22]”.

    Appurato ciò però, resterebbe ancora non chiara in cosa consisterebbe la distinzione in oggetto, non più dovuta alla forma, che per gli stati non-individuali “DEVE ESSERE DETERMINATA DA UN’ALTRA CONDIZIONE”.

    RispondiElimina
  9. (quarta parte...)

    All’uopo:

    “Il bisogno di semplificare, per quel che ha di illegittimo e abusivo, è, come abbiamo detto, un tratto distintivo della mentalità moderna […] In verità, questo «pseudoprincipio» non è niente di più che un augurio formulato per una specie di «pigrizia mentale»: ci si augura che le cose siano il più possibile semplici, perché, se lo fossero in effetti, sarebbero tanto più facili da capire […] A questo proposito si potrebbero contrapporre, all’adagio scolastico della decadenza, le concezioni dello stesso san Tommaso d’Aquino sul mondo angelico, «ubi omne individuum est species infima», cioè ove LE DIFFERENZE FRA GLI ANGELI NON SONO L’ANALOGO DELLE «DIFFERENZE INDIVIDUALI» NEL NOSTRO MONDO (lo stesso termine individuum è quindi improprio in realtà trattandosi effettivamente di stati sovraindividuali), BENSÌ DELLE «DIFFERENZE SPECIFICHE». LA RAGIONE VERA DI CIÒ RISIEDE NEL FATTO CHE OGNI ANGELO RAPPRESENTA IN CERTO QUAL MODO L’ESPRESSIONE DI UN ATTRIBUTO DIVINO, com’è d’altronde evidente nella costituzione dei nomi dell’angelologia ebraica) [Il Regno della Quantità e i segni dei Tempi; cap. 11 Unità e semplicità].”: come, per questi esseri, si potrebbe ancora parlare di “forma” come invece fa il Sig. Filippi, esseri relegati inoltre, sempre a suo dire, a banali conseguenze della “…proiezione dell’immaginazione (kalpanā) individuale (cit.)”.?

    A seguire questa incredibile valutazione del Filippi, anche quello che costituisce:

    «…tutto ciò che può essere concepito o percepito (nel mondo manifestato)» come dice a questo proposito Ananda K. Coomaraswamy «il sanscrito ha soltanto l’espressione nama-rupa, i cui due termini corrispondono all’“intelligibile” e al «sensibile» (considerati come due aspetti complementari rispettivamente riferentisi all’essenza e alla sostanza delle cose) [I due termini «intelligibile» e «sensibile» adoperati correlativamente sono propri del linguaggio platonico; si sa che il «mondo intelligibile» è per Platone L’ÀMBITO DELLE «IDEE» O DEGLI «ARCHETIPI», I QUALI, COME ABBIAMO GIÀ VISTO, SONO EFFETTIVAMENTE LE ESSENZE NEL VERO SIGNIFICATO DELLA PAROLA; e, in rapporto a questo mondo intelligibile, il mondo sensibile, àmbito degli elementi corporei o di quanto procede dalle loro combinazioni, sta dal lato sostanziale della manifestazione[RdQeST cap. 3 Misura e manifestazione], non dovrebbe che costituire un trastullo dell’immaginazione, ovvero di una facoltà umana che ne è solo uno degli indefiniti effetti: bel modo di sovvertire il rapporto causale!

    RispondiElimina
  10. (quinta parte...fine)

    Alla stregua di quanto détto:

    “Queste stesse IDEE PLATONICHE inoltre, sotto altro nome e per filiazione diretta, sono la stessa cosa dei NUMERI PITAGORICI; e ciò rende ben evidente che tali numeri pitagorici, come già da noi indicato in precedenza, e benché li si chiami numeri per analogia, NON SONO AFFATTO NUMERI nel senso quantitativo e ordinario del termine, ma sono al contrario puramente qualitativi, corrispondendo inversamente, dal lato dell’essenza, a ciò che sono i numeri quantitativi dal lato della sostanza (si può anche osservare che il NOME DI UN ESSERE, in quanto espressione della sua essenza, è propriamente un numero inteso in questo stesso senso qualitativo; CIÒ STABILISCE UNO STRETTO LEGAME TRA LA CONCEZIONE DEI NUMERI PITAGORICI, E QUINDI QUELLA DELLE IDEE PLATONICHE, E L’USO DEL TERMINE SANSCRITO NAMA PER DESIGNARE IL LATO ESSENZIALE DI UN ESSERE) [RdQeST cap. 2 Qualità e quantità].”, “numeri” che come le “idee”, la “forma”, il “nome”, non possono che mantenere il solo“vestito”, o “cifra”, in comune, ma che non possono più avere lo stesso significato, che si diversifica a seconda del grado a cui viene applicato.

    Come già abbiamo notato scherzosamente in precedenza, il Filippi, questa volta seriamente, sembra - giunti a questo punto, si potrebbe dire di esser “certi” - non riuscire ad affrancarsi dal “significante” per passare al “significato” delle parole.
    Se non si è capaci di operare queste trasposizioni, in riferimento a quanto detto sulla questione del “nama” dal punto di vista sovraindividuale, non si potrebbe che considerare contraddittoria questa proposizione e ci si condannerebbe a non capire più nulla:

    “Per un’esatta comprensione di quanto precede, occorre fare appello ai princìpi dottrinali che sono comuni a tutte le tradizioni: l’essere che ha conseguito uno stato sovraindividuale è per ciò stesso liberato da tutte le condizioni limitative dell’individualità, egli cioè è al di là delle determinazioni di «nome e forma» (nama-rupa) che costituiscono l’essenza e la sostanza di questa individualità come tale; egli è dunque veramente «anonimo», perché in lui l’«io» si è cancellato ed è completamente sparito di fronte al «Sé» [RdQeST cap. 9; Il doppio senso dell’anonimato ]”.

    In realtà, non è che un’applicazione relativa a una prospettiva più limitata rispetto alla precedente, al punto che qui, non solo dalla forma, ma pure dal nome si è affrancati.

    RispondiElimina
  11. Errata c.: alla fine della quarta parte, nell’ultima citazione che inizia con “…tutto ciò che può essere concepito o percepito ecc., ecc…”, non abbiamo messo le virgolette finali che vanno chiuse in questo modo: “… sta dal lato sostanziale della manifestazione [RdQeST cap. 3 Misura e manifestazione]”, non dovrebbe …ecc., ecc…

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Gian Giuseppe Filippi2 ottobre 2020 alle ore 12:20

      In una sola cosa il nostro rispettabile Anonimo contraddittore ha perfettamente ragione: “Signori si nasce e il resto si diventa”. Non è di certo una citazione dalla śruti, ma rende abbastanza da vicino l’idea dell’ordine castale. Perciò, professori si diventa; e, da qualche decennio, lo diventano anche cani e porci. Che poi il nostro titolo professorale, di cui non ci vergogniamo né vantiamo, sia stato “sudato” è una delle tante gratuite insinuazioni che la pluralità degli “Anonimi” ci ha indirizzato. Per la verità, esso ci è venuto senza sgomitate e senza collusioni politico-massoniche com’è accaduto per tanti di nostra conoscenza.
      Il resto della lunghissima risposta è un collage di citazioni dai libri di René Guénon, a conferma che per Anonimo et similes quella loro lettura rappresenta la fonte unica della loro preparazione “tradizionale” in generale e “vedāntica” in particolare. Nella risposta l’apporto della sapienza islamica, infatti, si limita a un peregrino “inshallah”, che vuole essere soltanto una dichiarazione di provenienza, del tutto inutile in quanto evidente.
      Non ci soffermeremo sulla ripresa del tema “informale-sovrindividuale”. Abbiamo ripetutamente esposto, spiegato e rispiegato riportando citazioni upaniṣadiche, di Śaṃkara e degli attuali advaitin, presenti in questo blog che ci ospita, nelle nostre pubblicazioni sul Sito vedaviyasamandala.com, nelle edizioni Ekatos e altrove, che la manifestazione universale è opera illusoria (māyika) del nome e della forma. Perciò l’intera manifestazione è formale: l’“informale” come manifestazione non è proprio mai nemmeno preso in considerazione. Anonimo si appoggia pure sull’autorità notevole, ma del tutto essoterica, dell’Aquinate. Anche così, tuttavia, S. Tommaso nel X capitolo del Liber de Causis afferma che la natura intellettuale degli angeli è plena formis, usufruendo di nozioni che costituiscono la loro plenitude formarum. Similmente, le devatā dell’induismo risiedono nei loka a cui possono condurre le anime degli iniziati defunti, fino a raggiungere come massimo Hiraṇyagarbha. E Hiraṇyagarbha è il reggitore dello stato di sogno. Più formale di così… Quanto poi alla trasposizione di nāma al di là della forma, questa è pura fantasia. Infatti il binomio nāma-rūpa costituisce il mondo della dualità. Trascendere la dualità vuol dire raggiungere il Non-duale. Il quale, non a caso, è l’unico arūpin, come è stato dimostrato recentemente con una citazione da Śaṃkara.
      Dobbiamo, inoltre, correggere una citazione che Anonimo attribuisce a noi, mentre la responsabilità di tale errore andava attribuita al prof. Ventura. La citazione corretta è la seguente:
      “E Ventura prosegue di male in peggio. Afferma che Veda Vyāsa, da cui ha preso nome il nostro Sito, era un liberato e che perciò, secondo le nostre affermazioni dottrinali, non avrebbe dovuto discendere di nuovo nella manifestazione. Invece egli avrebbe compiuto la “realizzazione discendente”, riesumando questa dottrina che non esiste da nessuna parte e che è metafisicamente impossibile. La parola finale sull’argomento si trova nell’articolo di Maitreyī sulla Dottrina dell’avatāraṇa pubblicata in VVM. In verità, la dottrina tradizionale annovera Veda Vyāsa tra i 28 (o 29) Vyāsa, che furono “anime liberate”; essi dovettero ritornare sulla terra per esaurire il loro karma positivo (puṇya) svolgendo la funzione di adattamento del dharma alle condizioni del dvāpara yuga.”

      Elimina
    2. Gian Giuseppe Filippi2 ottobre 2020 alle ore 12:21

      Come è evidente, dunque, non siamo stati noi a dichiarare che Veda Vyāsa era stato un liberato. Siamo certi che questo errore di lettura non sia stato motivato da malafede da parte di Anonimo, ma da una lettura affrettata, compiuta al solo scopo di cercare nostri eventuali errori. Errori, ovviamente, sono sempre possibili e comprensibili, come altrove abbiamo indicato a proposito di Corano XXII.52-53. Ma in questo caso, l’errore non fu nostro.
      Per quanto riguarda il contenuto della lunga risposta, ci asteniamo da controbattere punto per punto perché sarebbe una ripetizione del tutto inutile:
      “La ripetizione di mantra può essere usata nel caso della meditazione […], ma nel caso della conoscenza del Supremo Brahman che insegna che Brahman è proprio l’Ātman del cercatore, eternamente puro, cosciente e libero, a quale scopo servirebbe la sua ripetizione? […] Se ascoltare una sola volta l’insegnamento vedāntico, come “tu sei Quello” non produce la conoscenza dell’identità di Brahman con Ātman, non c’è alcuna speranza che lo stesso mahāvākya ascoltato ripetutamente possa produrre quella conoscenza” (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya IV.1.2).
      Nota (poco rilevante, in verità): Brahman è forma base maschile e neutra. Brahmā è il nominativo maschile e il nominativo Brahma neutro. Nessuno, tanto meno i maestri che parlano correntemente sanscrito, usa mai il nominativo o altri casi, se non quando richiesto dalla sintassi. Altrimenti, tutti usano la forma base in sanscrito, nei vernacoli e nelle lingue straniere. Ma Anonimo ha letto Guénon, perciò è il più Sapiente!

      Elimina
    3. Mi permetta sempre Sig. Filippi, ma lei è veramente divertente: “Che poi il nostro titolo professorale, di cui non ci vergogniamo né vantiamo, sia stato “sudato” è una delle tante gratuite insinuazioni che la pluralità degli “Anonimi” ci ha indirizzato. Per la verità, esso ci è venuto senza sgomitate e senza collusioni politico-massoniche com’è accaduto per tanti di nostra conoscenza….”: più “sudato” di così si muore! Le collusioni politico-massoniche, che pur esistono, ma meno di quel che si crede, di solito “oliano”, più che “far sudare per”, l’ottenimento di tali prerogative accademiche; come vede non ha colto, come al solito, il “significato” di quanto esposto.

      Sul resto, il mio non è un “collage” (mescolanza di elementi varî) di citazioni, ma un compendio molto selezionato di passi dai libri di Guénon, molto focalizzato sul tema.
      E ancora: tali citazioni non costituiscono affatto una conferma che “… per Anonimo et similes quella loro lettura rappresenta la fonte unica della loro preparazione “tradizionale” in generale e “vedāntica” in particolare.”, se non nella testa di chi vorrebbe a tutti i costi mettere in discussione l’autorità tradizionale di Guénon e ridurre tutta la “sua” opera, ad una banale conseguenza del suo pensiero, perché questo, forse (?), più dell’altra iniziativa propagandistica sul Vedanta (non si agiti: ci sono ancora molte persone per fortuna che pensano questo!) è il vero scopo di tutta questa messinscena, più o meno consapevole.

      In realtà, citiamo Guénon, per la semplice ragione che è il meno ostico da comprendere in un ambiente squalificato come quello occidentale, non solo a questo tipo di realizzazione diretta; non solo all’iniziazione in generale, ma pure ad una semplice affiliazione al Rotary: TUTTO QUI, CARO LEI! Circa poi che l’apporto della mia sapienza islamica si limiti a un peregrino (?) “inshallah”, beh, mi faccio un’altra bella risata! Se la mia dichiarazione di provenienza, non certo inutile (per lei forse!), risulta evidente è perché l’ho espressamente détto in uno dei miei commenti, contrariamente a quanto lei crede, o fa finta di non capire/ricordare, il tutto costituendo da parte sua, questa sì, “una delle tante gratuite insinuazioni” nei miei confronti.

      Sull’Aquinate, siamo alla solita confusione tra linguaggio denotativo e quello connotativo (con tutti il limiti della prospettiva religiosa), verso i quali lei ha dimostrato non una particolare propensione.

      Circa l’errore di interpretazione sulla frase che, Lei Filippi crede le abbia attribuito, mi pare che l’accusa della lettura affrettata debba esserle restituita; avevo ben capito che era stato il Ventura a sostenere questo, infatti scrivevo appunto: “Veda Vyāsa, da cui ha preso nome il nostro Sito, era un liberato e che perciò, secondo le nostre affermazioni dottrinali, non avrebbe dovuto discendere di nuovo nella manifestazione. Invece (PER IL VENTURA, NDR.) egli avrebbe compiuto la “realizzazione discendente”, riesumando questa dottrina che non esiste da nessuna parte e che è metafisicamente impossibile.”: mi pare evidentissimo!

      E per finire: “Nota (poco rilevante, in verità): Brahman è forma base maschile e neutra. Brahmā è il nominativo maschile e il nominativo Brahma neutro. Nessuno, tanto meno i maestri che parlano correntemente sanscrito, usa mai il nominativo o altri casi, se non quando richiesto dalla sintassi.”; grazie di averci fornito su un piatto d’argento la conferma del movente che ci ha spinto a servirci delle puntualizzazioni di Guénon in merito alla questione: è proprio per la sintassi della lingua italiana che non possiede il neutro, per cui Brahman che è valido per entrambi, non farebbe che generare confusioni!

      Elimina
  12. Anche noi certi che tali precisazioni non siano che flatus vocis, precisiamo per altri lettori “dotati del ben dell’intelletto” che capitassero per caso da queste parti, alcuni punti che potrebbero prestarsi a delle obiezioni, soprattutto sul punto particolare che il Filippi descriveva in questo modo: “Posto e confermato dalla śruti che il mondo è una proiezione della māyā e che questa agisce per mezzo di nāma-rūpa (perciò la manifestazione avviene per karma-nāma-rūpa)”, ovvero più in generale sull’aspetto della dualità che ogni essere manifestato, anche a gradi elevati, deve necessariamente avere per essere considerato tale.
    Come abbiamo visto: “Su questo punto, come del resto sotto ogni riguardo, è opportuno fare innanzitutto una distinzione fra il caso degli esseri situati nell'ambito della manifestazione informale o sopra-individuale, cui si riferiscono gli stati angelici, e quello degli esseri situati nell'ambito della manifestazione formale o individuale; e anche questo richiede una spiegazione precisa. Solo nell'ordine informale si può dire che un essere esprima o manifesti veramente, e nel modo più integrale possibile, un attributo del Principio; È LA DISTINZIONE DI TALI ATTRIBUTI CHE IN QUESTO CASO PRODUCE LA DISTINZIONE STESSA DEGLI ESSERI, che può essere definita come «DISTINZIONE SENZA SEPARAZIONE » (“bhedabheda” nella terminologia indù), poiché è ovvio che, in definitiva, tutti gli attributi sono realmente «uno»; ed è anche la più piccola limitazione concepibile in uno stato che, essendo manifestato, è ancora per ciò stesso condizionato…”; e questo confuta definitivamente la falsa concezione del Filippi, per la quale tutti gli esseri manifestati, per essere tali debbano necessariamente rivestire una forma: come in un “punto” inesteso si possa ancora parlare di “forma” in tutte le sue accezioni possibili, lo sanno solo quelli per cui “La fede è così potente da far muovere le montagne e da far credere a qualcosa…” che non esiste! A queste condizioni però, si potrebbe obiettare che, rimanendo solo “nāma” come abbiamo visto in precedenza, verrebbe a mancare la dualità necessaria affinché, un essere nella manifestazione possa esistere
    (continua...)

    RispondiElimina
  13. (seconda parte: fine)

    Quindi proseguiamo:

    “…D'altra parte, siccome la natura di ogni essere viene qui in certo qual modo interamente ricondotta all'espressione di un attributo unico, è evidente che questo essere possiede così, in se stesso, un'unità di tutt'altro ordine e ben altrimenti reale che l'unità assolutamente relativa, frammentaria e «composita» a un tempo, che appartiene agli esseri individuali in quanto tali; e, in fondo, proprio per via di questa riduzione della natura angelica a un attributo definito, SENZA ALCUNA «COMPOSIZIONE» CHE NON SIA LA MESCOLANZA DI ATTO E DI POTENZA NECESSARIAMENTE INERENTE A OGNI MANIFESTAZIONE (SI POTREBBE DIRE CHE L'ESSERE ANGELICO È IN ATTO IN RAPPORTO ALL'ATTRIBUTO CHE ESPRIME, MA IN POTENZA IN RAPPORTO A QUELLO DI TUTTI GLI ALTRI ATTRIBUTI), san Tommaso d'Aquino ha potuto considerare le DIFFERENZE ESISTENTI FRA GLI ANGELI PARAGONABILI A DIFFERENZE SPECIFICHE e non a differenze individuali [breve digressione: “atto e potenza”, aspetto generale della dualità universale “essenza/sostanza”, è la condizione dualistica di quegli esseri manifestati che non possono rientrare a far parte dell’aspetto particolare di tale dualità e che corrisponde a “nome e forma”, nella sua accezione definente gli esseri individuali, ndr.]. Se ora si vuol trovare nell'ordine della manifestazione formale una corrispondenza o un riflesso di quanto abbiamo appena detto, non bisognerà considerare gli esseri individuali presi singolarmente (e ciò risulta con sufficiente chiarezza dalla nostra ultima osservazione), ma piuttosto i «mondi» o gli stati d'esistenza, poiché ciascuno di essi, nel suo insieme e quasi «globalmente», è legato in special modo a un certo attributo divino di cui sarà, se è lecito esprimersi così, quasi la produzione particolare (Va da sé che tale modo di parlare è valido solo nella misura e dal punto di vista in cui gli attributi stessi possono essere considerati «distintamente» - e possono esserlo solo in rapporto alla manifestazione -, e che l'indivisibile unità dell'Essenza divina, cui alla fine tutto ritorna, non potrebbe assolutamente esserne intaccata); E QUESTO SI RICOLLEGA DIRETTAMENTE ALLA CONCEZIONE DEGLI ANGELI COME «REGGITORI DELLE SFERE» e alle considerazioni da noi già fatte a questo proposito nel nostro precedente studio sulla «catena dei mondi». [Simboli della scienza sacra, cap. 62; Le radici delle piante].”.

    E con questo mi pare sia sufficientemente risolto il (falso) problema innescato da esegeti poco accorti.

    RispondiElimina
  14. In tutti questi discorsi si dovrà prima o poi giustificare come possa lo psichico procedere dall'informale, se per ammissione le nature ( medievalmente )in gioco sono due e come possa dunque l'aquisizione passare allora per la conoscenza.
    Distanziatomi abbastanza, a me semplicemente pare, oltre le vostre beghe, che F. voglia ragionevolmente salvaguardare l'unica realtà.
    Difatti un'altra questione è lo "stato" di realtà totale che se non risultasse il Nirguna allora non permetterebbe per ovvietà alcuna identificazione ad esso se ( coerentemente ) posto aldilà della dicotomia attivo/passivo ritenuta tale secondo la categoria Non Manifestato.

    saluti, daouda

    RispondiElimina
  15. Gian Giuseppe Filippi2 ottobre 2020 alle ore 21:59

    “Chi sa che tutto ciò che vi è in questo universo, da Brahmā a un filo d’erba è solo il risultato della Māyā e sa che il Brahman è la sola e suprema Verità, ha tutto questo. È liberato dai legami dell’azione quell’uomo che, rinunciando a nome e forma, ha raggiunto la completa conoscenza dell’essenza dell’eterno e immutabile Brahman. La Liberazione non è data da japa, homa o da cento digiuni; l’uomo viene liberato dalla conoscenza di essere egli stesso il Brahman. La Liberazione finale si consegue grazie alla conoscenza che l’Ātman è il testimone, è la verità, è onnipresente, è libero da tutte le illusioni fuorvianti dell’io e del non io, è il Supremo e, pur dimorando nel corpo, non è nel corpo. Tutta l’immaginazione del nome e della forma e simili non è altro che un gioco da bambini. Colui che abbandona tutto questo e si pone in fermo legame con il Brahman, è senza dubbio liberato.” (Mahānirvāṇa Tantra, XIV.149-158)
    Il resto sono solo filosofemi.

    RispondiElimina
  16. Gian Giuseppe Filippi5 ottobre 2020 alle ore 18:40

    Risposta ad Alberto Ventura: Sul Sito Veda Vyāsa Maṇḍala non sono mai apparsi i nomi di Ventura né degli aderenti ad altri gruppi para-iniziatici italiani. Gli autori e curatori dei lavori che abbiamo pubblicato hanno accuratamente denunciato il “peccato” e non il “peccatore” vivente o no, per una scelta di stile e per rispettare la vita privata altrui. Ovviamente ciò non può valere per le recensioni che riguardano documenti pubblici a conoscenza di tutti.
    Coloro che si sono riconosciuti nelle nostre critiche si sono permessi, invece, di attaccare il Sito non nei contenuti, ma nelle persone dei nostri maestri e in quelle dei nostri collaboratori, insinuando dubbi sulla loro regolarità, serietà, preparazione e talvolta, nei casi più triviali, cercando di compiere un’opera di “indagine” sulle nostre persone. Pretendevano forse che non dovessimo reagire? Abituati come sono a essere attorniati da discepoli adoranti e plaudenti, sono rimasti sconcertati dal fatto che osassimo tanto? Quest’opera di disinformazione e di calunnia è stata in continuazione reiterata, evitando accuratamente di rispondere in merito ai contenuti delle nostre pubblicazioni. Gli unici tentativi di risposta “dottrinale” si sono basati esclusivamente su citazioni tratte da René Guénon sull’Advaita discordanti da quanto noi pubblichiamo. Non si sono mai chiesti il perché di questa discordanza: ne hanno scaricato la responsabilità sui nostri maestri, mettendo in dubbio le traduzioni e i contenuti che abbiamo utilizzato di Śaṃkara e delle Upaniṣad. Per loro Guénon è l’unico indiscusso metro di misura che garantisce la verità di ciò che affermano Śaṃkara, le Upaniṣad e i maestri di Vedānta. Se si discostano da quanto affermato da Guénon, sono tutti in errore. È il mondo alla rovescia! Mai sono stati sfiorati dal dubbio che Guénon abbia talvolta frainteso gli insegnamenti advitīya? La nostra accusa di dogmatismo e di fede cieca rivolta a chi da un paio di anni attacca la tradizione vedāntica rimane perciò inalterata. E, come abbiamo ripetutamente affermato, ciò è segno di incapacità di comprensione e disinteresse per la conoscenza alla quale non si può porre ostacoli.
    Sulla base delle nostre linee di comportamento ho criticato i libri di Ventura in quanto sono di dominio pubblico. Su una cosa ha ragione: un suo libro è intitolato Al-Hallaj, Storia di un martire del IX secolo e non Storia di un mistico del IX secolo come è pubblicizzato in rete. Ma peggiora la situazione citando il suo Al-Hallaj. Il Cristo dell’Islam. Scritti mistici, in pieno accordo con l’interpretazione di Louis Massignon. Per il resto scarica la responsabilità sull’editore che gli avrebbe commissionato una postfazione senza aver controllato su quale libro stesse per pubblicare. Questo ricorda un’altra grave leggerezza accaduta a ben altro personaggio che, però, all’ultimo momento ha avuto almeno l’avvedutezza di ritirare la sua introduzione a un libro che non aveva letto. Nel caso dell’Archeometra (sic), Ventura si dichiara parzialmente responsabile del falso per essersi fidato dell’autorevolezza sufica di chi spingeva per pubblicarlo e dell’ambiente di Atanòr. Quanto allo Yoga dell’Islam, titolo che da solo fa rabbrividire, Ventura approfitta per ribadire la sua insinuazione circa la mia incomprensione dell’islam in generale e del sufismo in particolare. Afferma che desiderava riferirsi “a contatti di natura iniziatica fra le due tradizioni indù e musulmana, contatti ben noti nell’organizzazione iniziatica con la quale egli [io] pretende di avere avuto una frequentazione più lunga e più intensa della mia (evidentemente senza averne compreso granché)”. Purtroppo per il nostro contraddittore, che ha una informazione libresca in merito, sono stato personalmente a Farrukhabad e a Kanpur prendendo contatti diretti.

    RispondiElimina
  17. Gian Giuseppe Filippi5 ottobre 2020 alle ore 18:42

    Continua: Per ciò che riguarda la frequentazione della Dargāh di Delhi, egli è al corrente dei 2-3 mesi che vi ho passato all’anno per otto di seguito, ma mente per non ammetterlo. Evidentemente non trova conveniente che i suoi discepoli lo sappiano. Come anche quando afferma di essere stato il primo a esservi stato iniziato e di averci portati, lui, lì. In verità Ventura fu iniziato assieme ad altra persona, alla presenza di altri due (tra cui il sottoscritto) che erano già iniziati da tempo. Vuole apparire sempre il primo della classe?
    Quanto a volermi ritorcere che anche io ho pubblicato in opere collettanee, glielo concedo. Ma quelle opere erano pubblicate a nome di un curatore. Invece, ben diversamente, Fouad Allam, Carretto e Ventura appaiono come co-autori del libro Islam per Laterza.
    Certo, ho citato Renou, O’Flaherty e Daniélou in certi scritti. Quegli autori hanno potuto scrivere anche delle notizie o considerazioni corrette nonostante il loro orientamento antitradizionale, perciò sono del tutto citabili. Ma lo stesso Guénon non aveva intrattenuto una corrispondenza con A. Daniélou? Perché, allora non glielo si rimprovera? Inoltre, grazie al fatto che, più recentemente, il Dr. J.-L. Gabin ha smascherato la gravissima manipolazione delle traduzioni da parte di Daniélou di alcuni lavori di Svāmī Karapātrī (che non fu mai il suo guru anche se si fece passare per suo discepolo e rappresentante in Occidente), la sua immagine rimarrebbe ancora nel limbo dei giudizi negativi, ma non troppo.
    Alberto Ventura, poi ci accusa di “pregiudizio antislamico”. Quest’ultimo è uno slogan politically correct di uso giornalistico. Il nostro, in realtà è un giudizio post quem, ponderato e basato su lunga esperienza diretta. Anche troppo lunga. E non è antislamico, perché tutto quello che c’era da riconoscere di positivo è stato dichiarato per iscritto. Ma con la sciocca accusa di “pregiudizio antislamico” si vuole far dimenticare l’attuale disastrosa situazione dei paesi in cui dilaga inarrestabile la salafiyyah, poco ostacolata dalle ṭuruq che, purtroppo, ne sono troppo spesso infiltrate. Come anche si vuole far dimenticare il secolare martirio dell’India. Se poi qualche sufi del passato si sia accorto della portata della spiritualità hindū, come Mirzā Mazhar Jān-e Jānān, Malik Muhammad Jāyasī e altri, ciò va a suo onore, ma non solleva da alcuna delle gravi responsabilità la stragrande maggioranza degli invasori arabi, turchi, mongoli e persiani.
    Infine, se ho rettificato il mio libello giovanile Post mortem et Libération d’après Shankarācārya è perché l’ho trovato pieno di errori. Si deve avere il coraggio di riconoscere l’errore, quando c’è, e rimediare di conseguenza. Questo è il comportamento retto di chi cerca la verità. Ostinarsi nell’errore per non modificare una condotta di vita ormai consolidata, per preservare la propria immagine davanti a sé e agli altri, per non mettere in discussione ciò che si è creduto fino a oggi, è la via sbagliata. Sulla stessa lunghezza d’onda nel mio articolo apparso su “Scienza Sacra”, ho raddrizzato diverse affermazioni di Ventura (mosse naturalmente sempre e solo in base a Guénon), ch’egli attribuisce alla dottrina non duale, punti di vista che, in realtà, sono a essa incompatibili, riguardando solamente le vie della conoscenza non suprema. Queste sono le parti più importanti della mia risposta a quell’attacco.

    RispondiElimina
  18. Alcuni lettori dei libri di R. Guénon pare abbiano inteso questi libri come dottrinali e dai quali abbiano poi creato un singolare sincretismo (massoneria e Islam ), credendo così di seguire le orme del grande maestro francese, ma leggendo i vari commenti e post, sembra abbiano frainteso la sua opera. I giudizi espressi nei post sono molto confusi a riguardo delle questioni metafisiche.
    Se da un lato rinnegano internet come "mezzo moderno e antitradizionale", dall’altra ne continuano ad usufruire per postare i più svariati articoli e promuovere se stessi...se questo significa coerenza...
    Poi cercano di contrastare l’ autorità di una dottrina facendo
    un copia-incolla di testi dello stesso Guénon, non potete controbattere attraverso testi della vostra dottrina?
    C'è in questo stesso blog un interessante articolo di Enzo Cosma sulla lettera NŪN di cui non c'è stato un solo commento da parte di un "guenoniano" e mi chiedo se il silenzio è accettazione di quanto scritto oppure non si arriva a confutare tale articolo?
    viene contestato il fatto della (quasi) impossibilità per un occidentale di accedere ad una dottrina come il Vedānta per il solo fatto di non essere indiano...
    chi insinua questo ha mai capito il Vedānta? viene addirittura messo in dubbio la autorità di maestri riconosciuti successori di Śamkara, mi chiedo con quali fondamenti viene commessa questa leggerezza?
    Potete dimostrare la non autorità di questi maestri? Vedo che gli anonimi vari evitano di rispondere a qualsiasi
    affermazione dottrinale fatta e si rifuggono nella insolenza e maleducazione, caratteristiche che li unifica in forma proverbiale ovunque scrivono.
    Povero Guénon, certi suoi ammiratori lo farebbero rigirare nella tomba.
    Se si chiamassero al silenzio come fanno con l’anonimato in cui scrivono, forse, questo rappresenterebbe la loro più alta conquista di spirito.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Mannu, a leggere certe vostre fesserie prende lo sconforto, ma di questi tempi bisogna farci l’abitudine… Se pare ci siano ancora alcuni lettori - non ‘pare’ e non ‘alcuni’, ma ‘certamente’ e, ahimè, rarissimi a quanto sembra - che intendono i libri “di” Guénon come frutto di una realizzazione effettiva e quindi, ipso facto, come dottrinali e non la conseguenza di una semplice speculazione individuale, la ragione è che è l’unica chiave di lettura per arrivare a capo della “sua” opera, mancando la quale, ci si condanna inevitabilmente a non capirne più nulla.

      Inoltre, non esistendo, oltretutto, nessun motivo incontrovertibile che possa smentire tale possibilità, lo stesso ‘atto di fede’ di cui accusate questi lettori essere l’unico parametro di valutazione in loro possesso su cui basare l’attendibilità di tale presa di posizione, valendo paro, paro anche per voi che volete confutarla, non si vede perché si dovrebbe “giocare al ribasso” e accontentarsi sempre della spiegazione più semplice: chi e che cosa cavolo mai sareste per avere la certezza di quello che, con il solito arrogante tenore apodittico, andate affermando ai quattro venti, con tanta temeraria convinzione? Noi “guénoniani spinti”, i rasoî li teniamo ancora in bagno e li usiamo per farci la barba e non per spiegare la Verità; se per voi è il contrario, nessuno potrà mai farci niente: suum cuique! E ci si potrebbe fermare anche qui, tanto tutto il resto risulterebbe ridondante, ma siccome non vogliamo assolutamente lasciare in sospeso nulla, per le “semplici anime analitiche” che pascolano questo blog, riteniamo opportuno aggiungere qualcos’altro.

      Non vedere alcune opere che come il frutto di una speculazione individuale, come lo sono la maggior parte di esse, gioco forza, vale quanto affermare che non possono che essere inficiate da “errori” di valutazione, dovuti alla particola prospettiva dell’autore, epperò, in alcuni casi è anche condannarsi, come si diceva, a non capirne granché.
      Nello specifico, come esempio, prendiamo il caso emblematico dell’“errore” per antonomasia di G. sul Buddhismo, di cui tanto si è discusso a proposito e a sproposito; qui non si vuole entrare nello specifico, ma solo focalizzare con una domanda il punto che ci interessa: che dire della stessa posizione espressa da Śaṃkara sull’eterodossia inerente a tale forma? Per la proprietà transitiva, non sorge quindi il lontanissimo sospetto che le cose non siano poi così “occamianamente” fruibili, soprattutto di questi tempi ingannevoli? Quindi entriamo nel particolare della questione posta dall’interlocutore, circa l’articolo sulla lettera NŪN di E. Cosma.
      Ci si lamenta che non c’è stata nessuna risposta da parte dei “guénoniani”: ma guarda! a parte che non è proprio uscita sul ‘Corsera’, per redigere un articolo ben fatto come quello del Sig. Cosma, quanto ci si è impiegato, vista la complessità di quanto sviluppato? Cosa si pretenderebbe, una rispostina immediata, un botta e risposta a mo’ di disputa da ‘social’ come fanno i teen-agers, su una cosa tanto complessa e affatto non limitata alla semplice questione in sé? Non essendo, purtroppo, nelle nostre competenze specifiche, auspico che qualcuno – e questo valga come un invito a chi sta leggendo – se ne faccia carico a breve, ma fino ad allora (e anche oltre …), ci atterremo a quell’assentimento (non fede), nei confronti dell’opus guénoniano, che ci ha sempre confermato la validità che a scrivere non era un individuo, ma la sua funzione, per cui anche (apparenti) “errori” acquisiscono un loro senso profondo.
      E se non dovesse, tale risposta, mai arrivare, non sarebbe certo irrilevante, anzi, ma non risolverebbe ancora nulla: siamo convinti che cambiare parere su queste cose, non sia come cambiarsi le mutande!
      (continua...)

      Elimina
    2. (seconda parte...fine)
      Per finire due, tre considerazioni accessorie di secondaria importanza:
      1) Di quale sincretismo tra Massoneria ed Islam va blaterando il nostro? Conosce l’esatto significato che questo termine implica? Temo che, uno che sbrodola stupidaggini simili, non sia, ovviamente, non solo massone né islamico, ma nemmeno annoverabile tra coloro che hanno una visione tradizionale della vita e, in particolare, a nessun tipo di iniziazione che questa offre ai suoi aderenti…
      2) Di quali ‘orme’ ciancia sempre il nostro, che alcuni seguirebbero di Guénon se, per quanto detto sopra, a quelli che veramente hanno capito il messaggio veicolato dalla sua funzione, della sua individualità non potrebbe che fregargliene uno zero assoluto (come, del resto, non fregava nulla nemmeno all’interessato!)? Qui, se si dovessero individuare ‘confusi’ e ‘fraintendisti’, non sarebbe certo tra i suddetti (la stessa sensazione di ‘molta confusione’ si ha anche, direi soprattutto, per quelli che copia-incollano Śaṃkara!)! Di passata, aggiungiamo anche che, se l’individualità di G. è poco o niente interessante, a maggior ragione lo è quella dei suoi lettori, per cui il “…dall’altra ne continuano ad usufruire per postare i più svariati articoli e promuovere se stessi…” la valutiamo per quel che è: una modestissima e insignificante opinione della persona che l’ha espressa!

      3) Considerare “internet come ‘mezzo moderno e antitradizionale’”, non è esclusivo di un suo uso, a volte inevitabile, ma di un suo abuso! Combattere l’Avversario sul suo terreno e con i suoi mezzi, non occorre certo spiegare (o sì?) che non è perché se ne condividano metodi e meriti, che li si utilizza (lascio a lor signori immaginarne il motivo recondito…).
      Dai detrattori – ma che dico: furibondi denigratori – della modernità e di tutte le sue deviazioni (leggasi i primi capitoli del Filippi de ‘Il serpente e la corda’: ma lei Sig. Mannu, li ha létti?), fautori della visione “castale” ‘à la page’, non ci saremmo certo aspettati che una semplice constatazione come la valutazione negativa di internet, li scombussolasse a tal punto…

      4) “Poi cercano di contrastare l’autorità di una dottrina facendo un copia-incolla di testi dello stesso Guénon, non potete controbattere attraverso testi della vostra dottrina? (cit.)…”: se il Sig. Man(n)u (nientepopodimeno che?) ha avuto la pazienza di leggere – e magari di capire – i nostri interventi, il motivo l’abbiamo spiegato, per cui non crediamo sia il caso di ripeterci, ma a prescindere da questo: è concesso copia-incollare solo voi, o cosa?

      5) E per finire in bellezza, la questione della messa in dubbio dell’ “…autorità di maestri riconosciuti successori di Śamkara (sic; lo scriva bene che poi il Filippi se ne ha a male…): quello che abbiamo avuto occasione di leggere fin qui di ciò che riguarderebbe tale accusa, in particolar modo, quello apparso su RivistadST, ci è parso (magari sbagliamo e allora sarà a cura dell’interlocutore evidenziare i punti dolenti che ci sarebbero sfuggiti...) riguardasse non punto i Maestri in questione (a parte qualche imprecisione sui titoli formali con i quali sono stati individuati…), ma i loro accoliti, e più precisamente quelli occidentali.
      Ora, e di questo ce ne assumiamo tutta la responsabilità, non credo che sia cosa affatto peregrina indirizzare le ricerche proprio in questa direzione – quella cioè di includere IPOTETICAMENTE anche questi “Maestri” nell’ambito eterodosso –, perché siamo convinti che questo potrebbe essere l’unico modo efficace per smascherare questa pantomima montata ad arte su questo blog e su altri affini.
      Ovvero, se si evidenziasse inequivocabilmente la perfetta ortodossia di tali Maestri, capire in che rapporto siano con i loro “discepoli” occidentali: tertium non datur? Magari no, magari sì, magari forse… Certo è che se si dovesse arrivare al dunque, parafrasando il Nostro, si potrebbe certamente affermare:povero Śaṃkara, certi suoi ammiratori lo farebbero rigirare nella tomba!

      GATTO

      Elimina
    3. Errata c.: "Munnu" non "Mannu" come erroneamente riportato, quindi è inutile l'insinuazione conseguente "Man(n)u", basata su un semplice lapsus calami; di questo mi scuso.

