"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 20 settembre 2020

Maitreyī, Risposta all’odierno “oppositore del Vedānta”

Maitreyī
Risposta all’odierno “oppositore del Vedānta”

Segnaliamo la neonata alleanza tra la Rivista di Torino e Alberto Ventura. Si stanno coalizzando gruppi fino a questo momento rivali e incompatibili per cercare di screditare il Sito Veda Vyāsa Maṇḍala, le edizioni Ekatos e questo Blog che mi ospita.

Ventura, nel suo articolo apparso sull’ultimo numero della Rivista, contrappone alle dottrine advitīya[1] che riferiamo sulla base della śruti[2], di Śaṃkara e dei suoi attuali regolari successori, una sua interpretazione personale per sostenere la completa identità tra la metafisica dell’Advaita[3] e le dottrine di altre tradizioni (o meglio, di altra!). Egli afferma: “Limitato così l’universale agli stati di veglia e di sogno, l’intera manifestazione si riduce ad un “io cosmico generale” dal quale dipendono, come mere proiezioni mentali l’intelletto micro e macrocosmico (buddhi e Mahat[4]), lo stato di sonno profondo («suṣupti[5] è soltanto una costruzione mentale, una fantasia che nasconde la vera natura dell’Ātman[6]») ed ogni altra realtà che non sia il supremo Brahman. Tra i frutti di questa «immaginazione creatrice» (degna del migliore Corbin) viene a trovarsi incluso persino l’Essere divino, il Brahman qualificato o Īśvara[7], che non sarebbe altro se non «una rappresentazione che la mente dell’individuo umano si crea per immaginare il Brahman assoluto» […] Inutile dire, poi, che questa costruzione teorica tendente a minare le stesse fondamenta della metafisica esposta da Guénon, non ci viene fornita altra giustificazione se non la forzatura dei testi addotti per sostenerla” (pp. 67-68)

A conferma che le nostre parole, citate come forzature dei testi, siano invece del tutto rispondenti alla dottrina advaita, rispondiamo con gli insegnamenti autorevoli di Svāmī Prabuddhānanda Sarasvatī Mahārāja sull’Āgama prakaraṇa[8] della Māṇḍūkya Upaniṣad capitoli IV e V. Non si tratta di un brano letterario, essendo un’upadeśa[9] rivolta ai sādhaka[10]. Perciò le ripetizioni e altre forme colloquiali devono essere inquadrate nell’ottica dell’insegnamento.

Tutti questi tre pāda[11] sono resi falsi alla luce del Quarto. Il terzo pāda, capito, è il Quarto pāda, è libertà dal terzo pāda. Non capito rimane attaccato al primo, al secondo e al terzo pāda; una volta capito, non ci sono pāda. L’acqua capita come origine dell’onda è il Quarto, perché non c’è alcuna relazione origine-creazione. Il terzo pāda può essere visto in tre modi, anche se lo Sāstra[12] ne parla in due modi. L’uomo comune dice che è uno stato d’ignoranza e questo è il primo punto di vista: «Non conoscevo nulla, non conoscevo il mondo, non c’era alcun pensiero sul mondo e su me stesso; è una completa ignoranza». Tutti i punti di vista sul sonno profondo sono fatti in veglia. Non si può avere un punto di vista sul nirviśeṣam[13] nel nirviśeṣam; tutti i punti di vista sul nirviśeṣam stanno nel dominio del saviśeṣam[14] (con distinzione).

Il punto di vista dello Śāstra è che è uno stato di presenza di nirviśeṣam. Ma lo stesso Śāstra, quando insegna il nirviśeṣam come kāraṇam[15] di jāgrat e svapna[16], lo chiama Īśvara. Nirviśeṣam, insegnato come origine della veglia e del sogno è chiamato Īśvara. Questo è detto śāstra kalpitam[17]. Tuttavia, in realtà suṣupti è la presenza del proprio Sé come nirviśeṣam; questo non è kalpitam[18]. La sua descrizione come nirviśeṣam è kalpitam, il nome usato è nirviśeṣam, ma la sua presenza è akalpitam[19]. Il nirviśeṣam insegnato come origine della percezione di veglia e di sogno è chiamato Īśvara, e questo è il terzo pāda. Com’è detto dallo Śāstra, il primo pāda è Virāṭ[20], il secondo è Hiraṇyagarbha[21], il terzo è Īśvara; il Quarto è il Tattva[22], il nirviśeṣam. Rendendo falsi i tre pāda, quando si rendono falsi il jāgrat e il svapna, si rende falso il nirviśeṣam in quanto origine, la relazione origine-creazione è anch’essa resa falsa. Īśvaratvam[23] anche è reso falso, avendo dietro solo il nirviśeṣam. Così i primi tre pāda sono strumenti, il Quarto è la Realtà. Quindi i primi tre pāda sono i mezzi con cui posso capire; rendendo falsi i tre, capisco il Quarto; quindi i tre sono gli strumenti e il Quarto è il fine. Per questo le śruti dicono: «Caturtam iti manyante», «è pensato così come Quarto». Esse lo descrivono innecessariamente come il Quarto, perché ricade nel campo dei pāda, è trattato assieme ai pāda. Il secondo e il terzo pāda possono essere resi falsi, il Quarto no: è la propria Esistenza. Il primo e il secondo pāda sono la propria percezione, il terzo pāda è prakriyā[24] il Quarto è la propria Esistenza. Secondo l’uomo comune suṣupti è uno stato d’ignoranza e la parola prājña si riferisce a quel punto di vista. Il punto di vista dello Śāstra è che non è uno stato d’ignoranza, è uno stato della propria Esistenza meno ogni altra cosa, è uno stato di esperienza della propria presenza; e, in quanto stato del nirviśeṣam, può essere chiamato prājña[25]; è uno stato di solo Essere non duale, svarūpa avasthā[26]. Lo chiamiamo avasthā[27] perché jāgrat e svapna sono avasthā, altrimenti è svarūpa[28]. Essere acqua non è svarūpa sthāna, è svarūpa. Perciò prājña è il punto di vista dell’uomo comune, è ciò che egli pensa: «Dove non si percepisce lo stato di sogno, dove non ha alcun desiderio, dove non sogna nulla, quello è suṣupti». È chiamato suṣupti universalmente, ma non è suṣupti, è svarūpam. Non è uno dei tre stati, per l’esperienza è il proprio Sé. Non è mai sperimentato come uno dei tre stati. Per sperimentare suṣupti come uno dei tre stati, si dovrebbe avere il ricordo degli altri due. […] Qualsiasi relazione è kalpitam, che sia avidyā kalpitam[29] o śāstra kalpitam. Kalpitam è kalpitam, kalpitam è universalmente kalpitam. Lo śāstra fa il kalpanā[30] del kārya-kāraṇa bhāva[31] [che cos’è questa se non immaginazione creatrice?], di avyākṛta[32] ecc. e questo è chiamato śāstra kalpitam. Tieni a mente queste due formule: avidyā kalpitam e śāstra kalpitam. Kalpitam è kalpitam e non qualifica l’esperienza. Kalpitam è fatto solo da un altro punto di vista kalpitam, che è il punto di vista della veglia; mentre la tua esperienza è libera sia da avidyā kalpitam sia da śāstra kalpitam