      Elimina
  19. Sig.Gatto anonimo,
    Il mio intervento era in generale ma visto che si è sentito chiamato in causa ed è subito pronto ad intervenire come un teenager nei social, le risponderò ad alcune sue valutazioni.
    La massoneria non mi ha mai attirato un granché, vista la situazione odierna in cui si trova e che già Guénon più di cinquanta anni fa criticava. D'altronde tutti i massoni che conosco, chissà perché, dopo lunghi anni d'appartenenza si mettono in "sonno"e cercano altre vie di realizzazione, quindi non perderei minimamente tempo.
    Sulla questione riguardo ai maestri indiani menzionati, basta lei legga qualche articoli della RST, forse le è sfuggito qualcosa.
    È quasi comico il suo dribblare la questione lettera NŪN, tutto si riduce ad una questione di 'assentimento'.
    Sull'errore di scrittura di Śamkara come vede lo ripeto, abbia pazienza, ho una tastiera che fa degli scherzi ma credo che la sua perspicacia le faccia capire di chi sto parlando.
    Per conto del mio nome può ironizzare all'infinito, mica mi offende!, se ne sapesse l'origine si stupirebbe, ma neanche con tutta la sua fantasia ne verrebbe a capo.
    Infine, non intendo abbassare ancora il livello di questo post con i miei interventi e le sue risposte, per rispetto all'articolo del Sig.Filippi, del blog che ci ospita e dei lettori.
    Cordiali saluti.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sig. Munnu, il fatto che il suo intervento fosse in generale, visto che qui sono l’unico (a parte un intervento solo di “Anonimo/Ottavio”) che corrisponde alla descrizione, da lei gentilmente offerta agli astanti di questo blog, circa i “guénoniani”, non capisco perché si stupisca se mi sento preso in causa e, inoltre, della mia tempestività da teen-ager nel rispondere (prima si lamenta perché non c’è una risposta tempestiva, poi perché c’è…bah…). Comunque non creda di essere così importante a nostri occhi: il mio era il classico atteggiamento di chi parla alla “suocera perché nuora intenda (i sostantivi sono volutamente rovesciati)”, perciò niente di personale, come a lei è sembrato…

      Sempre quindi con la simulazione appena descritta, le rispondo direttamente: come si apprende dalla sua sincera ammissione, della Libera Muratoria non glien’è mai fregato nulla, capire quindi quale sia il motivo e la pertinenza che l’hanno indotta a (s)parlare di sincretismo islamico-massonico, resta un bel mistero, quasi come quello di questo blog; mi piace comunque segnalare quale sia il metodo epistemologico di certi personaggi che parlano tanto più in modo affermativo di una cosa, tanto meno ne sanno (a proposito di “assentimento”).
      E insiste pure: l’aver dedicato lunghi studi sulla Libera Muratoria, Guénon lo avrebbe fatto esclusivamente per criticarla e per far piacere a quelli come lei perché diano una giustificazione alle convinzioni che gli ronzano in testa.
      Affermare stupidaggini di questo tipo, dà, ancora, la dimensione di quale sia la comprensione di persone che blaterano a vanvera sull’aria fritta: dire che Guénon criticava la Libera Mutaroria, e non i massoni, sarebbe come sostenere che, all’epoca, le invettive di Dante sui rappresentanti del Cattolicesimo (e non sul Cattolicesimo tout court, come spesso per comodità si sostiene a torto), fossero contro Il Cristo stesso!

      Raramente a me sfugge qualcosa, però come ipotizzavo, non posso escluderlo assolutamente, quindi come le dicevo, lei che ha già visto dove RdST parla male dei Maestri indiani in questione, mi vorrebbe far la gentilezza di risparmiarmi di rileggere tutto e evidenziarmi tali punti dolenti? Grazie: attendo fiducioso…

      E sempre a proposito di “assentimenti” e di dribbling, è apparso come antipasto, un articoletto esplicativo sulla pagina facebook di Rivista, proprio circa la querelle delle lettere NŪN/NA, in particolare sulla confutazione della forma della ‘NA’ sanscrita, messa in discussione dagli articoli del Cosma e del Filippi: come vede, basta aspettare e “assentire”.

      Sull’errore di scrittura, non sono io quello al quale deve dire di portare pazienza, ma il Filippi, che si spazientisce solo per gli errori di scrittura dei contraddittori: ma sono certo che con lei sarà magnanimo…
      Dell’ironia sul suo nome – che potevo benissimo risparmiare – mi sono già scusato, certo che adesso pensare che avrei una qualche curiosità a scoprirne l’origine, mi sembra esagerato.

      Sicuro che, per rispetto dell’articolo del Filippi, del blog e dei lettori, lei non risponderà per non abbassare ancora il livello di questo “Thread” (non “post”), anch’io la saluto cordialmente.

      GATTO

      Elimina
  20. Petrus Simonet de Maisonneuve7 ottobre 2020 alle ore 18:23

    Parte I

    La schizofrenica invettiva dell’Anonimo ha il solo scopo di banalizzare il lavoro svolto da www.vedavyasamandala.com e dai suoi collaboratori. La pretesa di voler mettere sul banco degli imputati i vedāntin mira a infangare la loro immagine con capi d'accusa che vanno dalla truffa, al millantato credito, per citarne solo alcuni. Dall’agio del suo vile anonimato, ha così avuto l'ardire di dubitare persino dell'ortodossia dei nostri maestri, incapace tuttavia di presentare un minimo di prova a suo sostegno. Ora, i presunti imputati, oltre ad aver risposto con una certa grazia, si erano già presentati al loro pubblico dichiarando la propria via iniziatica, fornendo nomi dei maestri e citando i loro scritti. Numerosi e puntuali sono stati gli estratti, sia upaniṣadici sia da Gauḍapāda e Śaṃkara e dagli stessi maestri contemporanei, a sostegno dei loro ragionamenti. Dal canto suo l’oppositore, dopo sterili tentativi di tirare in causa Platone, Pitagora, San Tommaso e Coomaraswamy, alla fine ha deciso di avvalersi nelle sue argomentazioni solo di Guénon. Ora, perché costui per par condicio non si qualifica dichiarando almeno sulla sua ṭariqa d’appartenenza, se esiste? Chi è il suo maestro? Perché non cita mai alcun testo del fondatore della sua scuola e dei suoi successori sulle tematiche presenti su questo thread? Forse non ha il coraggio per farlo? Non ci risulta infatti che l’autore francese abbia mai esercitato il magistero in termini iniziatici. Noi citiamo i nostri maestri, l’Anonimo cita solo i suoi non-maestri. Che l’autorità di Guénon derivi da una sua realizzazione questo nessuno lo può sapere se non il diretto interessato, che mai ha fatto una tale dichiarazione.
    A proposito della questione Guénon-buddhismo, il nostro scarsamente autocontrollato contraddittore dimostra la sua impreparazione dottrinale a cui ci ha abituato. Guénon, seguendo fedelmente le critiche mosse da Śaṃkara al buddhismo, aveva preso la posizione tradizionalmente corretta. Ma a questo proposito c’è da aggiungere che il buddhismo che Śaṃkara principalmente demolì era la scuola eterodossa Vijñānavāda che, alla sua epoca, era egemone in India. Purtroppo, anche su questo argomento Guénon ha subito l’influenza scorretta di Coomaraswamy. Quest’ultimo erudito, peraltro utile alla lettura nell’ambito del simbolismo e del rituale vedico, ha sempre manifestato una grave incapacità di comprensione della metafisica. È a causa di questa incomprensione che egli ha voluto rivalutare il buddhismo, come se fosse un blocco omogeneo, influenzato com’era dalle sue frequentazioni teosofiste e neo-hindū. Infatti egli ha sempre trascurato l’importanza della tradizione tibetana, che rappresenta il vertice delle correnti buddhiste grazie alla rettificazione operata dal tantrismo. Per la verità, Guénon ebbe sempre l’accortezza di distinguere le correnti Śūnyavāda e Anātmakavāda dalla tradizione tibetana che egli cita sempre correttamente in modo positivo. Tuttavia, influenzato dall’erudito singalese, si lasciò convincere a sopprimere i capitoli riguardanti il buddhismo (e il jainismo). In verità in essi aveva descritto il buddhismo criticato da Śaṃkara nel modo più preciso.
    È tuttavia apprezzabile, riguardo la questione della Na sanscrita, la sua ammissione di non averne competenza; argomento insostenibile, che invece altri, palesemente incompetenti, continuano a difendere in modo ripetitivo.

    RispondiElimina
  21. Petrus Simonet de Maisonneuve7 ottobre 2020 alle ore 18:24

    Parte II

    Visto, inoltre, che l’Anonimo non capisce che la manifestazione appare per l’azione congiunta di nāma e rūpa, cioè della māyā, e perciò che non possa esistere alcuna manifestazione informale o sopra-individuale, egli si aggrappa all’angelologia islamica che d'altra parte non è di molto differente da quelle delle altre religioni monoteistiche. Questa scienza ricade pienamente nel campo della teologia essoterica che, in ciò, non differisce dalle dottrine sufiche. Ora, gli angeli si distinguono per gerarchie, quindi forme, e sono riconoscibili individualmente con i nomi di Raffaele, Gabriele, Michele etc. Ognuno di essi svolge un’azione differente nel creato. Quindi, distinguibili fra di loro, sono sottoposti alla forma e, distinguibili per funzioni, sono caratterizzati dal nome. Gli angeli hanno dimora e reggono i diversi cieli in cui fruiscono loro stessi assieme alle anime defunte meritevoli, come fanno i deva nei diversi loka. Si tratta dunque di loka o cieli di fruizione, perciò sottoposti a nome e forma, al saṃsāra caratterizzato da kāma, karma, phala e bhoga (desiderio, azione, frutti dell’azione e loro fruizione).
    “Si può parlare del Brahman qualificato in quanto Sé di tutto, come nel testo «Egli è in possesso di tutte le attività a di tutti i desideri» (ChU III.14.2-4); perciò i testi upaniṣadici che riguardano l’azione sono connessi al solo Brahman non-Supremo” (BSSBh IV.3.14).
    ब्रह्मादिस्तम्बपर्यन्ता मृषामात्रा उपाधयः ।
    ततः पूर्णं स्वमात्मानं पश्येदेकात्मना स्थितम् ॥ ३८६ ॥
    “Le limitazioni aggiuntive (upadhi), a partire da Brahmā fino al filo d’erba, sono tutte semplicemente irreali” (Viveka Cūḍāmaṇi, 386).
    Tutto questo è adhyāropa, l’assunzione temporanea dell’errore a fine metodico, da cui se ne trae la sua utilità per viam negationis.
    La “riduzione della natura angelica a un attributo definito” conferma ulteriormente che gli stessi attributi divini sono sottoposti al nome e alla forma, in quanto sono proiezioni della mente, pensieri e immaginazioni sovrapposti al Brahman nirguṇa. La mancanza di una forma grossolana non implica affatto che non vi sia una forma sottile. Infatti i fedeli delle religioni pensano a Dio come buono, giusto, misericordioso etc. proiettando sul sostrato inconoscibile dell’Assoluto le caratteristiche della loro individualità. L’Assoluto infatti è libero da qualsiasi caratteristica o attributo. Ma questa è metafisica.
    Per quanto riguarda la citazione “Per un’esatta comprensione di quanto precede, occorre fare appello ai princìpi dottrinali che sono comuni a tutte le tradizioni...” ci permettiamo di far notare che ciò non è affatto vero. Infatti non ci risulta che il significato del mahāvākkya Tattvamasi, sintesi della dottrina Advaita, trovi eguale in tutte le forme tradizioni.
    Lo scopo di Veda Vyāsa Maṇḍala è quello di presentare al lettore il punto di vista Advaita, ossia superiore, che non è affatto in contraddizione con quello inferiore se non per coloro che lo osservano dal basso senza comprenderne la sua statura. Non vi è quindi nessun motivo di tenere segreta la dottrina del Vedānta che è da sempre disponibile a chi ne fosse interessato. La sua comprensione invece è solo appannaggio di chi possiede le necessarie qualifiche.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Il Sig. Petrus (tralasciamo per comodità le desinenze…), nel tentativo di sminuirci (e un pochino offenderci: sempre a proposito delle “vergini violate”…), si inventa la nostra schizofrenia: ebbene, da un certo punto di vista, quello etimologico, tale tentativo potrebbe pure risultare veritiero.
      “Schízō, 'io divido' e φρήν phrḗn, cervello”, costituisce in effetti ciò che noi siamo in realtà, cioè un individuo che sa tenere separato il “mentale” o la mente, di cui il cervello ne è l’organo di supporto, da quello che ne è la causa che lo ha prodotto, quale effetto tra i tanti della serie indefinita a lei riconducibile.
      Questo dovrebbe già far capire di cosa vogliamo parlare, ovvero della ‘vexata quaestio’ sulla “manifestazione informale” o “in-formale”, come sbrigativamente viene definita dal gruppetto di “equilibrati mentali”… beh: più che altro “equilibristi”! Prima però vorremmo, come al solito, sistemare alcune cosucce che forse potrebbero sembrare del tutto marginali visto l’alto livello metafisico proposto dalla “compagnia non-duale”, epperò irreali ovviamente, ma per noi invece, che siamo ancora catturati da questo miraggio, del tutto centrali, per cui ce la prendiamo ancora dannatamente a cuore, quando ci tocca vedere reiterate le solite stupidaggini.

      Quindi: chi e che cosa infangheremmo? Riportiamo verbatim, quanto da noi sostenuto: “Ora, e di questo ce ne assumiamo tutta la responsabilità, non credo che sia cosa affatto peregrina indirizzare le ricerche proprio in questa direzione – quella cioè di includere IPOTETICAMENTE anche questi “Maestri” nell’ambito eterodosso…”; ci pare che indirizzare delle ricerche in questo senso, mossi da un’IPOTESI, senza ancora avere uno straccio di prova, non sia nel modo più assoluto voler ACCUSARE (ricordiamo che l’etimo di tale verbo è “causa” non “ipotesi”) qualcuno di questo o di quello, ma ‘presumere’ che ciò sia.
      Infatti proseguivamo: “Ovvero, se si evidenziasse inequivocabilmente la perfetta ortodossia di tali Maestri, capire in che rapporto siano con i loro “discepoli” occidentali: tertium non datur? Magari no, magari sì, magari forse…”.

      E si arriva al dunque: sì, non siamo qui a “…banalizzare il lavoro svolto da www.vedavyasamandala.com e dai suoi collaboratori…” se non per il motivo che ci teniamo, in primis, a confutarlo, a ciò potendo attagliarsi la precedente citazione per cui miriamo, non a infangare, ma a smascherare “…con capi d'accusa che vanno dalla truffa, al millantato credito, per citarne solo alcuni.”. Chiaro? E più precisamente, sia détto decisamente, smascherare non gli individui che sostengono questo punto di vista – cosa poco interessante, tra l’altro –, ché necessiterebbe una partecipazione cosciente da parte loro (è lungi comunque dal credere che non ci possa essere nessuno cosciente, ma per noi, dal punto di vista dal quale ci poniamo, non fa differenza alcuna…), ma la cosa in sé.
      (continua…)

      Elimina
    2. (seconda parte…)
      Si fa cenno alla nostra (presunta) vigliaccheria: non siamo così ingenui da spiattellare i nostri dati sensibili su un ‘trivio’ di cui non abbiamo nessuna considerazione positiva (non ci riferiamo, tout court, al blog di ‘Scienza Sacra’); alcuni lo vedono come un atteggiamento vigliacco, altri, come il sottoscritto, come un atteggiamento prudente: a voi ‘impavidi’ la scelta di eleggere la spiegazione che vi fa più comodo.

      Questione Guénon: “Che l’autorità di Guénon derivi da una sua realizzazione questo nessuno lo può sapere se non il diretto interessato, che mai ha fatto una tale dichiarazione. (cit.)”; lungi anche qui dall’essere vero quello che, sempre apoditticamente, si afferma, ecco comunque che, involontariamente, il nostro ‘scarsamente informato contraddittore’ ha risolto un altro problema: se NESSUNO (quindi nemmeno voi) lo può sapere, non vuol dire che non si possa, per mille e mille motivi, assentire, come anche no… De gustibus non est disputandum! E sempre a proposito di scarsa informazione, inoltre, lasciamo il Nostro alle sue convinzioni riguardo la questione sul Buddhismo (si scrive maiuscolo: le regole grammaticali non vanno rispettate solo quando si (s)parla di Vedānta!)

      Questione NA sanscrita: come avrà già avuto agio di leggere, mettevo al corrente il blog, che è apparso sulla pagina FB di Rivista, un ‘antipasto’ sulla questione, antipasto che potrebbe essere già una cena completa per quelli “di ben intelletto”, per altri, sappiamo benissimo che nemmeno Brahma stesso potrebbe farli mangiare.

      Ed infine, cerchiamo di accennare brevemente alla questione iniziale sulla ‘manifestazione informale’, ma prima un ultimo appunto.
      Sempre il Nostro ci fa sapere: «Per quanto riguarda la citazione [di Guénon, ndr.] “Per un’esatta comprensione di quanto precede, occorre fare appello ai princìpi dottrinali che sono comuni a tutte le tradizioni...” ci permettiamo di far notare che ciò non è AFFATTO vero (cit)…».
      Ci pare d’aver documentato a sufficienza sul perché la questione “non-duale” non sia di immediata percezione nelle altre tradizioni ortodosse e per non star qui a ripetere le stesse cose, rimandiamo chi è interessato ad andare a rileggere i motivi che spiegano inoltre come, sostenere il contrario, sia in più, contraddittorio.
      Ma, come che sia, dobbiamo notare, nello specifico contendere del Nostro, che l’avverbio ‘affatto’ significa “del tutto; interamente”, quindi presuppone un’assoluta certezza, in questo caso, più che matematica.
      Ci si aspettere dunque che il seguito fosse supportato dalle più profonde prove metafisiche di tale impossibilità, ma, sorpresa, si legge: “Infatti NON CI RISULTA che il significato del mahāvākkya Tattvamasi, sintesi della dottrina Advaita, trovi eguale in tutte le forme tradizioni (cit.).”: ogni altro commento sarebbe inutile! Siamo sempre in balia di una metafisica… dei gusti, e mi si conceda di dire, che quelli del Nostro mancano di “sale”…

      Adesso, la vexata della manifestazione informale.
      Anche qui abbiamo documentato a sufficienza come bisogna rettamente intendere il concetto di ‘dualità’ necessaria affinché ogni cosa si possa dire manifestata, in riferimento all’informale ed agli esseri che la occupano.
      Tralasciando “… per pura compassione l’accenno…(cit.)” all’accostamento tra exoterismo e sufismo – ché non si finirebbe più, e il tempo scarseggia da queste parti ormai -, vorremmo, a Dio piacendo, affrontare tale tematica da un punto di vista più che altro logico/dialettico, introducendo la nozione di “causa”, tanto invisa al mondo occidentale (e anche a quello “para-orientale” a quanto pare…).
      Nell’altro ‘thread’, un Anonimo che si firmava “daouda”, in suo intervento, non molto chiaro per la verità, affermava: “In tutti questi discorsi si dovrà prima o poi giustificare come possa lo psichico procedere dall'informale...”; pensiamo non sia inutile qualche considerazione in proposito seguendo la linea accennata.
      (continua…)

      Elimina
    3. (terza parte…)
      Sempre in quel ‘thread’ il Filippi sosteneva:
      “Similmente, le devatā dell’induismo risiedono nei loka a cui possono condurre le anime degli iniziati defunti, fino a raggiungere come massimo Hiraṇyagarbha. E HIRAṆYAGARBHA È IL REGGITORE DELLO STATO DI SOGNO [sarebbe meglio dire della “Manifestazione sottile”, di cui, non lo “stato”, ma la “modalità” di sogno non ne è che una particolarizzazione, ndr.]. PIÙ FORMALE DI COSÌ…”; e in questo ‘thread’ il Nostro esplicita: «Ora, gli angeli si distinguono per gerarchie, quindi forme, e sono riconoscibili individualmente con i nomi di Raffaele, Gabriele, Michele etc. Ognuno di essi svolge un’azione differente nel creato. […] distinguibili per funzioni, sono caratterizzati dal nome. Gli angeli hanno dimora e REGGONO I DIVERSI CIELI […] La “riduzione della natura angelica a un attributo definito” conferma ulteriormente che gli stessi attributi divini sono sottoposti al nome e alla forma, in quanto sono PROIEZIONI DELLA MENTE, pensieri e IMMAGINAZIONI sovrapposti al Brahman nirguṇa. La mancanza di una forma grossolana non implica affatto che non vi sia una forma sottile.».

      Bene, entriamo nella disamina “causale” della faccenda (sulla citazione del Filippi): come sarebbe possibile che Hiraṇyagarbha, principio, quindi ‘causa’, di tutta ‘Manifestazione Formale’ possa essere esso stesso una forma? Come potrebbe essere tale, senza diventare uno dei suoi indefiniti effetti, se non per una sorta di immanentismo contraddittorio? Come può una causa essere calata nella serie dei suoi sviluppi, invece che essergli trascendente? E quale potrà mai essere questo “luogo” se non un ambito ‘informale’ (se si vuole anche “in-formale”, ovvero una “non-manifestazione” che è tale, non in sé, ma rispetto a tutta la Manifestazione formale, quindi un “non-manifestato” sui generis come può esserlo, per rendere l’idea, la modalità sottile rispetto a quella grossolana…), che deve persistere inalterato ai suoi effetti, pena non poter essere più la causa di nulla?

      E sulla citazione del Nostro.
      Sempre per la questione ‘causale’: i “Reggitori delle Sfere” sarebbero quindi il frutto di PROIEZIONI DELLA MENTE o dell’ IMMAGINAZIONE, ossia il prodotto di un loro infimo prodotto (ci si passi il gioco di parole) che possono usare a piacimento per manifestarsi nell’ambito formale? Non passa nemmeno il dubbio che ciò sia contraddittorio rispetto a quella che è la loro natura essenziale?
      Visto che, senza accorgersene, ha citato solo i NOMI angelici, gli chiediamo: ha mai sentito parlare del concetto di “quiddità”, ossia il “che”, il “quid” delle “cose”, libero cioè dalle cose stesse, sottili o grossolane che siano?

      Elimina
    4. (quarta parte… fine)
      Tradiamo volentieri il nostro intento di non citare Guénon, e per quelli forniti “di ben intelletto”, si spera capaci di fare le dovute trasposizioni, di passare cioè dal ‘significante’ al ‘significato’, dal linguaggio denotativo a quello connotativo, pubblichiamo:

      “A questo proposito, quando si considera Brahma, si deve considerarlo, in primo luogo, come identico a Hiranyagarbha, principio della manifestazione sottile, dunque dell’esistenza umana nella sua integralità; abbiamo infatti precedentemente asserito che l’essere il quale ha ottenuto l’«immortalità virtuale» è, per così dire, «incorporato», per assimilazione, a Hiranyagarbha; e questo stato, nel quale può restare fino al compimento del ciclo (per cui soltanto Brahma esiste come Hiranyagarbha), è ciò che il più ordinariamente si considera come il Brahma-Loka 228. Tuttavia, parimenti che il centro d’ogni stato d’un essere ha la possibilità d’identificarsi con il centro dell’essere totale, il centro cosmico, residenza di Hiranyagarbha, s’identifica virtualmente al centro di tutti i mondi 229; vogliamo dire che, per l’essere che ha raggiunto un certo grado di conoscenza, Hiranyagarbha appare identico ad un aspetto più elevato del «Non-Supremo» 230 che è Ishwara o l’Essere Universale, principio primo di ogni manifestazione. A questo grado, l’essere non è più nello stato sottile, neanche soltanto in principio; è invece nel NON-MANIFESTATO; ma, tuttavia, sempre conserva qualche rapporto con l’ordine della manifestazione universale, poiché Ishwara è propriamente il principio di questa, quantunque non sia più legato, per speciali vincoli, allo stato umano ed al ciclo particolare di cui questo fa parte. Un tale grado corrisponde alla condizione di Prajna, ed è l’essere a cui non è possibile oltre proseguire che è detto unito a Brahma, nonostante il pralaya, soltanto nello stesso modo che l’unione si effettua nel sonno profondo; da questa condizione, il ritorno ad un altro ciclo di manifestazione è ancora possibile; ma, poiché l’essere è liberato dall’individualità (contrariamente a quel che avviene per colui che ha seguito il pitri-yana), questo ciclo non potrà essere che uno stato informale e sopra-ndividuale”.
      GATTO

      Elimina
    5. ADDDENDA
      Come mi faceva infatti notare anni fa un conoscente interrogato sull’argomento, al quale ponevo questi quesiti (i numeri si riferiscono al testo, articolo EPAGINA che metterò alla fine):
      “EXTRA-INDIVIDUALE: tale aggettivo viene usato da Guénon per definire gli stati d’essere (analogicamente parlando) di “non-manifestazione” (4), (5), quindi perché si definiscono, in un altro scritto, gli stati informali come extra- individuali (6)? Tanto più se - sempre al punto (4) - si usa per descriverli il termine di “non-individuali”, che non è il solito “sopra-individuali” ma almeno non si presta all’equivoco? Se gli stati informali possono essere ‘non-manifestati’ in senso relativo, cioè rispetto alla manifestazione formale, riguardano pur sempre la Manifestazione, e, in particolare, da un certo punto di vista, pure il Manifestato perché, come viene sovente ripetuto: “….Tuttavia, occorre tener conto di certi stati di manifestazione che, essendo informali, sono appunto perciò sopra-individuali; se dunque non si distingue che tra l’Universale e l’individuale, si dovrà necessariamente riferire questi stati all’Universale, tanto più che si tratta di una manifestazione in qualche modo ancora principiale, perlomeno rispetto agli stati individuali; ma ciò, ovviamente, non deve fare dimenticare che tutto quel che è manifestato, anche a questi gradi superiori, è necessariamente condizionato, vale dire relativo.” (7); ovvero: “….Ora, è appunto così che distinguiamo il manifestato ed il non-manifestato, poi, nel manifestato, il formale e l’informale, e infine, nel formale stesso, il corporeo e l’incorporeo” (8).
      MANIFESTABILE: e questo ci porta direttamente alla questione dell’uso di tale termine.
      Che cosa intende veramente Guénon quando lo usa? Perché qui, traduzioni fallaci a parte, sembrerebbe, mi si perdonerà, non essere stato molto chiaro.
      Ecco come viene descritto in alcuni suoi paragrafi: “…Aggiungiamo che il non-manifestato comprende anche tutto ciò che possiamo chiamare il non-manifestabile, ossia le possibilità di non-manifestazione, e il manifestabile, ossia le possibilità di manifestazione in quanto non si manifestano, poiché la manifestazione comprende evidentemente soltanto l’insieme di queste stesse possibilità in quanto queste si manifestano ….” (9); inoltre: “...È questo il caso della manifestazione, contingente in quanto tale, perché in quanto principio o ragion sufficiente risiede nel non-manifestato, che è sede di ciò che potremmo chiamare il «manifestabile», vale dire delle possibilità di manifestazione intese come possibilità pure (e, inutile dirlo, non in quanto comprendente il «non-manifestabile», o le possibilità di non-manifestazione)….” (10).
      E fin qui tutto bene; solo che in un altro libro si legge: “Veglia, sogno, sonno profondo, e ciò che è oltre, sono i quattro stati d’Atma; il più grande (mahattara) è il Quarto (Turiya). Nei primi tre, sta Brahma con uno dei Suoi piedi; nell’ultimo, ha tre piedi [….] Se Brahma non fosse «senza parti» (akhanda), si potrebbe dire che soltanto un quarto di Esso è nell’Essere (comprendendovi tutto ciò che ne dipende, vale a dire la manifestazione universale di cui è il Principio), gli altri Suoi tre quarti sono al di là dell’Essere. Questi tre quarti si possono concepire così: 1° la totalità delle possibilità di manifestazione in quanto non si manifestano, dunque allo stato assolutamente permanente ed incondizionato, come tutto ciò che appartiene al «Quarto» (se esse invece si manifestano, appartengono ai primi due stati; e, in quanto «manifestabili», al terzo, principiale rispetto ai precedenti)…. ” (11).

      (Continua…)

      Elimina
    6. (seconda parte…)

      Ora, a mio avviso, il termine “manifestabili”, che si legge in quest’ultima esposizione, non ha affatto la valenza semantica di quello delle precedenti due illustrazioni, in quanto lo stato al quale si riferisce qui, è lo stato di Prajna, che, sì, è al grado dell’Essere puro, al di là della distinzione tra Purusha e Prakriti (12), ma resta comunque uno stato “..essenzialmente informale e sopra-individuale…” (13), nel quale “….è necessario, in certo modo, includere Buddhi…” (14), che è già manifestata, essendo la prima produzione di Prakriti.
      In questo modo, il termine “manifestabile” ha solo un senso relativo, perché in rapporto con la manifestazione formale (Taijasa e di Vaishwānara), ma per riavere la totale universalizzazione dei due precedenti, si sarebbe dovuto riferirlo al «Quarto», e non a Prajna; e infatti, la descrizione che si fa al punto (11) del primo dei tre quarti al di là dell’Essere, è esattamente quella che corrisponde al “manifestabile” del punto (9).

      Questa fu la risposta:

      “Approfitto allora per rispondere almeno a qualcosa delle questioni che aveva posto nelle precedenti mail, dando la precedenza a quella al punto: MANIFESTABILE, che è il più importante perché riguarda propriamente il punto di vista metafisico. Da tutto ciò che si evince nei capitoli corrispondenti, il «manifestabile» è da riferirsi a Prajna e non può in alcun modo essere riferito a Turiya. A mio avviso non è tanto il termine «manifestabile» che è preso in sensi diversi ma è il «non-manifestato» che, per mancanza di termini adeguati (i limiti sono nel linguaggio, non nella funzione di Guénon) è riferito ad un certo punto alla Realtà assoluta del Quarto, potremmo dire il non-manifestato assoluto che non è il non-manifestato dell'Essere. Mi sembra che la chiave del problema sia da vedere in ciò che è detto al cap. Lo stato incondizionato d'Atmâ:
      «In Se stesso, Atmâ non è dunque né manifestato (vyakta), né non-manifestato (avyakta), almeno se si considera soltanto il non-manifestato come il principio immediato del manifestato (ciò che si riferisce allo stato di Prâjna); ma Esso è contemporaneamente il principio del manifestato e del non-manifestato (benché questo Principio Supremo possa d'altronde anche essere detto non-manifestato in un senso superiore, non fosse che per affermare in tal modo la Sua Immutabilità assoluta e l'impossibilità di caratterizzarLo con alcuna attribuzione positiva».
      Questo concorda con il senso più elevato della shahâda: lâ ilâha illâ-Allâh, intesa come «non vi è nient'altro che Allâh», e con il senso esoterico del versetto (Cor. 112, 3) «non ha generato e non è stato generato».

      Elimina
    7. (terza parte… Fine)

      LEGENDA:

      (4) Il Simbolismo della Croce – La molteplicità degli stati dell’essere – pag. 22 – Luni 2003 –
      (5) Gli stati molteplici dell’essere – Fondamento della teoria degli stati molteplici – pag. 53 – Adelphi 1999 –
      (6) Il Simbolismo della Croce – Il raggio celeste e il suo piano di riflessione – pag. 154 – Luni 2003 –
      (7) L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta – Distinzione tra il Sé e l’Io – pag. 32 – Adelphi 1997 - (8) ibid. – pag. 33, fine nota 1
      (9) Gli stati molteplici dell’essere – L’Essere e il Non-Essere – pag. 40 – Adelphi 1999 –
      (10) Gli stati molteplici dell’essere – Necessità e contingenza – pag. 137 – Adelphi 1999 –
      (11) L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta – Lo stato incondizionato di Atma – pag. 101 – Adelphi 1997 –
      (12) ) L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta – Lo stato di sonno profondo o la condizione di Prajna – pag. 96 – Adelphi 1997 –
      (13) Ibid. – pag. 95
      (14) Ibid. – pag. 98

      Elimina
    8. Mi scuso per le sviste "ADDDENDA" (leggasi ovviamente: 'addenda') e 'EPAGINA' (leggasi: 'e pagina').

      GATTO

      Elimina
  22. Il Vedānta non si contrappone alle altre vie: se corrispondono alla regolarità tradizionale esse sono valide al loro livello. Tuttavia Śaṃkara sottolinea e motiva la superiorità del Vedānta come segue:
    “L’autentica conoscenza (samyagdarśana) consiste nella realizzazione dell’Ātman non duale, essendo ciò confermato dalle Scritture e dalla ragione basata sull’intuizione. Qualunque altra argomentazione, trovandosi al di fuori di tale verità, comporta infatti una conoscenza erronea basata sui pramāṇa. Vi è, ancora, un’altra ragione per cui qualsiasi concezione dei dualisti è errata, ed è perché è ricettacolo di difetti quali l’attrazione, la repulsione, ecc.” (Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya III.16)
    “I dualisti (Sāṃkhya, Nāiyāyika, Vaiśeșika, Bauddha e Jaina) sono fermamente convinti delle varie tesi inerenti alle loro rispettive conclusioni, ma si contraddicono reciprocamente. Invece questa concezione della non dualità non è in contraddizione con loro”. Śaṃkara commenta: “I dualisti sono fermamente convinti delle varie tesi inerenti alle loro rispettive conclusioni […]; pensando «la suprema realtà è solo così, e in nessun altro modo», restano vincolati alla tale e alla talaltra tesi e, credendo solamente nella propria teoria, alimentano intolleranza nei confronti di qualsiasi altra. Essendo in tal modo condizionati da attaccamento e avversione, si contraddicono reciprocamente, ossia l’uno con l’altro, proprio in conseguenza dell’adesione alle proprie conclusioni. Invece questa nostra visione, conforme ai Veda e inerente alla concezione della natura di unità assoluta dell’Ātman, essendo Quello non distinto dalla totalità, non è in contraddizione con loro, che, al contrario, si contraddicono reciprocamente, nello stesso modo in cui non vi è conflitto con le proprie mani o i propri piedi, ecc. Così, dato che il Veda non poggia su difetti quali l’attaccamento e l’avversione, ecc., soltanto la consapevolezza della natura di unità assoluta dell’Ātman costituisce l’autentica conoscenza. Questo è il significato”. (MUGKŚBh III.17)
    “La non dualità (advaita) è la suprema Realtà (paramārtha) …” (MUGK III.18)
    “E se per loro, indotti in errore, vi è la concezione della dualità, mentre per noi, liberi dall’errore, vi è la concezione della non dualità – in conformità a passi della Śruti come, laddove si dice «Indra (Brahman), attraverso la māyā (l’ignoranza) viene percepito di molteplice forma» (Bṛ. II.5.19), «…ma non vi è un secondo distinto da lui…» (BU IV.3.23) […] La nostra posizione può essere così illustrata: come colui che monta un elefante da combattimento non lo sprona contro un pazzo che, seduto direttamente per terra, lo sfida dicendogli «Anch’io sono montato su un elefante di fronte a te! Sprona il tuo contro di me!». Questo perché il primo non nutre alcuna intenzione di opporsi all’altro; esattamente così è il caso del non dualista nei confronti delle teorie dualiste. Poiché, nella prospettiva della Realtà suprema, il conoscitore di Brahman è lo stesso Ātman dei dualisti, per tale ragione questa nostra visione non dualista non può opporsi alle teorie dualiste.” (MUGKŚBh III.18)

    RispondiElimina
  23. E’ stato pubblicato sulla pagina “Gruppo di Scienza Interiore” (qui https://www.facebook.com/groups/gruppo.scienza.interiore/permalink/1267566583580723/) l’ennesimo articolo diffamatorio nei confronti del prof. Filippi. In questo si sostiene che “In questo modo, firmando di volta in volta come Petrus Simonet de Maisonneuve, Maria Chiara de Fenzi, Maitreyī […] il Nostro [Gian Giuseppe Filippi] crede forse di poter lasciarsi andare più facilmente a certe impertinenze, senza compromettere la sua personale reputazione”.

    Non posso e non voglio intervenire per quanto viene scritto più in alto nella serie lunghissima di commenti ma su questo punto posso testimoniare personalmente: le persone elencate sono tutti individui differenti che ho personalmente conosciuto in occasione di una conferenza pubblica, riuniti assieme e presentatesi con i propri nomi; o il prof. Filippi (che ho incontrato in quell’unica occasione) ha un incredibile potere magico di moltiplicarsi in 4 persone differenti sotto gli occhi di più presenti, oppure erano realmente persone differenti; opterei per questa ultima risposta.

    All’anonimo complottista di Gruppo di Scienza Interiore consiglierei, la prossima volta, di informarsi meglio prima di scrivere i propri "scoops" e per (uso un eufemismo) evitare figure barbine. 
Spero (ma mi viene il dubbio) che anche tutto il resto che viene pubblicato su questa pagina non abbia la stessa qualità.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Leonardo Fabbri, innanzitutto bisogna avere l’accortezza di saper usare i termini per quello che significano: il laconico articolo (più che altro un commento…) l’ho létto, ma non sono stato in grado di vedervi nessun tipo di diffamazione che lei ravviserebbe. Se non l’ha già fatto (da quanto è dato vedere, non sembra proprio…) e vuole leggerselo, spiegavo molto bene anche qui, al gruppetto di “vergini violate” che lanciavano, e lanciano, accuse di diffamazione come fossero bruscolini, in che modo si deve rettamente intendere tale significato.
      Détto questo, circa la faccenda degli pseudonimi multipli, a cui si può credere o meno, sempre in questo consesso ho avuto la conferma (per quello che vale…) da parte degli utenti considerati, che, interrogati da me sulla faccenda, mi assicuravano(!) che non erano nick del Filippi: bene, senza celia, adesso poi che lei ce lo riconferma, non ci resta che crederlo! Però, mi permetta, “…articolo che Masetto impudentemente definisce obiettivo ed equilibrato. Evidentemente il FACTOTUM della Rivista ha una interpretazione assai personale dei termini che usa….”, scriveva il sig. Filippi: non mi pare affatto una posizione agevole per permettersi di fare gli schizzinosi su un tema come quello dei multi-nick e atteggiarsi a “vergini violate”, caro sig. Fabbri! A meno che non si pensi, come diceva il marchese del Grillo: “…io so’ io e voi…”. Tanto più che, col suo dubbio finale, cade anche lei malamente in un’affermazione ridicola: perché uno che pensa legittimamente che dietro a varî pseudonimi si nasconda una persona sola, non potrebbe pubblicare scritti di qualità? E come si potrebbe avere anche solo il dubbio che sarebbe ‘paccottiglia’ ciò che viene pubblicato su un altro blog (il qui presente), che col primo non c’entra nulla (nemmeno sapevo l’esistenza di tale forum, prima che lei ce ne rendesse edotti…), giustificando la cosa coi motivi che (non) valgono nemmeno per il forum di “Gruppo di scienza interiore”? Sarebbero queste le conseguenti inconfutabili “illazioni” (col significato normale di “deduzione” e non di “insinuazione”, come è stato ormai ‘sdoganato’ da certa semantica alle vongole…) che mette in campo, per insinuare che non saremmo all’altezza di pubblicare scritti di qualità?
      GATTO

      Elimina
  24. Sig. Anonimo, avendolo citato è ovvio che abbia letto l’articolo e mi permetta, non faccia il professorino insegnandomi cosa significa diffamare, conosco il significato ed è corretto per la definizione dell’articolo: per quanto riguarda la questione dei pretesi pseudonimi del prof. Filippi, ho già detto, la mia diretta esperienza mi ha fatto conoscere le quattro persone indicate dal suo omonimo anonimo articolista come persone distinte; ovvio che mi faccia ridere dove si supponga essere una sola persona; poi lo so, esistono anche i terrapiattisti a fronte dell’evidenza.
    Riguardo alla mia “affermazione ridicola” è chiaro che nei confronti di chi fa affermazioni avventate e false, almeno per quanto riguarda quelle di cui ho certezza, si possa dubitare anche del resto, quindi non è per niente ridicola, anzi ora che mi ci fa pensare le implicazioni sono assai serie, i lettori accorti se ne renderanno conto.
    Il resto della sua polemica, come già detto nella mia precedente non m’interessa, non sono intervenuto prima e non intervengo ora e non capisco perché la inserisca nella risposta alla mia; non se la prenda a male ma il suo modo di scrivere non mi piace per cui preferisco non leggerla; per cui per cortesia non mi nomini costringendomi a rispondere, così come io non l’ho coinvolta in questa sua avvocatura ai miei occhi ingiustificata. Se ho scritto il mio precedente messaggio è solo per avvertire i lettori che le quattro persone che si è supposto in quel disgraziato articolo essere pseudonimi di una sola, sono effettivamente quattro. Chiunque volesse potrebbe verificare.
    Mi lasci fare un’altra e ultima osservazione: disquisire sull’identità di persone e possibili pseudonimi da parte di «anonimi» questa si che è veramente ridicola. Punto.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Leonardo Fabbri, il mio “…Se non l’ha già fatto (da quanto è dato vedere, non sembra proprio…) e vuole leggerselo, spiegavo molto bene anche qui… ecc., ecc…”, era ovviamente riferito a quello che IO ho scritto qui sul blog di SS circa la diffamazione, e non al fatto che avrei pensato non avesse létto l’articolo del “Gruppo di scienza interiore”, visto che avendolo citato è ovvio che l’avesse anche létto (certo che per dar man forte a un gruppetto ferrato in logica aristotelica, non c’è male come inizio…)! E perché mai faccia il lamentino, non concedendomi assolutamente la possibilità di fare il ‘professorino’, proprio in un’assise accademica come la presente, dove si impartiscono lezioncine ‘ex-cathedra’ come se piovesse, proprio non si riesce a capirlo: già ho citato il marchese del Grillo, per cui non mi ripeto…
      Lei è certo di sapere il significato di ‘diffamazione’? Bene, si dia da fare allora, altrimenti sono solo chiacchiere a perdere: “…i lettori accorti se ne renderanno conto….”! Circa l’“affermazione ridicola”, resta tutto intonso, affermazione e relative conseguenze da me precedentemente rilevate: se quello insinuato dal “Gruppo di scienza interiore” era sicuramente avventato, non poteva anche essere necessariamente falso, visto che era legittimo pensarlo, mancando la sua rettifica in merito, della quale dovranno adesso tener conto. Né che si insinui che stavano volontariamente mentendo, e a meno che non abbia prove a favore, deve perciò ritirare l’allusione sottesa, ossia di identificarli quali mentitori…
      Non me la prendo affatto male se a lei non piace il mio modo di scrivere (non piace nemmeno a me, si figuri…), oltretutto, partecipando a un blog in cui si non si tratta altro che di “metafisica… dei gusti”, come ci si potrebbe lamentare? Né che non mi voglia leggere: sopravvivrò; in questi tempi dissoluti, non è nemmeno l’ultimo dei miei problemi. Come poi, non leggendomi possa dire che il mio stile non le piace, beh… Debbo invece rivendicare la mia assoluta libertà di ‘avvocatura’ nel decidere insindacabilmente quando intervenire, senza aspettare di essere gentilmente chiamato in causa, che a lei piaccia o meno: chiaro? E per lo stesso motivo che lei adduce: ‘solo per avvertire i lettori’ ! Come ho già ben affermato a un altro utente (Munnu) che aveva le sue stesse pretese: “il mio era il classico atteggiamento di chi parla alla “suocera perché nuora intenda (i sostantivi sono volutamente rovesciati)”, perciò niente di personale, come a lei è sembrato…”. Ultima cosa: un anonimo non potrebbe disquisire sull’identità delle persone se non condannandosi al ridicolo? E perché mai: perché lo dice lei? Le posso solo ricordare che l’anonimato, quello vero, non è una mancanza di personalità, ma la sua più alta espressione, e questo, gli ‘individui’ come lei se ne dovranno fare una ragione. Infine, se lei ha tirato in ballo il ‘terrapiattismo’ con l’intento di screditarmi, facendo credere allusivamente che appartenga alla categoria degli oscurantisti fuori dal tempo, negazionista e incapace di vedere la realtà, le ricordo che tale bislacca teoria è del tutto moderna (Washington Irving; 1783-1859), condizione alla quale non appartengo nel modo più assoluto, e che ha come epigono proprio un evoluzionista attuale (Daniel Shenton), perché, come ben saprà – e se non lo sa glielo dico ora – e senza considerare che sicuramente ne erano al corrente anche prima, “… i primi tentativi di determinare forma e dimensione della terra risalgono all'antichità. Nel 3° secolo a.C. ERATOSTENE con un metodo semplice misurò la circonferenza della terra ottenendo il risultato di 39.375 km mentre la misura esatta è 40.079,375km.”: veda un po’ lei…
      GATTO

      Elimina
    2. Sig. anonimo, non se ne abbia a male, come anticipato non la leggo quindi non posso rispondere. Quello che avevo da dire l'ho ripetuto due volte, penso in modo chiaro. Il resto non m'interessa. Le auguro buona serata.

      Elimina
    3. Il suo impeccabile metodo epistemologico desta un'invidia irrefrenabile sig. Fabbri e ricalca molto bene quello dell'iniziativa di VVM: tirar dritti come dei panzer, noncuranti di quello che sta intorno, percepito come un ronzio fastidioso e nulla più.
      PS: per non leggermi affatto, mi risponde un po' troppo spesso per crederle sulla parola: vediamo se, almeno questa volta, ha il pudore di mantenerla…
      GATTO

      Elimina
  25. Gian Giuseppe Filippi15 ottobre 2020 alle ore 18:58

    1.-Recentemente la mia persona è stata costante oggetto di morbosa curiosità da parte di un gruppetto di esoteristi scadenti per intelligenza ed educazione. Se credevano di intimidirmi od offendermi si sono sbagliati totalmente. Non è inatteso che persone di siffatta natura esprimano i loro sentimenti in forma ignobile: era preventivato fin da quando, assieme ad alcuni collaboratori, si è deciso di accogliere l’invito ripetutamente rivoltoci da tre diversi saṃnyāsin di fondare Veda Vyāsa Maṇḍala.Poiché la loro ossessiva ricerca di notizie a fine diffamatorio sulla persona mia e degli altri collaboratori (strategia architettata da menti non proprio sottilissime per evitare il confronto dottrinale) è stata fallimentare, dimostrandosi scadenti anche nella loro indagine spionistica, sarò io che fornirò loro per iscritto alcuni miei dati biografici che li potrà interessare. E sono certo che questo risulterà ancor più sgradito ai loro occhi. Prima di iniziare, sappiano che il mio nome e cognome coincidono con la mia persona, come quelli dei miei collaboratori con le loro. È altresì vero che per ragioni che non li riguardano affatto, talora mi firmo con il mio nome iniziatico. Che non è da confondere con gli pseudonimi usati dai profani.Dopo aver incontrato Schuon e averlo scartato come possibilità iniziatica; dopo aver conosciuto l’ambiente vâlsaniano di Parigi e averlo escluso, ho tentato un approccio con la terza possibilità allora presente in Europa. Per la verità non avevo mai preso in seria considerazione quel terzo ambiente per la produzione tesa quasi esclusivamente ad acida polemica, per un letteralismo guénoniano ottuso e per il riciclaggio di vecchi articoli già presenti in libri in possesso di tutti, che però rappresentavano ciò che almeno si poteva salvare. Il livello dottrinale della Rivista è sempre stato più che mediocre, a partire dagli stessi articoli di Manara-Maridort.Nel 1971 incontrai un professore di matematica dell’Università di Padova discepolo di Maridort. Sebbene mantenesse un atteggiamento scostante, ritenne che la mia preparazione dottrinale fosse sufficiente per introdurmi a Torino. Partii per Torino. Appuntamento non in casa di qualcuno di loro, ma in un bar di fronte alla Stazione ferroviaria, perché prima dovevo passare l’esame che non fossi un mago nero o un controiniziato. Erano presenti Masera, Nutrizio e Riva. Solo quest’ultimo dichiarava le sue vere generalità in quanto responsabile legale della Rivista; gli altri per prudenza difendevano con gli usati pseudonimi la loro vera identità.

    RispondiElimina
  26. Gian Giuseppe Filippi15 ottobre 2020 alle ore 18:59

    2.-Incontro sgradevolissimo. I tre manifestarono subito la stessa supponenza, aggressività e mancanza di cortesia che avevo letto nei pochi numeri della Rivista che avevo sfogliato. Ma questo si sarebbe potuto forse sopportare se la loro preparazione dottrinale non si fosse palesata limitata al letteralismo guénoniano più miope, con particolare attenzione al “profetismo” di Guénon, con la loro pretesa d’essere l’élite e alla “funzione” che loro, quali difensori del guénonismo avrebbero svolto in Occidente. Alla richiesta di chiarimenti sulla silsilah della loro ṭariqa mi fu risposto che non ero nelle condizioni di inquisire in quell’ambito. Dopo qualche mese dalla deludente visita a Torino, un transfuga prese contatto con me narrandomi che il commento dei maridortiani fu quello che il mio era stato un tentativo d’infiltrazione controiniziatica. Che questa sia la mania di quell’ambiente è provato dal fatto che anche quest’ultima persona era rimasta ossessionata da maghi neri, yazidi, controiniziati et similes, al punto da diventare prima un investigatore del satanismo e infine, un vero nemico di Guénon, com’è provato dalle sue successive pubblicazioni per Archè. Un po’ dopo, anche il professore di matematica, uno dei più fedeli, che aveva pubblicato vari articoli sulla Rivista, abbandonò quel gruppo soffocante. Anch’egli mi confermò che la mia visita a Torino, secondo i capi, puzzava di zolfo. Ricevette anche una solenne lavata di capo per avermi messo in contatto con i tre rappresentanti di Maridort. Lasciò, quindi, per recuperare la sua libertà. Questo fu l’ultimo contatto che ebbi con le pseudoiniziazioni del guénonismo, La Massoneria non mi aveva mai interessato. Decisi dunque di rivolgermi direttamente alla fonte. Fui iniziato e frequentai diverse ṭuruq. Nel 1992 fui accettato discepolo da un saṃnyāsin di Advaita e, dopo il suo abbandono del corpo, un altro saṃnyāsin di Advaita è diventato il mio guru. Ho frequentato e frequento quattro Śaṃkara Pīṭha come frequento anche due Śakti Pīṭha, pur non essendone discepolo (vedi filmato di cui i denigratori non hanno capito l’ambito). Ho continuato a frequentare amici shuyukh e fuqarā, ho stretto amicizia con vari rinpoche, tra cui lo stesso Dalai Lama, il IX Jebtsundamba Khutughtu Bogda Khan, il Geshe Yeshe Thabkhe e altri, ho ricevuto il metodo taoista dal maestro Lai che tiene scuola presso il tempio Tung-yueh di Tainan, sempre accolto con ospitalità orientale, generosità e simpatia, non riscontrando mai le terribili incompatibilità di cui i guénoniani paventano. Soprattutto da nessuna parte mi hanno accolto nel bar di fronte alla Stazione. Sono passati decenni, il “maestro” è morto, si sono succedute scissioni, ma il clima oppressivo e villano della “ṭariqa” torinese è rimasto il medesimo, se non peggiorato nell’elemento umano. Soddisfatta la loro curiosità, dovranno d’ora in poi vedersela con la dottrina.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Circa la silsilah (adesso è finalmente chiaro anche l’intervento di Abd-es-Samad nell’altro thread, che se l’è data a gambe levate…) che ha portato Maridort ad assumere il ruolo a Torino che tutti conosciamo, purtroppo qualche anno fa, è diventata un ennesimo segreto di… Pulcinella. Non capendo come un aspirante si possa permettere di chiedere impudentemente all’organizzazione alla quale si rivolge se è o meno regolare, e stupirsi se poi lo mandano a quel paese, insinuare come ha fatto Abd-es-Samad nel suo commento (che il Filippi, guarda i casi della vita, condivideva pienamente…), di cui chiedevo spiegazioni - ora chiarissimo - e che recitava testualmente: “…chiedete loro di mostrare la silsilah o l’ijâza dei loro maestri e diventerete automaticamente maghi neri e se già legati da patto iniziatico dei contro-iniziati…”, vuol dire non accorgersi del ridicolo che tale boutade, alla luce di quello che stiamo tristemente vedendo, comporti. Come ci si può rendere perfettamente conto, verso la fine del link che evidenzio (http://www.cesnur.org/2013/eljadida.htm), alcuni detrattori storici di Guénon, senza minimamente sospettare di rivestire il ruolo di “eterogenisti dei fini” (un mio conoscente aveva usato un altro termine che è meglio evitare in questo clima di minacce per diffamazione…), rovista di qua, rovista di là, spia di sotto spia di sopra, gli è toccato vedere con i proprî occhi, la perfetta regolarità dello Shaikh “Sidi al Hussein”, al secolo Roger Maridort, testimoniata dal documento riportato in calce! E poi sarebbero gli altri che, per una patologica mentalità sinistra, vedrebbero maghi neri e controiniziati dappertutto!
      GATTO

      Elimina
  27. Che dire mai di questo imbarazzante "outing" se non: excusatio non petita, accusatio manifesta?
    GATTO

    RispondiElimina
    Risposte
    1. L’outing di Maridaurt? Perché lo definisce imbarazzante?

      Elimina
    2. È evidente ‘Anonimo 16 ottobre 2020 09:32’, che per uno sbaglio mio ho postato il commento non proprio nel luogo appropriato (come lo è anche quello dell’errata c. qui sotto …a volte succede…), ma un minimo di perspicacia e di intraprendenza suggerirebbero inequivocabilmente che la risposta dell’‘outing’ fosse indirizzata al Filippi e non certo al Maridort!
      GATTO

      Elimina
    3. Mi scuso per l’errore, ma pensavo che con outing si intendesse una dichiarazione imbarazzante ( normalmente per dichiarare le proprie inclinazioni intime) quindi non si capiva perché avesse usato quel termine per il sig. Maridaurt ( o Maridort, l’ho visto scritto in tutti e due i modi non so quale sia quello giusto). Quella del sig. Filippi sembra un’autobiografia, ma anche qua non mi sembra ci sia nulla di imbarazzante. La mia era solo una legittima domanda visto che lei è sempre molto puntuale nell’intervenire. Grazie per la gentile risposta. Ernesto Benni

      Elimina
    4. Sig. Benni, non è l'autobiografia in sé imbarazzante, ma l''elargirla' quando nessuno la chiesta né ne sentiva la mancanza. Evidentemente, se ha seguito bene la ratio della faccenda, i moventi, perlomeno i principali, che hanno spinto il Filippi a denunciare gli affari suoi, non erano certo quelli strettamente riguardanti la sua situazione iniziatica che, ripeto, non può e non deve interessare a nessuno, ma il mettere in dubbio la regolarità della Tariqa di Maridort.
      GATTO

      GATTO

      Elimina
    5. L’ha chiesta...l’italiano Gatto, per uno che fa notare errori a tutti, questo è proprio un brutto errore!

      Elimina
    6. Sì, Anonimo... Avevo salvato una copia del commento e nel rileggerla mi sono accorto; mi sono precipitato a correggere (perché a queste cose ci tengo particolarmente) e ho visto il suo intervento. Spero mi riterrà capace di usare i verbi, il punto è che avevo cambiato il discorso: il verbo era al presente, ma poi, aggiusta di qua e di là, succedono 'ste cose. Nessuna giustificazione comunque: bisognerebbe prestare più attenzione! Il segnalare errori, non mette nella condizione di non farne e chiunque li noti è giusto che li segnali...
      GATTO

      Elimina
  28. 1

    Sig. Anonimo-Gatto, non me la son data a gambe, semplicemente avevo da fare altro (ma lei è sempre così simpatico e tratta tutti in questo modo? Passa la voglia di risponderle).

    Comincio a commentare il vecchio post. La prima frase può apparire sibillina se ci si ferma a questa, leggendo il resto penso si capisca bene dove vado a parare. Cerco di sintetizzare ulteriormente.
    Ogni patto iniziatico è stretto tra l’uomo e Allâh e non con alcun uomo in particolare, maestro o sottoposto, quindi è contingente e indifferente che sia vivo o morto; la sua morte non incide sulla validità del patto iniziatico perché in realtà è stato fatto con Allâh. Ogni silsilah, infatti risale ad Allâh e non si ferma né al maestro né al maestro fondatore della Tariqa, né a Muhammad (s) né a Jibrîl (a). Quindi il maestro è a tutti gli effetti contingente, infatti a dimostrazione esistono possibilità, più o meno remote, di iniziazioni che esulano dalla presenza di un maestro in carne e ossa.
    Allah è il principio intimo di ogni essere la cui definizione, mi si passi, esula da ogni forma tradizionale, parafrasando un testo orientale: “Non conosco il suo nome, per indicarlo lo chiamo Allâh”.
    Ho letto Guénon e lo cito quando trovo utile citarlo, non mi scandalizza se ha scritto cose errate, è normale, delego l’infallibilità ad altro non a Guénon.

    Comunque dalla citazione che mi propone estraggo alcuni passaggi che mi sembrano degni di nota:

    1)“spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio”

    e

    2) “per il ricollegamento a più organizzazioni, A CONDIZIONE CHE NON VI SIA INCOMPATIBILITÀ TRA LORO (POICHÉ CIÒ PUÒ ANCHE CAPITARE IN ALCUNI CASI) mi sembra che si potrebbe applicare un proverbio che dice ‘Due sicurezze valgono meglio di una’

    Alcune deduzioni (in base a ciò che leggo):
    Ciò che è chiamata Via non è detto che comporti una sola iniziazione, potrebbe trattarsi di una Via composta da più ricollegamenti, vedi tasawwuf e massoneria come indicato da Guénon. In base alla prima citazione (“spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio”) cosa vieta, perciò, di cambiare tariqa, ricercare un’altro ricollegamento, un altro maestro, un’altra iniziazione a insindacabile giudizio di questo iniziato?
    Non mi riguarda in entrambi i casi ma se, per alcuni, vale il doppio ricollegamento Tasawwuf/Massoneria perché non dovrebbe valere per il Vedanta dato che non si tratta di forma religiosa incompatibile? Almeno per chi ha un solo sentore dell’unità delle forme tradizionali! o forse questa è una favoletta che va bene solo sui libri? Certo è ben difficile, molto difficile oggi trovare una tariqa e nello specifico uno sheykh con una prospettiva così universale (sono questi tra i problemi cui alludevo nella mia precedente).
    Chi decide l’incompatibilità? Questa potrebbe essere vista come una questione ambigua; vi sono shuyukh che ritengono incompatibile l’iniziazione al tasawwuf e alla massoneria e chi, come Guénon la ritiene compatibile. Allora chi decide l’incompatibilità tra iniziazione al tasawwuf e al vedanta se anche in questo caso esistono opinioni opposte come nel caso precedente?
    Come vede anche in questo caso una informazione preventiva prima di compiere qualsiasi passo in seno a una tariqa è quanto mai necessaria prima di trovarsi “incastrati a vita” come vorrebbero alcuni guénoniani contraddicendo Guénon.

    Ciò che è certo è che lasciare una tariqa per confluire in un’altra o altra iniziazione fa parte di quello che Guénon dichiara con precisione: “spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio”: questa affermazione di Guénon la lascerei senza commenti essendo già abbastanza chiara e inequivocabile in quanto non dice né dove né quando.

    RispondiElimina
  29. 2

    Questa necessità di cambiare tariqa, o semplicemente lasciare quella in cui si è stati iniziati, può essere determinato da più circostanze, ne elenco alcune con esempi realmente accaduti a conoscenti degni di fede:

    1) lo sheykh muore e il successore non ha le stesse qualità del predecessore (esistono incompatibilità anche in questo ambito). Dato che si richiede l’iniziazione anche in base alla conoscenza di quel determinato sheykh e non altro, la morte di questi può determinare un cambio di prospettiva che richiede un trasferimento di tariqa (o zawiya). Si può concepire un legame perpetuo con quella zawiya? Evidentemente no, quindi che fare? Si cambia aria.

    2) il neofita non trova le stesse condizioni e lo stesso ambiente presentato prima del suo ingresso; anche in questo caso è ammissibile una separazione; es. chi si aspettava, perché avvertito, un certo genere di condizioni e se ne trova altre, mi riferisco a ritualità, tempi, compagnonaggio, relazione anomala con lo sheykh ecc. o, caso estremo, assenza dello sheykh senza preavviso preventivo. Che fare? Si cambia aria.

    3) lo sheykh e la tariqa non presentano sul piano dottrinale le aspettative coerenti alla propria formazione; es. chi si è formato sull’opera di Guénon e si sente dire che il suo insegnamento deve essere abbandonato perché era massone, perché proveniva dall’occultismo, perché simpatizzante di altre religioni, perché ora avrebbe tutto quanto il necessario per farne a meno. Che fare? Si cambia aria.

    Tutte queste, e altre condizioni, rispondono esattamente alla raccomandazione di Guénon “spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio” questo perché il “suo segreto” è inconoscibile ad altri.

    Inoltre Guénon precisa ancora:
    “in mezzo alla confusione attuale, qualcuno può non sapere esattamente prima, da quale parte gli sarà possibile ottenere i migliori risultati”
    quindi è giusto lasciare la massima libertà agli esseri; risulta normale che le scelte fatte in un certo momento possano non essere più valide successivamente. D’altro canto per molti occidentali non si è presentato lo stesso problema quando dal cattolicesimo ci si è rivolti successivamente all’Islam? E, attenzione, in genere si giustifica questo con motivazioni iniziatiche ma per tutti, prima di ogni altra cosa, si è trattato di conversione all’exoterismo e successivamente (fosse solo questione di un’ora) di iniziazione (sic); ma nessuno può essere certo di questa futura iniziazione, chi può essere certo del futuro fosse solo di un’ora? Quindi di conversione si tratta. Spero che nessuno concepisca la possibilità di un’iniziazione (tasawwuf) che preceda l’entrata nella forma tradizionale (shahada); esiste il caso della massoneria ma è un caso a parte.

    Criminale (etim.), sia concessa anche me la possibilità di esporre ciò che penso, è l’idea di costringere gli esseri contrariamente a quanto dice Guénon: “spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio”. Pensare a una costrizione e vedere il cambio di tariqa come un “atto empio” e condannabile, è un’idea tutta occidentale introvabile in oriente (se non in qualche deviazione di esaltati fanatici), frutto di uno psichismo di chi gioca a fare il sufi.

    RispondiElimina
  30. 3

    Il legame è con Allâh (di cui non conosco il suo nome, e per indicarlo lo chiamo Allâh), come potrebbe essere differentemente? Che i maestri muoiano e il patto resti perché questi lascerebbero solo la forma corporea non è semplicistico, come pensa anonimo, è proprio perché lasciano “solo” la modalità corporea che giustifica ogni svincolo da legami con tutto quello che appartiene a questa modalità con cui si è legato, quindi ovviamente anche tutto ciò che ha a che fare con la presenza corporea dello sheykh all’interno della tariqa; questo riflette la solita ragione: se il patto è con Allâh, non lo è con lo sheykh né TANTO MENO con la tariqa in quanto tale; morto lo sheykh si sciolgono tutti i legami con la tariqa che, nel caso più probabile e consueto vengono rinnovati senza tuttavia essere una necessità o un obbligo; soprattutto non vi è necessità e nessun automatismo di adesione alla tariqa quando, morto il maestro con il quale si è stretto il patto, la tariqa rimanesse senza uno sheykh nominato regolarmente; queste sono le regole. Così come è una regola quest’altra (senza tuttavia essere normata): “le porte sono chiuse per chi è esterno ma sono aperte per chi è all’interno” (citazione). “se qualcuno è stato ricongiunto alla silsila – scrive Guénon - più nessuno può impedirgli di accedere a tutti i gradini, se ne è capace”

    Di quali fotocopie sto parlando? E’ evidente, di quelle “turuq occidentali” nate senza una evidente e dichiarata silsila e i relativi maestri senza ijâza, parlo di quelle turuq che non vogliono mostrare questi documenti quando richiesti, documenti che non sono il segreto iniziatico da preservare ma l’attestazione della regolarità, dovrebbero essere esibiti su richiesta. Tutte le invenzioni retorico/tradizionali per non farlo sono la certificazione della loro inesistenza. Il termine “fotocopia” non è mio ma di ambienti orientali (sottolineo, non occidentali, ormai queste storie sono assai diffuse anche all’interno delle turuq dove sanno benissimo chi nel passato è nominato sheykh e chi non lo è); queste turuq le chiamano “la grande triade” con evidente riferimento all’origine guenoniana delle stesse (anche in questo caso l’italiano è escluso) e sono quelle di Schuon, Valsan e Maridort.

    Penso che lei sia fuori strada su tutto. Perché lei, da una parte, si scandalizza che un aspirante chieda la silsila e l’ijâza all’organizzazione alla quale vuole richiedere il ricollegamento e dall’altra lei invece dichiara “ho sempre avuto a che fare con delle Zawiya occidentali che, una volta chiesta la silsilah o l’ijâza dei Maestri […] hanno semplicemente documentato quanto richiesto senza la minima esitazione”? E’ forse un privilegiato?

    Se ritrova nel mio e nel messaggio del prof. Filippi gli stessi argomenti, ovvero la normale richiesta di mostrare la silsilah o l’ijâza da parte di un’organizzazione è solo perché è giusto che sia così, chiederla prima di fare un passo in senso iniziatico è una necessità mentre è irresponsabile e immaturo non informarsi; negare questa documentazione è ciò che può far comodo (giustificandolo con pseudo-ragioni tradizionali) solo a chi non ha nulla da mostrare.

    Perché non mostrare i documenti che attestano la loro regolarità? Perché non mostrarli se è tutto regolare? Non rivelerebbero nulla di ciò che già affermano e già risaputo e diffuso, ma non certificato e documentato. Mostrarli comporterebbe solo il vantaggio di confermare la loro regolarità senza sospetti o indugi. Al contrario la retorica costruita per non farlo lascia il tempo che trova e genera ovviamente il dubbio. Non vogliono, fatti loro, agli occhi di molti (non solo miei ovviamente, questo giudizio è assai diffuso) queste “fotocopie” sono di fatto irregolari quindi inesistenti (nella misura in cui sussistono queste condizioni).

    RispondiElimina
  31. 4

    L’ovvio diventa complicato! Guénon scrive “occorre poi il collegamento con una silsilah regolare, poiché la trasmissione dell’«influenza spirituale» che si ottiene con tale collegamento è, come già abbiamo detto, la condizione essenziale senza la quale non vi è iniziazione”; ma come fa un aspirante a stabilire la regolarità dell’organizzazione alla quale chiede il ricollegamento se questa non gli mostra la necessaria documentazione? Anzi, è l’organizzazione che dovrebbe farlo prima ancora che gli venga chiesto e la responsabilità di mostrare o esporre falsità è tutta dell’organizzazione e non certamente dell’aspirante; le parole non possono supplire a questo, tutti a parole sono regolari quando non addirittura l’élite dell’élite. Questa documentazione non fa parte di ciò che è giusto rimanga riservato, non è ritualità né insegnamento.

    Nel suo ultimo messaggio lei ritorna su questo punto e cita la relazione di viaggio da parte di alcuni esponenti del CESNUR. In questo caso vorrebbe documentare “la perfetta regolarità dello Shaikh “Sidi al Hussein”, al secolo Roger Maridort, testimoniata dal documento riportato in calce”. In calce c’è solo l’opinione di Laurant e Zoccatelli e la fotografia di un manifesto stampato dopo la morte dello sheykh At-Tadili avvenuta nel 1953! Lei, io, chiunque, possiamo fare la stessa cosa, stampare un manifesto con silsila e con i nostri nomi, diventeremmo per questo degli shuyukh? Sarebbe questa l’ijâza? è uno scherzo!?

    L’ijâza è un documento scritto di pugno e firmato dallo sheykh che assegna una determinata funzione a qualcuno; in questo specifico caso dovrebbe essere lo sheykh Muhammed At-Tadili (e non da altri, famigliari, fuqara ecc.) che nomina Maridort come sheykh così come ha fatto per la funzione di muqaddam. Dov’è questo documento? Quando sarà mostrato sarò il primo e felice di prenderne atto, al contrario per me e per tutti vale quanto detto più in alto.

    Infine, dato che lei cita il caso Maridort e non Schuon e Valsan; ammessa e non concessa tale regolarità della tariqa di Maridort, che ne è stata dopo la sua morte nel 1977? Perché non ha nominato uno sheykh e ha lasciato una triade di muqaddimun (che fu) condannando la tariqa all’estinzione non potendo questi nominare nessuno, né muqaddam né tanto meno sheykh?

    Anonimo, leggo il suo ultimo messaggio prima di pubblicare il mio; ma la vuol capire che non c’è solo il prof. Filippi a questo mondo? Lei pensa che se qualcuno la contraddice, questi sia il prof. Filippi! Non sono il prof. Filippi, di lui conosco solo gli scritti; la sua mi sembra una vera e propria ossessione si limiti alla dottrina come la invita a fare il prof. Filippi e il sottoscritto e non al semplice gossip.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. I
      Abd-es-Samad, mi scuso se la mia ‘simpatia’ non le è gradita, ma capirà, la ‘nafs’ di uno come me, cresciuta tra i ‘bar della Stazione’, non è ancora in grado di attenersi a quel ‘bob ton’ da cerimonia del tè orientale, così diffuso tra i personaggi dall’invidiabile aplomb del VVM.
      Voi del VVM (dico ‘voi’ in quanto, lei, condividendone gli intenti e dandosi molto da fare per difenderli, per me è parte integrante del gruppetto: se non lo fosse formalmente, si risparmi di puntualizzare la faccenda perché sarebbe inutile …), avete uno strano modo di procedere in ‘retromarcia’ - verrebbe quasi da dire che saremmo in presenza di una sorta di ‘realizzazione discendente’, se non fosse per le note reazioni di prurito che tale locuzione in questo gruppetto ‘non-duale’ suscita -, per cui inconsapevolmente (?) ‘srotolate’ tutto il percorso dalla sua fine al suo inizio credendo con questo di ‘procedere’, quando in realtà, per chi fosse arrivato veramente al punto che voi confondete con quello di partenza, sarebbe una questione di ‘riavvolgere’, non punto di progredire: insomma tutto si riduce a un mettere il carro davanti ai buoi!
      Ora, alla luce di questa situazione, e l’ho ripetuto mille volte, qui non si contestano le Upaniṣad in sé, cosa impossibile, e la visione inconfutabile dell’Assoluto che esprimono, al di fuori del quale certamente nulla esiste, ma l’uso assurdo, più precisamente: ‘invertito’ che il gruppetto “non-duale” propone, per cui, tutto quello che lei sostiene in seguito del suo lungo commento, riguardante questo specifico aspetto del contendere, potrebbe essere risolto in sintesi in questa visione ‘criminale’ (per usare un aggettivo a lei tanto caro; ne aggiungo uno anch’io, per rincarare la dose: “fraudolenta”!) della realtà e della verità: voi state proponendo con una dottrina inconfutabile e relativo metodo a una tribuna di semplici lettori, spesso anche profani, come fosse un ‘inizio’ e non la fine del percorso che deve riguardare solamente chi ha già realizzato effettivamente la via del non- Supremo. E a nulla valgono le vostre precisazioni che questo sarebbe rivolto ai jñāni di alto livello e non a degli uomini ordinarî, perché non è mettendoselo in testa che lo si diventa e qui, a quanto tristemente è dato vedere, è proprio dei secondi che si tratta: state insomma ingannando, più o meno scientemente, chi, dopo aver banalmente risolto il ‘problemino’ delle qualificazioni necessarie all’intrapresa, pensa che non possa che essere un percorso tutto in discesa e di una facilità come sputar per terra!
      Per far questo, vi servite di una lunga, contorta e ridicola serie di sofismi e paralogismi che sono tanto più accettati supinamente dai lettori che qui ci seguono, tanto più per loro, la faccenda è una cosa ancora del tutto libresca.

      Mi premeva però entrare nel dettaglio per chiarire quanto da lei pretestuosamente usato della lettera che ho riportato di G.. Anticipo che, da uno che sostiene “Ho letto Guénon e lo cito quando trovo utile citarlo, non mi scandalizza se ha scritto cose errate, è normale, DELEGO L’INFALLIBILITÀ AD ALTRO NON A GUÉNON.”, frase che dà la misura di quello che ne capisce dell’infallibilità (io, ancor meno di lei riferisco l’infallibilità a G., guardi un po’…), non ci si potrà aspettare certo granché, però, come sempre , si “parla alla suocera perché la nuora intenda (sostantivi volutamente invertiti)”.

      Elimina
    2. II
      E questo, tra l’altro, riapre un annoso problema sulla legittimità e i vantaggi che si presumono di avere nel pubblicare le lettere private di G., ritagliate sulla particolarità che riguarda solo l’interlocutore, particolarità che, come al solito, pretestuosamente vengono bellamente confuse per i proprî fini, con ciò che, sempre queste lettere, contengono come aspetto generale dell’argomento trattato.
      Il suo, Abd-es-Samad è il classico esempio da antologia dei fruitori alle vongole di tali lettere. Molto brevemente: i punti 1) e 2), a meno che G. non fosse stato oltre che ‘fallibile’ anche contraddittorio (e anche po’ comico, aggiungo…), non possono essere spiegati come ha tentato malamente di fare lei; cioè, “…spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio…”, è evidente che G. intendesse riferirsi alla scelta che Caudron poteva fare tra Libera Muratoria e Tasawwuf (aspetto particolare del contenuto delle lettera rivolto all’interlocutore), altrimenti non avrebbe anche precisato in seguito “…per il ricollegamento a più organizzazioni, A CONDIZIONE CHE NON VI SIA INCOMPATIBILITÀ TRA LORO (POICHÉ CIÒ PUÒ ANCHE CAPITARE IN ALCUNI CASI)…”, (aspetto generale del contenuto della medesima lettera che non riguardava più direttamente l’interlocutore): questo per me è di un’evidenza cristallina! Il resto che le chiama “alcune deduzioni”, non sono altro che “alcune inferenze o induzioni”! Come al solito voi procedete come i gamberi e all’uopo non sarà certo inutile soffermarci a spiegare: “Induzione: Il metodo induttivo o induzione (dal llatino inductio, dal verbo induco, presente di in-ducere), termine che significa letteralmente "PORTAR DENTRO", ma anche "chiamare a sé", "trarre a sé", è un procedimento che CERCA DI STABILIRE UNA LEGGE UNIVERSALE PARTENDO DA SINGOLI CASI PARTICOLARI.”, procedimento che è l’esatto contrario di ‘deduzione’, ovvero “…letteralmente «condurre da», perché proviene dal latino "de" (traducibile con da, preposizione indicante provenienza, o MOTO DI DISCESA DALL'ALTO VERSO IL BASSO) e "ducere" (condurre).”: basterebbe andare su wikipedia! Per un gruppetto che, oltre al resto, ha la pretesa di essere ferrato in logica aristotelica, non c’è malaccio! E questo avrebbe risolto d'emblée tutte le domande, più che retoriche, inutili proposte di seguito da lei Abd-es-Samad, sennonché bisogna anche precisare una cosa circa l’altra questione che dà il prurito al gruppo “non-duale”, cioè quella riguardante il “tradimento”.
      Di tutti gli esempi particolareggiati che lei ha elencato, e che io definirei ‘stucchevoli’ invece, già qualcuno qui (Anonimo/Ottavio) ha ben precisato quali siano le circostanze generali che devono entrare in questione per autorizzare tali ‘spostamenti’: “…Anche nell’esoterismo islamico vi sono naturalmente delle possibilità di ricollegarsi a turuq differenti rispettando le dovute regole, che implicano comunque una autorizzazione e una motivazione…”, autorizzazioni che devono partire sempre dall’alto e non dal libero arbitrio dell’interessato.

      Elimina
    3. III
      Questo è un altro punto dolente sul quale val la pena di ritornare, punto ben espresso dalla sig.de’ Fenzi quando, dando la paternità addirittura a G. stesso di questa fesseria, sosteneva innocentemente: “…SE IL JIJÑĀSU che cerca la Conoscenza del Supremo, COMPRENDE che il suo il guru non può darne l’insegnamento, allora prenderà congedo da lui, ringraziandolo per ciò che da lui aveva ricevuto fino a quel momento. Quindi, è libero di cercare un maestro realizzato che gli insegni il metodo del Vedānta vicāra. Ogni vero guru è felice quando scopre che il proprio discepolo può aspirare a una conoscenza superiore. Solamente i falsi guru si offendono, dimostrando tutto il loro individualismo (cit.).”, al che rispondevo “…non è l’allievo che può permettersi di dire quando il suo Guru non gli serve più, ma il Guru stesso che sa quando non è più d’aiuto al suo allievo e quando lo può indirizzare da uno più “competente” di lui: questo è quello che sosteneva Guénon e non il contrario! Altro che “guru felici” di accettare le istanze dell’allievo, con il che si dimostrerebbero proprio essere FALSI…”. Ma questo, pur se grave e sconsiderato comportamento, quello cioè di credere che sia il ricercatore a decidere del suo destino, non rientrerebbe ancora pienamente nel caso del ‘tradimento’ vero e proprio: quello a cui ci si riferisce quando si parla di questo, riguarda soprattutto, se non esclusivamente, quei soggetti che sono stati radiati dall’organizzazione e che invece di intraprendere un percorso di ‘pentimento’, aggravano la loro posizione alimentando le loro tendenze individuali invece che risolverle. Non interessandovi i consiglî di G. e forse nemmeno di quelli che hanno aperto alcune vie del non- Supremo, per cui potrebbe risultare persino offensivo per la vostra aristocrazia dello spirito la loro pubblicazione, mi scuso in anticipo per quello che sto per scrivere, ma un irrefrenabile ‘assentimento’ mi vieta di non farlo: “Il Figlio dell’uomo certo se ne va secondo che è scritto di lui; ma guai a quell’uomo per mezzo del quale il Figlio dell’uomo è tradito! Sarebbe stato meglio per lui di non essere mai nato.”; ovvero: “Or egli disse ai suoi discepoli: "è impossibile che non avvengano scandali; ma guai a colui per colpa del quale avvengono! Sarebbe meglio per lui che gli fosse messa al collo una macina da mulino e fosse gettato nel mare…”, e quelli “di ben intelletto” sapranno, forse, trarne beneficio.

      Elimina
    4. IV
      E infine la questione “Maridort”. Tralasciando l’indebito e semplicistico accostamento ‘Schuon, Valsan e Maridort’ (certo che il non sapere ciò di cui audacemente si parla che per il sentito dire dai varî “outing”, che sembrano più che altro delle isteriche accuse da amante tradita, il coraggio non le manca di certo…), perché è un ‘discorsone’ a parte che richiederebbe un’enciclopedia per appena affrontarlo, vale la pena di riportare quanto da lei, con la solita sicurezza che il gruppetto ci ha abituati, scritto: “…Penso che lei sia fuori strada su tutto [ce ne faremo una ragione! ndr.]. Perché lei, da una parte, si scandalizza che un aspirante chieda la silsila e l’ijâza all’organizzazione alla quale vuole richiedere il ricollegamento e dall’altra lei invece dichiara “ho sempre avuto a che fare con delle Zawiya occidentali che, una volta chiesta la silsilah o l’ijâza dei Maestri […] hanno semplicemente documentato quanto richiesto senza la minima esitazione”? E’ forse un privilegiato?”. Iniziamo col dire che, chi tiene bordone a uno che dice di aver stretto amicizia – come si potrebbe fare con un compagno di camera del progetto “Erasmus” – nientepopodimeno che col Dalai Lama, stupirsi del fatto che ci possano essere al mondo altri privilegiati oltre a Filippi, magari non ai suoi livelli, ma sempre tali, ha del comico, quindi, se vuole le rispondo, ma non credo ne valga la pena, anche perché sono faccende che non la devono riguardare assolutamente… Tagliandola anche qui corta: tutto sta a vedere quali sono (e furono nel caso specifico: spero che le persone competenti chiariscano al più presto l’infamante boutade dell’outing del Filippi…) le modalità di approccio del richiedente, e se tanto mi dà tanto, quelle di certe ‘personcine’ che trasudano modestia da tutti i pori, non ben predispongono certo le organizzazioni a elargire a cuor leggero documenti attestanti le loro regolarità. Come che sia, tale organizzazione ha, a suo insindacabile giudizio, la liceità e libertà di non farlo, con il che il suo “…Non vogliono, fatti loro, agli occhi di molti (non solo miei ovviamente, questo giudizio è assai diffuso) queste “fotocopie” sono di fatto irregolari quindi inesistenti (nella misura in cui sussistono queste condizioni)…”, implicando il “tertium non datur”, sempre per chi vanta un’insuperata abilità nell’interpretazione della logica aristotelica, denota che di quest’ultima, lungi dall’esserne un fine esegeta, non ne è nemmeno un degno “copista”: ma chi mai sarà lei per arrivare apoditticamente a queste ridicole conclusioni, un privilegiato? Il resto sarebbe meglio tralasciarlo, tanto l’idiozia ‘gossippara’ è palese, ma comunque malvolentieri, con le stesse domandine ficcanti cercherò di ribattere. Quindi: il manifesto della silsilah sarebbe veritiero fino al nome dello Shaykh (per rispetto, iniziate anche voi a fare quello che millantate essere una mancanza dei vostri contradditori, e scrivete il sostantivo con la maiuscola, grazie!) At-Tadili e falso dopo, oppure nessun nome degli Shuyukh che vi compare sarebbe veritiero? Ammesso e non concesso che sia un “manifesto”, implicherebbe che non ci sarebbe anche un originale dal quale è stato tratto? Ha idea che con questa bella affermazione sta diffamando e infamando la famiglia di At-Tadili? E se tutto questo fosse un falso, lei pensa che una ‘ijâza’ non potrebbe essere contraffatta? Lei quindi, ammettendo ma non concedendo, bontà sua, la regolarità della tariqa di Maridort, vorrebbe sapere: “che ne è stata dopo la sua morte nel 1977? Perché non ha nominato uno sheykh e ha lasciato una triade di muqaddimun (che fu) condannando la tariqa all’estinzione non potendo questi nominare nessuno, né muqaddam né tanto meno sheykh?”: proprio un bel coraggio da leoni! E che vuole da me? Vada a chiederlo agli interessati e non al sottoscritto, vediamo se stavolta, pentiti del comportamento tenuto anni or sono col Filippi, saranno più ben disposti a soddisfarla! Da non credere…
      GATTO

      Elimina
    5. Errata c.: "Il resto che LEI chiama “alcune deduzioni”..."
      GATTO

      Elimina
  32. Gian Giuseppe Filippi16 ottobre 2020 alle ore 14:52

    Abbiamo letto recentemente, in una delle tante farraginose contestazioni, una difesa della realtà di stato causale attribuito a prājña. L’autore di quelle righe narrava anche di essersi rivolto a un “esperto” per interpretare correttamente il passaggio di Guénon a questo riguardo nel capitolo “L’état de sommeil profond ou la condition de Prâjna”. L’“esperto” ovviamente confermava la realtà della causalità sull’autorità… del medesimo capitolo citato.
    In realtà la causalità può essere usata esclusivamente come adhyāropa: ossia la sua temporanea utilità risiede nella sua ipotizzata realtà per poter essere poi negata (apavāda).
    “L’illuminato ammette la causalità solo in favore di coloro che, spaventati dall’Eterno, danno realtà agli oggetti sia perché li percepiscono sia perché li usano per le azioni rituali.” (MUGK IV.42)
    “Il saggio, vale a dire l’advaitin, ammette la causalità soltanto in favore di coloro che, essendo in possesso di una mediocre capacità di discriminazione, danno realtà alle loro percezioni e si comportano ritualmente di conseguenza. Egli però afferma l’esistenza della manifestazione all’unico scopo che essi accettino temporaneamente la causalità. In seguito, praticando il Vedānta, potrà emergere spontaneamente in loro la conoscenza dell’Eterno Ātman non duale. Dal punto di vista della verità ultima la causalità non esiste, ma ci sono altri che non fanno discriminazione (viveka) e rimangono legati alle pratiche rituali prescritte poiché, a causa del loro ottuso intelletto, hanno paura dell'eternità, intuendo che questo porterà l’annientamento della loro individualità. Questa è l'idea. Com’è stato detto prima [l’illuminato ammette la causalità] "solo per generare l'idea di unicità non duale" (GK III.15.).” (MUGKŚBh IV.42)
    “Costoro, per paura dell’Eternità, deviano dalla via della Verità perché rimangono attaccati alla loro esperienza della dualità, e l’errore di accettare la causalità non darà risultati.” (MUGK IV.43)
    Si consiglia vivamente, per capire l’Advaita in modo corretto, di riferirsi alle Upaniṣad, a Śaṃkara e ai suoi successori, invece di consultare “esperti” del tutto incompetenti.