Se per Ventura non fossero sufficienti tali argomentazioni, aggiungiamo alcuni brani tratti da La luce della Realtà di Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārāja, da noi curato personalmente:

Abbiamo già definito lo stato come ‘il modo in cui la Realtà appare’ e non il modo in cui esiste o in cui si modifica nel tempo. Fintanto che non si capisca l’implicazione di questa definizione, la questione sulla interrelazione tra gli stati rimarrà irrisolta. Tutte le relazioni tra gli oggetti di uno stato esistono solo in quel particolare stato e non ci sono relazioni fra cose di due stati differenti o tra gli stati stessi. In ogni stato l’intera Realtà è totalmente presente e non si può dire che una certa parte di essa rimanga in uno stato e una certa altra parte altrove. In altre parole, non possiamo considerare che ogni stato sia solo una manifestazione parziale della Realtà e che tutti gli stati assieme costituiscano la Realtà totale. Neppure una piccola parte di Realtà può nascondersi in qualche parte dello stato. Nemmeno la serie temporale, l’estensione spaziale e la relazione di causa-effetto appartenenti a un certo stato può riversarsi in un altro. Coloro che non hanno capito i segreti per cui ogni stato include in sé tutta la Realtà e che la Realtà appare come gli stati, rimangono intrappolati nell’errata nozione per cui gli stati sono interrelati e che solo il mondo, che include il tempo e la relazione causa-effetto, rende possibile tale interrelazione all’interno dello stato.” (p. 126)

Quindi è sbagliato chiamarli stati al plurale, perché non hanno una sequenza nel tempo né una vicinanza nello spazio.” (p. 127)

Considerata da questo punto di vista, l’intera veglia diventa oggetto dell’intuizione. Allora non esistono separatamente né l’esperienza della mente della veglia, né sostanza, qualità, azione, relazione ecc., conosciute per suo mezzo. Guardata dal punto di vista dell’intuizione, la veglia non costituisce uno stato perché in quella intuizione non c’è affatto l’idea di molteplicità; quindi non c’è un secondo stato. Perciò il pensiero e la descrizione dei tre stati sono in realtà scorretti. Proprio come confondiamo la corda con un serpente, con un rivolo d’acqua o un bastone, così erroneamente concepiamo la Realtà come veglia, sogno e sonno profondo.” (p. 128)

Sebbene sia sbagliato considerarli come uno, due e tre, perché sono solo illusori, tuttavia i vedāntin[33] usano questa ‘procedura illusoria’ solo dal punto di vista della veglia. Questa accettazione ha l’unico scopo di insegnare ai cercatori della verità; ed essi non li accettano mai come se fossero realmente tre (MUGKŚBh IV.90). Quindi, ogni volta che ci si riferisce agli stati come tre, i lettori dovranno tenere a mente questo segreto.” (p. 129)

Dimorando profondamente in esso, il nostro Ātman lì non è neppure il Sākṣin[34], perché Ātman può essere chiamato Testimone solo in riferimento a qualche cosa percepita; ma in sonno profondo non c’è null’altro se non l’Ātman. Perciò il nostro Ātman rimane nella sua pura natura, dove conoscenza ed esistenza sono una sola cosa senza divisione di oggetti esterni e conoscenza interna o, in altre parole, apparenza oggettiva e conoscenza soggettiva.

Il sonno profondo non è uno stato.

Quello che vediamo ora come io, ‘la mia conoscenza’ e il mondo esterno come oggetto di conoscenza, tutti questi s’immergono in Ātman. L’Ātman, anche nel nostro stato presente, continua a esistere. Perciò quello che chiamiamo sonno profondo dal punto di vista della nostra veglia, non è affatto uno stato. (Cfr. § 29) Il modo in cui la realtà appare è chiamato stato, ma nel sonno profondo non si vede nulla, quindi non è affatto uno stato

Domanda: allora perché abbiamo l’idea che è uno stato?

Risposta: perché, quando guardiamo il sonno profondo dalla veglia, non trovando lì alcun evento o cosa da vedere come accade nella veglia, per errore pensiamo che anche quello sia uno stato. Tuttavia, lì non c’è né una particolare conoscenza, né il suo oggetto corrispondente. Allora, «cosa si conosce e con che strumento?» («ken kaṅ vijānīyāt». BU II.4.14). Allora il nostro Ātman è tutta l’esistenza e tutta la conoscenza e così l’esistenza e la conoscenza sono uno. Perciò possiamo dire che Ātman esiste come sanmātrā o Pura Esistenza. Quelli che guardano dal punto di vista della veglia, non possono capire questo mistero. Sebbene ogni giorno nel sonno profondo, […] s’immergono nella Pura Esistenza, essi non ne sono consapevoli (ChU VI.9.2). Questa Pura Esistenza è la propria natura essenziale (sattā somyā[35]. ChUŚBh VI.7.1); immergendosi in essa, egli è chiamato svapiti[36], cioè svam, in se stesso, e apīt, s’immerge. Così dice l’Upaniṣad. Da questo punto di vista la nostra esistenza, l’esistenza dell’intero mondo che vediamo e le varie esistenze che appaiono come cose particolari nel mondo, tutte queste diventano solo Ātman nel sonno profondo, cioè della natura di Pura Esistenza. Ciò dimostra i tre livelli d’esistenza, che sembrano sorgere da Ātman. E dimostra anche la Pura Esistenza.” (p. 166-168)

Che il sogno sia una mera apparenza e che il mondo visto attualmente continui a esistere anche durante il sonno, è un errore. Dimostreremo brevemente nel § 71, che non esiste alcuna differenza tra gli stati di veglia e di sogno. Ma questo, per il momento, non è in discussione. Che il sogno non esista da nessuna parte durante il sonno profondo è già stato accettato.” (169)

Definire il sonno profondo uno stato è solo il punto di vista della veglia. In realtà, il sonno profondo non è altro che il Sākṣin. Quindi, chiamare Ātman Sākṣin è solo in senso secondario, come sarà stabilito nel § 83. Dal punto di vista della Realtà, il sonno profondo è solo Ātman, l’essenza di tutto ciò che appare nella veglia e nel sogno.” (p. 175)

Seguire il ragionamento basato sull’intuizione è il solo modo per evitare le limitazioni della logica. Questo è chiamato ‘ragionamento più ampio’ (§ 30). Applichiamolo ora all’argomento trattato di seguito.

Gli stati non sono realmente tre: li si considera tre solo dal punto di vista della veglia (§ 42). Dal punto di vista dell’esperienza, il sonno profondo è puro Ātman, Pura Esistenza, senza alcuna relazione di tempo-spazio o causa-effetto. Considerare gli stati di veglia e di sogno differenti da esso, e tuttavia connessi all’esistenza, è la causa reale di questa contraddizione logica. Infatti, la mente della veglia non può capire alcunché senza relazioni. La relazione di tempo-spazio e causa-effetto sono idee naturali della mente, quindi essa capisce le cose solo in quei termini ed è limitata da essi. Ha formulato certe leggi di logica e, in accordo con esse, pensa che i tre stati siano differenti e interrelati. Di fatto gli stati non sono lì né sono la causa uno dell’altro né sono interrelati in qualche altra maniera.” (p. 180-181)

La Pura Esistenza non perde la sua natura apparendo come sogno e veglia. In definitiva, ciò significa che non c’è alcuna relazione di causa-effetto, come avviene in veglia, fra la Pura Esistenza e la veglia e il sogno. Così le parole ‘causa ed effetto’ assumono un nuovo significato tecnico. ‘Causa’ significa ciò che appare, e non qualcosa in cui si modifica, ed ‘effetto’ significa come appare e non ciò che è prodotto. Quindi il mondo non è quello in cui la Pura Esistenza si modifica, ma il modo in cui appare.” (p. 182)

La corda, rimanendo sempre corda, appare come serpente a causa dell’errore. Il serpente, infatti, è di fatto soltanto corda; quindi immaginare una qualche relazione fra di essi è un errore. Che siano una sola cosa è l’unica realtà, e così la veglia e il sogno sono uno con la Pura Esistenza. Se si tiene a mente questo segreto, la spiegazione della relazione causa-effetto insegnata nelle Upaniṣad diventa chiara. Questo è il significato dei seguenti testi:

O fanciullo! Proprio come conoscendo la sostanza-argilla tutto ciò che è fatto d’argilla diventa conosciuto, perché ogni modificazione o effetto [come un vaso] è solo un gioco di parole che appare semplicemente come nome e non come realmente esistente e ciò che realmente esiste è solo argilla (ChU VI.1.4).

Così la Realtà deve essere insegnata (ChU VI.1.6).

Questo Essere è l’essenza del mondo. Tutto questo ha questo Essere come sua essenza. Questo è l’Ātman, tu sei Quello, o Śvetaketu (ChU VI.8.7).” (p. 182-183)

“84. Nella Pura Esistenza non c’è divisione di manifestato e non manifestato, cambiamento e assenza di cambiamento

Domanda: cosa accade al mondo durante il sonno profondo?

Risposta: dato che il mondo è confinato nel suo stato non può essere né dentro né fuori al sonno profondo, dove non c’è problema di tempo e spazio né di interno ed esterno (Cfr. § 82). Essendo Pura Esistenza, si stabilisce che lì, nel sonno profondo, non c’è altro da esso.

Domanda: la śruti dice che il mondo s’immerge nella Pura Esistenza. Perciò rimane lì nell’esistenza.