    RispondiElimina
  33. Mettendo insieme quanto detto dai signori Filippi e Abd-es-Samad, a questo punto chi legge potrebbe legittimamente farsi l'idea che, una volta ricevuta una qualsiasi iniziazione, la si possa usare per andare in giro per il mondo, da Occidente ad Oriente, utilizzandola come fosse una una specie di passepartout per entrare e uscire a piacimento da qualsivoglia organizzazione tradizionale a seconda dei propri gusti, fermandosi magari davanti ad un guru indiano per ottenere l'immediata Liberazione semplicemente ascoltando dalla sua bocca l'insegnamento sulla non-dualità. In barba alla fedeltà al patto iniziatico e al "duro lavoro da compiere" necessario per ottenere un benché minimo risultato reale. Ah già... ma questo è solo "quel che pensa Guénon", a chi importa?!

    G.F.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Signor G.F. questo modo di affrontare la risposta è ottimo per denigrare ma imperfetto per argomentare. L’essenziale del mio intervento (nella prima parte) si sviluppava intorno a due affermazioni di Guénon da cui, senza troppo commentare ho tratto delle conclusioni. È piuttosto su queste che ci si dovrebbe soffermare. Le sue osservazioni si dovrebbero perciò rivolgere più a Guénon che al sottoscritto.
      Queste le due citazioni:
      1) “spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio”

      e

      2) “per il ricollegamento a più organizzazioni, A CONDIZIONE CHE NON VI SIA INCOMPATIBILITÀ TRA LORO (POICHÉ CIÒ PUÒ ANCHE CAPITARE IN ALCUNI CASI) mi sembra che si potrebbe applicare un proverbio che dice ‘Due sicurezze valgono meglio di una’

      Nel mio intervento non ho usato espressioni quali “andare in giro per il mondo”, oppure “passepartout per entrare e uscire a piacimento da qualsivoglia organizzazione tradizionale” ecc. e non avendolo assolutamente proposto non ha senso esordire con “chi legge potrebbe legittimamente farsi l'idea”; chi legge è perfettamente in grado di capire ciò che è scritto e ciò che non è scritto. Atteniamoci agli argomenti trattati. Nel mio intervento ho cercato solamente di applicare quanto scritto da Guénon in quei due passaggi; ho fatto tre esempi che non corrispondono per nulla a seguire “i propri gusti”.

      Riguardo alla fedeltà al patto iniziatico non è “in barba” (ironizzando) come dice lei ma in base al principio che ripetuto due volte secondo cui il patto è stretto tra l’essere umano e Allâh e non con la tariqa.
      Riguardo al "duro lavoro da compiere" non ricordo l’aggettivo in Guénon ma solo l’espressione “lavoro da compiere” oppure “lavoro interiore”, mi posso sbagliare ma è certo che questo essere più “duro” per alcuni e per altri meno o per nulla “duro”, dipende solo dall’orizzonte intellettuale di chi intrapprende la via iniziatica e non sia una condizione preliminare di questo lavoro, per quello è improbabile l’uso da parte di Guénon.
      Concludendo, mi sa dare una migliore interpretazione di quanto dice Guénon nella frase “spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio”?

      Elimina
  34. 1
    Sig. Anonimo, mi riferisco al suo messaggio del 17 ottobre più in alto, non riesco a rispondere direttamente per cui le rispondo qui.
    A dispetto della sua speranza puntualizzo eccome.
    Il “voi” è fuori luogo non appartenendo a nessun gruppetto come lei dice; cocciutamente mi affianca al gruppo Veda Vyasa Mandala, essendo invece un singolo senza relazioni con quel sito, mi fa sorridere la sua insistenza, per altro non mi sembra che gli autori di quel sito parteggino entusiasticamente per le vie come la mia.
    Io sono io e parlo solo a mio nome; non vorrei darle un dispiacere ma non bisogna appartenere a ciò che lei chiama “gruppo “non-duale”” per non essere un fans, faccio solo un esempio, della Rivista di Studi Tradizionali, è un giudizio assai diffuso senza che per forza vi siano legami tra i giudicanti, basta leggerla.
    Allora al posto del “voi” il “lei” va benissimo e la prego quando si rivolge al sottoscritto di rispondere a quello che scrivo io e non altri; se vuole rispondere ad altre argomentazioni può farlo rispondendo direttamente agli estensori, grazie.
    Non capisco il suo ragionamento: se io dico “DELEGO L’INFALLIBILITÀ AD ALTRO NON A GUÉNON” e lei “ancor meno di lei riferisco l’infallibilità a G., guardi un po’…” dove sta la differenza che le da la misura della mia incapacità di comprensione?
    Lei è veramente divertente. Da una parte riguardo alla pubblicazione delle lettere di Guénon scrive che “riapre un annoso problema sulla legittimità e i vantaggi che si presumono di avere nel pubblicare le lettere private di G.” ma è lei che l’ha pubblicata il 14 ottobre! Io l’ho solamente letta; vede per lei è di “un’evidenza cristallina” la seconda citazione, per me lo sono entrambe, parlano da sole e non ci vuole nessuna “fruizione alle vongole” (che espressioni! Se spera di essere antipatico e scostante e di darmi fastidio ci riesce perfettamente) e come dicevo nelle mie precedenti, non hanno bisogno di nessun commento, non bisogna essere grandi iniziati, si comprendono facilmente alla prima lettura.
    Io non sarei capace di interpretare ciò che è scritto nella lettera di Guénon e la spiegherei malamente, mentre lei sì, è capace: non le sembra un po’ ingenuo e presuntuoso il ragionamento? Non le sembra che calzi perfettamente a lei ciò che ha lei citato del Marchese del Grillo: “io so’io e voi non siete un…”?
    Lei si arrampica sugli specchi dicendo che la prima si riferirebbe solo a Caudron e la seconda a tutti. Lascerei ai lettori l’interpretazione e capire se l’affermazione “…spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio…” è rivolta a Caudron oppure è generale, QUINDI rivolta anche a Caudron: scrivendo “ciascuno” sembrerebbe rivolta al generale, altrimenti avrebbe scritto “spetta a LEI scegliere la via che LE conviene meglio” (in francese “vous” ovviamente).
    Salterei la pedante spiegazione deduzione/induzione e la solita confusione del “voi”.

    Veniamo alla questione che lei dice dar “prurito” ovvero il tradimento (sic); ciò che riporta citando Anonimo/Ottavio sono le condizioni normali, ma lei non tiene minimamente conto dei tre casi che elenco io. Lei risponde alla sig.ra de Fenzi che è il Guru a dover decidere se e quando il discepolo possa trasferirsi presso altro Guru; ma non tiene conto che il Guru ci deve essere! Potremmo trasferire in ambito islamico che conosco meglio parlando di sheykh. Lei non contempla lo stato attuale e diffusissimo che vede numerosissime turuq dirette non da shuyukh ma da muqaddimun che evidentemente svolgono funzione differente dallo sheykh; mi sembra che di questo ne parli anche Guénon. Detto ciò resta l’evidenza che “…spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio…”

    Se non le dispiace, per non dilungarmi, salterei anche la parte gli anatemi evangelici (manca all’elenco la parabola del cieco che guida un altro cieco in Luca VI,39, o forse la/vi riguardava troppo da vicino?)

    RispondiElimina
  35. 2
    Maridort. Lei mi dice che “il coraggio non le manca”, evidentemente a suo giudizio ho commesso peccato di lesa maestà; perché, forse ci vuole coraggio a richiedere silsila e ijâza che attesterebbe la regolarità di colui con il quale stringere un patto iniziatico?

    Perché si scandalizza dell’accostamento tra Schuon, Valsan e Maridort? Per lei non sono tutti shuyukh? Di Schuon e della sua funzione di maestria avremmo anche un implicito riconoscimento da parte di Guénon di cui potremmo fidarci, eppure Schuon cade in disgrazia per cui un suo discepolo e muqaddem, Valsan, lasciando la sua tariqa madre ha potuto con il placet di Guénon divantare d'emblée sheykh della sua nuova tariqa, e Maridort? Me lo dica lei. Se è un discorso che richiede un’enciclopedia che si inizi pure dal primo lemma: regolarità. Dopo 70 anni di silenzio direi che si può dire qualcosa; poche e scarne prefazioni a libri di Guénon direi che sono un po’ poco per una corretta presentazione. Non un’enciclopedia ma un feuilleton bisognerebbe invece scrivere sui rapporti tra queste tre persone, Schuon, Valsan e Maridort, rapporti al veleno caratterizzati da gelosia e rivalità “esemplari” del “vero adab” nel tasawwuf! (adab = educazione tradizionale e iniziatica). Basterebbe questa citazione di Guénon per fare un po’ di pulizia:

    “Gelosia e rivalità individuali non possono in effetti trovare posto alcuno nel vero dominio iniziatico, mentre invece, al contrario, ne hanno uno assai grande nel modo d’agire dei falsi istruttori; e sono unicamente costoro a dover essere denunciati e combattuti, ogni qualvolta le circostanze lo esigono, non soltanto dai Maestri spirituali autentici, ma anche da tutti quelli che, a qualunque livello, hanno coscienza di cos’è realmente l’iniziazione”.

    Lei fa di tutto per non rispondere alla domanda: Perché lei, da una parte, si scandalizza che un aspirante chieda la silsila e l’ijâza all’organizzazione alla quale vuole richiedere il ricollegamento e dall’altra lei invece dichiara “ho sempre avuto a che fare con delle Zawiya occidentali che, una volta chiesta la silsilah o l’ijâza dei Maestri […] hanno semplicemente documentato quanto richiesto senza la minima esitazione”?
    Mi risponde che “tutto sta a vedere quali sono […] le modalità di approccio del richiedente” evidentemente le sue sono perfette (si vede infatti dalla sua educazione) e che al contrario altre persone “non ben predispongono certo le organizzazioni a elargire a cuor leggero documenti attestanti le loro regolarità”; vede, questo è il problema, come già dicevo nel mio precedente messaggio questa è la differenza tra le “fotocopie” occidentali e le vere turuq orientali (per altro da sempre e da quando è esistita questa istituzione): qui tutto è alla luce del sole, si sa chi è lo sheykh, chi sono i muqaddimun ecc. senza troppi problemi e nascondimenti che, me lo faccia ripetere, sono il segno dell’esistenza di qualcosa di equivoco.

    Perciò arrivando alla questione “manifesto”, le ho appena risposto; nelle turuq orientali (non le “fotocopie” occidentali) chi le dirige e chi detiene funzioni è noto, quindi nel caso specifico che stiamo trattando proprio fino allo sheykh At-Tadili è tutto chiaro, alla luce del sole, conosciuto da tout le monde, è il passo successivo che non è conosciuto a tout le monde, perché? Quindi sig. Anonimo vede che la sua domanda “ficcante” non ha senso? Si chiede conto del post-At-Tadili non di ciò che lo precede. Inoltre lei qui cade male proprio perché è quella silsila (orientale) che conosco particolarmente bene per cui nessuna diffamazione della famiglia At-Tadili, anzi. Ammesso e non concesso che esista un manifesto “originale” (perché questo cos’è?) tenga conto che “originale” non significa veritiero, anche questo dovrebbe derivare da una ijâza firmata da parte dello sheykh At-Tadili, dov’è? Se non c’è qualsiasi “manifesto” non può sostituire l’ijâza.

    RispondiElimina
  36. 3
    Perché mi mette il sospetto che anche l’ijâza potrebbe essere contraffatta? Intanto cominciamo a vederla. Mi ripeto affinché sia chiaro quello che intendo, non escludo nulla, sarei ben felice che esistesse potendo con ciò cambiare idea, ma la domanda rimane la stessa: se è tutto regolare perché non mostrarlo? Ripeto anche questo: non si tratta di segreto iniziatico, nei paesi orientali chi dirige una tariqa (ecc.) è conosciuto anche dalle amministrazioni governative, dalla popolazione “profana” che vive nei pressi della zawiya, altra cosa sono i riti e l’insegnamento che è giusto che rimangano riservati e di cui mai mi sono permesso di chiedere conto.

    Perciò sig. Anonimo non si adonti se si chiede conto di questa regolarità, è la norma dove le cose sono normali e tradizionali, e per farlo non ci vuole un coraggio da leoni, ci vuole solo buon senso. E non pensi neppure che sia l’unico, basta frequentare certi ambienti per accorgersi che sono in molti a porsi le stesse domande, e non è curiosità è solo stupore di tanta millanteria.

    La leggo un po’ nervoso quando faccio la domanda riguardo alla tariqa di Maridort; e perché mai dovrei avere un coraggio da leoni quando chiedo cose ordinarie? Lei probabilmente non ha frequentato turuq orientali, dove shuyukh di indubbia ed elevata reputazione rispondono serenamente (sì, offrendoti anche un tè orientale) a domande di questo genere poste da un perfetto sconosciuto.

    Non chiedo nulla a lei (possiamo anche finirla qui), prendo atto che lei non può dare ulteriori informazioni anche se mi sento di dubitare e tra me e me faccio questa domanda: come fa ad avere quelle certezze se neppure ne è al corrente? Come fa a sostenere la regolarità della tariqa Maridort se non vi appartiene? Solo se vi appartiene sa certamente se questa ijâza c’è o non c’è, in cuor suo saprà la verità.

    Mi rivolgo perciò ai lettori e non più a lei che è disinformato. Personalmente, a me, tutto ciò non interessa nulla, sono soddisfatto di quello che ho e non ho bisogno di rivolgermi ad altro tanto meno a delle “fotocopie” occidentali che non mi hanno mai interessato; se ho sollevato la questione è solo perché avendo qualche annetto alle spalle mi sento di poter mettere in guardia chi, volendo avvicinare un’organizzazione iniziatica, nello specifico del tasawwuf, è bene che s’informi, che troverà migliori e più garanzie in ambiente orientale dove non esistono tutte queste artificiali complicazioni generate da uno psichismo e sovrastrutture tutte occidentali, artificiali perché non essendoci una maestria si è costretti allo scimmiottamento di epigoni senza funzione e capacità, e di fare attenzione a non farsi abbagliare e abbindolare da ciò che sembra solo tradizionale, meglio andare alla fonte dove si avranno migliori informazioni e eventuali indicazioni su dove rivolgersi; poi siamo tutti d’accordo “spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio”.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. I
      Abd-es-Samad, mi dispiace avvisarla che continuerò imperterrito a usare il “voi” quando lo riterrò opportuno e come paventavo, sono inutili le sue precisazioni che descrivono la sua non appartenenza al gruppetto “non-duale”, perciò, a meno che non sia, senza tanti giri di parole, un masochista, per cui si diverte a vedere la sua trazione presa a pesci in faccia, continuerò ad usare la seconda persona plurale (se vuole, mi faccia sapere se rientra nell’anomalia psichica descritta)! Inoltre, se nell’economia del discorso, che ormai si fa complicato, entrano in gioco altre faccende discusse con altri, se ne faccia una ragione, ma risponderò usando il commento attuale senza nessuno scrupolo. Sono altresì compiaciuto di divertirla: la cosa è reciproca, quindi diamo inizio a nuovi divertimenti…
      Sull’infallibilità “di” G., non avevo dubbi non capisse nulla: quello che intendevo dire, tagliandola molto fina, è che nessuna individualità può essere infallibile, compresa ovviamente anche quella di G., che da questo punto di vista, non può e non deve essere considerata diversa da qualsiasi altra; l’infallibilità è da attribuire solo alla Dottrina di cui però, alcune individualità, possono esserne il veicolo, per cui assumono una “funzione” legittima che deriva da una loro diretta conoscenza, non riguardante più l’individualità ma la personalità. Lei confonde l’individuo con la ‘persona’; la ‘funzione’ con l’individualità; l’‘assentimento’ con la fede; il marchese del Grillo con l’‘autorità’!
      Questa questione è di fondamentale importanza, per cui non sarà inutile sentire direttamente l’interessato che rispondeva ad alcuni membri della ‘legione’ di detrattori, con cui ha avuto a che fare, nella sua tribolata esistenza (questa prima citazione chiarifica in sovrappiù, anche la famosa, e fumosa, questione sulla lettera NA, che è diventato il bolso cavallo di battaglia del gruppetto “non-duale”): “… Speriamo che egli tuttavia ci faccia l’onore di ammettere che nessuna tradizione e ‘venuta a nostra conoscenza’ attraverso degli ‘scrittori’, soprattutto occidentali e moderni, ciò che sarebbe piuttosto derisorio; le loro opere hanno soltanto potuto fornirci un’occasione comoda per esporla, il che è del tutto diverso, e ciò perché non siamo per nulla tenuti a informare il pubblico delle nostre vere ‘fonti’, e perché d’altronde queste ultime non comportano assolutamente delle ‘referenze’: ma ancora una volta, è in grado il nostro contraddittore di capire che,in tutto ciò, per noi si tratta essenzialmente di conoscenze che non si trovano sui libri?”. E ancora ad un altro: “… e noi non abbiamo affatto delle ‘opinioni’, ma soltanto qualche conoscenza che esprimiamo come meglio possiamo per coloro che sono capaci di approfittarne, caso che indubbiamente non è il suo”! Lei a questo punto dirà: e allora? Ipse dixit? E chi sarebbe mai ‘sto Guénon? Al che, non potendo ‘documentare’ nulla che possa validare quello che sostengo, per me, ma soprattutto per i feticisti del documento, il discorso finirebbe qui; solo mi permetto di dire che tale ‘scepsi’ spinta, può essere estesa a tutti indistintamente i Maestri spirituali, anche al suo Shaykh fino a Śaṃkara compreso, con il che faremmo meglio allora a chiudere baracca e parlare di Covid, visto che ultimamente tiene banco.

      Sulle lettere di G., stendiamo un pietoso velo, ma prima le domando sempre per tagliar corto: lei possiede la lettera di Caudron alla quale G. ha risposto? Io sì… Invece le consiglio di leggere attentamente la pedante spiegazione tra induzione e deduzione, perché rientra pienamente in quello che ho spiegato più sopra, cioè sulla differenza che intercorre tra Conoscenza e ‘doxa’, non capendo la quale ci si condanna irrimediabilmente a non capirci più nulla… Ancora circa la questione del ‘prurito’, sarò breve: lavar la testa all’asino…

      Elimina
    2. II
      In breve sulla questione sulla quale lei ritorna malamente: “… Perché si scandalizza dell’accostamento tra Schuon, Valsan e Maridort? Per lei non sono tutti shuyukh?”: no, non lo sono affatto ‘tutti’! Ancora, con uno stile un tantino involuto, insiste: “…Di Schuon e della sua funzione di maestria avremmo anche un implicito riconoscimento da parte di Guénon di cui potremmo fidarci, eppure Schuon cade in disgrazia per cui un suo discepolo e muqaddem, Valsan, lasciando la sua tariqa madre ha potuto con il placet di Guénon divantare d'emblée sheykh della sua nuova tariqa…”: con questo dimostra di non saperne assolutamente nulla sull’affaire, e mi creda, è meglio che lasci perdere cose più grandi lei e di “voi”, e citando G. e la sua frase sui falsi istruttori spirituali, non sapendo minimamente quali fossero i rapporti che lo legavano a Maridort, cade semplicemente nel grottesco! “…Mi risponde che “tutto sta a vedere quali sono […] le modalità di approccio del richiedente” evidentemente le sue sono perfette (si vede infatti dalla sua educazione) e che al contrario altre persone “non ben predispongono certo le organizzazioni a elargire a cuor leggero documenti attestanti le loro regolarità”…(cit.)”: visto che ha anche scomodato l’‘Adab’, la informo che non è bere il tè col mignolino alzato!

      Sul resto delle sue ridicole, farraginose e banali congetture ho già risposto col commento precedente, per cui non credo valga la di dilungarsi. Non sono certo qui per convincere del contrario né lei, né il lettori ai quali si rivolge e a cui tanto sembra tenere: qui possono essere convinti solo quelli che, al contrario, leggono pochissimo invece, al riparo quindi da una ‘scepsi’ ipertrofica e clownesca, quanto inutile, il destino degli altri malcapitati non interessandomi nel modo più assoluto.
      GATTO


      Elimina
    3. e.c.: è ‘venuta a nostra conoscenza’...
      GATTO

      Elimina
    4. Sig. Anonimo, vedo che con la sua parlantina si arrampica sugli specchi piuttosto che rispondere (per non perdere l’abitudine di citare film direi che ciò che scrive ricorda il conte Mascetti in “Amici miei”). Per quanto mi riguarda la sua evasività conferma ciò che sostengo, per quanto riguarda i lettori, che hanno letto abbastanza su questi argomenti, lascio l’evidenza del giudizio su quanto discusso.

      Elimina
    5. ... E conte Mascetti sia!
      C.e MASCETTI

      Elimina
  37. "Spetta a ciascuno scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio". Vorrei porre una domanda a questo proposito e mi scuso se magari non ho compreso nella sua interezza l'oggetto del contendere. La domanda è : non si intende forse "scegliere in modo definitivo" e non invece "scegliere provvisoriamente per poi eventualmente cambiare?" In altre parole mi chiedo se R.G. pensasse solo alla scelta iniziale che, in tal caso, dovesse essere portata fino in fondo (in base alle proprie possibilità) o se invece volesse intendere che la scelta potesse essere cambiata "strada facendo". Nel suo articolo "sulle conversioni", l'Autore fa riferimento ai "cambi di religione", che qui non ci interessano granché. Però ad un certo punto fa cenno a qualcosa di diverso e cioè agli uomini giunti ad un alto grado di sviluppo spirituale, per i quali le distinzioni non hanno più senso. Qui, come forse accadde temporaneamente per Shri Ramakrishna, si possono percorrere vie diverse, senza che ciò porti nocumento alcuno a chi decide di intraprenderle. Questa circostanza del cambio della via iniziatica, come andrebbe vista e come sarebbe stata giudicata da R. G.? Sottolineo il fatto che si tratta di una domanda, senza alcun giudizio in merito. E ovviamente senza entrare in alcuna polemica.

    RispondiElimina
  38. Ribadisco quello che alcuni lettori hanno detto in quanto leggendo alcuni commenti che sono un' integrazione all'articolo, si chiariscono alcune questioni ma sorgono anche alcuni dubbi. In relazione all'iniziazione, quanti scrivono qui provengono per nascita da un' influenza cristiana, molto probabilmente cattolica e molto probabilmente sono stati battezzati. Poiché il battesimo è un'iniziazione, Conveniamo  che alcuni dei commentatori guenoniani che qui si auto proclamano come fedeli dei "patti iniziatici" , partecipano, o hanno partecipato, alla massoneria o Libera Muratoria se si preferisce, hanno quindi ricevuto una seconda iniziazione, peraltro incompatibile con la prima per poi convertirsi all'Islam, ricevendo infine una terza iniziazione, che a sua volta è incompatibile sia con la prima che con la seconda.

     Ed ora mi domando, come concepiscono questi passaggi da una tradizione all'altra? Un' iniziazioni alle tre diverse vie vi è stata. Un'altra questione che non mi è chiara: R.Guénon scrisse sulla condizione dell'uomo e la civiltà del suo tempo, discrive ed espone alcune dottrine alle quali ci si può affidare per arrivare alla realizzazione, ma non scrisse né i processi né la metodologia per ottenerla, semplicemente indica quale siano le possibilità che aveva l'uomo all'incirca cent'anni fa, le condizioni da allora sono notevolmente cambiate, peggiorate ad esempio nella massoneria, ma non ha mai detto che la sua fosse una opera rivelata, chi vi dà a voi l'autorità di essere gli unici "intenditori" e addirittura oltrepassare persino la stessa intenzione di R.Guénon? 

    Qual è il metodo che avrebbe stipulato il maestro francese del quale voi vi sentite gli eredi?  Chi sarebbe il maestro autorizzato a 'insegnare' e rendere effettiva la realizzazione seguendo lo studio dell'opera di Guénon?  Ha creato R.Guénon, una catena iniziatica tramite la quale lui stesso si sia dichiarato maestro e promotore di una nuova via o possibilità di arrivare alla realizzazione? 

    Non finisco di capire questa forma di comprendere la sua opera facendo di questa quasi le basi per una nuova religione, un altro pezzo del puzzle new age; un guenonismo del quale non credo lui abbia messo le basi ma bensì siano stati altri, i quali in preda ad un individualismo e ad un attaccamento al proprio ego si credono l'élite. Non sapendo vedere quel che lui indicava sono rimasti attaccati alla sua figura, addirittura alla sua immagine fisica. Pura idolatría travestita da pseudo metafisica.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. "Poiché il battesimo è un'iniziazione...(cit.)": ecco ci mancava anche questa adesso! Ti aspettavamo tutti con ansia FACU!
      PS: dopo questa bella boutade, non ho più avuto il coraggio di proseguire la lettura: certe cose mi atterriscono... Forse domani ci riprovo, dopo un’abbondante colazione…
      GATTO

      Elimina
    2. Mica si aspetterà una risposta a queste badilate di parole storte tirate a caso, vero sig. FACU?

      G.F.

      Elimina
    3. Petrus Simonet de Maisonneuve20 ottobre 2020 alle ore 17:45

      Per una migliore comprensione riguardo l'iniziazione cristiana, Le consiglio la lettura del capitolo 27 della rubrica "Dall'Ordine al Caos" intitolato "La separazione di esoterismo ed essoterismo nella Chiesa primitiva" che trova su www.vedavyasamandala.com

      Inoltre, per una maggiore completezza, Le indico anche le due pubblicazioni presenti nella rubrica Labyrinthos, "Meister Eckhart e la Conoscenza dell’Assoluto" e "Iniziazione e Metodo dell'Esicasmo".

      Elimina
    4. Gian Giuseppe Filippi21 ottobre 2020 alle ore 14:31

      Signor Masetto, non mi meraviglia la sua risposta che, come è vostro stile, rovescia l’interpretazione della realtà. Solamente dopo essere entrato in contatto con le tre persone che lei sa e dopo aver discusso con loro ho deciso io che quello non poteva essere l’ambiente che avrei frequentato. Avete il vizio di pensare che chi vi rifiuta in realtà sia stato respinto da voi. Non è così. Se a qualcuno è stata rifiutata l’iniziazione per motivi lubrichi, ciò è capitato proprio a Maridort da parte di Schuon e Vâlsan. Non mi pronuncio sulla sciocchezza per la quale il trio Masera-Nutrizio-Riva avesse ragione a non declinare la vostra silsilah. Questo fa parte della vostra ignoranza delle regole iniziatiche universali. Come anche che le ṭuruq, quelle vere, siano composte di cerchie interne (gli alti gradi?), idea che avete trasposto dalla vostra affezione per la Massoneria. Quanto al fatto che ella sia stata accettata all’ “iniziazione” sufica facilitato dal fatto che era già massone, questa è un’altra delle tante anomalie che vi contraddistinguono. Per quello che riguarda la regolarità della successione di Maridort da Sidi Muhammad at-Tadili, la testimonianza dei familiari non ha alcun valore, considerata l’assenza di un successore ad al-Jadida. L’unica “prova” è, dunque il poster arabo-francese fai-da-te, la cui fonte è nientemeno che il CESNUR. Ciò significa che il vostro maestro non ha trasmesso né ai suoi tre muqaddamun né alla sua khalifa alcun documento probante. Rimangono però i quesiti basati sulle vostre stesse affermazioni che rimangono senza spiegazione. Avete affermato che at-Tadili non era uno shaykh qualunque: egli accettava come discepoli soltanto chi fosse già maestro. Ora, a parte l’assurdità di una tale affermazione che iniziaticamente non ha alcun senso, egli avrebbe accettato Maridort perché in possesso di una maestria muratoria oppure perché vantava un magistero più elevato? E se i suoi discepoli erano tutti dei maestri, com’è allora che non c’è stato nessuno che succedesse ad at-Tadili in al-Jadida? Com’è che Maridort, l’unico che a vostro dire sarebbe stato nominato maestro da lui, non ha preso in carico quella zawiya? O forse la sua missione da “rosacroce senza patente” riguardava soltanto l’Europa, il suo raddrizzamento e la formazione di una élite dell’élite? A quanto avevo narrato nella mia precedente devo aggiungere che nel 1974 mi capitò in casa (non al bar della stazione, com’è previsto dal vostro rituale) la visita di una vostra delegazione composta da tali signori Coscia e Volpe. Cosa siano venuti a fare non è stato chiaro. Quello che è stato chiaro fu il risultato. Anche questi due, guénoniani letteralisti e poco preparati, arroganti e maleducati, sono stati respinti al mittente. Quello è proprio il vostro marchio di fabbrica. Anche il modo con cui trattate un vostro ex seguace che si è liberato di voi, dileggiando perfino il suo pseudonimo (Ezio d’Intra-Tradizione), dimostra la vostra meschinità.

      Elimina
    5. Gian Giuseppe Filippi21 ottobre 2020 alle ore 14:31

      Forse gli pseudonimi di Maridort-Manara (minareto) o di Masera (sentiero) sono più carichi di significati simbolici? Eppure vi faceva comodo pubblicare gli articoli di chi ora sprezzantemente trattate, ovviamente, da traditore. Infatti, nonostante gli alti insegnamenti che impartiva il vostro maestro, che per pudore esternava soltanto rari articoli e prefazioni di nessun interesse, la Rivista, come anche i diversi blog e Facebook, brilla per sovrabbondanza di polemica e assenza di dottrina. Per me è arrivato il momento di interrompere il flusso di risposte alla litigiosità che vi contraddistingue. Seguendo le vostre non-argomentazioni si rischia di abbassarsi di livello. Veniamo al dunque: il segno indelebile della vostra estraneità alla tradizione è stata anzitutto l’incapacità di comprendere i contenuti di ciò che pubblichiamo e che per voi resta totalmente sconosciuto. Siete irrimediabilmente limitati a una prospettiva del non-Supremo. Ciò non ha nulla di irregolare: nel dominio dell’illusione è legittimo assumere quel punto di vista. È invece illegittimo negare una possibilità realmente metafisica e scagliarsene contro con livore. In secondo luogo, la vostra estraneità al dominio realmente iniziatico è provata dal modo maleducato, insinuante, derisorio, maligno, in breve, antitradizionale, con cui avete ritratto i nostri maestri indiani sui vostri organi di divulgazione. La invito, perciò, a riflettere con serietà sul brano che segue:
      “Dobbiamo solo eliminare ciò che è falsamente attribuito a Brahman da avidyā; non dobbiamo sforzarci di acquisire la conoscenza di Brahman perché Esso è evidente. Anche se è così evidente. facilmente conoscibile, del tutto vicino, essendo il proprio Sé, ai non illuminati, cioè a coloro la cui buddhi è distratta dai fenomeni dovuti alla differenziazione dei nomi e delle forme creati da avidyā, il Brahman appare sconosciuto, difficile da conoscere, remoto, come se fosse altro da Sé. Ma a coloro la cui buddhi si è distaccata dai fenomeni esterni, che si sono assicurati l’insegnamento del Guru e hanno raggiunto la purificazione del manas, non c'è nient'altro di così beato, così conosciuto, così facilmente conoscibile e così vicino quanto il Brahman. Di conseguenza, si dice che la conoscenza di Brahman è immediatamente compresa e ciò non si oppone al dharma (BhG IX.2). Alcuni teorici presuntuosi sostengono che buddhi non può afferrare il Sé, in quanto ess è senza forma, e che quindi l’ottenimento della giusta conoscenza è impossibile da raggiungere. È vero, è irraggiungibile per coloro che non sono stati adeguatamente iniziati alla conoscenza tradizionale dai Guru, che non hanno imparato e studiato il Vedānta, il cui intelletto è abbastanza coinvolto negli oggetti esterni dei sensi, e che non sono stati addestrati alle fonti scritturali di conoscenza. Ma, per coloro che si trovano in una posizione diversa, debitamente iniziati, è impossibile credere nella realtà della dualità percipiente-percepito che deriva dalla percezione del mondo esterno, perché non percepiscono altra realtà se non la Coscienza del Sé. E abbiamo dimostrato nelle sezioni precedenti che questa è la verità, non il contrario; e Bhagvan ha dichiarato lo stesso anche in BhG II. 69. Per questo motivo è solo una cessazione della percezione delle forme differenziate del mondo esterno che può portare ad una definitiva comprensione della reale natura del Sé. Infatti, il Sé non è una cosa sconosciuta a nessuno in nessun momento, non è una cosa da raggiungere, né in cui liberarsi o da acquisire. Se il Sé fosse del tutto sconosciuto, tutte le ricerche tese a beneficio di se stessi non avrebbero alcun significato. (Bhagavad Gītā Śaṃkara Bhāṣya, XVIII.50)

      Elimina
    6. Alcune precisazioni:
      1) “L’unica “prova” è, dunque il poster arabo-francese fai-da-te, la cui fonte è nientemeno che il CESNUR…(cit)”: Che cosa ne sa il sig. Filippi che il poster arabo-francese è fai-da-te?
      2) Come può essere il CENUR la fonte di un documento che non ha, ma che ha solo fotografato in casa della famiglia Tadili?
      3) Ha capito sempre il Nostro che nessuno si scaglia contro con livore, né nega alcuna possibilità realmente metafisica, ma solo qualcuno, si riserva di denunciare la mistificazioni di quelli che credono di averla capita, ma soprattutto, pescando a strascico, la divulgano, anche ignobilmente (dobbiamo ricordare a tutti ancora una volta, la bella trovata di “OM PAGE”?!)?
      4) Ci dica un solo punto dove, sugli organi di divulgazione della “grande ammucchiata”, come voi dall’alto della vostra squisita educazione iniziatica solete chiamarla, i vostri ‘maestri’ (che per rispetto bisognerebbe scrivere con la maiuscola, cosa che voi non fate, sempre a proposito che sarebbero gli altri a non rispettarli…) vengono trattati con metodo “…maleducato, insinuante, derisorio, maligno, in breve, antitradizionale…”. Invece restando sempre in tema di ritratti antitradizionali, chiederei al sig. Filippi cosa ne pensa del fatto di far apparire le fotografie dei vostri Maestri (noi usiamo per rispetto la maiuscola…) con in mano i libri delle Ed. Ekatos: è questo il rispetto e la venerazione che provate per loro?
      5) Ma il sig. Filippi non riesce proprio a far meno del “…citazionismo cieco…(cit. C. Rocchi)” di Śaṃkara, con il quale infarcisce ogni volta i suoi commenti, anche quando la cosa potrebbe benissimo risparmiarsela, visto il contesto del tutto profano delle sue invettive?
      GATTO

      Elimina
    7. Addenda: sempre al punto 1); mi era sfuggito: ma soprattutto, che ne sa, sempre il Filippi, che il "poster arabo-francese fai-da-te", come lui lo chiama, sarebbe anche l'unica prova a disposizione dei "torinesi"? Glielo ha detto Biancaneve?
      GATTO

      Elimina
  39. Buongiorno a tutti, è la prima volta che scrivo su questo blog e ci tengo a mettere subito in evidenza che non appartengo a nessun gruppo.
    A seguito dell’intervento di “FACU”, che credo si potrebbe commentare mettendo tutti d’accordo ho deciso di porre una questione a tutti.
    Ho seguito le discussioni che si sono succedute su questo sito e quello che ho visto in maggioranza, sono attacchi personali, e tentativi di screditare le scuole, dottrine e maestri dei contendenti. È evidente che tra i due schieramenti ci sono persone che si conoscono da lungo tempo e hanno dei rancori personali. Io credo che se si vuole parlare di metafisica bisogna liberarsi di tutto questo. Il mio intento è quello di invitare tutti voi a cercare di non contrapporvi in maniera così violenta, non ha senso che ognuno di voi continui a difendere il proprio punto di vista quando quello che bisognerebbe fare è mettersi d’accordo sui principi. Se siamo tutti d’accordo che la Tradizione è unica, che la Verità è unica non bisogna più cercare cosa c’è di diverso e sbagliato in una certa scuola, dottrina ecc… ma trovare i punti di accordo.
    Se siete persone dedite all’intellettualità dovreste evitare di concentrarvi sulle individualità e usare le energie per andare più in alto, verso l’universale.
    Ultima cosa: non pensate che scontri di questo tipo tra persone che posseggono una o più iniziazioni potrebbero avere effetti sull’ambiente esterno?
    ULISSE

    RispondiElimina

  40. Il titolo dell'articolo è "A proposito di un'alleanza anomala" ma qui di anomali ci sono anche questi due personaggi che oltre la sterile e infantile polemica (e qualche arcano dei tarocchi) non c'è la fanno ad andare oltre.

    Fa bene Sig. Filippi a lasciare perdere, come vede non sono in grado di rispondere persino alle domande più banali nascondendosi dietro alle più strane argomentazioni, dai "segreti iniziatici" all’ "assentimento" quindi addirittura per "fede credo" affermando: 'Seccamente ci tengo a dire che l’adab che avrei acquisito presso la ‘mia’ (?) Tariqa (ma che ne sa il ‘parolaio’ della ‘mia’Tariqa, se non l’ho mai palesato?) grande o piccolo che sia, lo riserverei esclusivamente a chi ne è degno; sicuramente anche ai nemici… vinti però, non certo, quelli ancora con le armi ben cariche puntate contro" ma lei prima di chiedere a me se sto bene, legge ogni tanto quel che scrive? Ma crede di essere in guerra?  La sua via è evidentemente emozionale e fideistica, quindi capisce perché non si deve agitare quando le viene detto che questa è una via del non-Supremo? E non c'è niente di male se ci si addice a persone come lei, incapaci di "porgere l'altra guancia" come Lei è solito ripetere, quindi incapace di riconoscere che non c'è altro nemico al di là della propria ignoranza.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. ...Biascicate di vie del non-Supremo, di Grandi e Piccoli Misteri, di Non-dualità, come compilaste la lista della spesa, senza avere il benché minimo sospetto di chi e cosa vi sta intorno: li conosco meglio di quello che crede e sospetta, quelli come lei sig. Martin! Quando vi sganceranno una bella bomba atomica sulle vostre testoline, allora vi accorgerete troppo tardi di essere stati senza saperlo, nel bel mezzo di una guerra nucleare: in bocca al lupo!
      GATTO

      Elimina
    2. Sig. anonimo, detto in questo modo sembrano minacce, immagino intendesse dire altro, può essere più preciso senza uso di figure?

      Elimina
    3. Sig.a Melli, immagina benissimo! Solo che, fuor di metafora, non mi sembra, nei miei interventi, di non aver mai parlato apertamente, alla lettera, di ciò di cui lei mi chiede spiegazioni. Non essendo proprio il caso che lo ripeta, se le interessa, legga ciò che ho ripetutamente affermato in proposito e se l’ha già fatto, pensi con più precisione a quello che intendevo dire...
      GATTO

      Elimina
    4. Abbia pazienza, in un mese di appassionati commenti, decine, forse centinaia, faccio fatica a trovare quale sia la ‘bomba’, comunque grazie lo stesso.

      Elimina
    5. Sig.a Melli, capisco che qui è un trivio dove tutto è irreale; dove tutto è ‘dentro’, perché fuori non c’è nulla, tranne la ‘corda’ (qualche serpente ogni tanto, ma è subito sgamato…); dove le azioni non servono a nulla, quindi nemmeno uno sforzo per andarsi a cercare quello che volevo dire tra le ‘…decine, forse centinaia…’ di commenti, però, dai…
      Ora, diamo per buono che lei non voglia far fatica, ma insomma, cosa pretenderebbe, che siccome io sono ancora prigioniero della ‘dualità’, lo sforzo lo facessi per lei?
      GATTO

      Elimina
    6. ??? Non ho capito.