Risposta: anche questo insegnamento della śruti è solo dal punto di vista empirico, perché il mondo è solo Pura Esistenza e non qualcosa di differente dall’esistenza, come se ne venisse fuori o le fosse associato in qualche modo. Poiché il mondo è una rete intessuta con i fili di tempo, spazio e causalità, non ha senso dire che, come un tutto, vada o venga da qualche parte. Il mondo che vediamo come individui conoscenti (pramātā), sembra essere diviso in parti collocate nel tempo e nello spazio ed esse si possono muovere da uno spazio a un altro e cambiare forma. Ma preso come un tutto, non può cambiare o muoversi, perché non è localizzato nel tempo e nello spazio. Quindi non ha senso dire che entri o esca dal sonno profondo che è Pura Esistenza. Il mondo non è differente dallo stato nel quale appare e lo stato non è differente dalla Pura Esistenza. Quindi il mondo non è altro che Pura Esistenza. Per questa ragione Gauḍapāda afferma:

Se il mondo fosse realmente lì, ci sarebbe un pensiero del suo andar via. Ma l’intera dualità è solo una falsa apparenza e quindi in realtà c’è solo non dualità, vale a dire Pura Esistenza (MUGK I.17).

Non c’è relazione di causa ed effetto tra la Pura Esistenza, cioè il sonno profondo, e gli altri stati. Ciò significa che il mondo non è differenziato in veglia e in sogno né che è invisibilmente nascosto, cioè indifferenziato, nel sonno profondo. Il mondo differenziato in manifestato e non manifestato (vyaktāvyakta) è in realtà solo l’Ātman senza secondo, Pura Esistenza.

Domanda: ma proprio la śruti dice che il mondo è nato da Ātman. Come si spiega?

Risposta: è vero che la śruti dice così, ma è solo un’affermazione che ha due scopi: il primo vuole intendere che ciò che è nato da Ātman è solo Ātman, proprio come tutto ciò che è nato dalla creta è solo creta. Inoltre, il mondo falsamente immaginato sull’Ātman non è differente dall’Ātman proprio come un serpente falsamente immaginato su una corda. A sostegno ci sono le seguenti citazioni:

Come la corda, la cui reale natura è sconosciuta, nella penombra è immaginata come fosse un serpente, una fessura nel terreno ecc., così è immaginato l’Ātman (MUGK II.17).

Da quando si rivela la vera natura della corda, tutte le illusioni sovrapposte alla corda scompaiono e, simultaneamente, affiora la certezza che non vi è là nient’altro che la corda; questa è la natura della conoscenza dell’Ātman (MUGK II.18).

Le affermazioni della śruti sulla manifestazione com’è illustrata dagli esempi dell’argilla, del ferro, delle scintille o da simili analogie, hanno l’unico scopo di spiegare l’identità [del jīva[37] e del Brahman]; invero la molteplicità non esiste in alcun modo. (MUGK III.15)

Il sūtra[38] che precede confuta la supposizione, avanzata per amor di discussione, secondo cui ci sarebbe una differenza empirica tra il fruitore e le cose fruite, come si può osservare nell'esperienza comune. In realtà, questa differenza non esiste, poiché si riconosce che non c’è differenza tra causa ed effetto. L'effetto è il mondo, diversificato come spazio ecc. e la causa è il Brahman supremo. In realtà è noto che l'effetto ha una non-differenza, cioè una non-esistenza se considerato isolatamente da quella causa (BSŚBh II.1.14).

Alcuni credono fermamente che il mondo sia nato. Il secondo scopo è quello di insegnare ai sādhaka il metodo della creazione del mondo per aiutarli a praticare l’upāsanā[39] per avvicinare la realtà con un lungo percorso. La seguente citazione lo convalida:

Ci sono tre fasi della vita che corrispondono a tre gradi di comprensione, quello inferiore, il mediano e il superiore; è per compassione che la śruti ha insegnato questa disciplina in favore di quegli non illuminati. (MUGK III.16).

La nostra indagine sulla Realtà non comprende l’upāsanā, perché questa è qualcosa che deve essere praticata attivamente solo sulla base della fede. Questo sarebbe un argomento da discutere separatamente per mostrare come anche questo conduca, con un lungo percorso, verso la Realtà.

La vera Realtà è che nessun mondo è nato. Altre citazioni lo sostengono:

Non c’è né dissoluzione né morte né saṃsāra[40] né aspiranti alla conoscenza né cercatori della Liberazione né liberati: ecco la verità assoluta! (MUGK II.32).

Si dovrebbero studiare le Kārikā di Gauḍapāda per capire la dottrina della non nascita (ajatavāda), che afferma che solo Ātman nella forma di Pura Esistenza è veramente reale e non che una cosa detta ‘mondo’ sia nata da esso. Quindi la conclusione ultima (uttama,) per cui la relazione causa-effetto è totalmente falsa, sarà stabilita dalla intuizione universale. Anche Śaṃkara ha espresso lo stesso punto di vista in vari passaggi nel Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya (II.1.14) e nel commento alla Taittirīya Upaniṣad (II.6) e altri ancora. La conclusione è che la Pura Esistenza è né manifestata né non manifestata, né mutevole né non mutevole e che il manifestato e il non manifestato, il mutevole e il non mutevole sono tutte solo false apparenze immaginate dal punto di vista della veglia.” (p. 242-247)

“105. Nel sonno profondo ogni cosa è Ātman, Pura Coscienza

1.   Se richiamiamo alla mente l’esperienza del sonno profondo, questo concetto diventa più chiaro. A differenza della veglia e del sogno, nel sonno profondo non c’è alcun mondo. Quindi non c’è né tripuṭi[41] (conoscitore-conosciuto-conoscenza) né la divisione tra conoscenza corretta e conoscenza errata. Tuttavia non possiamo dire: ‘Io lì non esistevo’, perché se lì non ci fosse alcuna coscienza non ci sarebbe la base per poter ‘ricordare’ tale esperienza.