      Elimina
  41. Ed ecco che la natura da musulmano bombarolo respinta fuori come un fiore di loto!
    MIAO

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Non varrebbe certo la pena di replicare a queste (pericolosissime) idiozie – più o meno ventilate dalla sig.a P. Melli ed espressamente détte, se per celia o per davvero, non fa differenza alcuna, dall’Anonimo del 23 ottobre 2020 14:31 -, se non per evidenziare quali sono, sulle menti ‘semplici’, i mirabili risultati di quella disonesta e riduttiva prosa della compagnia ‘non-duale’ (in particolar modo, del Sig. G.G. Filippi…), la quale, descrivendo l’Islam con una tendenziosità imbarazzante, ha fatto di tutto per gettare bambino e acqua sporca, giù per lo scarico di scolo, facendo così passare l’idea che non sia altro che un covo di facinorosi terroristi senza scrupolo. E perché non si dica che esagereremmo, in quanto, come ha detto qualcuno qui, nessuno avrebbe mai parlato male dell’Islam, riportiamo le belle sparate di questa ‘apologia’ sui generis. Scusandoci col Blog de “Il Regno della Q.e i S dei T.”, usiamo per comodità, un inciso di un loro articolo proprio su tale questione. Da due recensioni di libri pubblicate sul sito VVM, di tali Papahara Dandakarta Nagotiama e Devadatta Kirtideva Asvamitra, si può constatare quanto segue (come ben puntualizzavo in precedenza: verba manent): “…Le due recensioni citate giungono infatti a delle conclusioni alquanto spiacevoli: estendere a tutta la comunità dei fedeli di una forma tradizionale le colpe di un fondamentalismo, sulla cui onda si dipanano quotidianamente ed in modo trasversale scenari di odio e di violenza, sa di un qualunquismo becero e abbietto, che stride con l’orizzonte intellettuale e la cortesia spirituale che dovrebbe contraddistinguere chi ha nientemeno la pretesa di parlare in nome del Sanātana Dharma. Tuttavia quando a prevalere sono degli stati emotivi è inevitabile che si finisca per degenerare in aberrazioni del tipo che il fondamentalismo islamico è qualcosa di «messo in atto con la simpatia e la connivenza evidente delle masse musulmane», oppure che «l’essoterismo islamico sia passato dalla accettazione passiva dell’anti-tradizione dei regimi laici comunisteggianti dei paesi islamici, alla simpatia per la più evidente tradizione khalifale di stampo anticristico» e che l’Islam di oggi è «ben lontano dal rappresentare una forma di ortodossia tradizionale», definendolo infine come l’espressione di una «matta bestialità», per di più, «senza nessuna guida da parte di alcuna élite orientale». Che il fondamentalismo islamico costituisca un aspetto della realtà attuale è un fatto indiscusso, ma un aspetto parziale – il quale, per quanto appariscente, drastico e tangibile, è assolutamente marginale dal punto di vista spirituale – non può essere usato in modo pretestuoso per delegittimare un’intera forma tradizionale, imputando a tutti i fedeli un atteggiamento di complicità… (cit.)”.

      GATTO

      Elimina
    2. Sig. Felino,

      mi permetta di canzonarla ancora un po' (per celia): lei mi viene a "cianciare" di bombe atomiche da fare cadere sulla testa della "compagnia non duale"; i suoi amichetti del Gruppo di Scienza Interiore (o meglio inferiore?)
      "decapitano" il prof. Filippi con un fotomontaggio degno del peggior Charlie Hebdo... capisce..che siete proprio voi a cianciare..eh pardon.. a confermare.. certi "stereotipi"!




      Elimina
    3. Intanto iniziamo col dire che, lei Anonimo, come tutti qua gli esimi professori, non conosce l’italiano: come potrebbe canzonarmi se non per celia? O vorrebbe canzonarmi seriamente anche? Che miserie dialettiche e semantiche ci tocca vedere… Comunque, no, non glielo permetto: i miei ‘amichetti’, che non so nemmeno chi siano – quindi amichetti ‘de che’? –, quelli del “…Gruppo di Scienza Interiore (o meglio inferiore?) [cit.: uuhh, ma qui siamo al cospetto di abilissimi ‘calembouristi’ a quanto pare…]…”, non hanno “decapitato” il sig. Filippi, ma gli hanno “levato” la maschera, la testa, come si può ben vedere, essendo ancora ben attaccata sul collo (per modo di dire…). Quando uno ha, come lei, preconcetti, non si sa se più pericolosi o comici, vede angeli (brutto argomento da trattare su questo trivio…) anche quando va a farfalle! Resta comunque il fatto che certe stupidaggini bisognerebbe lasciarle al Blog di VVM e ai suoi “OM PAGE” di turno; se non altro il tentativo inutile e fuori luogo dei miei “amichetti” del GdSI, di gareggiare con l’originalità del blog di VVM, non scomoda simboli sacri: … o sì? Perdinci, adesso che lei mi ci fa pensare: non sarà mica che per voi, anche il Filippi è sacro, vero? Beh, allora scriva ai miei “amichetti” per esigere immediatamente le loro scuse, per l’ignobile attacco blasfemo a ciò che di più sacro voi possedete (ed è tutto dire!). Anzi, siccome li conosco benissimo, mi faccio carico io della faccenda: contento?
      GATTO

      Elimina
  42. Signor Gatto anonimo, Lei dà prova ancora una volta di essere schiavo delle sue emozioni e non riesce ad esprimersi se non con toni aggressivi. Sul fatto di conoscermi direi che "ci conosciamo" molto bene anche se cerca di camuffarsi dietro maschere feline. Come vede mi firmo con il mio nome e non ho nulla di cui vergognarmi. Ad ogni modo la via che lei segue del non-Supremo la porta ad avere e riaffermare un punto di vista dualista e assieme al suo fedel scudiero continua a combattere contro i mulini a vento. C'è un passaggio molto semplice ed interessante che potrebbe farla riflettere un pò: "Di cosa devo aver paura, se non c'è niente al di fuori di me?". Allora la paura scomparve. Infatti egli di cosa avrebbe potuto aver paura? si prova paura solo quando c'è un secondo. (BU I.4.2

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Per mettere le cose a posto sig. Martin, consiglio anche a lei di fare un corso di comprendonio: io, lei non la conosco affatto, ho semplicemente détto che conosco molto bene "quelli come lei", cosa, capirà, affatto diversa da quello che pare abbia inteso, per cui, non è per questo che ho bisogno di nascondermi dietro "maschere feline", sia chiaro: fate solo tenerezza! A me la schiavitù delle "emozioni", a lei l'affrancamento dalla paura (perdinci!)! E con questo mi pare che non abbiamo più nulla da dirci.
      GATTO

      Elimina

    2. Sig.Gatto anonimo, ormai è travolto dalle sue emozioni che la portano a sperimentare ogni estremo. Passa dalla rabbia alla tenerezza in maniera sconcertante, esisterebbe una scienza profana che potrebbe esserle di aiuto...se lei non provasse tanto ribrezzo per tutto ciò che non abbia una parvenza iniziatica forse potrebbe provarci. Ad ogni modo, la tenerezza che lei prova nei nostri confronti la stanno avvicinando già alla Bhakti quindi un saltino di qualità l'ha già fatto!

      Ancora un piccolo sforzo e vedrà che potrà  trovare un po' di pace dentro se stesso.

      Elimina
  43. I
    Anche per me, professor Filippi & C., “è arrivato il momento di interrompere il flusso di risposte alla litigiosità che vi contraddistingue”, perché è assolutamente vero che “seguendo le vostre non-argomentazioni si [è sicuri] di abbassarsi di livello”. Altresì “non mi meraviglia la sua risposta che, come è vostro stile, rovescia l’interpretazione della realtà”. Per questo le rispondo citando fedelmente le sue parole, così, da parte sua non troverà niente su cui obbiettare e al sottoscritto resterà la piccola soddisfazione di aver “raddrizzato”, una volta di più, ciò che VOI continuate imperterriti a “rovesciare” (a beneficio di coloro che hanno dimostrato di essere poco a loro agio con le metafore, chiarisco che il riferimento è all’opera di René Guénon intesa come simbolo e al significato che tradizionalmente riveste il “rovesciamento dei simboli”).
    Ma “Veniamo al dunque: [se per ‘noi’] il segno indelebile della [nostra] estraneità alla tradizione è stato anzitutto l’incapacità di comprendere i contenuti di ciò che pubblic[ate]”, per ‘noi’ “il segno indelebile della vostra estraneità alla tradizione è stato anzitutto l’incapacità di comprendere i contenuti” dell’opera di Guénon (ad ognuno il compito di stimare la proporzione fra le due ‘opere’!) e che quindi, ça va sans dire, “per voi resta totalmente sconosciuto”, com’ella giustamente afferma.
    Per tutti questi motivi mi trovo ancora d’accordo con lei sul fatto che: “È (…) illegittimo negare una possibilità realmente metafisica e scagliarsene contro con livore”, cioè precisamente ciò che lei e il vostro gruppo state perpetrando contro l’opera suddetta e – non paghi –, ultimamente, anche contro lo sviluppo coerente che essa ha avuto in un certo ambiente (la tariqa che fa riferimento allo Shaykh Husayn e il lavoro del gruppo della Rivista di Studi Tradizionali).

    RispondiElimina
  44. II
    Sarei tentato di sorvolare sulla risibile accusa per cui “la [nostra] estraneità al dominio realmente iniziatico è provata dal modo maleducato, insinuante, derisorio, maligno, in breve, antitradizionale, con cui avete ritratto i nostri maestri indiani sui vostri organi di divulgazione”, ma è talmente ridicola e, anche questa volta, contraria al vero, che proprio non riesco a esimermi: volete davvero che ci mettiamo a contare i vostri, di insulti, insinuazioni, irrisioni, sarcasmi, ironie e bugie su René Guénon, sulla sua opera e, infine, sullo Shaykh Husayn? È un lavoro improbo, ma non è detto che non lo si possa fare…
    Per finire, anche se queste discussioni a niente fossero servite nei confronti dei lettori ‘più giovani’ e quindi con minori capacità di orientamento, un risultato sicuramente è stato ottenuto, e non di poco conto aggiungerei: quello di costringervi a gettare la maschera e a mostrarvi per quello che siete (consapevolmente o incoscientemente non ha importanza), ossia degli astiosi (e illusi) avversari dell’opera di Guénon, ovvero della massima espressione della pura metafisica destinata agli occidentali moderni degli ultimi tempi (o almeno a quelli che ancora possiedono le qualità intellettuali necessarie per riconoscerla come tale).
    Nessuno che possa dirsi in buona fede, arrivati a questo punto, potrà più credere alla vostra finta approvazione e ai vostri falsi apprezzamenti nei confronti di quest’opera.
    È per questo motivo che, in ultimo, nel prender commiato, vi invito ad accettare un modestissimo consiglio: eliminate – per coerenza – dalla “OM page” (sic!) del vostro sito Veda Vyāsa Maṇḍala l’ipocrita e ingannevole dichiarazione secondo cui: “In particolare, Veda Vyāsa Maṇḍala si rivolge ai lettori intelligenti delle opere di René Guénon, L’UNICO FERMO RAPPRESENTANTE DEL PENSIERO TRADIZIONALE DEL VENTESIMO SECOLO IN OCCIDENTE”… non ci crede più nessuno!

    Giovanni Forteguerra

    FINE

    RispondiElimina
    Risposte
    1. “È per questo motivo che, in ultimo, nel prender commiato…”: eh no, Sig. Forteguerra (nomen omen o cosa?), vero che i generali hanno bisogno di tranquillità per implementare il piano strategico d’attacco, nella relativa pace della loro tenda di accampamento, ma io e lei siamo al fronte e se il ‘sacrificio’, tanto sbertucciato qui in questo trivio di aristocratici (direi asettici più che altro…) dello spirito, ha ancora un significato, non può permettersi di salutare…
      GATTO

      Elimina
    2. Il suo generale se la da a gambe, non solo perché non riesce a rispondere solo soletto alle questioni di dottrina, ma molto probabilmente per cercare in qualche modo di svincolare ( anche se ormai è un po’ tardi visto che è chiaro che appartenete allo stesso ambiente) se stesso, l’organizzazione di Maridort, la rivista di studi tradizionali e Ventura e i suoi accoliti, da un loro seguace ( uno/vari del gruppetto di scienza interiore forse?) come lei: un predone bombarolo, inneggiante al "sacrificio" e alla jihād al-sayf. E questi sarebbero i protettori dell’opera di Guénon!

      Elimina
    3. Dai commenti come quello sopra di Anonimo 25 ottobre 2020 06:23, si evince a cosa si ridurrebbe la tanto decantata qualifica della preliminare "purificazione della mente (!!!)"... Tze... Qui è una pura e semplice comprensione testuale, altro che purificazione: analfa(e)betismo (s)funzionale, semplicemente!
      GATTO
      PS: ritiro quanto detto a Forteguerra, che ha preso una saggia decisione, quindi anche il sottoscritto se la dà "a gambe levate", perché succedono strane cose a frequentare certe compagnie…

      Elimina
    4. Ahh Gatto, è stato ripreso dal generale (o qualcun altro del gruppo)! Vede cosa succede a non sapersi controllare. E ha ragione, a frequentare i vostri ambienti e quelle compagnie vi succedono "strane cose". Comunque vada, scappi e si rifugi nella sua pusillanimità, fino alla fine dimostra di non avere né onore né onestà, neanche verso se stesso. Le ripropongo di seguito un suo bel intervento, e vediamo chi ha bisogno di una lunghissima via verso la purificazione mentale ( e non solo di quella)!
      "...Biascicate di vie del non-Supremo, di Grandi e Piccoli Misteri, di Non-dualità, come compilaste la lista della spesa, senza avere il benché minimo sospetto di chi e cosa vi sta intorno: li conosco meglio di quello che crede e sospetta, quelli come lei sig. Martin! Quando vi sganceranno una bella bomba atomica sulle vostre testoline, allora vi accorgerete troppo tardi di essere stati senza saperlo, nel bel mezzo di una guerra nucleare: in bocca al lupo!
      GATTO "

      Elimina
    5. Appunto Anonimo: “bomba atomica” e “guerra nucleare” = “predone bombarolo, inneggiante al ‘sacrificio’ e alla jihād al-sayf”? …ahahahah… Mi scusi, ma non posso non scoppiare a ridere… Insisto = “analfa(e)betismo (s)funzionale”, e di quelli gravi anche!
      GATTO

      Elimina
    6. Ipocrita e falso fino all'ultimo:
      “È per questo motivo che, in ultimo, nel prender commiato…”: eh no, Sig. Forteguerra (nomen omen o cosa?), vero che i generali hanno bisogno di tranquillità per implementare il piano strategico d’attacco, nella relativa pace della loro tenda di accampamento, ma io e lei siamo al fronte e se il ‘sacrificio’, tanto sbertucciato qui in questo trivio di aristocratici (direi asettici più che altro…) dello spirito, ha ancora un significato, non può permettersi di salutare…
      GATTO"
      e continui a ridere, rida abbondantemente che le si addice!

      Elimina
  45. A tutte le Vie è comune un lavoro preliminare volto alla stabilizzazione degli elementi inferiori della compagine umana ordinaria o individualità. Che poi verranno messi,più avanti,sotto controllo integrandoli nella personalità vera. Questo lavoro preliminare,diciamo di "stabilizzazione",prescinde totalmente dal tipo di Via che si intende percorrere e non dipende certo da visioni duali o non duali che,agli esordi,non hanno incidenza alcuna perché ancora meramente teorici. Pretendere il contrario o dire che le Vie "duali" siano foriere e portatrici di "emotività irrisolte", non ha senso alcuno. Sia detto senza nessuna intenzione polemica. /Roberto.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sig. Arvo, vedere qualcosa altro al di fuori di sé, non è dualità?

      Le emozioni che prova il sig. Gatto anonimo & Co. (di rabbia, frustrazione) lo traggono in inganno e gli fanno vedere "l'avversario", il "nemico", qualcuno da combattere a spada tratta, vede il serpente e non la corda!

      È talmente preda dell'illusione che prenderebbe a bastonate la corda pur di scacciare il serpente. Questo è ciò che ho voluto dire, ma forse mi sono espresso male. Non credo abbia detto che le vie duali siano portatrici di emotività irrisolte! 

      Elimina
    2. Le espressioni “vie duali” e “vie non duali” sono imprecise. Le prime dovrebbero essere definite vie appartenenti al karma kāṇḍa. Il loro precipuo scopo è proprio quello di purificare la mente, controllando istinti, emozioni e pensieri. L’unica via non duale, l’Advaita, accoglie come discepoli coloro che questa purificazione l’hanno già ottenuta. La purificazione della mente non significa soltanto aver acquisito le virtù e i loro meriti, ma soprattutto aver raggiunto una chiarezza mentale capace di comprensione conoscitiva, ossia la qualifica richiesta per il Vedānta vicāra. Ciò permette di riconoscere la verità indicata dallo Śāstra nel proprio anubhava.

      Elimina
    3. Bene, il suo commento ci permette di inquadrare meglio il tema in questione e consente a me di ribadire quello che ho già scritto. <<...l'Advaita accoglie come discepoli coloro che questa purificazione l'hanno già ottenuta...>> Domanda : "ottenuta come?" Le vie "appartenenti al karma kāṇḍa" (ma evidentemente il riferimento non è solo al mondo hindū ) prevedono la purificazione della mente, diciamo agli esordi. Invece l'Advaita richiede ai neofiti qualità già realizzate.
      In forza di ciò non è lecito dire che "la via del non supremo" sarebbe caratterizzata dal fatto di annoverare tra le sue fila individui che non avrebbero risolto il problema della purificazione della mente, mentre la "via del Supremo" sarebbe scevra, nelle fasi preliminari, da questo inconveniente. Il tema era questo nelle precedenti brevi osservazioni intercorse tra me ed il sig Martin. Per dirla con frasi spicciole, all'inizio si è tutti duali e nessuno può legittimamente pretendere il contrario e una via autenticamente iniziatica non la si può riconoscere e valutare compiutamente da fuori con il semplice osservare i comportamenti esteriori. Ad ogni azione esterna può invece corrispondere un perfetto controllo interiore, come in un aneddoto sul "saggio di Arunachala", il quale si dice "restò perfettamente calmo e in totale controllo...però la bastonata la diede davvero!"

      Elimina
  46. Petrus Simonet de Maisonneuve26 ottobre 2020 alle ore 22:34

    Parte I

    In risposta a una serie di critiche dall'anonimo.

    Iniziamo subito con una correzione: schizofrenia viene dal greco σχίζω, separare, e φρήν, diaframma, petto, da cui il suo significato di cuore, mente, ragione, anima; nulla a che vedere dunque con il cervello, come invece traduce l’anonimo. Cervello si dice infatti ἐγκέφαλος. Ciò detto, prendiamo atto dell’interpretazione del tutto fantasiosa e personale di schizofrenia fatta dall’anonimo che merita di essere vista più da vicino. Citiamo:
    “Schízō, 'io divido' e φρήν phrḗn, cervello costituisce in effetti ciò che noi siamo in realtà, cioè un individuo che sa tenere separato il “mentale” o la mente, di cui il cervello ne è l’organo di supporto, da quello che ne è la causa che lo ha prodotto, quale effetto tra i tanti della serie indefinita a lei riconducibile.”
    La presente argomentazione, in quanto viziata da un punto di partenza erroneo che evidentemente non è stato indagato a sufficienza, è un buon esempio di come la mente occidentale moderna troppo spesso fondi il proprio ragionamento analitico su presupposti falsi che ne inficiano la loro validità. Oltre al fatto che la mente dell’individuo non è in relazione con il cervello (l’uso di Wikipedia è lecito purché se ne verifichi la giustezza) ma con il cuore, l’attività che essa svolge è proprio quella di principium separationis, assegnando così nome e forma a tutto ciò che essa vede come altro. Chi afferma dunque di saper tener separata la mente dalla sua causa lo fa appunto con la mente, che distingue così se stessa dalla sua causa senza rendersi conto che l’effetto in verità è già presente in essa, come l’albero è già presente nel seme. Non dovrebbe dunque essere motivo di vanto la celebrazione di essere capaci di operare una tale distinzione in quanto tutte le menti funzionano in questo modo, soprattutto quelle meno capaci. La mente infatti, essendo principio di separazione è quindi ignoranza, avidyā. Il viveka, al contrario, opera in maniera opposta allo scopo di confutare la distinzione delle false apparenze partendo dall’unica certezza che è la propria coscienza a cui la mente è subordinata.
    Quanto alla questione sulla presunta eterodossia dei nostri maestri, faccio notare il linguaggio metaforico da me utilizzato. È sorprendente che chi enfatizzi tanto l’uso di significati connotativi e denotativi non sia capace di cogliere il linguaggio figurato. È evidente infatti che non vi sia alcun banco degli imputati, capi d’accusa e tanto meno degli imputati, in quanto non c’è nessun giudice delle indagini preliminari che abbia rinviato a giudizio i nostri maestri. Completando la nostra metafora forense, faccio notare che una notizia di reato - informazione che promuove un accertamento giudiziario nel caso di commissione, anche IPOTETICA (come ama scandire l’anonimo), di reato - non è più tale se ne manca la paternità, come nel caso di una denuncia anonima. Infatti l’anonimo è per eccellenza colui che per libera scelta mostra di volersi sottrarre al contraddittorio. Quindi, tecnicamente la denuncia dell’anonimo non sarebbe accettabile neppure per avviare delle indagini preliminari, come lui, mutatis mutandis, sembrerebbe voler sollecitare. Da tutto ciò ne deriva che il nostro interlocutore, oltre a non saper cos’è una metafora, mente quando, con grande spavalderia e dalla “prudenza” del suo anonimato, afferma: “di questo ce ne assumiamo tutta la responsabilità”, quasi volesse ottenere un qualche effetto scenico.

    RispondiElimina
  47. Petrus Simonet de Maisonneuve26 ottobre 2020 alle ore 22:38

    Parte II

    Ma continuiamo con la seguente citazione:

    “sì, non siamo qui a “…banalizzare il lavoro svolto da www.vedavyasamandala.com e dai suoi collaboratori…” se non per il motivo che ci teniamo, in primis, a confutarlo, a ciò potendo attagliarsi la precedente citazione per cui miriamo, non a infangare, ma a smascherare “…con capi d'accusa che vanno dalla truffa, al millantato credito, per citarne solo alcuni.”. Chiaro? E più precisamente, sia détto decisamente, smascherare non gli individui che sostengono questo punto di vista – cosa poco interessante, tra l’altro –, ché necessiterebbe una partecipazione cosciente da parte loro [è lungi comunque dal credere che non ci possa essere nessuno cosciente, ma per noi, dal punto di vista dal quale ci poniamo, non fa differenza alcuna…], ma la cosa in sé.”

    Ora, ecco il presunto tentativo di smascheramento operato da Scienza Interiore: https://www.facebook.com/scienza.interiore/posts/136769544812176

    Ma non si era detto che non era loro interesse smascherare gli individui ma “la cosa in sé”? Sono io che ho letto male o qui ci troviamo di fronte ad un’altra dichiarazione schizofrenica da parte di qualcuno? Che dire allora dello smascheramento fatto dal sig. Abd-es-Samad che riporta il giudizio espresso da ambienti sufici orientali riguardanti le “turuq” occidentali con il termine “grande triade”? Mi si permetta un’osservazione, più che di logge o di 天地人 direi che qui il parallelismo è con la 三合會.

    Per quanto riguarda il non pervenuto smascheramento de “la cosa in sé”, penso (ma non ne ho la certezza) che si riferisse ad una presunta confutazione della dottrina dell’Advaita śaṃkariano esposta su Veda Vyāsa Maṇḍala. Ci aspettiamo che l’obiettore abbia, quindi, la sfrontatezza di dire apertamente che Guénon conosceva la dottrina Advaita meglio dei vedāntin stessi. È davvero paradossale che se sono emerse delle differenze dottrinali tra ciò che scrisse Guénon e ciò che insegnano i maestri dell’Advaita dovrebbero essere quest’ultimi ad essere esaminati per stabilirne l’ortodossia, e non viceversa. Non sarebbe la prima volta che l’occidente pretende di spiegare all’oriente queste e molte altre cose. Ma andiamo oltre.

    In un’occasione l’anonimo rispose al sig. Munnu con queste parole:

    “Se pare ci siano ancora alcuni lettori - non ‘pare’ e non ‘alcuni’, ma ‘certamente’ e, ahimè, rarissimi a quanto sembra - che intendono i libri “di” Guénon come frutto di una realizzazione effettiva e quindi, ipso facto, come dottrinali e non la conseguenza di una semplice speculazione individuale, la ragione è che è l’unica chiave di lettura per arrivare a capo della “sua” opera, mancando la quale, ci si condanna inevitabilmente a non capirne più nulla”. A ciò noi obbiettammo nel seguente modo. “Che l’autorità di Guénon derivi da una sua realizzazione questo nessuno lo può sapere se non il diretto interessato, che mai ha fatto una tale dichiarazione”. Inutile dire che la risposta dell’anonimo sarebbe stata l’ennesima conferma della presenza di un elemento irrazionale nelle sue argomentazioni; e infatti fu “lungi anche qui dall’essere vero quello che, sempre apoditticamente, si afferma, ecco comunque che, involontariamente, il nostro ‘scarsamente informato contraddittore’ ha risolto un altro problema: se NESSUNO (quindi nemmeno voi) lo può sapere, non vuol dire che non si possa, per mille e mille motivi, assentire, come anche no… De gustibus non est disputandum.”

    A ciò risponderemo che noi non siamo interessati ai suoi gusti poiché ogni inferenza basata su di essi è priva di un vero valore intellettuale. Evidentemente qui ci troviamo difronte solo ad un innamoramento giovanile diventato ossessione irrinunciabile con tutti i risvolti psico-esistenziali che ne possono derivare.

    RispondiElimina
  48. Petrus Simonet de Maisonneuve26 ottobre 2020 alle ore 22:41

    Parte III

    Per quanto riguarda l’uso del maiuscolo o minuscolo nella parola buddhismo la regola sembra essere dibattuta e spesso dettata dal semplice uso. Di regola il nome di una religione andrebbe scritto minuscolo. Sicuramente il Vedānta non è una religione, così come non lo è neppure la Darqawiyyah. Detto ciò, accetto di buon grado la critica dell’anonimo per venire incontro alle sue evidenti difficoltà di comprensione della semantica domandandomi però se anche in questo caso non si tratti di un altro tentativo di spostare l’attenzione del lettore dalla sostanza alla forma, a lui così cara. Ma proseguiamo.

    L’anonimo ritorna sulla questione della Na sanscrita dando valore agli inconcludenti e propagandistici post di Facebook del sig. Confienza che va alla disperata ricerca di qualche elemento che possa controbattere alle rigorose dimostrazioni fornite dal sig. Enzo Cosma nel suo articolo NA e NŪN pubblicato in questo blog. Evidentemente si pretende di voler fare del quaderno degli esercizi di Guénon il modello di riferimento su come debbano essere scritte veramente le lettere sanscrite. Inutile dire che si tratta solo di un altro atto di fede guidato dalle inclinazioni personali: infatti l’unica presunta dimostrazione logica si basa sul postulato che Guénon è infallibile e null’altro.

    Prendiamo atto anche della mancata replica alla nostra obiezione per cui “non ci risulta che il significato del mahāvākya Tattvamasi, sintesi della dottrina Advaita, trovi eguale in tutte le forme tradizionali”. Anche qui, notiamo il reiterato tentativo dell’anonimo di evitare il confronto criticando la forma stilistica del vettore scelto anziché concentrarsi sull’essenza del messaggio veicolato. Di fatto, poi, l’anonimo non è mai stato in grado di produrre una citazione con lo stesso significato del mahāvākya.

    Ora veniamo al dunque della questione sullo stato informale già smontato dal prof. Filippi con inoppugnabili citazioni upaniṣadiche. Facciamo notare che l’anonimo inizia dichiarando di voler “affrontare tale tematica da un punto di vista più che altro logico/dialettico, introducendo la nozione di “causa”, tanto invisa al mondo occidentale”. Prima di tutto smentiamo l’idea che la nozione di causa non abbia una presenza predominante soprattutto nel pensiero occidentale, a partire dai presocratici, attraversando Platone e Aristotele, la scolastica, per arrivare a Leibnitz, Locke, Hume e Kant, solo per citare alcuni nomi. In secondo luogo, prendiamo atto del voler affrontare l’argomento da un punto di vista logico/dialettico, ma facciamo notare che il metodo deduttivo basato sul sillogismo dialettico, o retorico, nonostante rispetti le regole formali della logica può giungere a conclusioni sbagliate qualora sia fondato su premesse non accertate. Ma proseguiamo.

    L’anonimo cita il prof. Filippi e commenta, tra parentesi quadre, nel seguente modo:

    “Sempre in quel ‘thread’ il Filippi sosteneva: “Similmente, le devatā dell’induismo risiedono nei loka a cui possono condurre le anime degli iniziati defunti, fino a raggiungere come massimo Hiraṇyagarbha. E HIRAṆYAGARBHA È IL REGGITORE DELLO STATO DI SOGNO [sarebbe meglio dire della “Manifestazione sottile”, di cui, non lo “stato”, ma la “modalità” di sogno non ne è che una particolarizzazione, ndr.]. PIÙ FORMALE DI COSÌ…””

    In primo luogo è necessario ribadire l’esattezza dell’affermazione per cui Hiraṇyagarbha è il reggitore dello stato di sogno e non della manifestazione sottile. Quest’ultima è, infatti, presente anche nello stato di veglia. Ma per sapere questo si deve almeno leggere la Māṇḍūkya Upaniṣad, che l’anonimo evidentemente non conosce. In secondo luogo, il termine guénoniano “modalità” non c’entra nulla con la dottrina Advaita. Ora, ortodossia significa aderenza alla tradizione. Che Guénon (o l’anonimo che lo segue a ruota) abbia voluto attribuire al termine “modalità” un certo significato non significa che l’Advaita debba piegarsi a tale linguaggio. Semmai dovrebbe accadere esattamente il contrario.

    RispondiElimina
  49. Petrus Simonet de Maisonneuve26 ottobre 2020 alle ore 22:43

    Parte IV

    Ma occupiamoci della dottrina. Nello stato di veglia sono presenti sia la “modalità” (se vogliamo proprio chiamarla così) grossolana sia quella sottile. Quando si è in veglia il sogno pare essere stato soltanto uno stato (non una “modalità”) sottile. Ma quando si è in sogno, lì si ha un corpo grossolano e varie “modalità” sottili. Quando si parla di stati (sthāna o avasthā) si deve sapere di cosa si parla. È evidente che l’anonimo non ne ha la più pallida idea, in quanto non sembra aver mai preso in mano alcun testo upaniṣadico. Gli stati sono tre e sono i tre modi in cui l’Ātman-Coscienza appare. La “molteplicità degli stati” deve essere ridotta a queste tre esperienze, le quali, grazie alla discriminazione, risultano anch’esse illusorie. Se si vuol mantenere la molteplicità allora si rimane in una concezione saṃsārica di nascite e rinascite senza fine. La molteplicità degli stati, così come è stata descritta da Guénon, non è un concetto vedāntico. La “catena dei mondi” è una concezione smārta tipica delle conoscenze del non-Supremo. Duqnue, gli stati molteplici non hanno nulla a che vedere con le avasthā e confondere gli uni con le altre è il miglior modo per non capire il Vedānta.

    Ma andiamo oltre con la seguente domanda posta dall’anonimo:

    “come sarebbe possibile che Hiraṇyagarbha, principio, quindi ‘causa’, di tutta ‘Manifestazione Formale’ possa essere esso stesso una forma?”

    Esattamente nello stesso modo per cui il numero 1 è principio della serie numerica. Infatti il numero 1 è già caratterizzato da nome e forma in quanto proprio la mente lo riconosce come tale. Come il latte è la causa del burro. Come la vacca del vitello. Logica elementare. Similmente, Hiraṇyagarbha esiste come principio dello stato di sogno solo nella mente di chi lo immagina. Questo, ad un livello di viveka superiore, dovrà essere superato per mezzo dell’adhyāropa-apavāda. L’uso della logica priva dell’intuizione è mera speculazione filosofica che tende a distaccarsi dalla realtà: ciò è stato accuratamente spiegato da Svāmī Satchidanāndendra nei suoi scritti. Curiosamente perfino Aristotele riconosce la superiorità della conoscenza noetica, basata sull’intuizione, su quella dianoetica, basata sulla sola attività logica, ossia il succitato “punto di vista logico/dialettico” dell’anonimo.

    Per quanto riguarda il punto successivo, ovvero quello sulla “quiddità”, citiamo;

    “E sulla citazione del Nostro. Sempre per la questione ‘causale’: i “Reggitori delle Sfere” sarebbero quindi il frutto di PROIEZIONI DELLA MENTE o dell’ IMMAGINAZIONE, ossia il prodotto di un loro infimo prodotto (ci si passi il gioco di parole) che possono usare a piacimento per manifestarsi nell’ambito formale? Non passa nemmeno il dubbio che ciò sia contraddittorio rispetto a quella che è la loro natura essenziale? Visto che, senza accorgersene, ha citato solo i NOMI angelici, gli chiediamo: ha mai sentito parlare del concetto di “quiddità”, ossia il “che”, il “quid” delle “cose”, libero cioè dalle cose stesse, sottili o grossolane che siano?”

    L’anonimo giunge a questa conclusione attraverso un iter espressivo assai oscuro, suo marchio di fabbrica, risultato della grande confusione in cui naviga; un altro ingrediente in quel calderone in cui bollono nozioni incoerenti. La quiddità, cioè quello per cui una cosa è ciò che è, è un termine di origine aristotelico della scolastica che poco si presta al Vedānta in quanto limitato all’ambito filosofico e teologico. Essa è il prodotto dell'astrazione operata dall'intelletto sulla realtà sensibile, quindi siamo sempre nell’ambito di cosa immagina la mente. Fatto sta che si parla anche di quidditates al plurale, denotando ancor più marcatamente la relazione di tale concetto con la molteplicità, e quindi con la forma.

    RispondiElimina
  50. Petrus Simonet de Maisonneuve26 ottobre 2020 alle ore 22:45

    Parte V

    Per rispondere all’obiezione secondo cui ci sarebbe una contraddizione tra i “Reggitori delle Sfere” intesi come proiezioni della mente (propria o di chi li osserva/immagina) e la loro quiddità, intesa qui come essenza, rispondiamo che sia la loro apparenza sia la quiddità ad essi attribuita sono immaginazioni della mente, reali fintanto che le si osservi dal punto di vista dell’individuo. Tuttavia, dal punto di vista dell’Assoluto, della pura Coscienza, non vi è altro da Sé e tutte le distinzioni svaniscono in quanto pure illusioni incapaci di limitarne la sua assolutezza. La contraddizione che l’anonimo denuncia è tutta sua, in quanto dà realtà causale a forme angeliche i cui effetti sarebbero la manifestazione di oggetti e esseri. Si tratta proprio del grossolano fraintendimento che il Vedānta chiama adhyāsa. Dando così realtà a causa e effetto egli si impedisce una conoscenza di tipo metafisico. Causa e effetto sono prodotti dell’immaginazione mentale com’è testimoniato dalle Upaniṣad, Gauḍapāda, Śaṃkarācārya e maestri loro successori, convalidata dalla logica basata sull’intuizione.

    Ma andiamo ora alla citazione da Guénon riportata dall’anonimo:

    “A questo proposito, quando si considera Brahma, si deve considerarlo, in primo luogo, come identico a Hiraṇyagarbha”.

    Mettiamo i puntini sulle “i”. Ciò che deve essere considerato identico a Hiraṇyagarbha è Brahmā e non il Brahman come si potrebbe inferire dall’erroneo sistema di traslitterazione usato da Guénon e dai suoi adoratori.

    “Hiraṇyagarbha appare identico ad un aspetto più elevato del «Non-Supremo»”.

    Hiraṇyagarbha è l’aspetto più elevato del non-Supremo, essendo i suoi aspetti meno elevati Prajāpati, Virāṭ, Manu. Īśvara in quanto tale è il Brahman Supremo. Sono le vie del non-Supremo che ne fanno di lui una divinità personale come si potrà capire da quanto segue. Prima di procedere però, vorrei far notare che i detrattori che scrivono su Scienza Interiore hanno sostenuto che non era Īśvara ma Vaiśvānara a essere il reggitore di Prājña sulla base di un errore di stampa di un articolo di Svami Karpatri. Ma poiché essere in contraddizione tra loro stessi non sembra rappresentare un problema, proseguiamo con la nostra rettifica.

    “Un tale grado corrisponde alla condizione di Prājña, ed è l’essere a cui non è possibile oltre proseguire che è detto unito a Brahma, nonostante il pralaya, soltanto nello stesso modo che l’unione si effettua nel sonno profondo; da questa condizione, il ritorno ad un altro ciclo di manifestazione è ancora possibile”.

    I tre stati di Ātman corrispondono a reali esperienze di vita, non sono semplice filosofia. Perciò quando si è svegli quello è il proprio stato di veglia, quando si è in sogno quello è il proprio stato di sogno. Quando si è in sonno profondo quello è lo stato di sonno profondo. Quest’ultimo stato corrisponde ad una nostra esperienza di presenza là, di essere là e di averne coscienza. Quando ci si sveglia si ha piena consapevolezza di essere stati in sonno profondo. Altrimenti non ci potrebbe essere nemmeno un “ricordo” di essere stati in sonno profondo, non si saprebbe nemmeno dell’esistenza del sonno profondo. Pur essendo certi di esserci stati, quando ci si chiede com’era stata quell’esperienza, la risposta che viene alla mente sarà: era tutto buio, era tutto vuoto, non c’era il mondo, non c’ero né io né gli altri, né la molteplicità degli oggetti, né tempo né spazio. Perché questa discrezione al negativo? Perché la mente della veglia non ha accesso al sonno profondo e lo descrive in forma negativa togliendo dall’esperienza tutto ciò che riguarda l’esperienza della veglia, cioè la mente toglie il mondo, l’io, gli altri, la molteplicità degli oggetti, tempo, spazio, etc., che sono i suoi oggetti sperimentati come vegliante. Perché l’unica cosa positiva che si possa affermare in veglia sullo stato di sonno è la certezza di esserci stati e di esserne coscienti? Perché lì si è unici senza altro da sé; lì si è presenti e coscienti di se stessi ma non di altro da sé; perché lì si è l’Ātman non duale.

    RispondiElimina
  51. Petrus Simonet de Maisonneuve26 ottobre 2020 alle ore 22:47

    Parte VI

    Colui che è dotato di discriminazione (vivekin) scopre dunque che lo stato di sogno profondo è lo stesso stato incondizionato di Ātman, che in realtà non è uno stato ma la sua realtà assoluta. L’ignorante, invece, non discriminando continua a pensare che in Prājña non c’era il mondo, non c’ero né io né gli altri, né la molteplicità degli oggetti, né tempo né spazio come sono manifestati nella veglia. Proietta perciò queste nozioni della veglia come fossero contenute in quanto potenzialità o possibilità in Prājña. Prājña dunque, in questa visione dell’ignorante, è immaginato come un serbatoio di potenzialità che si manifestano nella veglia. Questo concetto di non manifestato conduce a credere che il sonno profondo sia il luogo dove risiede Īśvara, dio personale, luogo dei possibili (l’idea errata che la mente individuale immagina di ciò che è Īśvara-Brahman Supremo) oppure come Prakṛti, Māyā, Śakti, l’informale (interpretazione recentemente aggiunta da Guénon, del tutto assente da qualsiasi formulazione precedente) come abbiamo ripetuto fino alla nausea. Tutti questi modi per interpretare Prājña sono soltanto la proiezione delle immaginazioni della veglia che nascondono la realtà non duale di Prājña. Proseguiamo,

    “ma, poiché l’essere è liberato dall’individualità (contrariamente a quel che avviene per colui che ha seguito il pitri-yana), questo ciclo non potrà essere che uno stato informale e sopra-individuale”.

    Il raggiungimento della perfezione individuale, obiettivo delle vie del non-Supremo, non è affatto una liberazione dall’individualità, poiché conduce al Devayāna che altro non è che il viaggio nei prolungamenti sottili dell’individualità. Infatti, come già dettagliatamente esposto su www.vedavyasamandala.com, si può raggiungere la meta più alta di questa via postuma, il Brahmaloka, per mezzo delle azioni del corpo, della parola, e della mente. La conoscenza del non-Supremo, dunque, non è jñāna, ma è un’indagine, un’azione conoscitiva. E con l’azione non si esce dal dominio dell’azione. Guénon ha quindi prodotto una vera e propria innovazione inventandosi la “manifestazione informale”, quando la manifestazione universale in tutti i testi dell’induismo è prodotta dal nome e dalla forma. Egli si è pure inventato che l’universale comprenda l’informale e il “non-manifestato”, che erroneamente identifica all’Assoluto, autentico nonsense metafisico.

    Per quanto riguarda lo scambio di messaggi tra il solito anonimo e un altro da lui citato, di cui ci sfugge l’autorevolezza, non credo che sia il caso di intervenire anche e soprattutto alla luce dell’esegetica e dell’arbitraria disamina dell’opera di Guénon, esercizio inutile alla comprensione o spiegazione della dottrina Advaita, anzi dannoso.

    Con questo non si vuole svilire Guénon e la sua opera che, frutto di un intelletto fuori dal comune, rimane fondamentale per chi muove i primi passi verso la tradizione. Va detto però che i suoi contatti con gli ambienti tradizioni indiani rimangono fortemente incerti e la dottrina del Vedānta da lui descritta appare lacunosa, contraddittoria (s’appoggia pesantemente sul Sāṃkhya e sul Viśiṣṭādvaita, dottrine entrambe dualiste) e fondamentalmente autodidattica. Il sistema da lui proposto è sicuramente la migliore trasposizione in chiave filosofica della metafisica vedāntica, rimanendo pur sempre un semplice esercizio di speculazione. Come tale è incapace di trasmette la vera conoscenza del Supremo, in quanto inconciliabile con l’autentica dottrina advitīya, a cui evidentemente non aveva avuto la possibilità di accedere. Nulla da recriminargli. Riconosciamone i meriti, ma evitiamo quell’“ipse dixit” che i post-guénoniani pretendono di attribuirgli ogni qual volta si è incapaci di rispondere a questioni dottrinali e non solo. Nascondersi dietro gli scritti di Guénon senza prima averli esaminati e confrontati con le dottrine esposte dai legittimi custodi delle rispettive tradizioni equivale a credere alle favole raccontate dai padri ai figli per far dormire loro sonni felici. Se lo dicono i genitori deve essere tutto vero.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Petrus Simonet de Maisonneuve27 ottobre 2020 alle ore 08:27

      Nella prima riga leggasi ovviamente "stato di sonno profondo" invece di "stato di sogno profondo". Mi scuso con i lettori per il refuso.

      Elimina
  52. Petrus Simonet de Maisonneuve26 ottobre 2020 alle ore 22:49

    Parte VII

    Poi però quando i bambini crescono e scoprono la verità, non se la prendono con i genitori per averli illusi per anni. Li si continua ad amare per averli aiutati a crescere seguendo un percorso di sviluppo naturale. Solo uno squilibrato ripudierebbe i genitori per una tale “colpa”. Parimenti, l’incapacità di superare il trauma infantile causato dall’illusione che svanisce non può che condannare l’infante ad un futuro di difficoltà. Similmente, l’opera di Guénon è da prendere come propedeutica a una scelta tradizionale e, se ci sono le qualifiche, a una via realizzativa alla quale tuttavia ci si dovrà rifare per dottrina e metodo. Ubi maior, minor cessat. Ciò che è propedeutico non va negato, va trasceso e superato. Ogni tentativo di sovvertire quest’ordine gerarchico, sostituendo tutto ciò che afferma Guénon a ciò che affermano le tradizioni, è per sua stessa definizione antitradizionale. Arroccarsi dunque sul paradigma guénoniano, farne un sistema chiuso, non è un assentimento ponderato, ma è un comportamento fanciullesco frutto di un’ossessione irrinunciabile basata sul compiacimento che prova l’individuo per aver imparato a citare a memoria gli anticonformisti giudizi guénoniani, a identificarsi al mito (de gustibus non est disputandum…). Trattasi dunque di neotenia psichica, null’altro. D’altro canto, il reiterato infantilismo dimostrato nelle scomposte e biliose risposte di vari obiettori anonimi dimostra quanto ciò sia vero. Dietro alla reazione al presunto reato di lesa maestà nei confronti di Guénon, si cela in verità la difesa della propria compiaciuta individualità, dell’identificazione irreversibile con l’autore francese e col gruppo d’appartenenza. La realizzazione non è identificazione a un altro individuo né alla sua opera: anzi, è disidentificazione totale. Chi non ha capito ciò, in verità, non ha capito assolutamente nulla neppure del messaggio che Guénon stesso ha cercato di trasmettere.

    Non è per caso, dunque, che la depersonalizzazione della propria individualità in favore di una nuova sia spesso accompagnata da altri disturbi dissociativi come la schizofrenia. A questo quadro clinico si aggiunge un probabile disturbo dell’attenzione vista la dichiarata ammissione di non essere riuscito a finire di leggere un articolo del prof. Filippi che, comunque, non ha mancato di criticare. Insomma, se si tratta veramente di un problema della psiche l’anonimo è invitato a rivolgersi altrove. Se invece si tratta di semplice bullismo lo invitiamo a crescere e ad entrare nel mondo delle persone adulte, non è mai troppo tardi per farlo.

    Mi corregga pure la grammatica, la sintassi e tutte quelle altre minuzie che solo un burocrate si diverte a far notare, ma per favore mi risparmi altre citazioni da Guénon di cui credo tutti in questo blog abbiamo già letto l’opera. Provi piuttosto a ribattere ai punti dottrinali esposti da Veda Vyāsa Maṇḍala e dai suoi collaboratori con ragionamenti appropriati guidati dall’intuizione. Insomma, faccia un po’ di riflessione (manana) invece di ripetere come un pappagallo gli scritti di Guénon senza mai sviscerarli e li confronti con le fonti originali a cui lo stesso autore francese si era ispirato. Sono sicuro che l’anonimo dirà che noi siamo i primi a fare un uso smodato di citazioni quindi da che pulpito verrebbe la predica. Peccato che all’artico di Maitreyi “Risposta all’odierno “oppositore del Vedānta”” l’anonimo replicò:

    “Il problema è che per comprovare l'identità tra prajna e turiya si citano proprio maestri aderenti... all'isolata interpretazione del vedanta che afferma l'identità tra prajna e turiya! La confutazione sarebbe stata più efficace se fosse stata rafforzata da citazioni di autorità del vedanta diverse da Satcidanandendra Sarasvati e dalla sua scuola, ma temo che ciò sarà difficile, visto che, per tutti gli altri esponenti della tradizione advaita, prajna e turiya NON sono affatto la stessa cosa”

    RispondiElimina
  53. Petrus Simonet de Maisonneuve26 ottobre 2020 alle ore 22:50

    Parte VIII

    Per accontentare l’anonimo Maitreyī, Durgā Devī, Chiara de’ Fenzi, il prof. Filippi e Carlo Rocchi, hanno inondato questo blog di citazioni upaniṣadiche, da Śaṃkara e Gauḍapāda che chiaramente confutano l’idea secondo cui “prajna e turiya NON sono affatto la stessa cosa”.

    La risposta dell’anonimo che non si arrende difronte a niente (vi è una differenza tra coraggio e ottusità) fu:

    “Così si esprimerebbero la śruti e Śaṃkara? Mi permetto di dubitare che ciò sia vero, almeno se intesa letteralmente in questo senso.”

    E ancora,

    “La persone intelligenti e in buona fede, proprio perché cercano di capire queste argomentazioni, non contraddicono per partito preso, epperò devono riconoscere che anche Gauḍapāda e Śaṃkara, non altrimenti erano, ma non sono e non saranno mai, parte integrante di questa “isolata interpretazione del vedanta””

    Ma l’anonimo le ha lette le citazioni da Gauḍapāda e Śaṃkara? Se difronte all’evidenza che spazza via l’ignoranza si continua a preferire con irrazionale cocciutaggine l’ignoranza, allora non è più possibile continuare la discussione sul piano intellettuale. Si è solo nel campo della fede.

    “fede è sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi”


    Petrus Simonet de Maisonneuve

    RispondiElimina
    Risposte
    1. i
      Non mi intrattengo più molto volentieri (oddio: sarebbe meglio dire “non mi sono MAI intrattenuto”) in questo trivio virtuale, per una serie di motivi che esulano da quello che certi qui hanno malignamente ipotizzato; ci tengo quindi a ribadire che, non è perché qualche “generale di corpo d’armata” mi abbia dato disposizioni in merito, perché nulla c’entro con ambienti torinesi, né con “Scienze Interiori” di sorta, come il sig. Petrus ecc., ecc… e qualcun altro hanno insinuato, in quando non parlo che esclusivamente a mio nome. Con la speranza di essere lasciato finalmente in pace (ma non vi solletica l’idea, in modo che le discussioni possano salire di livello?) e nonostante abbia détto di darmela “a gambe levate”, non certo senza una qual contraddittorietà, non posso esimermi però dal rettificare alcune imprecisioni e malignità del Nostro, soprattutto se riferite a Guénon.
      Tralasciando le mille e ritrite questioni più o meno poco interessanti che ci propone il nostro erudito, da quello che sembrerebbe, cresciuto anche lui, come il Rocchi, a ‘pane e caverne’, mi interessava innanzitutto la questione, come lui insinua, del “…Mettiamo i puntini sulle “i”. Ciò che deve essere considerato identico a Hiraṇyagarbha è Brahmā e non il Brahman come si potrebbe inferire DALL’ERRONEO SISTEMA DI TRASLITTERAZIONE USATO DA GUÉNON E DAI SUOI ADORATORI. (cit.)”.
      Guénon non ha mai usato questa traslitterazione; uno dei suoi “adoratori’, invece, dava per scontato, sbagliando (di passata: questa svista la dice lunga anche sull’uso del sostantivo ‘Brahman’, come segnalavo al Filippi che non si ritiene di essere un ‘orientalista’, usato da lui da un capo all’altro dei suoi “compitini non-duali”, che genera solo incomprensioni…), che ad un così alto livello intellettuale degli astanti che qui bazzicano, la cosa fosse intesa nel senso giusto. Faccio notare che prima del mio inciso imputato e che ho riportato (“…A questo proposito, quando si considera Brahma, si deve considerarlo, in primo luogo, come identico a Hiraṇyagarbha…”), nel testo che ho usato, si poteva leggere (il maiuscolo a seguire è mio):
      “…Perciò, quando si dice che la meta del «viaggio divino» è il Mondo di Brahma (Brahma-Loka), NON SI TRATTA, PER LO MENO IMMEDIATAMENTE, DEL BRAHMA SUPREMO, ma soltanto della sua determinazione come BRAHM∼ [sic!], vale a dire di BRAHMA «QUALIFICATO» (SAGUNA)…”.
      Il punto dolente è che mi sono avvalso per comodità di un copia/incolla di un testo impreciso e per la fretta l’ho lasciato “verbatim”: chiedo venia! Ma basterebbe andare semplicemente anche qui sul blog di Scienza Sacra per rendersi conto quanto G. fosse a conoscenza della traslitterazione giusta, e di conseguenza anche i suoi “adoratori” (altra piccola questione di dettaglio: l’accento usato per Brahmâ è, come si evince, quello circonflesso e non il segno diacrito – ‘macron’ – in uso; bisognerebbe vedere i testi originale di G. e non le traslitterazioni delle traduzioni per avere un’idea più precisa; come che sia, i due accenti hanno un valore equivalente: il secondo è per le vocali lunghe, il primo ‘accorcia' (anche) il suono dei plurali delle parole che hanno due vocali finali - Es: PrincipIO; PricipII; PrinicipÎ – per cui non si vede tutta questa imperfezione rilevata dal gruppo ‘non-duale’. Comunque…).

      Elimina
    2. II
      Ecco infatti, quello che si può leggere:
      “…Perciò, quando si dice che la meta del «viaggio divino» è il Mondo di Brahma (Brahma-Loka), NON SI TRATTA, PER LO MENO IMMEDIATAMENTE, DEL BRAHMA SUPREMO, ma soltanto della sua determinazione come BRAHMÂ, vale a dire di BRAHMA «QUALIFICATO» (SAGUNA) e, in quanto tale, considerato come «effetto della Volontà produttrice (Shakti) del Principio Supremo» (Kârya-Brahma). [20] Quando qui parliamo di BRAHMÂ, occorre in primo luogo considerarlo come identico a Hiranyagarbha, principio della manifestazione sottile, dunque di tutto il dominio dell’esistenza umana nella sua interezza; abbiamo infatti detto in precedenza che l’essere il quale ha ottenuto l’«immortalità virtuale» è, per così dire, «incorporato», per assimilazione, in Hiranyagarbha; e questo stato, nel quale può restare sino alla fine del ciclo (per il quale esiste soltanto BRAHMÂ come Hiranyagarbha), è ciò che di solito si considera come il Brahma-Loka…”; quindi, in sostanza e come al solito, il tutto si riduce, in riferimento al Nostro, a una questione di pura e semplice microcefalia maligna!
      Altra faccenda: alla mia domanda “…come sarebbe possibile che Hiraṇyagarbha, principio, quindi ‘causa’, di tutta ‘Manifestazione Formale’ possa essere esso stesso una forma?...”, il sig. sig. Petrus ecc., ecc… ribattendo in questo modo “…Esattamente NELLO STESSO MODO PER CUI IL NUMERO 1 È PRINCIPIO DELLA SERIE NUMERICA. Infatti il numero 1 è già caratterizzato da nome e forma in quanto proprio la mente lo riconosce come tale…(cit.)”, dà la misura della sua sublime concezione di ciò che riguarda la distinzione che si deve fare tra la quantità discontinua, cioè il numero STRICTO SENSU, e la sua vera causa, ovvero l’aspetto ‘Pitagorico’, qualitativo e essenziale del numero stesso.
      Quale ‘adoratore’, mi riferisco sempre a ciò che diceva G. :
      «Va osservato a questo proposito un fatto piuttosto singolare (tutto il maiuscolo a seguire è mio): per Leibnitz TALE MOLTITUDINE, CHE NON COSTITUISCE UN NUMERO, è tuttavia un “risultato delle unità”; cosa si deve intendere con ciò e di quali unità può trattarsi? Il termine UNITÀ PUÒ ESSERE ASSUNTO IN DUE SIGNIFICATI DEL TUTTO DIFFERENTI: da un lato vi è L’UNITÀ ARITMETICA O QUANTITATIVA, ELEMENTO PRIMO E PUNTO DI PARTENZA DEL NUMERO [notare: PUNTO DI PARTENZA, ma non “PRINCIPIO”…ndr.], dall’altro, quella designata analogicamente come l’UNITÀ METAFISICA, la quale si identifica all’Essere puro stesso; non vediamo altre accezioni possibili oltre a queste; d’altronde, quando si parla delle “unità” impiegando questo TERMINE AL PLURALE può evidentemente trattarsi soltanto del significato quantitativo (I P. del C. I; cap. III ‘La moltitudine innumerabile’)», con il che, sempre il Nostro, dimostra ancora una volta di quale mentalità limitativa sia affetto, che non supera, non già quella del non-Supremo, ma nemmeno quella individuale, il che per un ‘non-dualista’ dichiarato è il colmo!

      Elimina
    3. III
      E, a proposito di navigare in mezzo alla grande confusione, questo “TERMINE AL PLURALE”, introduce anche l’altra lacuna del sig. Petrus ecc., ecc., circa “…Fatto sta che si parla anche di quidditates al plurale, denotando ancor più marcatamente la relazione di tale concetto con la molteplicità, e quindi con la forma…(cit.)”:
      «L’idea di una moltitudine che oltrepassa ogni numero, sembra aver stupito la maggior parte di coloro che hanno discusso le concezioni di Leibnitz, fossero d’altronde “finitisti” o “infinitisti”; eppure essa è ben lungi da appartenere in proprio a Leibnitz, come costoro sembrano aver generalmente creduto, essendo anche questa, al contrario, un’idea del tutto corrente presso gli scolastici. Tale idea si riferiva propriamente a tutto ciò che NON È NÉ NUMERO NÉ “NUMERABILE” – ossia tutto ciò che non riguarda la quantità discontinua – che si tratti di cose appartenenti ad altri modi della quantità o interamente al di fuori del domino quantitativo, essendo un’idea concernete l’ordine dei “TRASCENDENTALI” CIOÈ MODI GENERALI DELL’ESSERE CHE, CONTRARIAMENTE AI SUOI MODI SPECIALI COME LA QUANTITÀ, SONO AD ESSO COESTENSIVI. È quel che permette di parlare, ad esempio, della moltitudine degli attributi divini, o della moltitudine degli angeli, ossia di ESSERI APPARTENENTI A STATI NON SOTTOMESSI ALLA QUANTITÀ, OVE, DI CONSEGUENZA, NON PUÒ ESSERE QUESTIONE DI NUMERO …(ibid.)». Sappiamo il ‘prurito’ del gruppo ‘non-duale’ quando sentono la parola “angeli”, ma temo che dovranno grattarsi ancora a lungo prima di convincere l’Orbe dell’esistenza di esseri tali che secondo loro farebbero rientrare, di riffa o di raffa, in nient’altro che in estensioni sottili dell’individualità formale, addirittura come immaginazioni della mante, quindi nemmeno aventi una loro esistenza in proprio!
      Sulla questione di causa. Il sig. Petrus ecc., ecc… alla mia affermazione “…Facciamo notare che l’anonimo inizia dichiarando di voler “affrontare tale tematica da un punto di vista più che altro logico/dialettico, introducendo la nozione di “causa”, tanto INVISA AL MONDO OCCIDENTALE…” ribatteva “…Prima di tutto smentiamo l’idea che la nozione di causa non abbia una presenza predominante soprattutto nel pensiero occidentale, a partire dai presocratici, attraversando Platone e Aristotele, la scolastica, per arrivare a Leibnitz, Locke, Hume e Kant, solo per citare alcuni nomi…(cit.)”: è vero, sono stato impreciso, dovevo aggiungere ‘al mondo occidentale MODERNO’, ma questo intendevo. Infatti, il Nostro, non sembra accorgersi che gli ultimi quattro nomi che cita, sono il paradigma dell’incomprensione di ciò che qui si intende: per loro, chi più chi meno, è questione di un immanentismo in luogo di vera ‘Causa’, con il che non può più trattarsi in nessun modo della seconda, e mi pare che, nel nominarli senza far le dovute distinzioni con i primi, si possa dedurre che anche il sig. Petrus ecc., ecc…, di questa mistificazione più o meno consapevole, ne faccia a pieno titolo, parte.

      Elimina
    4. IV
      Per spiegare meglio, mi avvalgo del concetto di “passaggio al limite”, quale esempio per capire cosa intendessi dire sul fatto che la Causa deve essere trascendente e non immanente alla serie degli effetti che produce, epperò qualitativamente ed essenzialmente eterogenea. Basti, per far ciò, sostituire la nozione di ‘forma’ con quella di ‘quantità variabile’, per cui:
      « (…) si può dire, in generale, che il limite di una quantità variabile è un’altra quantità considerata fissa ed a cui la quantità variabile si suppone avvicinarsi – mediante i valori assunti successivamente nel corso della sua variazione – sino a differirne poco quanto si voglia o, in altri termini, finché la differenza tra queste due quantità divenga minore di ogni quantità assegnabile […] Sennonché, tutta la questione consiste appunto nel sapere se la quantità variabile, nell’avvicinarsi al suo limite fisso – e di conseguenza secondo la definizione di limite, differendone poco quanto si voglia –, possa raggiungere effettivamente il limite in ragione della sua stessa variazione, VALE A DIRE SE IL LIMITE POSSA ESSERE CONCEPITO COME L’ULTIMO TERMINE DI UNA VARIAZIONE CONTINUA. VEDREMO COME IN REALTÀ QUESTA SOLUZIONE SIA INACCETTABILE (I P. del C. I; cap. XII ‘La nozione di limite’)»; infatti: « (…) Senza dubbio Leibnitz riconosce che il caso estremo, o “ultimus casus” è “esclusivus”, il che presuppone manifestatamente che si trovi al di fuori della serie dei casi che rientrano naturalmente nella legge generale; ma allora con quale diritto lo si può far rientrare ciononostante in questa legge e trattarlo “ut inclusivum”, COME SE FOSSE CIOÈ UN SEMPLICE CASO PARTICOLARE COMPRESO IN TALE SERIE? È VERO CHE IL CERCHIO È IL LIMITE DI UN POLIGONO REGOLARE, IL CUI NUMERO DI LATI CRESCE INDEFINITAMENTE, MA LA SUA DEFINIZIONE È ESSENZIALMENTE DIVERSA DA QUELLA DEI POLIGONI; E SI VEDE MOLTO CHIARAMENTE DA UN ESEMPIO COME QUESTO, LA DIFFERENZA QUALITATIVA CHE ESISTE, COME ABBIAMO DETTO, TRA IL LIMITE STESSO E CIÒ DI CUI COSTITUISCE IL LIMITE (I P. del C. I; cap. XIII ‘Continuità e passaggio al limite’)».
      Ovvero: « (…) IL LIMITE NON APPARTIENE DUNQUE ALLA SERIE DEI VALORI SUCCESSIVI DELLA VARIABILE; ESSO È AL DI FUORI DI TALE SERIE, E PER QUESTO ABBIAMO AFFERMATO CHE IL “PASSAGGIO AL LIMITE” IMPLICA ESSENZIALMENTE UNA DISCONTINUITÀ (…) Il limite di una variabile [nel caso che ci interessa la ‘forma’, ndr.] deve veramente limitare, nel senso generale del termine, l’indefinitezza degli stati o delle modificazioni possibili che la definizione di detta variabile comporta; PROPRIO PER QUESTO OCCORRE NECESSARIAMENTE CHE SI TROVI AL DI FUORI DI CIÒ CHE ESSO DEVE VERAMENTE LIMITARE. (I P. del C. I; cap. XXIV ‘Vera concezione del passaggio al limite’)».
      Infine, il sig. Petrus ecc., ecc., ci dice “…Per accontentare l’anonimo (qui andrebbe una virgola, ma vabbè…ndr) Maitreyī, Durgā Devī, Chiara de’ Fenzi, il prof. Filippi e Carlo Rocchi, hanno inondato (è proprio il caso di dire! ndr.) questo blog di citazioni upaniṣadiche, da Śaṃkara e Gauḍapāda che chiaramente confutano l’idea secondo cui “prajna e turiya NON sono affatto la stessa cosa”. Domanda secca: come mai si chiama “Turiya” “Il Quarto” se manca “Il Terzo”, o meglio se quest’ultimo lo si fa rientrare in una delle modalità de “Il Secondo (Taijasa)”?
      Concludo, ribadendo di essere lasciato finalmente in pace (me e Guénon), tanto quello che è stato détto è più che sufficiente per farsi un’idea del contendere e continuare: “cui prodest”?
      GATTO

      Elimina
    5. E.c.: "...in QUANTO non parlo che esclusivamente a mio nome...".
      gatto

      Elimina
    6. Ad integrazione di quanto fin qui esposto, credo sia ancora più esplicativo per la questione suddetta, riguardante il concetto di (vera) Causa che non può essere né immanente, né parte, né della stessa natura di ciò che produce (nel particolare riferita alla condizione non-formale di Hiranyagarbha, in quanto principio delle forme), riportare l’empio, molto calzante al riguardo, del rapporto che esiste tra il Punto, principio dello spazio e lo spazio stesso:

      «Perciò, quando si divide indefinitamente lo spazio e si procede il più possibile in questa divisione, cioè fino ai limiti della possibilità spaziale da cui la divisibilità è condizionata (e che è d'altronde indefinita sia in senso decrescente che in senso crescente), non è al punto che si arriva come termine ultimo, bensì alla distanza elementare tra due punti. Ne consegue che, affinché vi sia estensione o condizione spaziale, occorre che vi siano almeno due punti, mentre l'estensione (a una dimensione) realizzata dalla loro presenza simultanea, cioè la loro distanza, costituisce un terzo elemento che esprime la relazione tra questi due punti, unendoli e separandoli nello stesso tempo. Questa distanza, d'altra parte, se considerata come una relazione, non è evidentemente composta di parti, perché, se lo fosse, queste parti non sarebbero che altre relazioni di distanza da cui essa è logicamente indipendente come, dal punto di vista numerico, l'unità è indipendente dalle frazioni. Ciò è vero per una distanza qualsiasi, quando la si esamini in rapporto ai due punti che sono le sue estremità, e lo è a fortiori per una distanza infinitesimale, che non è una quantità definita ma soltanto una relazione spaziale tra due punti immediatamente vicini, come i due punti consecutivi di una linea. D'altra parte, I PUNTI STESSI, IN QUANTO ESTREMITÀ DI UNA DISTANZA, NON SONO PARTI DEL CONTINUO SPAZIALE, anche se la relazione di distanza presuppone che li si consideri situati nello spazio; in realtà, è quindi la distanza a essere il vero elemento spaziale. A rigore quindi non si può dire che una linea sia formata di punti: infatti ESSENDO OGNUNO DI ESSI PRIVO DI ESTENSIONE, è facile capire che la loro semplice addizione, quand'anche essi fossero in moltitudine indefinita, non può assolutamente dar luogo a una estensione; sono invece le distanze elementari fra i suoi punti consecutivi che in realtà costituiscono la linea. (…)Tuttavia, l'elemento primordiale, il solo ad avere un'esistenza propria, è il punto, presupposto di quella distanza che in sé non è che una relazione; lo spazio, in quanto tale, presuppone dunque il punto. Si può dire che quest'ultimo contiene in sé una virtualità di estensione, e per svilupparla deve anzitutto sdoppiarsi, cioè mettersi in certo qual modo di fronte a se stesso, poi moltiplicarsi (o meglio sottomoltiplicarsi) indefinitamente, cosicché lo spazio manifestato deriva per intero dalla sua differenziazione, o, per parlare più esattamente, dal punto stesso, inteso come origine di tale differenziazione. Quest'ultima, del resto, non è reale se non dal punto di vista della manifestazione spaziale; essa è invece illusoria rispetto al punto principiale, che non cessa per ciò di essere in sé tale e quale era, e la cui unità essenziale non può minimamente esserne influenzata. IL PUNTO, CONSIDERATO IN SE STESSO, NON È SOTTOMESSO ALLA CONDIZIONE SPAZIALE, MA AL CONTRARIO, NE È IL PRINCIPIO (…) IL PUNTO PRIMORDIALE, ESSENDO SENZA DIMENSIONI, È ANCHE SENZA FORMA; non appartiene dunque all'ordine delle esistenze individuali; solo localizzandosi nello spazio assume in certo qual modo un aspetto individuale, non però in se stesso, ma solo con qualcuna delle sue modalità, di modo che, a dire il vero, sono queste che si individualizzano e non il punto principiale. (Il simbolismo della Croce, cap. xvi “rapporti tra il punto e lo spazio”) »
      GATTO

      Elimina
    7. e.c.: "...riportare l'eSEmpio..."
      GATTO

      Elimina
    8. Errata corrige: a proposito di imperfezioni delle traduzioni dei testi di Guénon, ho ricevuto una segnalazione che riporto molto volentieri:
      " L'Uomo e il suo divenire secondo il Vedanta” che si è perpetuato in tutte le edizioni fin dall'inizio, da parte di Corrado Podd… Se qualcuno conosce l'anonimo GATTO che commenta su Scienza Sacra, lo informi:
      Cap. 21, Il «viaggio divino» dell’essere in via di liberazione pag. 143 (Adelphi), 6-7 linea.

      Traduzione errata: “…per il quale esiste soltanto Brahmâ come Hiranyagarbha…”.

      Testo originale: “…pour lequel seulement Brahmâ existe comme Hiranyagarbha…”.

      Traduzione corretta: “…soltanto per il quale Brahmâ esiste come Hiranyagarbha…”.

      GATTO

      Elimina
  54. Al Sig. Arvo. Le vie del karma kāṇḍa hanno come ultima meta il raggiungimento dell’unione con il Principio della manifestazione, che si può definite di volta in volta yoga con Īśvara, il raggiungimento dello stato di aiśvarya nel Brahmaloka, il samādhi, ecc. Tale stato tuttavia non consente di realizzare i divini poteri di creazione, mantenimento e dissoluzione dell’universo. Solamente i sādhaka più qualificati usano tali vie non per il desiderio di raggiungere questa altissima meta, ma per purificare la mente. Il precorso di restaurazione dello stato di perfezione individuale è il medesimo in tutti i due casi, ma il sādhaka più qualificato ne pratica il metodo senza il desiderio (niśkāma karma) di raggiungere una meta diversa dal proprio Sé a cui unirsi. Tutti gli altri sādhaka percorrono la via e usano il medesimo metodo con il desiderio (sakāma karma) di unirsi al proprio Dio. La purificazione della mente è quindi raggiunta a conclusione delle vie di karma kāṇḍa per mezzo della meditazione libera dal simbolo. Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī nel primo capitolo del suo studio “La via della conoscenza e le altre vie” spiega perché la purificazione della mente, pur essendo ottenuta con le vie del karma kāṇḍa non è mai esposta nei testi di riferimento, mentre è considerata e spiegata nei testi che riguardano la conoscenza metafisica. La invito a rileggere quei passaggi illuminanti a questo riguardo. La situazione di ogni sādhaka è, ovviamente, diversa a causa delle sue qualifiche dovute ad azioni compiute e conoscenze ottenute in nascite precedenti. Questo lo predisporrà a intraprendere una determinata via e a rivolgersi a un preciso maestro. Sarà poi il maestro di Vedānta a riconoscere le qualifiche del discepolo e ad accettarlo o meno come tale. Alcuni hanno perfino la mente purificata già nel ventre materno, com’è il caso di Vāmadeva; altri nascono con la mente già pura che li induce alla conoscenza durante l’adolescenza, come Ramaṇa Mahārṣi, o da adulti, come il re Janaka. Il caso più normale è quello in cui il sādhaka completa la purificazione della mente in questa vita seguendo una via del non-Supremo (karma kāṇḍa). Infine ci sono coloro che dovranno attendere nuove rinascite prima di ottenere la śuddhadhī. In ogni caso, il Vedānta richiede quella qualifica. Purificazione della mente significa che chi l’ha raggiunta non desidera altro se non riconoscersi come il proprio Ātman. Questo riconoscimento è la vera realizzazione della propria reale natura come Assoluto. Questo è il mokṣa. Il mokṣa è la reale natura di ogni essere che deve essere riconosciuta eliminando l’ignoranza che è dualità. Il mokṣa non è il raggiungimento di altro da Sé. Per questo non c’è alcun percorso da fare: solo riconoscere il Brahman qui ora. Quanto alle sue conclusioni, mi permetta di correggerle. Nessuno mai è duale. è l’ignoranza che fa apparire la dualità. Questo è il fondamento del Vedānta ed è per questo che il suo “metodo” si compone di adhyāropa, al fine di confutare l’apparente dualità, e di apavāda, che rivela la Realtà ultima. Non si può valutare la realizzazione altrui, né ciò rappresenta alcun interesse. Ma è dovere e diritto di ognuno valutare una via sulla base della dottrina che vi è insegnata.

    RispondiElimina
  55. Chi soggiace alla mania (individualista) "del mio" [abhimâno ahamkârah],non è legittimato a discutere di qualcosa che implicitamente non conosce, anche conoscendo esterioristicamente, dunque in maniera necessariamente illusoria, le luci dello Śāstra, tentando vicāra....per esprimermi nei vostri termini. Ciò riguarda senz'altro me stesso e magari tanti altri che ogni tanto sogliono passare da queste parti. Giustamente scriveva un utente che chi non ha effettivamente niente da dire è forse meglio che si astenga dal farlo. Tuttavia i temi da dibattere e chiarire sarebbero molti, come per es capire se è legittimo esprimersi a partire dalla effettiva condizione di partenza della (illusoria) dimensione umana, la quale va superata senz'altro, ma tenendo conto che non esistono connessioni reali, valide, tra tale dimensione e quella dello Spirito; proprio perché la prima "non è", l'altra "è" in senso eminente. Se si può farlo, accettando l'adhyāropa, allora possiamo dire che tutte le Vie sono inizialmente duali, proprio a causa dell'esperienza dualistica dell'essere vivente o jîva. La Via non duale non sa spiegare compiutamente da dove nasca l'illusione. Quest'ultima, è vero, viene dall'ignoranza, dunque è solo apparenza, ma bisogna capire quale esigenza "interna" la crea a partire dall'Assoluto e come questa illusione sia possibile. Vi è dunque un mistero legato ad una dicotomia che ricorda Parmenide (Essere ed opinare), che presuppone necessariamente una "fede" iniziale, la quale permette al Tantratattva di dire "O DevÎ, la liberazione senza la conoscenza della Shakti è una semplice burla!" Ma come ripeto tutto ciò non è mia competenza. Ringrazio chi ha letto queste due righe e chiunque si adoperi per rendere possibile l'accesso al mondo dello Spirito in quest'epoca di dissoluzione, che lo disconosce negandolo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Gentile Sig. Arvo, mi permetta di correggere la sua affermazione per cui non esistono connessioni reali, valide, tra la dimensione umana e quella dello Spirito. Se per Spirito intende l’Ātman, la connessione non può esistere, perché esso è al di là di ogni relazione. Tuttavia ogni essere umano sa di esistere e di essere cosciente. Questa è l’unica conoscenza reale che tutti hanno. E non si tratta di una fede, ma di una conoscenza certa. È grazie a questa conoscenza-coscienza che poi l’individuo percepisce, pensa e discrimina. L’individuo, che crede di essere autonomo per ignoranza, si trova immerso nelle relazioni di soggetto-oggetto, spazio e tempo, causa-effetto, ovvero nel vyavahāra. Si trova immerso nella dualità, ma sempre è cosciente ed è cosciente di esistere. L’ignorante non presta attenzione alla propria coscienza-esistenza, preferendo considerarsi “così e così”. Il jñani, invece, sa di essere e di essere cosciente, perciò assume consapevolmente il punto di vista vyāvahārika, quello duale per intenderci, al fine di renderlo falso. Ma, poiché chi discrimina l’adhyāropa, parte dalla consapevolezza di essere ed essere cosciente, la sua via non è duale nemmeno all’inizio. Per questo si chiama Advaita. Le molteplici vie che partono, invece, dalla considerazione che l’individuo è solo “così e così”, sono le vie duali, vale a dire le vie del non-Supremo. Ovviamente queste vie sono propedeutiche all’Advaita Vedānta. Sono proprio queste vie che attribuiscono una realtà relativa all’illusione, per cui l’ignoranza appare come qualcosa di esistente. Invece l’ignoranza nasce con l’individuo, nasce con il “così e così”, nasce con il tempo, con lo spazio, con l’io e il mondo, con le relazioni: ossia con il vyavahāra. Tutto quanto ho così elencato è sinonimo di avidyā. L’ignoranza non è un’entità, è solo falsa conoscenza. Quando si capisce che si trattava di una corda, il serpente dove è andato? Da nessuna parte, non è mai esistito. Infatti il serpente non è distrutto, non è rimosso. Non è mai esistito. La informo che stiamo preparando un articolo specifico sull’adhyāsa che sarà pubblicato prossimamente.

      Elimina
    2. Gentile Sig.ra Maitreӯ,per Spirito si intende l'Ᾱtman che, come Lei sottolinea, è al di là di ogni relazione. Dunque <>.....è corretto. Quanto Lei fa seguire non cambia, mi pare, i termini della questione. Ogni "aspirante", allo stadio iniziale, è ignorante per definizione e non può rivendicare alcun possesso della conoscenza vera, né può dirsi già realizzato in virtù dell'adesione fideistica, fosse pure di natura (o meglio secondo una prospettiva) Advaita. Lo dimostra il fatto che egli si vede costretto, anche essendo un potenziale jñani che segue la via della conoscenza, ad assumere (seppur consapevolmente) il punto di vista vyavahāra; ma anche il fatto che quando viene realizzata la vera natura del Sé, il mokṣa, si disconosce e "rigetta" ogni mezzo adoperato, compresa ogni scrittura sacra che supporta la Via.
      Sinceramente non tutto quanto ho letto in questi giorni, da parte di chi è intervenuto in un senso o nell'altro, mi sembra irreprensibile, sia sotto il profilo dottrinale, sia dal punto di vista delle indicazioni...diciamo...operative. Per es. appare insostenibile l'apparente pretesa di "cominciare dalla fine" senza tener conto della dimensione fattuale della condizione umana dalla quale si parte. Era questo il senso della citazione tratta dal "Tantratattva" (riportata da Arthur Avalon), laddove si reclama la necessità, per l'individuo, di tornare ad ancorarsi ad un "elemento concreto" visto come "energia" o "potere", che per quanto illusori ed apparenti, saranno usati come leva per scardinare la prigionia alla quale soggiace l'uomo nell'atto della partenza, ovvero allo stadio iniziale. Allo stesso modo la polemica tantrica dice che nessun affermatore della māyā illusoria, riesce a "rendere inesistente un solo filo d'erba".
      Tutto questo non deve essere inteso come un tentativo di delegittimare una via iniziatica, a patto che sia autentica ed ortodossa, ma va interpretato come un invito alla prudenza per chi, non avendo le conoscenze preliminari richieste per affrontare e misurarsi con le innumerevoli implicazioni connesse a tutto questo, si faccia illudere da una certa apparente "facilità" che sembra essere correlata all'Advaita.
      Ritengo senz'altro esiguo l'apporto alla conoscenza corretta della Tradizione portata da Julius Evola, per via di certi limiti che in genere riconosciamo, tuttavia sulla questione dell'iniziazione le cose possono essere viste altrimenti. Egli scrisse, in estrema sintesi, che la regolarità formale del rito di iniziazione non garantisce la trasmissione della relativa influenza spirituale e che certi rituali riproposti oggi possono in certi casi o non trasmettere nulla (essendo allora inefficaci), o limitarsi ad essere elargitori di semplici influenze psichiche con tutto ciò che ne può, allora, conseguire. Le cause di ciò andrebbero dunque ricercate nella "chiusura" alla quale soggiace l'uomo materializzato del Kali Yuga (che renderebbe inefficaci reali influenze spirituali) e quindi alla correlata mancanza di qualificazioni, che può comprendere anche una "indegnità" interiore inibitoria....[continua]

      Elimina
    3. II Alla luce di ciò e tenendo conto del fatto che ci troviamo attualmente in un'epoca di dissoluzione (non certo nelle fasi iniziali del Kali Yuga così come sembrava voler ritenere un collaboratore del sito), mi chiedo quale carattere rivesta l'iniziazione che viene proposta ancora in India in taluni ambienti che reclamano una filiazione autentica e diretta con la Tradizione Primordiale e con organizzazioni iniziatiche del passato.
      Che un collegamento certo sia ancora in atto, non può esservi dubbio, altrimenti saremmo preda di una catastrofe immediata ad ogni livello; tuttavia in quest'epoca nella quale un Cacciari qualunque sembra saperne più di tutti (è un segno dei tempi),nessuno ha modo di sapere con certezza come stiano di fatto le cose, se non per adesione emotiva e fideistica, oppure osando e "sperimentando" di persona, accollandosi tutti i rischi del caso.
      Non si trovi in ciò alcun tipo di polemica od insinuazione verso alcuno. Leggerò volentieri ogni chiarificazione in merito ed ogni ulteriore contributo da qualunque parte provenga. In seguito -ma lo avevo già deciso- mi procurerò due testi del prof Filippi che mi interessano, ma anche, senza nessuna remora, la "famigerata" Rivista di Studi Tradizionali, della quale credevo fosse stata interrotta la pubblicazione già negli anni '60. Il tutto nei limiti delle mie possibilità di comprensione e nella totale autonomia che fino ad ora mi ha permesso...ben magra consolazione...di non credere che un Eco qualsiasi sia stato all'apice della conoscenza in senso eminente.
      Grazie, un saluto e mi scuso per eventuali refusi che in genere mi accompagnano abbastanza fedelmente.

      Elimina
    4. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

      Elimina
    5. 1) Egregio Sig. Arvo, la mia domanda riguardante lo spirito non era affatto peregrina. Infatti con questo termine, spesso usato ambiguamente in Occidente, alcuni intendono non l’Ātman, ma il terzo e più sottile livello del manifestato (corpus, anima et spiritus) che, evidentemente, è relazionato con gli altri due termini che lo precedono nel trinomio. Ma, poiché lei ha chiarito che è proprio dell’Ātman al di là di ogni relazione che intende con spirito, posso argomentare con maggiore sicurezza di essere capita. Quello che ho espresso nella mia precedente, al contrario da quanto gentilmente sostiene, cambia nettamente i termini della questione. Infatti si sa di esistere e di essere cosciente. Non è un atto di fede: nessuno “crede” di esistere e di essere cosciente. Si tratta di un fatto sperimentato direttamente. È da questa constatazione che parte il Vedānta vicāra. Coloro che prescindono da questa consapevolezza devono obbligatoriamente appoggiarsi su atti di fede. E, poiché sono condizionati da questa loro inclinazione mentale, ipotizzano che la fede condizioni anche la via della conoscenza. Come il Tantrismo, che non appartiene alla via della conoscenza, anche se alcune sue correnti sono direttamente connesse al Vedānta. Per accedere al Vedānta, bisogna aver già compiuta, come karmayoga, in questa vita o in una precedente, una via del non-Supremo, ovvero aver compiuto la purificazione della mente. Solamente chi è straordinariamente qualificato grazie a conoscenze ottenute in altre esistenze, può accedervi direttamente; in questo caso non c’è neppure la necessità dell’iniziazione. Tuttavia l’affermazione per cui nessun sostenitore della māyā illusoria riesce a rendere inesistente un filo d’erba deve essere correttamente interpretata, altrimenti si ricade nell’errore di dare realtà all’illusione. Infatti, è vero che nessuno può rendere inesistente un filo d’erba, perché il filo d’erba è esistente. Quello che si deve fare è riconoscerne la Realtà soggiacente. Neppure nell’esempio del serpente e della corda si parla mai di distruzione del serpente. Perché conoscere la corda rende inesistente il serpente, e reale solo la corda, perché il serpente è il fraintendimento dell’ignorante che sta guardando la corda. La conoscenza rimuove l’errore, non distrugge o annulla ciò che esiste. Le affermazioni di tutte le scritture vanno comprese grazie a un insegnamento diretto, non per semplice lettura, altrimenti si rischia di fraintenderne il senso.