2.   Una persona irriflessiva potrebbe dire: ‘Io non ho conosciuto nulla in sonno profondo, il che significa che lì non avevo alcuna coscienza’. Questa affermazione implica soltanto che lì non c’era nulla da conoscere e non che lì non c’era coscienza. Perciò la BU dice:

Che [l’Ātman] lì non conosca nulla si spiega con il fatto che anche conoscendo non conosce nulla, perché non ci può essere una assoluta scomparsa della conoscenza del conoscitore, dato che è indistruttibile. Non c’è null’altro da Lui che Egli possa conoscere (BU IV.3.30).

3.   Si dovrebbe applicare qui ciò che già è stato detto sulla natura del sonno profondo nell’indagine sull’esistenza (§ 61). Nel sonno profondo non esistiamo nella forma di io, ma solo in forma di Sākṣin. Di fatto, se guardiamo con più attenzione, capiremo che lì non siamo neppure il Sākṣin, dato che non c’è nulla da testimoniare. Quindi lì siamo solo Pura Coscienza. Gli oggetti esterni, la conoscenza in noi e noi come conoscitori, tutto s’immerge nell’essenza del Testimone. Perciò l’Esistenza e la Conoscenza sono una e una sola cosa.

4.   Dato che tutto ciò che vediamo s’immerge nella Pura Coscienza e non c’è altro che Coscienza, ciò che comunemente denominiamo sonno profondo non è affatto uno stato, bensì solo Pura Coscienza. Essa non è nel tempo né è un modo in cui la Realtà appare, ma è la Verità di tutta l’Esistenza e di tutta la Coscienza.

5.   Domanda: noi chiamiamo questo uno stato in cui non si conosce nulla, cioè di ignoranza.

Risposta: lo si chiama così solo paragonandolo allo stato di veglia, in cui si conoscono molte cose. Domanda: anche il Vedānta dice che il mondo del nome e della forma rimane in potenza e appare di nuovo nella veglia.

Risposta: ciò è detto dal punto di vista empirico della veglia, in cui si considerano reali il nome e la forma. Ma dato che il nome e la forma sono visti a causa dell’avidyā, anche la nostra deduzione, che ci fa pensare che siano presenti potenzialmente in sonno profondo, è solo una estensione di questa incomprensione (BSŚBh II.1.9). Quando non ci sono uno specifico oggetto e una specifica conoscenza, chi deve conoscere chi [o che cosa]? Ogni cosa è Esistenza e null’altro che Esistenza o Coscienza e null’altro che Coscienza. Quando l’Upaniṣad dice:

Quando ogni cosa diventa Ātman, con che cosa si dovrebbe odorare e che cosa? Con che cosa si dovrebbe vedere e che cosa? […] Con che cosa si dovrebbe conoscere e che cosa? (BU II.4.14)

6.   È l’essenza di tutta la Coscienza e di tutte le conoscenze che noi conosciamo. Anche le conoscenze che appaiono in veglia come attributi sono incluse in essa. Perfino i tre gradi di coscienza emergono proprio da questa Coscienza.” (p. 289-291)

Un’ultima osservazione a proposito della misoginia.

Non so se si tratta di misoginia e la cosa non mi tocca. Tale atteggiamento non è forse da attribuire ai condizionamenti mentali (vāsaṇā) di quasi cinquant’anni di shari’a[42]? Si vuole forse aprire una discussione sul sesso dell’Ātman, come volgarmente si dice della presunta diatriba bizantina sul sesso degli angeli?

 



[1] Non-duale.

[2] Sinonimo di Veda.

[3] Non-dualità.

[4] Rispettivamente l’intelletto individuale e l’intelletto universale o Hiraṇyagarbha.

[5] Lo stato di sonno profondo.

[6] Il Sé, la propria vera natura identica al Brahman assoluto.

[7] Il Signore: in questo designa l’idea del Dio personale, creatore dell’universo.

[8] La prima delle quattro parti in cui è divisa la Māṇḍūkya Upaniṣad comprendente anche le Kārikā di Gauḍapāda.

[9] Insegnamento orale di un guru.

[10] Gli iniziati che seguono il metodo insegnato dal guru.

[11] Pāda significa sia quarto sia piede.

[12] I testi vedici.

[13] Il privo di distinzione.

[14] Con distinzione.

[15] Causa.

[16] Rispettivamente lo stato di veglia e di sogno

[17] Immaginazione scritturale; ciò che si accetta delle scritture per sola fede e non per conoscenza o esperienza diretta.

[18] Immaginazione, pensiero, idea.

[19] Non immaginato, reale.

[20] Il principio della manifestazione grossolana dello stato di veglia.

[21] Il principio della manifestazione sottile dello stato di sogno.

[22] La Realtà assoluta.

[23] La condizione della divinità personale, del non-Supremo Brahman.

[24] Il metodo di realizzazione, in questo caso il metodo della conoscenza diretta.

[25] Coscienza.

[26] Lo “stato” della propria natura assoluta.

[27] O sthāna, significa stato.

[28] La propria vera natura, l’Assoluto.

[29] Immaginazione prodotta dall’ignoranza.

[30] La creazione o proiezione.

[31] La relazione causa-effetto.

[32] L’errore di considerare suṣupti come la causa non manifesta di jāgrat e svapna.

[33] Gli iniziati al Vedānta.

[34] L’Ātman come Testimone dei tre stati.

[35] Realtà essenziale.

[36] Dormiente.

[37] O jīvātman, ciò che appare come anima individuale, ma che è in realtà lo stesso Sé.

[38] Aforisma dei Brahma Sūtra.

[39] La meditazione, lo sforzo mentale di concentrazione su un oggetto.