      Elimina
    6. 2) Lei, sempre cortesemente, ci ammonisce a usare prudenza nell’esporre certe dottrine a chi non avesse le conoscenze preliminari, per non illudere nessuno di una certa apparente “facilità” che sembra essere correlata all’Advaita. Tuttavia l’esposizione che io e altri stiamo facendo delle dottrine advitīya ci è stata suggerita da alcuni maestri di Vedānta, per cui non se ne avrà a male se, pur ringraziandola per la sua premura, continuiamo ad attenerci a essi. Inoltre, da quanto è apparso dalle discussioni sorte sul web e dalla corrispondenza privata, la semplicità del Vedānta è apparsa e continua ad apparire difficilissima per la maggior parte dei nostri interlocutori. Anzi, in taluni casi, pare che il Vedānta continui a rimanere del tutto sconosciuto e sempre meno compreso. Perciò, come vede, la verità si difende da sola. Tuttavia alcune persone hanno recepito immediatamente il nostro discorso, compensando con immediatezza a lustri e lustri di loro infruttuosa ricerca. A dimostrazione che il tempo in queste cose c’entra poco. Neppure la sua obiezione che riguarda il kaliyuga, è ragionevolmente sostenibile [Non entro nell’ambito delle confusioni che fanno gli occidentali a proposito del kaliyuga interpretato alla luce della limitata visione ciclica dei monoteismi, di cui lei accenna, che ci porterebbe troppo fuori tema]. Infatti le vie dell’azione, il karma kāṇḍa, per intenderci, sono per loro natura dipendenti dal divenire. Per questa ragione le vie del non-Supremo sono sempre coinvolte nell’andamento ciclico e, quindi, sono soggette a declino o a deviazione. Non così la via della conoscenza, che è indipendente dal tempo e che anche oggi rimane come sempre è stata. “Nei capitoli VI e VII (della ChU) è stato spiegato che Brahman è libero da direzione, spazio, tempo ecc.; tuttavia, poiché l’intelletto della gente ottusa, che considera che ogni cosa sia determinata da direzione, spazio, tempo ecc., non è capace di rivolgersi verso la suprema Realtà” (ChUŚBh VIII, bhūmikā). A questo proposito Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja (https://vedavyasamandala.com/wp-content/uploads/5-L’autentica-dottrina-di-Śaṃkara-sull’avidyā.pdf) così rispondeva alla sua domanda: «È possibile per la gente d’oggi ottenere il frutto della Brahma vidyā? Ci sono alcuni che vogliono istillare il dubbio nelle menti dei mumukṣu āstika, dicendo: “Per i saggi dei tempi antichi poteva insorgere la realizzazione di Ātman (Ātma sākṣātkāra), ma questo non è più possibile per le persone d’oggi.” Citeremo una frase del Bhāṣya per provare che questa opinione non ha alcuna base.

      Elimina
    7. 3) “Anche al tempo presente, chiunque rinunci all’attaccamento per gli oggetti esterni, riconosca l’Ātman come Brahman, rimuova tutti gli attributi proiettati dalla conoscenza illusoria, causata dalla bhrānti delle upādhi senza essere toccato dalle vāsanā del saṃsāra, senza che ci sia un interno e un esterno e conoscendosi come il solo e assoluto Brahman, costui diventa tutto questo veramente, dato che scompare il “non essere Tutto” (asarvatva) causato da avidyā. Sia per i saggi del passato, come Vāmadeva, che erano mahāvīrya [persone eccezionali], sia per i semplici esseri umani odierni che si reputano di minore livello, Brahman non ha alcuna distinzione né differenza di grado; e neppure la sua conoscenza subisce delle distinzioni di grado” (BUŚBh I.4.10). Ciò significa che Śaṃkara ha dichiarato autorevolmente che il jñāna rimuove completamente l’ajñāna e che anche la totalizzazione (sarvātmabhāva) che è il frutto del jñāna emerge senza fallo per il jijñāsu qualificato anche in questi tempi moderni.”» […] Infatti: “Eccetto ajñāna, non è possibile immaginare alcun altro impedimento quale ostacolo al mokṣa, perché mokṣa è eterno (nitya) e, inoltre, non esiste separato dal puro essere del sādhaka” (BUŚBh III.3.1). Il problema è che chi si pone nella prospettiva del non-Supremo, dà realtà alla creazione, magari definendola realtà minore o realtà relativa rispetto a quella assoluta, cadendo così nel dualismo. Questo lo porta, consapevolmente o inconsapevolmente, a dare realtà all’errore, all’ignoranza, come se si trattasse di un oggetto o di un qualcosa di esistente; una causa materiale che dà origine alla realtà (dichiarata più o meno relativa) del mondo. Questo è l’errore della mūlāvidyā. Poiché l’argomento non può essere esaurito nelle poche righe concesse dal blog di cui siamo ospiti, le preannuncio un mio prossimo articolo che apparirà su Veda Vyāsa Maṇḍala in risposta all’erronea domanda: “Che cosa produce l’ignoranza?”. Domanda che ci è spesso rivolta dai nostri lettori.

      Elimina
    8. 4) Infine, il passaggio di J. Evola che lei sintetizza, e che era indirizzato al caso dell’“iniziazione” massonica, è del tutto condivisibile. Certamente non è applicabile indiscriminatamente alle scuole iniziatiche dell’India, ma solo a quelle degenerate in new-age. Al contrario, per quello che riguarda il Vedānta la trasmissione dell’insegnamento è rimasta ininterrotta in tutti i quattro Pīṭha e nei diversi Maṭha śaṃkariani. Perciò, la loro non si può proprio definire “l’iniziazione proposta ancora in India in taluni ambienti che reclamano una filiazione autentica e diretta con la Tradizione Primordiale [cioè il sanātana dharma] e con organizzazioni iniziatiche del passato”, poiché si tratta di realtà del tutto viventi. Per sapere come stanno le cose è del tutto inutile, come lei dice bene, “una adesione emotiva e fideistica”. Bisogna andare e sperimentare di persona, con l’unico rischio eventuale di essere respinti per assenza di qualifiche. Tutti gli argomenti di cui sopra, però sono stati già trattati ripetutamente sul Sito Veda Vyāsa Maṇḍala. Quindi chi volesse maggiori delucidazioni, dovrebbe leggere o rileggere quelle pubblicazioni. La ringrazio per avermi offerto l’opportunità di questo chiarimento.

      Elimina
    9. I
      Dispiace un po’ interrompere l’idillio tra Maitreyī e arvo, ma siamo costretti di malavoglia a intervenire (la nostra mentalità “occultistica” ci impone, infatti, di attaccarci a tutti gli oggetti apotropaici esistenti …), per sistemare alcune cose che potrebbero passare inosservate, tanto è l’agio con cui vengono sommariamente date per scontate. Maitreyī dice: “…Bisogna andare e sperimentare di persona, con l’unico rischio eventuale di essere respinti per assenza di qualifiche…(cit.)”.
      Senza entrare nel merito di quali possano essere i metodi di selezione in voga tra le Autorità alle quali il gruppo non-duale si appoggia – ché potrebbe risultare imbarazzante –, come è dato constatare, una del gruppetto che ha “…inondato questo blog di citazioni upaniṣadiche, da Śaṃkara e Gauḍapāda…(cit. C. Rocchi)”, in nome e per mandato di tali Autorità, ipso facto quindi, già valutata come ben qualificata, quando non la si trovava impegnata in tale “tsunami” di citazioni, tratte dal suo “quaderno dei compiti (cit. de’ Fenzi)” non-duale, si è permessa di sostenere con nonchalance quanto segue “…Il dīkṣita non subisce costrizioni perché il fine a cui è indirizzato è la Libertà stessa. Mai nessuno impone né pretende un patto di fedeltà. Poi, COME HA ESPOSTO ANCHE GUÉNON (come da nostro precedente intervento), SE IL JIJÑĀSU CHE CERCA LA CONOSCENZA DEL SUPREMO, COMPRENDE CHE IL SUO IL GURU NON PUÒ DARNE L’INSEGNAMENTO, ALLORA PRENDERÀ CONGEDO DA LUI, ringraziandolo per ciò che da lui aveva ricevuto fino a quel momento. Quindi, è libero di cercare un maestro realizzato che gli insegni il metodo del Vedānta vicāra. Ogni vero guru è felice quando scopre che il proprio discepolo può aspirare a una conoscenza superiore. SOLAMENTE I FALSI GURU SI OFFENDONO, dimostrando tutto il loro individualismo.[cit.]”! Nel ribattere, come facemmo (“…non è l’allievo che può permettersi di dire quando il suo Guru non gli serve più, ma il Guru stesso che sa quando non è più d’aiuto al suo allievo e quando lo può indirizzare da uno più “competente” di lui: questo è quello che sosteneva Guénon e non il contrario! Altro che “guru felici” di accettare le istanze dell’allievo, con il che si dimostrerebbero proprio essere FALSI…”), non abbiamo però mai riportato quello che Guénon sosteneva in proposito, cosa che abbiamo intenzione di rimediare adesso, soprattutto per marcare una volta in più, quale sia la ‘profonda’ conoscenza della sua opera, dalla quale, certi suoi detrattori, si permetterebbero il lusso di infangarla, quando probabilmente non l’hanno mai nemmeno letta, e se l’hanno fatto, hanno capito solo quello cha tornava loro comodo: “…È per ciò che l’ambizione di un vero Guru, se così ci si può esprimere, è soprattutto di porre il suo discepolo in condizioni di fare a meno di lui il più presto possibile, sia indirizzandolo, quando non può più condurlo oltre, ad un altro Guru che abbia una competenza più estesa della propria (DEV’ESSERE BEN CHIARO, CHE TALE CAMBIAMENTO NON PUÒ ESSERE OPERATO, IN MODO REGOLARE E LEGITTIMO, SE NON CON L’AUTORIZZAZIONE DEL PRIMO GURU, NONCHÉ PER SUA INIZIATIVA, IN QUANTO È LUI SOLO, E NON IL SUO DISCEPOLO, CHE PUÒ APPREZZARE SE LA SUA FUNZIONE È TERMINATA NEI CONFRONTI DI QUESTO, e anche se tale o tal altro Guru è realmente in grado di condurlo più lontano di quel che lui stesso avrebbe potuto. Aggiungiamo che un cambiamento del genere può talvolta avere una ragione del tutto diversa, ed essere dovuto unicamente alla constatazione, da parte del Guru, che il discepolo, per certe particolarità della sua natura individuale, può essere più efficacemente guidato da qualcun altro) [Iniziazione e Realizzazione Spirituale- Cap. XXIV: ‘Sulla funzione del guru’]”.

      Elimina
    10. II
      Ora, la mia semplice domanda è: sarebbero queste le persone qualificate che vengono inequivocabilmente selezionate? E siccome ci veniva curiosamente rimproverato anche che “…Come fa lei a dire e a essere sicuro che si starebbe ingannando coscientemente (o meno) i lettori, quando so per certo che mai nessuno dei collaboratori di VVM ha presentato il vicāra vedantico come una cosa alla portata di chiunque, o a cui poter accedere facilmente? (cit. C. Rocchi)”: alla luce di ciò, dubbi ne resterebbero veramente pochi! Inoltre, sul fatto che una presunta regolarità formale dell’iniziazione, non garantirebbe l’effettiva trasmissione dell’Influenza Spirituale, questione sollevata da arvo che citava in sintesi J. Evola (anche su questo tema ci sarebbe molto da dire, ma qui deborderemmo troppo dal focus, essendo una faccenda riguardante più gli “upaguru” che i Guru tout court …) e che la nostra Maitreyī si affrettava a convalidare per la Massoneria (di cui non sa un bel nulla…), non essendo però “…applicabile indiscriminatamente alle scuole iniziatiche dell’India, ma solo a quelle degenerate in new-age. (cit.)”, ci si potrebbe legittimamente chiedere a quali scuole iniziatiche apparterrebbe quella che ha selezionato cotanta élite! Delle due, l’una: o tali “Autorità” sono di manica larga nel selezionare neofiti (il virgolettato spiegando allora molte cose…), ovvero, cosa più probabile, non hanno la minima idea di quello che questi ultimi stanno promuovendo, il che non le scagiona comunque, da una inspiegabile “ingenuità”. Anche perché: “…La citazione appena riportata è comunque interessante perché rivela che per Anonimo [il sottoscritto, ndr.] si tratta inevitabilmente, in fondo, di affidarsi a una qualche autorità, pena il non poter contare su nulla e nessuno, e cadere nello scetticismo: ogni possibilità di conoscenza (e non di “assentimento”) è esclusa dal nostro [cit. C. Rocchi]…”, obiezione che mi veniva calata dall’alto dagli “ativarna”, non depone molto a favore dell’esattezza che, il gruppetto non-duale, si è fatto del concetto di “Autorità”, concetto che potrebbe non essere punto conosciuto dalla “fonte” che si vorrebbe a capo di questa iniziativa da loro promossa.
      GATTO

      Elimina
    11. Gentile Maitreyi,
      vorrei innanzitutto ringraziarla per i dettagliati e interessanti interventi. Devo dire che quel poco che sapevo sul Vedanta non era preciso e accurato e quindi mi scuso in anticipo per eventuali mancanze. Ho due precisazioni che vorrei chiederle. Innanzitutto cosa si intende esattamente con purificazione della mente. É un concetto che non trovo del tutto chiaro. La seconda domanda riguarda le vie del non-Supremo: lei dice che sono legate all’azione, quindi mi chiedo sono esse parte del samsara? ma allora non servono per uscire dal samsara?
      Mi scuso se le domande sono banali, e la ringrazio in anticipo per la gentile attenzione.
      Ernesto Benni

      Elimina
    12. 1- Sig. Ernesto Benni, le sue due domande sono strettamente connesse tra loro; questo dimostra che lei ha intuito che si tratta d’un unico argomento d’indagine. Le diverse vie del non-Supremo fanno tutte parte del karma kāṇḍa: la loro caratteristica comune consiste in un percorso da compiere al fine di raggiungere una meta prefissata, oggetto del desiderio (kāma) del sādhaka. La meta desiderata è rappresentata dalla iṣṭadevatā, la divinità personale indicata dalla via iniziatica di appartenenza. Tale divinità è identificata a un simbolo che la rappresenta, un mantra, per esempio, la cui continua ripetizione conduce a un progressivo avvicinamento del devoto in direzione della meta desiderata. La ripetizione di rituali compiuti con il corpo, con la parola e con la mente (meditazione) appartiene al dominio dell’azione, perciò è una via mediata e a tappe. Anche la via del Supremo o jñāna kāṇḍa persegue una meta desiderata. La differenza sta nel fatto che ciò che si desidera è il proprio Sé, non altro da Sé, come accade nel primo caso. Il Sé, l’Ātman, è il cercatore stesso (jijñāsu), perciò costui non deve percorrere alcuna distanza che lo separa dalla meta. Il suo desiderio nemmeno è kāma, perché kāma è il desiderio di raggiungere una meta diversa da Sé. In questo caso il desiderio è mumukṣā, la Liberazione dal saṃsāra, che è la sua eterna natura di Brahman. In questo caso l’oggetto del desiderio non è oggetto, la meta non è meta, la via non è via. C’è solo da scoprire ciò che si è già. In questa prospettiva “[Il Sé] non può essere identificato con il simbolo, perché [il sādhaka] non pensa di essere tale” (BS IV.1.4). La conoscenza del Sé è immediata, fuori di tempo, spazio, causa, effetto, soggetto, oggetto, simbolo, rito e da ogni altra relazione; tutti condizionamenti, questi, che appartengono al dominio dell’azione, del saṃsāra. E con l’azione non ci si può liberare dal dominio dell’azione. L’errore fondamentale che certuni compiono è quello di voler considerare la via dell’azione, del rito, del simbolo sullo stesso piano della ‘via’ della conoscenza. Invece la via della conoscenza inizia dove si conclude la via del non-Supremo.

      Elimina
    13. 2- Come scriveva uno dei nostri collaboratori su Veda Vyāsa Maṇḍala: “In questo breve studio si è voluto ridimensionare la meditazione tipica delle vie del non Supremo, al fine di mettere in risalto l’inarrivabile differenza che intercorre tra upāsanā e il Vedānta vicāra. Lo scopo è stato quello di fornire al cercatore serio e sincero gli strumenti per comprendere l’abissale distanza intercorrente tra le vie dell’azione e la via della conoscenza. Considerando che questo scopo è stato ampiamente raggiunto, aggiungeremo una annotazione sommamente indispensabile. Una volta rettificata l’utilità dell’azione (karma) nel percorso iniziatico, dobbiamo aggiungere che il karma khaṇḍa è insostituibile al fine di arrivare al jñāna khaṇḍa. […] Perciò il karma khaṇḍa rappresenta, per i nostri tempi, l’avvio regolare verso la conoscenza. Certamente, anche tra coloro che hanno intrapreso una via iniziatica basata sulla meditazione dei simboli, solo una esigua minoranza s’è indirizzata al raggiungimento della Conoscenza suprema. Chi ha cercato iniziazione, maestro, yantra, mantra, tantra non per restaurare tutte le potenzialità della propria individualità, per raddrizzare la situazione cosmica, per comprendere la totalità dei misteri del cosmo, per divertirsi a paragonare fra loro il significato dei simboli, ma all'unico scopo d’ottenere la vera conoscenza del Sé, allora costui potrà accede alla via che conduce alla meta suprema. Entrando nel Vedānta, ossia nella via della conoscenza (jñāna mārga), s’accorgerà che la prima parte della sua vita iniziatica aveva avuto l’unico scopo di purificare la mente in modo da essere capace di comprendere la verità metafisica. In tal caso, e solo in questo specifico caso, l’iniziato avrà percorso una via che la Bhagavad Gītā definisce karma yoga. La via del non Supremo allora si rivela essere stata la preparazione per il mokṣa” (Gian Giuseppe Filippi, Meditazione sul simbolo e Contemplazione dell’Assoluto.).

      Elimina
    14. 3- “Questo [Adhyātma] Yoga di cui s’è trattato negli ultimi due capitoli, e che è caratterizzato dall’impegno verso la conoscenza e la rinuncia, può essere ottenuto per mezzo del karma yoga” (BhG IV, prasthāva). A questo punto si deve definire con chiarezza cos’è la purificazione della mente: “Con karma yoga il Vedānta intende la purificazione della mente come preparazione alla via della conoscenza. Non ha, perciò, in vista l’ottenimento dei risultati postumi dei riti iniziatici, yantra, mantra e tantra. Yantra è la meditazione sul simbolo compiuta con il corpo, mantra la meditazione sul simbolo parlato, tantra la meditazione interiorizzata” (Maitreyī, La dottrina advaita dell’avatāraṇa, VVM). Per essere più chiari, l’iniziato che non è dotato di qualifiche straordinarie fin dalla nascita, dovrà forzatamente rivolgersi a una via del non-Supremo per ottenere l’iniziazione e il metodo corrispondente. Ma, a differenza degli altri discepoli che desiderano avvicinarsi alla divinità personale per poi unirsi a essa, egli desidera la conoscenza del Sé. Perciò non compie le prescrizioni metodiche per raggiungere una meta, ma per liberare il proprio intelletto da tutte le inclinazioni individuali (vāsanā, saṃskāra) che sono d’ostacolo alla conoscenza. La sua via a tappe è esattamente la medesima percorsa dagli altri, ma la sua intenzione è libera dal desiderio di raggiungere le varie mete intermedie e persino la meta finale. Una volta raggiunto il culmine, a differenza degli altri, non si arresta per fruire del risultato beatifico nel suo ānandamaya kośa. Riconosce che quest’ultimo è ancora soltanto un ‘involucro’ formale e non l’Ātman in sé. Perciò è pronto a passare all’Advaita Vedānta per ricevere con la mente purificata l’insegnamento finale che fa emergere l’eterno stato di Liberazione totale.

      Elimina
    15. Gentile Maitreyi, la ringrazio nuovamente per le sue risposte oltremodo interessanti. Ho letto con attenzione diversi articoli che compaiono su Veda Vyasa Mandala e devo dire che si trovano ben esposte le risposte alle mie domande. Con molto piacere attendo ulteriori interessanti articoli, che fanno luce su temi poco trattati ( o mal trattati) in occidente, e che soprattutto danno un nuovo respiro a molti "cercatori". Ernesto Benni

      Elimina
  56. PUBBLICATO SULLA PAGINA FACEBOOK “IL REGNO DELLA QUANTITÀ E I SEGNI DEI TEMPI”, 16 SETTEMBRE 2020 - «Veda Vyāsa Mandala»: un induismo sui generis e il suo ostracismo per l’islam.

    “Alla luce di quanto realmente detto da Guénon su questo tema, ci si dovrebbe allora chiedere per quale motivo, fra tutte le considerazioni che si sarebbero potute fare, si sia voluto giungere alla conclusione che il fenomeno delle migrazioni in Occidente sia causato dalle «più basse caste islamiche, ormai spudoratamente inviate in Europa da ben noti agenti della contro-iniziazione». SAREBBE PIÙ LOGICO, AL MASSIMO, VEDERE IN TUTTO CIÒ UN SEGNO PREMONITORE DELLA POSSIBILE ATTUAZIONE DELLA SECONDA IPOTESI ESPOSTA DA GUÉNON, LA QUALE PREVEDE APPUNTO COME CONSEGUENZA UN PERIODO TRANSITORIO DI RIVOLUZIONI ETNICHE. Del resto, nel 1948, a seguito dell’aggravarsi dello stato di decadenza dell’Occidente, René Guénon affermò, in un’aggiunta alle conclusioni di Oriente e Occidente, come sembrerebbe oramai verosimile aspettarsi prima o poi un intervento da parte dell’Oriente: «Da parte nostra non possiamo se non ripetere che l’unico vero rimedio consiste in una restaurazione dell’intellettualità pura; purtroppo da questo punto di vista le probabilità di una reazione che provenga dall’Occidente in quanto tale sembrano diminuire ogni giorno di più, giacché quel che di tradizionale rimane in Occidente è sempre più contaminato dalla mentalità moderna, e di conseguenza sempre meno atto a costituire un solido fondamento per una tale restaurazione; cosicché, senza escludere nessuna delle possibilità che ancora possono esistere, pare più che mai verosimile che l’Oriente debba intervenire più o meno direttamente, nel modo da noi esposto, se un giorno o l’altro questa restaurazione dovrà realizzarsi».
    (continua)

    RispondiElimina
  57. È DAVVERO SURREALE PERTANTO CHE, INNANZI ALL’OSSERVAZIONE DI ALCUNI FENOMENI MIGRATORI, SI DEBBA GIUNGERE ALLA CONCLUSIONE CHE QUESTI SIANO IL FRUTTO DI UN’OPERA ORCHESTRATA DA ALCUNI AGENTI DELLA CONTRO-INIZIAZIONE; per chi, come gli autori di queste recensioni, dichiari di far riferimento all’opera di Guénon, DOVREBBE ESSERE NOTO CHE UN’EVENTUALE ASSORBIMENTO DELL’OCCIDENTE DA PARTE DELL’ORIENTE, CON IL CONSEGUENTE SVILUPPO DI RIVOLUZIONI ETNICHE E DI FENOMENI ANALOGHI, PUÒ AVVENIRE SOLO TRAMITE LA MEDIAZIONE DI UN’ÉLITE INTELLETTUALE PREVENTIVAMENTE COSTITUITASI IN OCCIDENTE: «Tale assimilazione, che corrisponde alla nostra seconda ipotesi, presupporrebbe, come condizione minima, l’esistenza in Occidente di un nucleo intellettuale, che, sia pur formato da una élite ristretta, fosse così saldo da diventare l’indispensabile mediatore per riportare la mentalità generale verso le fonti della vera intellettualità, imprimendole una direzione di cui non occorrerebbe, del resto, che la massa fosse consapevole. Non appena si ammetta un arresto di civiltà, solo la costituzione preventiva di un’élite simile appare dunque in grado di salvare l’Occidente, nel momento dato, dal caos e dalla dissoluzione; e d’altronde, perché i detentori delle tradizioni orientali si interessassero alla sorte dell’Occidente, sarebbe essenziale mostrare loro che, se l’intellettualità occidentale considerata nel suo insieme merita i loro giudizi più severi, possono tuttavia esistere onorevoli eccezioni, che indicano come il decadimento di tale intellettualità non sia del tutto irrimediabile. Abbiamo detto che il verificarsi della seconda ipotesi NON SAREBBE PRIVO, ALMENO TRANSITORIAMENTE, DI CERTI ASPETTI PENOSI, DATO CHE L’ÉLITE, IN UN’AZIONE DOVE L’OCCIDENTE NON AVREBBE L’INIZIATIVA, FUNGEREBBE SOLO DA PUNTO D’APPOGGIO». PER EVITARE SIFFATTI FRAINTENDIMENTI, COSÌ COME ALTRI DI SEGNO OPPOSTO, SAREBBE SUFFICIENTE, QUINDI, DECLINARE OGNI RADICALIZZAZIONE, MA SOPRATTUTTO DIFFIDARE DALLE APPARENZE, POICHÉ DAL PUNTO DI VISTA INIZIATICO, IN CUI ANCHE GLI SQUILIBRI CONCORRONO ALLA REALIZZAZIONE DEL GRANDE EQUILIBRIO FINALE, TUTTE LE MODIFICAZIONI DELL’AMBIENTE, ANCHE QUELLE CHE SI ESERCITANO NEI CAMPI PIÙ SECONDARI, POSSONO CONDURRE, NONOSTANTE IL LORO CARATTERE ACCESSORIO E APPARENTEMENTE FUNESTO, A DELLE CONSEGUENZE CHE, BENCHÉ DI NON IMMEDIATA APPLICAZIONE, POSSONO RISULTARE UTILI ALLA FUTURA AZIONE DELL’ÉLITE INTELLETTUALE: «ALLÂH FA ENTRARE LA NOTTE NEL GIORNO E IL GIORNO NELLA NOTTE» (Corano XXII;61).”

    RispondiElimina
  58. Argomenti che trovo di un certo interesse. Non sono sicuro di aver compreso correttamente "CHI dice COSA", ma sembra che vengano trattati questi temi su Facebook, il che esclude la possibilità che io possa accedervi. Allora, senza attribuire la paternità alle varie affermazioni che vengono riportate, faccio qualche breve osservazione secondo il mio punto di vista. I fenomeni migratori sono troppo grandi per essere qualcosa di spontaneo e non può non esserne coinvolta la contro iniziazione, così come intesa da R.Guènon. Questo non esclude affatto la possibilità che gli "agenti coscienti" che spingono verso questa direzione stiano inconsapevolmente gettando le basi per qualcosa che a loro sfugge completamente e che sarà realizzato più avanti nel tempo. Siamo allora di fronte al ben noto concetto secondo il quale "la somma dei disordini finirà per realizzare l'equilibrio totale", nel senso che ogni disordine parziale (tale solo se visto parzialmente) si cancellerà nell'ordine totale. Ma la migrazione in sé è una sorta di rituale oscuro e collettivo che, alimentato da psichismo di basso livello e comportando anche sacrifici umani, non manca di riservare aspetti macabri che qualcuno sfrutta per i propri obiettivi; che sono quelli di alimentare il caos ad ogni livello. Ma anche la cosiddetta contro-iniziazione non può che lavorare senza saperlo affinché le cose vadano così come devono andare. Circa "le più basse caste islamiche", non so di cosa si tratti, a meno di ulteriori precisazioni. D'altronde è noto che il fenomeno migratorio sia alquanto generalizzato e prescinda da una possibile relazione diretta ed esclusiva con l'Islam, coinvolgendo le popolazioni più varie e disparate. Dubito fortemente in una restaurazione fattuale dell'intellettualità vera, in occidente come altrove. Intendo in questo Manvantara, finché perdura il Kali Yuga; senza che si possano fornire date precise, anche se qualcuno si è avventurato in questa direzione, elaborando certi dati tradizionali ed ottenendo certi risultati che sembrano essere abbastanza credibili. Ne consegue allora che niente potrà opporsi alla catastrofe finale che sarà tale per "questo mondo" che ha "abbandonato il cielo con la scusa di conquistare la terra". E la vera élite non potrà che preparare la transizione radicale imminente.....e, secondo Guénon, con un'azione che forse sarà visibile anche esteriormente, purché si sappia riconoscerla. In tal caso, se anche l'essenziale di tale azione sarà invisibile, vi sarà la possibilità per alcuni, per così dire, di fruire del suo "influsso positivo", allo stesso modo di chi può sfruttare il passaggio di un corpo celeste per vedere nel buio e riprendere la giusta direzione, o invece le barriere della profanità saranno insormontabili?

    RispondiElimina
    Risposte
    1. @arvo, questo è il link di accesso, per visualizzare il quale non è necessario avere Facebook:

      https://www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=il+regno+della+quantit%C3%A0+e+i+segni+dei+tempi+facebook

      GATTO

      Elimina
    2. Questo il link diretto all'articolo in oggetto:

      https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=3347734588626467&id=2114120328654572&__tn__=K-R

      GATTO

      Elimina
    3. Grazie per l'indicazione. Al più presto cercherò di leggere con la giusta attenzione. Il fatto che non siano questioni strettamente dottrinali, non vuol dire che le si debba affrontare con disinvoltura. Un saluto.

      Elimina
    4. PROPAGANDA FIDEI

      Elimina
    5. Fammi capire 'mangia gatti', tu posti uno stralcio di 'Oriente e Occidente' (a che titolo, non si capisce...) riportato in un articolo sul sito de IL R.d.Q.e i S.d.T.; arvo chiede di sapere "CHI dice COSA"; io glielo indico e tu salti fuori con la 'Propaganda fide' (non fidei)? Il tuo intento era forse quello di ottenere che gli ultimi papabili ‘adoratori’ di Guénon, capitati qui per caso, dopo aver letto i tuoi maiuscoli, se la dessero a gambe levate, scappando inorriditi da chi minaccia 'bombe atomiche' come il sottoscritto, segno inequivocabile di truce disegno terroristico? Ahimè, caro vicentino, l’Occidente non ha affatto bisogno di minacce islamiche di sorta per soccombere: sta implodendo, per sua cagione, da solo senza l’aiuto di nessuno. Per quello che mi riguarda, sono del parere che si verificherà la peggiore delle ipotesi enunciate da Guénon e cioè quella che vedrà l’Occidente, abbandonato a se stesso, precipitare nella peggiore barbarie: “l’abomino delle desolazione”! Certo, tali esegesi illusorie appannaggio delle viuzze del non-Supremo, ininfluenti quindi per tutti quelli (ambisci anche tu al gruppetto non-duale?) che avranno la fortuna di partecipare al progetto di VVM, per il quale esistono solo corde, giammai serpenti, sono cosucce da nulla, ma per noi poveri duali, la cosa si presenta in modo del tutto diverso, quindi spero non te ne abbia a male se ancora, individui squalificati per le vette vedantiche, insistono ad andare pervicacemente “fuori tema”.
      Cordialità
      GATTO

      Elimina
  59. Guénon ridotto a Nostradamus. Complimenti!
    Gatto saccente, non corregga se non sa. Esiste “De propaganda fide” o “Propaganda fidei”. Tertium non datur. È la seconda volta che, su questo blog, Gatto corregge il latino sbagliando. Può tranquillamente visitare la mia città: noi siamo magnagatti, non mangiamo asini.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Premessa: dopo essere stato apostrofato come uno che difende mafiosi, terrorista e adesso anche asino, non credo sarebbe peregrino andar giù di brutto con le offese, per rispondere colpo su colpo, ma nonostante tutto, per rispetto di questo blog, che se non altro, per una comica “heterogonie der zwecke”, ha contribuito a smascherare il vero intento di tutta questa messinscena supportata da un claque degna del miglior circo Barnum, credo non si buona cosa lasciarsi prendere la mano…

      Detto questo, la mia precedente correzione alla de’ Fenzi, che verteva non sul latino in sé, ma sull’inadeguatezza dell’aspetto formale con cui aveva trascritto la locuzione “repetita iuvant” [se voleva coniugare, come ha fatto, il verbo nel modo corretto, non doveva mettere il virgolettato (“repetita iuvent”), così facendo sfalsando la locuzione stessa che deve rimanere sempre tale e qual è], ha appunto gli stessi connotati di questa; siccome il “mangia gatti” (mi limito a questo epiteto perché, come aveva notato qualcuno, “un vicentino” come pseudonimo era voluto, visto che il mio è “GATTO”, quini nessuna offesa…) crede che abbia corretto il suo latino, non ha capito che contestavo, come lui esplicita nella risposta, che ci sia un’alternativa a “Propaganda fide”: oltre a non esserci un “tertium”, non c’è nemmeno un “secundum”.

      “Propaganda fide. La Sacra congregazione "de propaganda FIDE" è il dicastero pontificio nel quale si concentra la direzione e il governo generale dell'attività missionaria cattolica nel mondo; risale a Gregorio XV, il quale con la bolla Inscrutabili divinae (22 giugno 1622) risuscitò la congregazione "super negotiis FIDEI et Religionis Catholicae", la cui istituzione era stata decisa il 6 maggio 1599 da Clemente VIII nell'udienza concessa al cardinale Giulio Antonio Santori, e che ebbe però brevissima vita. [i maiuscoli sono miei, ndr.]”.

      Ma se si volesse anche parlare di latino, leggi e impara:
      “Sacra Congregatio de Propaganda Fide:
      E qui nasce la prima difficoltà, perché per noi propaganda è un nome, ma in latino non lo è – non lo è mai stato.
      Propaganda in latino è quella forma verbale, che in italiano non esiste, ma che ha lasciato diverse tracce (agenda, faccenda, reverendo, esaminando…): un gerundivo. È un aggettivo verbale, che indica un’azione che deve essere fatta relativamente ad uno specifico oggetto. Quindi, al nominativo, propaganda fides significa “la fede che deve essere diffusa, propagata”. (In latino, il sostantivo che corrisponde a quella che noi chiamiamo propaganda l’abbiamo già visto, è quella propagatio che dal campo agricolo si estende metaforicamente molto in là.)
      Vediamo quindi la traduzione del nome di quest’istituzione:

      •Sacra congregatio… e qui è facile: “Sacra Congregazione”; Propaganda Fide nasce come una congregazione, noi oggi diremmo una “Commissione”, di cardinali, sotto la diretta presidenza del Papa.

      •…de fide… complemento di argomento che sottintende “che si occupa”: di che cosa? “della fede”…

      •…propaganda: “che deve essere diffusa”.

      PICCOLO PETTEGOLEZZO: CONOSCO UN PRETE, UOMO DI OTTIMA CULTURA, E PARTICOLARMENTE INTERESSATO ALLA STORIA DELLE MISSIONI, CHE PRONUNCIA PROPAGANDA FIDEI, EQUIVOCANDO COMPLETAMENTE IL LATINO, COME SE FOSSE “LA PROPAGANDA DELLA FEDE” (FIDEI È IL GENITIVO DI FIDES).

      Quindi, riassumendo: in latino, propaganda non è un nome, ma una forma verbale: un gerundivo, declinato all’ablativo femminile singolare, perché concorda con fide. [i maiuscoli sono miei, ndr.]”.

      Ecco, alla luce di ciò, rispondere a uno che vaneggia di Guénon/Nostradamus, che senso avrebbe?

      GATTO

      Elimina
  60. Tutti questi attacchi verso la figura di Guénon non mi stupiscono per nulla.
    Ho il sospetto - si tratta però più di certezza interiore corroborata dalla logica - che non pochi, e qui non entra in questione la mala o la buona fede, potendo essere buona parte di tali personaggi assolutamente burattinati da "forze" altre, provino a demolire la sua opera, invero di pregevole fatta, col fine di mantenere in vita quel mondo moderno, quello statu quo così bene ridicolizzato, messo all'angolo, maciullato dal Nostro attraverso il suo noto estro - qui inteso alla maniera degli antichi Elleni - adamantino. Ecco allora sbucare di qua colui che cerca di coglierlo in fallo su certi dati di secondaria importanza - sovente a dire il vero insignificanti! - circa la sua esposizione metafisica; colà altri aggrediscono la sua persona, ponendo in opera la solita confusione messaggio-messaggero; di là c'è chi insinua senza dimostrare alcunché etc.

    Non so come si possa criticare con nonchalance un metafisico che ad es. aveva predetto tra le altre: la riverenza assurda e superstiziosa verso la "scienza" materialistica assurta a nuovo dio degli atei e di incerti "religiosi", la sempre crescente pretesa di certe "scienze" moderne di ricollegarsi a saperi tradizionali e la conseguente illusione di poterli confermare o smentire, la volatilizzazione della moneta contante, cosa di cui gli "esimi" professoroni economisti dell'epoca nemmeno sospettavano; e tutto ciò utilizzando la sapienza antica... chapeau davvero.

    Guénon coi suoi limiti, che pure c'erano, ha quasi sempre colto il senso della realtà e basta leggersi il suo capolavoro " Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi" per rendersene conto da sé a meno che non si sia affetti da malafede acuta e per quella non vi è cura alcuna.

    Se i suoi detrattori, in specie i fanatici cattolici - li cito perché abbondano e si fanno notare per l'abnorme cecità e viscida doppiezza, oltreché per l'irrimediabile stupidità -, possedessero un millesimo dell'acume del francese forse, e dico forse, potrebbero parlare, ma sono gusci pieni di nulla e quindi si occupassero dei fatti loro.

    Un saluto speciale ad arvo (che seguo dai tempi in cui commentava sul blog di VV)

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Nel ricambiare cordialmente il saluto (con una frequenza ridotta che sconfina nella latitanza, vado qualche volta sul blog di VV, giusto per trovarvi qualche ulteriore spunto polemico contro gli untori virtuali del momento),sto tutt'ora trovando giovamento dalla lettura delle varie opinioni espresse qui, nel sito, al netto delle varie polemiche che condiscono le argomentazioni. E così sto consultando anche "Studi sull' Induismo" e in seguito "Oriente e Occidente" di R. Guénon, per avere una panoramica più completa. E' effettivamente trascorso troppo tempo dall'ultima lettura. Poi vorrò capire meglio quali sono le obiezioni che in merito vengono mosse da altri. Tra l'altro sono del tutto d'accordo circa "l'abnorme cecità...e irrimediabile stupidità" dei cattolici ciechi e fanatici del nostro tempo. La sensazione è che ci si trovi in epoca "post cristiana" e che i riti del Cattolicesimo non trasmettano più nulla. Troppi i segni che spingono a crederlo.
      Un saluto.

      Elimina
    2. Sono d'accordo, arvo, sul fatto che con ogni probabilità il cattolicesimo ed il cristianesimo in generale non trasmettano più alcun influsso spirituale, anzi. Io - mi rendo conto di sostenere una posizione decisamente estrema - mi spingo oltre, affermo che nei culti decotti, questo non vale soltanto per la succitata religione, ad un certo punto la degenerescenza, spinta oltre ogni limite immaginabile, comporti un cambiamento di segno: non più influenze spirituali ma, al contrario, richiami di forze "infernali".

      Troppi ... troppi gli indizi che lo fanno pensare: fedeli creduli sino al lambimento della stolidezza più fonda - quel che vuole il sistema di potere, no? -; rappresentanti di certi culti diffusissimi a livello planetario, che incarnano la parodia massimamente ridicola di autentiche autorità sovraumane (caso esemplare e disgustoso, ad es., quello del ciarlatano d'arancio vestito...); atei od comunque increduli, spessissimo assai migliori dei fedeli etc.

      Un saluto

      Elimina
    3. Anche il buffone argentino vestito di bianco non scherza e certamente vaneggia e sproloquia. Che commenti vogliamo fare, quando si risolve a dire che : "se potessimo ascoltare la Trinità al suo interno, sentiremmo che litiga...." e stupidaggini del genere. Che, dette in altri tempi, gli sarebbero costate financo la vita.
      Quanto agli "influssi negativi", ho avuto modo, diciamo, di osservarne gli effetti in talune sorprendenti circostanze, con scarse possibilità che si fosse trattato di semplici coincidenze; piuttosto sembrava di trovarsi effettivamente di fronte a quei casi dei quali può dirsi che forze psichiche disgregate, slegate, agiscono producendo effetti nefasti nei confronti di chi vi è incautamente esposto. Il riferimento è a quei centri del cristianesimo che furono, in passato, "poli d'attrazione" per le folle di fedeli e che ancora oggi costituiscono mète di pellegrinaggio e luoghi di culto. Siamo allora, forse, in quei casi nei quali le forze spirituali si sono effettivamente ritirate, entrando in latenza, esattamente come accade per le iniziazioni che per vari motivi hanno perduto la loro efficacia. Inutile entrare nel dettaglio e nello specifico di certi fatti. A tutto questo poi si dovrebbero aggiungere tutte quelle circostanze nelle quali la sovversione ha imbrogliato le carte al punto di far credere di essere di fronte a "manifestazioni celesti",(tipo Medjugorie o apparizioni mariane di Anguera), invece che basse rappresentazioni medianiche, quali realmente sono.

      Elimina
    4. Già, papa Imbroglio. Che fine misera ha fatto la Chiesa cattolica per arrivare a farsi rappresentare da un tizio così...
      Quantomeno una volta i papi incutevano un certo timore reverenziale nei fedeli, ora invece...

      Credo sia segno lampante di un sempre più prossimo inabissamento del colle dei vaticini.

      Elimina
    5. Per chiudere molto sinteticamente le precedenti considerazioni, credo si apra, nel nostro tempo, un problema alquanto drammatico. Fu proprio R. Guénon a sottolineare l' importanza, per l'essere umano, di sottoporsi alla ritualità religiosa comune, parlando di "necessità dell'exoterismo". Necessità ribadita, successivamente, a più riprese, da alcuni suoi epigoni. Interessante, a questo proposito, la critica che fu indirizzata ad Evola proprio su questo punto, in uno scritto a firma Giovanni Ponte. Ma eravamo ancora negli anni '60 e solo allora si concretizzavano i nefasti effetti di un lungo lavoro sotterraneo che portò la Chiesa alla deriva del Concilio Vaticano II. Se ci atteniamo alle conclusioni di cui sopra (circa la chiusura della dimensione spirituale),ci si dovrebbe chiedere cosa è ancora concesso a chi si sente chiamato a qualcosa di più rispetto alla comune religiosità (priva ormai di ogni valore),mentre attorno si realizza la deriva alienante nell'assenza di ogni jus sacrum e ogni riferimento al sovrannaturale. Situazione che si manifesta qui in occidente ma che si va rapidamente generalizzando.

      Elimina
    6. Il problema, arvo, come lei ben dice è senz’altro drammatico, ma non punto irrisolvibile, a meno che lei non consideri il “sottoporsi alla ritualità religiosa comune”, una prerogativa afferente in via esclusiva solo alla tradizione cristiano-cattolica, la sola che, per sua volontà, ha voluto tagliarsi fuori - negandolo prima e mistificandolo poi, quando non è più stata in grado di argomentare sulla sua semplice inesistenza -, dall’esoterismo, ovvero dalla propria ragione d’essere. Guénon inoltre, non ha mai considerato tale particolare tradizione “priva ormai di ogni valore”, che in riferimento “a chi si sente chiamato a qualcosa di più”, non in sé. PS: per quanto condivida in buona parte quanto da lei e da G.P Brunel sostenuto, non è mai buona cosa parlare di un Papa descrivendolo come un “buffone argentino vestito di bianco”, senza aver la cura di specificare che, caso mai, sarebbe al Sig. J.M. Bergoglio che andrebbe, non dico legittimamente, ma almeno comprensibilmente indirizzato tale epiteto.

      GATTO

      Elimina
    7. Capisco la sua osservazione, però credo che il sig Bergoglio non sia affatto un papa, per il fatto che la sua elezione è del tutto illegittima. Altrimenti non avrei usato quell'espressione. Chiunque abbia fatto una anche breve ricerca attorno al novero delle stupidaggini proferite da questo individuo, non può che rimanere sconcertato e non può che chiedersi quale sia la sua reale funzione all'interno della (pseudo?) Chiesa attuale. Tipo, per non fare che un esempio, il dire di avere le prove del "fallimento di Dio". Ma potrei aggiungere la perla del suo collaboratore colombiano che ha osservato acutamente che "non si può saper quali furono le parole dette realmente da Cristo...perché allora non c'era il registratore"!!!!!! E poi che "Gesù con quella Maddalena li non era mica uno tanto pulito" o che "se Maria lo educava diversamente non avrebbe fatto la fine che ha fatto" e.....non aggiungo altro perché si tratta di autentiche bestemmie proferite in sconcertante libertà. Il fatto poi che invochi la produzione di un "vaccino universale" che cementi e protegga tutta l'umanità e che dialoghi con i mandanti della sovversione mondiale ( tipo google e protagonisti della "rivoluzione digitale" in atto), oltre a circondarsi di gente tipo mons Francesco Camaldo detto Jessica (a causa di certi suoi vizietti notturni...), non aggiunge niente di buono, non le pare?
      Ovviamente tutto quello che ho riportato è facilmente controllabile, tanto che vien voglia di rileggere gli ultimi capitoli di "il Regno delle Quantità" di R. G., magari per cercare di formulare qualche ipotesi sui bergogliani "segni dei tempi". Mala tempora currunt.
      Un saluto.

      Elimina
    8. Guardi, arvo, non seguo molto da vicino le vicende della Chiesa cattolica, per cui nemmeno sapevo nel dettaglio di queste cose, molto preoccupanti invero, di cui mi parla, anche se era facile intuirne la tendenza, ma quello che volevo dire è che comunque si ha sempre a che fare con la funzione papale, per il rispetto della quale va usato, a mio avviso, un altro linguaggio, pur se chi la ricopre non ne è affatto degno, tutt’altra cosa dall’occuparla illegittimamente. Che Bergoglio, anche dopo i suoi aggiornamenti, arvo, non lo sia punto, mi pare chiarissimo, ma anche qui, pur nella sua drammatica evidenza, di Papi ben più perniciosi anche se meno appariscenti, ce ne sono stati a iosa nella Chiesa: due per tutti, i fautori del Concilio Vaticano II, Giovanni XXIII e Paolo VI, i veri e soli, anche se incoscienti (?) e in buona fede (ah, questa “buona fede”!...), iniziatori del declino inarrestabile che è sotto gli occhi, non di tutti, ma di chi sa vedere. E per chi sa vedere, ormai pochissimi e con le restrizioni del mio precedente commento, e per rispondere alla sua insinuazione “(pseudo?)”, è predetto che la possibilità di salvezza dovrà persistere fino alla fine dei tempi: “…Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28, 20)”. Come diceva Guénon, un male per quanto necessario, non smette per questo di esserlo e come tale va combattuto da chi riesce a individuarlo, ma resta non di meno una componente essenziale affinché tutto possa compiersi.
      Contraccambio i saluti
      GATTO

      Elimina
    9. Non trovo utile, nel rispetto delle posizioni altrui, ribattere nel dettaglio ogni singolo punto. Cosa che ho deciso anche dopo la risposta/commento ricevuto da Maitreyi. Non per sminuire gli interlocutori, ma al contrario per riflettere bene sulle opinioni altrui. In ogni caso osservo che la citazione Mt 28,20 è senz'altro suscettibile di varie interpretazioni tenendo conto dei diversi piani ai quali ci si attiene. Ed è certo che le stesse non possono entrare in contraddizione con altre citazioni possibili alle quali si può fare riferimento, anch'esse suscettibili di interpretazioni su diversi piani.[ .."Quanto a quel giorno e a quell'ora, però, nessuno lo sa, neanche gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre.] [.."Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri...."ma doveva rendersi manifesto che non tutti sono dei nostri.] [Daniele 9,27 :"..sull'ala del tempio porrà l'abominio della desolazione...e ciò sarà sarà sino alla fine"]. A me risulta che questo pseudo papa, in realtà non lo sia proprio perché la sua elezione è stata "tecnicamente" non valida. E la funzione pontificale non può essere conferita se non nel rispetto più rigoroso della regola tradizionale. Ma se il Conclave segue la Costituzione apostolica "Universi Dominici Gregis" promulgata da Giovanni Paolo II nel febbraio 1996....Credo non possa esserci iconoclastia nell'additare un conclamato millantatore. Per capire bene il Cattolicesimo, diciamo, "dall'esterno", preferisco un De Giorgio ad un Bergoglio, ma ovviamente posso sbagliare. E così non mi resta che contare su chi sa comprendere meglio di me.
      Ad maiora.

      Elimina
    10. Caro arvo, contrariamente a lei, invece, proprio per il rispetto delle opinioni altrui e per non sminuire gli interlocutori ( non entrando nell’agone, si sminuisce l’importanza dell’“avversario”…) , trovo estremamente utile ribatterle nel dettaglio, e non perché le opinioni contino qualcosa in sé, ma perché, tramite esse, rettificandole, si può risalire essendone capaci, alla orto-doxa, l’unica che ha valore. Lei adesso mi dice che, l’elezione dell’ultimo Papa è stata tecnicamente non valida? Bene, visto che non sono molto ferrato in materia, accetto di buon grado la sua precisazione che non posso che accogliere come ortodossia, “E così non mi resta che contare su chi sa comprendere meglio di me”! Quello che volevo evidenziare era solo il fatto che, se un’individualità in quanto tale, può anche essere non degna a ricoprire una funzione tradizionale, non vuol dire che sia, ipso facto, anche in una condizione di illegittimità, se le cose sono state fatte secondo i canoni, le specificità individuali non entrando minimamente in conto in queste faccende. Sul resto delle sue citazioni, anche, sono perfettamente in linea. Non mi resta perciò che il salutarla cordialmente.

      GATTO

      Elimina
    11. Per non sminuire la sua opinione, replico, ma senza intenzioni belliche di alcun tipo. Non si tratta però del problema di una "individualità in quanto tale" che pur con i propri limiti, sia in linea però con determinate "necessità tradizionali" e con il rispetto formale della norma che lo ha collocato al suo posto. Se così fosse, allora non si potrebbe che confermare quello che Lei sostiene e chiuderla qui.....magari col sollievo di chi si annoia, leggendo i post. Il papa, profondamente decaduto e molto più modernista di ciò che molti sono disposti ad ammettere, c'è, e si chiama Ratzinger. L'altro, voluto dalla mafia di S. Gallo e da altri gruppi di potere anti tradizionali (don Curzio Nitoglia parla anche di massoneria ebraica attiva fin dalla preparazione del Concilio V. II....senza aggiungere il necessario termine "pseudo"...), è li con uno scopo preciso. E' questo che intendo. Non bisogna scambiare l'apparenza per "rispetto delle regole formali". E comunque ritengo che Bergoglio non sia il papa, che sia un usurpatore e che attui un piano preciso per liquidare definitivamente quel che resta della Chiesa, diciamo, temporale, quella che si è affermata nella storia. Che non è quella creata dal Piano Divino, bensì quella simboleggiata dal tradimento di Pietro. Al dunque mi domandavo cosa trasmette oggi il rito cattolico addomesticato, vale a dire "che tipo di influenze". La mia opinione l'ho già espressa. Guénon scrisse fino a poco prima del '51 e non ha avuto modo di vedere cosa è accaduto dopo, né ha potuto conoscere la misura del declino fin troppo rapido e fatale del cattolicesimo. Il suo schema della "regolarità tradizionale" ha dei limiti precisi che andrebbero riconsiderati in situazioni come quella attuale. La pretesa per la quale la Chiesa sia ancora in grado di trasmettere "influenze spirituali" è come ritenere che si possa replicare Chopin suonando il sassofono. E' uno dei pochi punti attorno ai quali, credo, abbia ben visto Evola che non è certo il mio punto di riferimento. Naturalmente mi piacerebbe conoscere l'opinione di chi ne sa di più su questi temi. Specie considerando che l'unica India che potrò vedere nella mia vita è quella dei Sikh trapiantati dalle mie parti e l'unico Islam al quale ho accesso -a parte quello dei libri- è quello dei maghrebini "devoti" frequentatori di internet, spesso molto ma molto ignoranti.
      Un saluto cordiale.

      Elimina
  61. Già scoperto a copiare e incollare da Wikipedia (senza citare la fonte) una etimologia sbagliata di ‘schizofrenia’, il Gatto plagiario nuovamente copia e incolla (sempre senza citare la fonte) un pezzo tratto dal blog di tale Maurizio Pistone, nel tentativo di giustificare le sue ripetute défaillances di latino, aggiungendo anche errori altrui. Anche ‘l’amico prete’ citato (che il latino, invece, lo conosceva davvero!) è amico non del Gatto ma del sig. Pistone. Non c’è nulla di riprovevole ad ammettere di non sapere greco e latino. È riprovevole ostinarsi in pubblico a far credere fraudolentemente di conoscerli. Il nostro plagiario, poi distorce sempre il pensiero altrui: è lui e altri suoi sodali che hanno fatto di Guénon un Nostradamus del XX secolo!
    Un consiglio: si tenga alla larga dal padovano, dove è molto popolare la carne di “Musso” (che un fine glottologo, com’è il Gatto, saprà che è forma vernacolare per asino).

    RispondiElimina
    Risposte
    1. I
      Non varrebbe certo la pena di rispondere a cotanta ridicola e ostinata stupidaggine, se non fosse per il fatto che si deve assolutamente chiarire, per far capire quale sia il grado di comprensione di questi soggetti, che il processo di assimilazione di un testo scritto, non può, per questi soggetti, che prendere le mosse da un’inequivocabile, patologica condizione di analfa(e)betismo funzionale, di cui sono affetti. È da questa disastrata situazione, che non permette loro nemmeno di comprendere un semplice commento lineare, che avrebbero l’ardire di giudicare la complessità di un’opera come quella di Guénon. Da questa prospettiva quindi, non sarà certo inutile usare la risposta del Nostro, per far capire la logica paralogistica soggiacente a certe patetiche valutazioni e insinuazioni.
      Già affermare che sarei stato “…SCOPERTO a COPIARE e incollare da Wikipedia (senza citare la fonte)…” è indice di pura e semplice idiozia: ma se io metto tra virgolette una frase, sarebbe perché non voglio farmi scoprire a “copiare”? Forse a te non risulterà, ma questo strano procedimento, in tutto il mondo viene chiamato CITARE, non COPIARE! Sarei stato scoperto a copiare, e quindi passibile di plagio, se non avessi messo le virgolette, ma siccome ciò non è avvenuto, non si vede di cosa dovrebbe lagnarsi il nostro magnagatti! Non ho citato la fonte perché non era necessario in quel contesto, visto anche che, per chi fosse stato interessato, con una semplicissima ricerca di cui è stato capace persino il Nostro, che non brilla certo in perspicacia, vi sarebbe potuto facilmente risalire.
      Non è come non citare una fonte che si trova in un testo cartaceo, dove allora, sì, ci sarebbero delle difficoltà per un controllo, ma che comunque, anche in questo caso, non se ne potrebbe certamente concludere che la citazione non sia attendibile o falsa (mi è capitato anche qui di citare G. senza indicarne i riferimenti specifici): probabilmente scrivere un falso facendo credere che si sta citando una fonte è un procedimento in uso a Vicenza, in generale e dal ‘un vicentino’, in particolare, non certo presso il sottoscritto! Altra questione: perché sarebbe sbagliata l’etimologia di ‘schizofrenia’? Te ne posso riportare altre simili, e per gli scettici pigri, mettiamo pure la fonte ‘sta volta:
      “«schizo» = scissione + «frenia» = mente” https://schizinfo.com/parliamo/origine-du-mot-schizophrenie/?lang=it
      “derivazione di schizofrenia - dal tedesco Schizophrenie ( formato da schizo- ossia "schizo-", dal greco σχιζο cioè "scissione" e -phrenie ovvero -frenia, dal greco -ϕρενία che significa "mente") - letteralmente "scissione della mente".” https://sapere.virgilio.it/parole/vocabolario/schizofrenico
      “Etimologia: dal tedesco Schizophrenie formato da schizo- cioè "schizo-" (dal greco σχιζο- che deriva dal verbo σχίζω ossia "fendere, scindere, separare") e da -phrenie ossia -frenia (dal greco -ϕρενία, connesso a ϕρήν ϕρενός che significa "mente"); letteralmente "mente divisa." ” http://thesaurus.altervista.org/dict/it/schizofrenia...
      Mi pare possa bastare…

      Elimina
    2. II
      “Non c’è nulla di riprovevole ad ammettere di non sapere greco e latino. È riprovevole ostinarsi in pubblico a far credere fraudolentemente di conoscerli … (cit.)”! Veramente non so da che parte cominciare, tanto è l’imbarazzo che si prova a leggere certe scemenze … Vediamo un po’: pur non essendo totalmente a digiuno di greco e latino, non ne sono un grandissimo conoscitore, ma come si può accusarmi di aver fraudolentemente fatto credere in pubblico che li conoscerei, se mi sono avvalso delle citazioni per documentare la controversia? Ma, soprattutto, perché avrei tenuto a precisare che non erano sul latino in sé le mie puntualizzazioni, ma sulle locuzioni, delle quali, per sostenere la loro esattezza, non occorre conoscere il latino, ma l’esatto modo con cui sono universalmente divulgate? Su “repetita iuvant”, mi pare non sia il caso di tornarci. Su “Propaganda fide” invece, sì. Non esiste a mia conoscenza (e a conoscenza di tutti quelli che conosco e di tutte le fonti che ho consultato …) nessuna alternativa a la “Sacra Congregatio de Propaganda Fide” che per brevità viene di solito abbreviato in “Propaganda fide” (la prima citazione del mio commento precedente è tratta dalla Treccani, dove non si trova né lì, né in altri dizionari che ho consultato, nessuna “Propaganda fidei”), per cui, come si può evincere, anche chi parlasse ostrogoto e non latino, potrebbe certificare che la giustezza della locuzione non è quella di cui si è avvalso ‘un vicentino’. Nel tentativo di trovare qualcosa che assomigliasse a ciò che il magnagatti sosteneva, sono incappato nel sito di M. Pistone, laureato in Lettere, con un diploma di Liceo Classico, che gestisce un blog di “Lingua italiana e altra linguistica” (https://www.mauriziopistone.it/testi/linguaitaliana.html), ma che non conosce, per il Nostro, il latino e il greco, mentre lui sì: beate certezze! Non mi resta di meglio che meritarmi l’appellativo di ‘plagiaro’ riportando una frase senza virgolettato, con la speranza che nessuno si accorga che non è mia: non c’è nulla di riprovevole ad ammettere di non sapere greco e latino. È riprovevole ostinarsi in pubblico a far credere fraudolentemente di conoscerli! Per finire, voglio anche far notare, in dettaglio, che tutto quello che si trova dentro le virgolette, riguarda l’autore della citazione, non il redattore che la riporta; non si capisce per cui, la necessità di puntualizzare che il prete non sarebbe stato amico mio ma del Pistone: ma davvero? (le virgolette sono state aperte da “Sacra Congregatio… e chiuse a… [i maiuscoli sono miei, ndr.]”: e perché mai avrei scritto tra le quadre “i maiuscoli sono miei, ndr.”?.) Ultima cosa: io non distorco affatto il pensiero altrui. Avevo ben capito che ti riferivi a quelli che, non che hanno fatto diventare Guénon, ma che tu credi lo abbiano fatto diventare un Nostradamus del XX secolo, e questo perché, come si evidenziava all’inizio, la drammatica condizione da cui prendono le mosse le vostre conclusioni, sarebbe meglio dire elucubrazioni, parte da quell’analfabetismo funzionale di cui, tu e i tuoi sodali, siete irrimediabilmente e inconsapevolmente affetti. Questo nella migliore delle ipotesi, ma non è da escludere che, fermo restando tale deficienza, non vi possa essere in aggiunta, anche la pura, semplice, cara, solita e affezionata malafede, compagna vostra inseparabile.
      GATTO

      Elimina
    3. Colto in flagrante, il Gatto non recede. Vuole avere ragione a tutti i costi. Non si deve pensare che dia del tu agli interlocutori per maleducazione, ma perché è abituato a parlare in latino. Si ritiene persona di grande cultura, di fine intelletto e grande preparazione dottrinale. Quante volte il plagiario, copione, incapace di pensiero autonomo, ha scritto di volersene andare? Ma non si scolla da questo blog. Finalmente qualcuno lo legge. È felice anche di essere strapazzato, pur di rimanere al centro dell’attenzione. Per una volta seguirò il suo esempio: riporto un brano non mio che descrive perfettamente le affezioni del Gatto; io, però, cito subito la fonte senza trucchi e correzioni post quem: si tratta dell’Enciclopedia Treccani:
      Mitòmane s. m. e f. [dal fr. mythomane: v. mitomania]. – Persona affetta da mitomania, portata cioè alla fabulazione, a dare realtà alle creazioni della sua immaginazione, spesso vivendo in una realtà fittizia e cercando di imporre anche ad altri, come vere, situazioni puramente inventate: essere un m., una m.; la telefonata era opera di un mitomane; nell’uso com., millantatore, impostore, megalomane.
      Nella speranza che il Gatto se ne vada per sempre e che su questo blog si continui a leggere qualcosa di tradizionale senza il suo triste, vuoto e invadente pavoneggiamento.

      Elimina
    4. “Non si deve pensare che dia del tu agli interlocutori per maleducazione, ma perché è abituato a parlare in latino…(cit.)”: uno che mi dà dell’asino sindacalista sessantottino pretenderebbe anche il “lei”? Ogni modo (uso il solito ‘trucco’ di non citare la fonte): netiquette in uso sui social “...NON USARE UN LINGUAGGIO IRRISPETTOSO, TANTO MENO TERMINI TURPI. È una regola ovvia, ma in Internet, dove non c'è contatto diretto, si fa ancora più sentita. CIÒ NON TOGLIE CHE IN RETE CI SI POSSA TRANQUILLAMENTE DARE DEL "TU" LADDOVE, NORMALMENTE, SI USEREBBE LA TERZA PERSONA...(i maiuscoli sono miei, ndr.)”!

      “Quante volte il plagiario (?), copione (?), incapace di pensiero autonomo (?!?), ha scritto di volersene andare? (cit.)”: una volta soltanto! Se permetti però, sarà pure contraddittorio, ma farmi dare dell’asino, plagiario, copione, gratuitamente, non ci sto! La capacità di “pensieri autonomi”, inoltre, la lascio volentieri a quelli come te: chi si occupa di Tradizione se ne tiene ben alla larga, non ambendo affatto a “originalità” di sorta! Si vede che per il magnagatti, l’importante non è la giustezza del pensiero ma la sua indipendenza: tipica forma mentis antitradizionale moderna.

      “Finalmente qualcuno lo legge. È felice anche di essere strapazzato, pur di rimanere al centro dell’attenzione…(cit.): beh, qui non si può essere che in presenza di un vero e proprio patologico processo di “transfert”! Idem per la questione “mitomania” di cui, abbandonando per un attimo la sua autonomia di pensiero, il magnagatti, copiando dalla Treccani, ci ha reso edotti sul suo peculiare significato.

      Perciò, nella speranza che il magnagatti con il suo triste, vuoto e invadente pavoneggiamento resti per sempre qui, di modo che, su questo blog, si continui a leggere qualcosa di eminentemente antitradizionale, quale fulgido esempio di quale sia la “pasta” di cui sono fatti i seguaci del gruppetto non-duale, ti ringrazio per il contributo inconsapevolmente dato e ti saluto cordialmente.
      GATTO

      Elimina
    5. L’ultimo raglio del Gatto. Afferma quanto segue:
      “La capacità di “pensieri autonomi”, inoltre, la lascio volentieri a quelli come te: chi si occupa di Tradizione se ne tiene ben alla larga, non ambendo affatto a “originalità” di sorta!”
      Per questo motivo il Gatto riporta con fedeltà, senza aggiungere nulla di suo, ciò che gli è trasmesso da fonti tradizionali come Wikipedia o il sig. Maurizio Pistone! Questo per me è sufficiente: inutile infierire incrociando le armi con chi è disabile.

      Elimina
    6. Intanto “l’ultimo raglio” lo decido io quando dovrà essere emesso, non certo uno starnazzante linguacciuto polentone qualunque. Veder caldeggiata dall’omuncolo, che tiene bordone a un gruppetto che vaneggia di assoluta irrealtà delle cose che non siano il Sé, l’autonomia di pensiero individuale, invece che (tentare di) liberarsene, non ha prezzo (questa ridicolaggine fa il paio con l’altra della de’ Fenzi per cui è insindacabilmente l’allievo che decide quando il Maestro non gli va più bene…) e dà la misura, a proposito di disabili, di quale possa essere il grado di purificazione – e di modestia – della mente, dagli oggetti esterni ed interni, di certi soggetti che avrebbero pure la pretesa di essere qualificati per la via diretta alla Liberazione: una faccenda non si sa se più idiota o penosa! Adesso, poi, che abbiamo appreso dal linguacciuto che i dizionari ‘onlain’ non sono fonti sacre (e dire che avevamo un sospetto…), perché il loro impiego possa risultare di una qualche utilità, non sarebbe sufficiente usarli per quello a cui sono stati preposti, cioè quali consulenze grammaticali, semantiche ed etimologiche, no, bisognerebbe nel citarne il riscontro, ornarlo del proprio (inutile) contributo, altrimenti sarebbe un vano argomentare: si potrebbe essere più umili?...

      … Quando la tua autonomia di pensiero sarà in grado di controbattere, non a chiacchiere, ma con argomenti che smentiscano quello che M. Pistone ha detto sulla questione del latino, riguardante la presunta “Propaganda fidei”; quando, inoltre, la tua autonomia di pensiero sarà in grado di documentare che “(de) Propaganda fide” viene trascritto in modo equivalente anche con “Propaganda fidei”; quando, infine, la tua autonomia di pensiero, apporterà in questi thread contributi significativi, diversi da insulti idioti, battutine sceme, al punto che persino Wikipedia farebbe la figura di una fonte tradizionale al confronto, allora si potrà iniziare a pensare che non sei un ridicolo parolaio da avanspettacolo, che trova stupefacente che uno non riesca a non mettere niente di suo, citando un dizionario (forse l’autarca magnagatti occupandosi esclusivamente di Tradizione e di fonti sacre, non ha mai avuto bisogno di consultare un dizionario: non trovando nulla di utile nel Pentateuco che potesse servire all’uopo, non ha quindi esitato a far riscorso alla sua autonomia che gli permette legittimamente di metterci sempre ed esclusivamente il suo prezzemolino, per spiegare il fluire delle cose! Sarà forse per questo che sull’etimologia di “schizofrenia” c’ha capito pochino?). Ma quando questo potrà mai avvenire? Per adesso, non sei stato capace che a parlare di asini, di sindacalisti sessantottini, di disabili e cannare quel poco che millanti di conoscere: un po’ pochino per crederti sulla parola e per non mettersi a ridere quando, nel sorprenderti a consultare per la prima volta fonti non tradizionali come i vocabolari, risparmiandoci così finalmente la tua bolsa autosufficienza intellettuale, ti sei permesso il lusso di dare del mitomane agli altri.
      GATTO

      Elimina
    7. Gatto Anonimo, è buona abitudine durante le genuflessioni, mettere un cuscino davanti a sé in modo da evitare di colpire la testa con il rischio di confondere ancora di più le idee. I suoi amici, consapevoli delle loro carenze e incapaci di sostenere un dibattito dottrinale, se la sono data a gambe levate, lei invece continua a dimostrare la sua ignoranza. Un'altra sua fissa è quella di fare in ogni commento riferimenti a la "de' Fenzi", come lei la chiama, proprio non le va giù che una donna sia dottrinalmente più preparata di tutti i maestri che ha incontrato nel suo vagare, ne approfitti ed impari, la vita le sta dando una possibilità più rara che unica, non la sprechi!

      Vedo che non ha ancora capito ciò che vi è stato spiegato in relazione al maestro ed al discepolo, guardi, le porto qui una nota che forse semplificherà il compito della comprensione:

      "Con guru s'intende il maestro che conferisce l'iniziazione. Si dà il caso che dīkṣāguru non sia in grado di conoscere il Supremo Brahman, il discepolo che aspira alla liberazione dovrà chiedere a un altro maestro dotato del Parabrahma vidyā. Quest'ultimo non conferirà nessun'altra iniziazione, essendo già colui che ha dato un dīkṣita; egli percepisce che il maestro sarà più propriamente considerato un maestro spirituale (jñānaguru). Ovviamente, se l'aspirante è ancora un laico e il maestro conosce l'iniziazione suprema, in questo caso anche quest'ultima deve essere considerata un dīkṣāguru. Cfr. René Guénon, Initiation et Réalisation spirituelle, Paris, Éditions Traditionnelles, 1967, ch. XXI.

      Forse detto da Guénon le entra in testa. E si ricordi che la sua opera la ha portata qui, questo è già un primo passo! Adesso non le resta che togliere lo sguardo dal dito.

      Elimina
    8. I
      Senta un po’, ridicolo e supponente ‘spiritosetto’ straniero, pensi alle sue di genuflessioni che qui non è aria: quello che sta dimostrando ignoranza (e bella vasta anche) senza battere nemmeno la testa, è solamente lei e la sua combriccola non-duale, che sia chiaro! Sulla de’ Fenzi, come lei si chiama di cognome e non come la chiamerei io (ma bisogna star qui a rettificare anche le falsità a me attribuite persino su un cognome? Ma che razza di gente siete, santo iddio!?), non mi andrebbe giù perché è donna, tanto quanto lei non starebbe facendo il cascamorto! E sulle di lei preparazioni dottrinali, offerte come possibilità “più rare che uniche (sic!!! Mamma mia che comiche: ma studi un po’ di ItaGliano santo cielo e poi venga pure qui a fare il maestrino non- duale, ché fa solo figuracce)”, ma che in realtà sono, ahimè, molto “più abbondanti che rare”, visto che assieme a “…Maitreyī, Durgā Devī, il prof. Filippi e Carlo Rocchi, hanno INONDATO questo blog di citazioni upaniṣadiche, da Śaṃkara e Gauḍapāda…(cit.)”, parola di Petrus Simonet de Maisonneuve, su tali tsunami dottrinali, dicevo, stendiamo strati multipli di veli pietosi!
      Circa invece il fatto che sarei io quello che ancora non ha capito ciò che “…è stato spiegato in relazione al maestro ed al discepolo (sic)…”, come lei dice: a che giochetto stupido sta giocando, sig. Martin? La citazione che lei riporterebbe da “Iniziazione e realizzazione spirituale”, Cap. XXI, “Veri e falsi istruttori spirituali”, come da suoi riferimenti, non esiste minimamente, a meno che il francese del nostro ‘spiritosetto’, non calchi le orme del suo itaGliano e gli abbia perciò permesso di tradurre ‘ad mentula canis’ (è corretto così il latino, magnagatti?) quello che riporto verbatim dallo stesso capitolo (di passata, se ci legge, per il magnagatti: ecco a cosa serve citare la fonte, quando non si sa cosa si sta citando!) e che è quello che più si avvicina alla falsa citazione riportata dallo ‘spiritosetto’ ; che smentisce del tutto le pretese di certa gente veramente ignorante e che, infine, non fa altro che confermare quello che Guénon ha sempre sostenuto in merito. Tutte cose che, come si può evincere dal seguito, non si capisce come, se non si considera la malafede, il gruppetto non-duale sia riuscito a stravolgerle e distrarle in modo ridicolo, dal loro evidente e legittimo significato:

      Elimina
    9. II
      ...“Contrariamente a quanto molta gente sembra pensare, per essere adatti a svolgere questa funzione [di istruttore spirituale, ndr.] entro certi limiti, non è sempre necessario esser giunti ad una realizzazione spirituale completa; dovrebbe essere evidente infatti, che ci vuole molto meno di tanto per essere capaci a guidare validamente un discepolo ai primi stadi della sua carriera iniziatica. È fuori questione che quando questi avrà raggiunto il punto oltre il quale non può più condurlo, l’istruttore che si trova in queste condizioni, se è un istruttore veramente degno di questo nome, non esiterà minimamente a fargli sapere che ormai non può più far niente per lui, e lo indirizzerà allora, affinché il suo lavoro sia seguito nelle condizioni più favorevoli, sia al suo stesso Maestro, se ciò è possibile, sia a qualche altro istruttore ch’egli riconosce più completamente qualificato che non se stesso; e quando è così, non v’è in definitiva niente di stupefacente o di anormale a che il discepolo possa finalmente superare il livello spirituale del suo primo istruttore, il quale d’altronde, se è veramente quel che dev’essere, non potrà che felicitarsi d’aver contribuito da parte sua, per piccola che possa essere questa parte, a condurlo a tale risultato. Gelosia e rivalità individuali non possono in effetti trovare posto alcuno nel vero dominio iniziatico, mentre invece, al contrario, ne hanno uno assai grande nel modo d’agire dei falsi istruttori; e sono unicamente costoro a dover essere denunciati e combattuti, ogni qualvolta le circostanze lo esigono, non soltanto dai Maestri spirituali autentici, ma anche da tutti quelli che, a qualunque livello, hanno coscienza di cos’è realmente l’iniziazione.”.
      Ecco, non sono certo io che devo togliere lo sguardo dal dito, ma lei/voi che deve/dovete togliere il dito dagli occhi!
      PS: a parte che non si capisce cosa, la nota di Guénon, malamente tradotta dal sig, Martin, voglia dire di preciso, se ha voluto fare il furbetto non ce lo faccia sapere; se invece ha solo involontariamente sbagliato i riferimenti, ce lo dica e ci dia quelli corretti, così si potrà andare a verificare se effettivamente c’è qualcosa di simile a quello che ha riportato o se è solo frutto, vuoi della sua ignoranza, malafede, fantasia galoppante, dei suoi fraintendimenti, abbagli o altro ancora. Attendiamo fiduciosi!
      GATTO

      Elimina
    10. Gatto anonimo, il suo flusso di parole mescolato con qualche perla di Guénon fanno di lei un personaggio più "unico che raro"...non serve scomporsi per cercare di esprimere le sue conoscenze fiabesche mi creda che dall'inizio di tutto questo lunghissimo scambio ho cercato di capire con chi lei ce l'abbia (oltre che con se stesso) e dove  lei veda qualcosa di sbagliato in quello che qui hanno esposto i suoi diversi oppositori. Non c'è niente di male nell'accettare la propria non conoscenza, io non conosco la grammatica itaGliana e lei non conosce la dottrina dell'Advaita Vedānta, ma per questo non si deve cadere nello sconforto, basta attingere alle fonti e non soffermarsi a soddisfare l'intelletto con semplici letture esoteriche. Io almeno ci provo col mio italiano approssimativo e la invito a fare lo stesso se vuole parlare di Advaita Vedānta. Cerchi quanto meno di riportare nei suoi dibattiti quello che insegnano i maestri regolari e non faccia un semplice copia e incolla di R.Guénon che non fu evidentemente un advaitin. Credo in fondo che lei nel suo persistere qui denoti un interesse nascosto e non potendo accettarlo abbaia a destra e manca. Smetta di girare su sé stesso cercando di mordersi la coda che è sempre parte del suo stesso corpo. Sperando mi consigli qualche enciclopedia d'italiano io le consiglio di leggere qualche articolo di VVM.

      Elimina
    11. Certo, certo, sig. Martin, lei riporta citazioni di Guénon inesistenti, e dopo sarei io quello che ha “conoscenze fiabesche”! “…non faccia un semplice copia e incolla di R.Guénon che non fu evidentemente un advaitin…(cit.)”: ecco, sì, se lei non cercasse di far dire a Guénon quello che ha nella sua testa, non avrei certo la necessità di questi copia/incolla, che tanto prudono ai fautori del “pensiero autonomo”, certezza dalla quale si permettono, senza il minimo imbarazzo, di usare l’apodittico avverbio “evidentemente” per mettere al corrente me e il mondo, su quello che Guénon non fu mai nel modo più certo! Si rischia seriamente di finire pure gli insulti, per descrivere cotante “tantezze” intellettuali e tradizionali, perciò la saluto senza rimpianti.
      GATTO

      Elimina
  62. È chiaro Sig. Gatto che lei non ha alcuna simpatia per nessuno che osi scostarsi dalle sue preferenze e inclinazioni. In questo blog è stato scortese con tutti, per non dire supponente e veramente antipatico ( nel senso etimologico del termine). Quello che rimane poco chiaro è questo suo latrare (altro che gatto!), che non solo pare non finire mai (un vero samsara di pochezze), e a parte far felice lei, ha annoiato veramente tutti. Evidentemente ha poche persone con cui sfogarsi (leggasi amici) e riversa su questo blog le sue frustrazioni. Francamente non interessano a nessuno, anche perché lei non apporta alcunché di interessante o di intellettualmente stimolante. Mi risponda pure scortesemente, come è solito fare, ma cerchi almeno di rispettare chi questo blog lo legge per altri motivi molto più tradizionali, e magari pensi invece a crearsi un suo blog nel quale possa dare libero sfogo alla sua rabbia e infelicità. E comunque non si offenda se le dico che si fa prendere in giro in modo strabiliante, non è da tutti! Un lettore annoiato dal "gatto" rabbioso.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Egregio Anonimo (si sente anche lei un po’ “vigliacco” dietro questo anonimato, come è stato più volte fatto osservare al sottoscritto, o per chi non si scosta dalle “preferenze e inclinazioni” di questo autorevole consesso, il problema non sussiste?), in questo blog sono stato scortese non con tutti, ma con tutti quelli che si sono permessi la stessa cosa. Non vedo perciò perché, nel risponderle come sto facendo, dovrei esserlo anche con lei che non lo è mai stato, anche se, però, la sua prosa, un po’ di arietta da sufficienza, c’è l’ha. Se volessimo proprio essere pignoli, dare del cane a uno, non è proprio quello che si dice, ‘nittitare’ a Della Casa e, come ha ben detto qualcuno qui, vergarlo in guanti bianchi, non cambia poi molto. Come che sia, mi dispiace avere annoiato un po’ tutti, ma, sa, se i “motivi molto più tradizionali” che varrebbe la pena di leggere, oltre alle inondazioni – a proposito di samsara – di citazioni upaniṣadiche che si possono trovare anche sugli scaffali della Standa, fossero quelli, per restare in tema, dove si enuncia che è il discepolo che decide quando il Maestro non gli va più bene; o dove si caldeggia l’“autonomia di pensiero”; o quando si riportano citazioni di Guénon inesistenti per fargli dire quello che aggrada, beh, una certa confusione su cosa sia realmente tradizionale e cosa no, non sarebbe certo peregrino pensare che lei debba, in fondo in fondo, averla. Da parte mia e delle mie “pochezze”, quando capitano queste “tantezze”, faccio sempre di tutto per contrastarle; se poi, questo mio tentativo, vi annoia, non trovandoci alcunché di interessante, potrei anche fregarmene e tirare dritto per la mia strada. Spiace anche deluderla, ma queste non sono punto cose che riguardino minimamente mie preferenze o inclinazioni, ma propedeuticità necessarie per acquisire una vera mentalità tradizionale, se si vuole sperare, non già di essere qualificati per una via iniziatica “non-duale” come qui comicamente si pretenderebbe, ma, avendo ancora il senso delle proporzioni ben sveglio(ma chi ce l’ha al giorno d’oggi?), per essere appena, appena consoni a seguire, con la giusta attitudine e senza imbarazzo, la messa delle sei dei giorni feriali! Debbo anche segnalare che è la frequentazione di questo blog, ipso facto, che risulta per il sottoscritto estremamente frustante, non l’opposto come lei, invece, sempre educatamente, mi fa presente, non avendo la benché minima necessità di sfoghi di sorta. E, così, sempre per tranquillizzarla: ma secondo lei, mancandomi gli amici, verrei a cercare uno sfogo proprio tra i nemici? Mi creda, ci sarebbero tante cose molto più “sfoganti” a cui affidarsi, nemmeno troppo costose, che un blog di illusi, ma quando il dovere chiama, capirà, per alcuni, tutto passa in secondo piano... Forse io sarò anche uno “che si fa prendere in giro in modo strabiliante (addirittura! Ma pensa, non me ne ero proprio mai accorto: vatti a fidare te…)” – cosa che, debbo sinceramente confessare, oltre a risultarmi perfettamente indifferente, non deporrebbe certo a favore delle “tantezze” intellettuali e tradizionali di cui sareste consustanziati – ma lei, non brilla certo in perspicacia, caro il nostro «Un lettore annoiato dal "gatto" rabbioso»!
      GATTO

      Elimina
  63. Il Gatto-Asino non sa che Cfr. significa "confronta"; e che perciò non è un rimando a una precisa citazione, ma un invito a confrontare. Basta una frase per smontare i suoi chilometrici, logorroici, caotici, stupidi e autocompiaciuti interventi!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. L’insolente polentone sarà mica lui che non sa cosa Cfr. significhi, vero? Cito dunque da testi non tradizionali e, come mio solito, senza nominare la fonte, ma tra virgolette, così da eliminare nei sospettosi, l’ombra del plagio: “cfr., o cf., è propriamente un'abbreviazione del latino confer (imperativo singolare del verbo conferre, nel senso di "confronta") o conferatur ("si confronti"), frequentemente usata come notazione bibliografica PER CITARE ulteriori materiali O FONTI che possono fornire informazioni o argomenti simili.”; ovvero: “Abbreviazione moderna del lat. confer «confronta», usata spec. in testi di studio o di consultazione DAVANTI A CITAZIONI o elementi lessicali su cui si richiama l’attenzione del lettore. (i maiuscoli sono miei).”. Ma è sicuramente in buona compagnia con il foresto “fantasioso” e ignorante, perché il “creativo” mette tra virgolette la frase (quindi qualcuno e qualcosa cita) e per togliere ogni dubbio, conclude: “Forse detto da Guénon le entra in testa. (cit.)”, ergo, i riferimenti riportati alla fine, non possono che essere quelli di una citazione ben precisa che il nostro foresto, fraudolentemente, attribuisce a Guénon, facendo conto che nessuno vada a controllare. Ecco, il mangia gatti che fa tutto da solo, autosmontaggio compreso… E se mangiasse qualche volpe, invece che gatti e basta?
      GATTO
      PS: non hai nemmeno imparato a postare in un blog e vorresti arrivare alla Liberazione per la via diretta? Porello…

      Elimina