[40] Il mondo in divenire, luogo di trasmigrazione senza cessa.

[41] Trinomio.

[42] La legge esteriore o essoterismo islamico.



119 commenti:

  1. Il problema è che per comprovare l'identità tra prajna e turiya si citano proprio maestri aderenti... all'isolata interpretazione del vedanta che afferma l'identità tra prajna e turiya!
    La confutazione sarebbe stata più efficace se fosse stata rafforzata da citazioni di autorità del vedanta diverse da Satcidanandendra Sarasvati e dalla sua scuola, ma temo che ciò sarà difficile, visto che, per tutti gli altri esponenti della tradizione advaita, prajna e turiya NON sono affatto la stessa cosa.

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  2. Versus Anonimo
    “Deve essere conosciuta con attenzione l’attitudine della mente quando è sotto controllo, dotata di discriminazione e liberata da ogni immaginazione. Ben diversa e per nulla simile è l’attitudine della mente di chi sta in sonno profondo” (Māṇḍukya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā III.34).
    “[…] Obiezione: in assenza di ogni tipo di consapevolezza la mente sotto controllo si comporta esattamente come la mente in sonno profondo. Avendo la medesima assenza di consapevolezza, quale diversità si dovrebbe riconoscere?
    Risposta: l’obiezione è insostenibile in quanto l’attitudine della mente in sonno profondo è diversa perché è immersa nelle tenebre dell’illusione proiettata dall’ignoranza; inoltre mantiene le potenzialità che sono la causa di ogni demerito. Invece l’attitudine della mente controllata è certamente diversa in quanto l’ignoranza, seme di ogni demerito, è stata estinta da quella mente dal fuoco della realizzazione della Realtà dell’Ātman e quindi da quella mente è stato cancellato il difetto di tutte le limitazioni” (Māṇḍukya Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya III.34).
    Così si esprimono la śruti e Śaṃkara. Perciò la terza avasthā è una creazione illusoria della mente ordinaria. Chi, invece, ha la mente sotto controllo riconosce che la terza avasthā non è affatto uno stato, ma è il Quarto, la Realtà, l’Ātman, il Brahman. L’esperienza del sonno profondo è identica sia per l’uomo ordinario sia per il jñāni; ma il primo non ne riconosce la Realtà. Nessuno ha mai detto che il sonno profondo, come se lo raffigura l’uomo ordinario durante la veglia sia il Quarto. Come al solito, ci vengono attribuite surrettiziamente affermazioni mai fatte. Infatti, prājña e Turīya non sono affatto la stessa cosa. Prājña è un’avasthā, uno sthāna, una proiezione della mente, e Turīya no, come tutti i maestri di Advaita insegnano. Non a caso abbiamo citato due guru che espongono la medesima dottrina insegnata da due diverse advitīya paramparā. La persona intelligente e in buona fede dovrebbe cercare di capire queste argomentazioni, invece di contraddire per partito preso. Altrimenti dovrebbe riconoscere che anche Gauḍapāda e Śaṃkara erano parte integrante di questa “isolata interpretazione del vedanta”.

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  3. Ma insomma, ammetto la mia ignoranza come sanscritista, per cui non metto becco su quanto riportato da Maitreyī, ma mi domando come possa che “Deve essere conosciuta con attenzione l’attitudine della mente quando è sotto controllo, dotata di discriminazione e liberata da ogni immaginazione. Ben diversa e per nulla simile è l’attitudine della mente di chi sta in sonno profondo”, se nel sonno profondo non si potrebbe parlare di mente che per analogia, visto che è uno stato informale.
    Come sarebbe possibile paralare di "...Invece l’attitudine della mente controllata è certamente diversa in quanto l’ignoranza, seme di ogni demerito, è stata estinta da quella mente dal fuoco della realizzazione della Realtà dell’Ātman e quindi da quella mente è stato cancellato il difetto di tutte le limitazioni”, quando, cancellata l'ignoranza, non può che subire le stesse sorti anche il supporto che la permetteva, cioè la mente stessa! Così si esprimerebbero la śruti e Śaṃkara? Mi permetto di dubitare che ciò sia vero, almeno se intesa letteralmente in questo senso.
    E ancora: “Perciò la terza avasthā è una creazione illusoria della mente ordinaria. Chi, invece, ha la mente sotto controllo riconosce che la terza avasthā non è affatto uno stato, ma è il Quarto, la Realtà, l’Ātman, il Brahman.”.
    Di questo passo, sia lo stato di Vaishwanara che di Taijasa, chi avrebbe questa mente sotto controllo, non li riconoscerebbe come Stati ma come Turija, ed in effetti, non per chi ha una mente sotto controllo, ma per chi non ha più limitazioni di nessun tipo, mente compresa, questo è esattamente ciò che È!
    Inoltre: come sarebbe mai possibile che l’esperienza del sonno profondo sia identica sia per l’uomo ordinario sia per il jñāni se il primo non ne riconosce la Realtà?
    E ancora: “Nessuno ha mai detto che il sonno profondo, come se lo raffigura l’uomo ordinario durante la veglia sia il Quarto”; se è per questo, se la raffigurazione di Prajna dell’uomo ordinario non può essere ovviamente identificata a Turija, non può nemmeno essere identificata a Prajna in sé, visto che è solo la rappresentazione di un essere che non può attualmente trasferirvi la propria coscienza (e la stessa cosa vale anche per la condizione di Taijasa).
    Solo della condizione di Vaishwanara, tale essere ordinario può averne una rappresentazione reale (e nemmeno del tutto…).
    Non so chi surrettiziamente, come lei sostiene, le abbia imputato affermazioni mai fatte, certo che dire: “…prājña e Turīya non sono affatto la stessa cosa…” e anche “Perciò la terza avasthā è una creazione illusoria della mente ordinaria. Chi, invece, ha la mente sotto controllo riconosce che la terza avasthā non è affatto uno stato, ma è il Quarto…”, con le precisazioni fatte sopra, ciò non depone molto a favore di quello che lei vorrebbe assicurarci non aver mai detto.
    Infine: “…Prājña è un’avasthā, uno sthāna, una proiezione della mente, e Turīya no, come tutti i maestri di Advaita insegnano...”, costituisce una tautologia che non si concilia molto bene con quanto da lei fin qui sostenuto e con la precisazione che per questo sthāna, se realizzato e a differenza degli altri due, la mente non può entrarvi in nessun modo.
    La persone intelligenti e in buona fede, proprio perché cercano di capire queste argomentazioni, non contraddicono per partito preso, epperò devono riconoscere che anche Gauḍapāda e Śaṃkara, non altrimenti erano, ma non sono e non saranno mai, parte integrante di questa “isolata interpretazione del vedanta”.

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  4. “Quando questo puruṣa dotato di coscienza (vijñānamaya) è in sonno profondo, allora, assorbe in sé per mezzo della propria coscienza ciò che è prodotto dall’ignoranza: le funzioni sensoriali, ossia le facoltà di conoscere i loro oggetti (i jñānendriya), le attivazioni verso l’esterno delle sue attribuzioni limitanti (i karmendriya) e la mente; così rimane nell’ākāśa che è nel cuore. Ākāśa qui significa l’Ātman supremo che è la sua vera natura assoluta. Non si tratta qui dell’ākāśa com’è inteso comunemente, com’è affermato in un’altra śruti (ChU VI.8.1). Ciò significa che lì esso (il puruṣa) abbandona le sue diverse forme create dalle attribuzioni limitanti della mente, stando nella sua vera natura di Ātman assoluto e indifferenziato” (Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya II.1.17).

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  5. Maria Chiara de' Fenzi25 settembre 2020 alle ore 12:06

    Questo bel passo della Chāndogya Upanisad è molto chiaro, sempre che si sia pronti e atti a comprenderlo:
    […] ascolta da me, o diletto, la verità sul sonno profondo: quando si dice che un uomo dorme allora egli è identico all’essere [sat]. Costui è rientrato nel Sé: quando è rientrato nel suo Sé allora si dice che dorme.
    (ChU VI. 8. 1)

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  6. "“Perciò la terza avasthā è una creazione illusoria della mente ordinaria...(cit.): facciamo inoltre notare che "illusorio", non vuol affatto dire "irreale", come sembrerebbe essere inteso, ma un grado relativo di realtà.

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    1. Il concetto di “realtà relativa” è tra quelli che ha generato più malintesi. La realtà è o non è, non può essere “un po’…” ovvero relativa perché essendo parte è in relazione con altro. Altrimenti quella “realtà relativa” ha la natura della donna di essere un po' incinta!

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    2. Il paragone che sostiene lei, Federico, è inficiato da un paralogismo: la donna "un po’ in cinta" ha la natura dell’irrealtà perché è contraddittorio.
      Quella dell’illusorietà corrisponderebbe semmai, per restare in tema, alla possibilità di una donna di “sembrare” in cinta! Inoltre il concetto di “grado relativo di realtà”, descrive non una “parte” (se non metaforicamente), ma un “aspetto”, cioè il modo con cui si presenta in un certo grado dell’Esistenza.
      Facciamo notare che “illusione” etimologicamente deriva “ludus” (gioco: līlā sanscrito), col significato di “ironia”, cioè “dissimulazione” (velare): il miraggio è ingannevole perché illusorio, non perché irreale; questo è il suo “grado di realtà”: se fosse irreale non sarebbe assolutamente e in nessun modo percepito e di conseguenza nemmeno conosciuto.

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    3. Maria Chiara de' Fenzi27 settembre 2020 alle ore 10:33

      L'illusione è una percezione errata della realtà. Se in una stanza semi buia per terra al posto della corda si vede il serpente, l'errore sta in chi guarda e ha una falsa percezione. C'è una corda, ma vede il serpente, ignora la corda e ha l'illusione dell'esistenza del serpente. Il serpente però non esiste, è la mente che interpreta in maniera sbagliata la corda vista dagli occhi e la scambia col serpente. Non ci sono gradi di realtà del serpente, è solo una percezione erronea. Se ci spaventiamo, sudiamo freddo e vogliamo fuggire dinnanzi al serpente non è colpa del serpente (e tanto meno della corda) ma della nostra ignoranza. Infatti quando si accende la luce (la conoscenza!) si vede solo la corda...dov'è il serpente? Il serpente, che non è mai esistito (asat), sparisce istantaneamente, l'illusione si dissolve immediatamente e vediamo finalmente la corda che è la realtà! Ecco un classico esempio vedantico. Grazie a questo esempio, con mente agile, si può anche capire perché Prajña gli ignoranti la vedono come uno stato causale, mentre in realtà non è uno stato ma la vera natura dell'Essere, libero da spazio, libero da tempo, libero da io, libero da mio, libero da questo mondo empirico, libero dalla relazione soggetto-oggetto, libero da nome e libero da forma. La questione è molto più evidente di ciò che si creda, ma l'uomo ordinario è talmente immerso nell'illusione della veglia che la confonde completamente con la Realtà (anzi la ritiene l'unica realtà) e si lancia in disquisizioni complicate, si scervella per capire l'Assoluto, quando non deve cercare da nessuna parte se non in se stesso!

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    4. “L'illusione è una percezione errata della realtà. Se in una stanza semi buia per terra al posto della corda si vede il serpente, l'errore sta in chi guarda e ha una falsa percezione. C'è una corda, ma vede il serpente, ignora la corda e ha l'illusione dell'esistenza del serpente. Il serpente però non esiste, è la mente che interpreta in maniera sbagliata la corda vista dagli occhi e la scambia col serpente. Non ci sono gradi di realtà del serpente, è solo una percezione erronea… (cit).”: ma io non ho affatto sostenuto che ci siano gradi di realtà del serpente se si guarda una corda, ma gradi di realtà della corda, uno dei quali e che ‘sembri’ un serpente.
      A un certo grado dell’Esistenza questo è uno degli aspetti della Realtà, illusoria sì, ma non irreale (termini che non possono affatto costituire dei sinonimi), altrimenti non se ne avrebbe nemmeno percezione e non si potrebbe attuare nessun tipo di accostamento.
      Che una corda possa evocare un serpente, non è affatto privo di logica, perché l’induzione di vedervi un serpente, non è detto che sia esclusivamente da imputare all’essere succubi di una falsa percezione dovuta all’ignoranza, ma potrebbe anche essere che sia la conseguenza di un atteggiamento precauzionale e presuntivo, che fa sì che, tenendosene a distanza, non si rischi inutilmente, finché non si è certi che la corda sia quello che non è (serpente).
      Non a caso lei ha citato la condizione poco favorevole di trovarsi in una stanza semibuia, che potrebbe essere paragonata alla Caverna di Platone: finché lo spazio non è illuminato, ovvero non se ne è usciti, sarebbe da incoscienti tentare la sorte, cioè credere che la poca luce che vi penetra, possa assicurare il giusto discernimento.
      Esiste pure la condizione ben più grave, come ho già sostenuto, di scambiare il serpente per una corda: si passerebbe così da una situazione illusoria, ma che ancora garantirebbe una relativa sicurezza, ad una rischiosissima realtà dalla quale non ci sarebbe scampo, tanto più che non si avrebbe nemmeno più l’attenzione che al serpente andrebbe accordata, per credersi di fronte ad un’innocua corda!

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    5. Niente, non c'è veramente nulla da fare. Purtroppo, non conoscendo la corretta dottrina dell'adhyāsa e quindi misinterpretando l'esempio della corda e del serpente, non ce la fa ad avere un minimo di viveka e finisce per attribuire gradi all'Ātman e l'esistenza (gioco forza relativa, viste le limitazioni del non-Sé) all'anātman, in completa contraddizione con la śruti e con Śaṃkara. Sulla questione dell'illusione come reale a qualche grado in quanto percepita, errore che mutua da una certa pagina, si ritornerà, anche se è già stato spiegato che non si percepisce affatto l'illusione, si percepisce la realtà/corda, mentre il serpente è solo erroneamente concepito e sovrapposto dalla mente, ha solo dunque la natura di una nozione erronea. Se l'illusione "percepita" avesse davvero un qualche grado oggettivo di realtà,e non invece apparisse soltanto come tale perché sovrapposta al sostrato, l'unico Reale, ciò sarebbe inevitabilmente in contraddizione con molte implicazioni dell'advaitavāda, ma per accorgersi di questo bisognerebbe avere dimestichezza con il Bhāṣya, ecc. Infine sulla questione della paura, della precauzione et similia, c'è solo da constatare che è rimasto prigioniero dell'esempio e non ne ha compreso il fine, dandone una lettura addirittura psicologica che nulla c'entra con la realtà e con la rimozione dell'ignoranza di cui la dualità è un effetto. Sulla questione finale della paura, per il fatto che, identificato con l'anātman, teme che la dualità si riveli un serpente affatto reale, si risponde con Gauḍapāda: "3.39. Lo yoga definito ‘senza contatto’, invero, è difficile da comprendere per tutti gli yogin, perché gli yogin, che sogliono vedere la paura nel Senza-paura, ne hanno timore"; e "4.42 Il processo causale della creazione è stato descritto dai Saggi per amore di coloro che, costretti dalla percezione empirica e dal comportamento [inerente al loro stato], sogliono affermare l'esistenza reale dell'universo, atterriti dalla non-generazione assoluta dell'ente".

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    6. Carlo Rocchi, lei ha perfettamente ragione, ma la nostra forzatura psicologica (forse non proprio totalmente calzante all’uopo) non è stata scomodata con l’intento di attribuire gradi all’Ātman, ma solo per fare il punto sulla questione, a nostro avviso erronea, dell’illusorietà quale sinonimo di irrealtà: se come viene qui sostenuto, tutto ciò che viene a gradi diversi percepito è irreale, non avendo un qualche grado oggettivo di realtà, perché frutto di una falsa attribuzione, non si vede come quello da lei qui enunciato potrebbe avere un minimo di attendibilità, non potendo che costituire un puro e semplice nulla.

      Eppure, per dimostrare ciò, deve servirsi di mezzi illusorî (a proposito: vogliamo parlare della discutibile scelta di eleggere un blog per disquisire di certi argomenti?) per affermarlo, ché se fossero completamente irreali, cioè contraddittorî, non potrebbe in nessun modo parlarne in modo intelligibile, anzi non potrebbe in nessuno modo parlare, né esistere, né esserci Esistenza (mi pare che, etimologicamente, il valore di questo sostantivo sia abbastanza esplicativo!).

      «Se l'illusione "percepita" avesse davvero un qualche grado oggettivo di realtà e non invece apparisse soltanto come tale perché sovrapposta al sostrato, l'unico Reale…», ciò potrebbe anche essere inevitabilmente in contraddizione con molte implicazioni dell'advaitavāda, ma resterebbe ancora da spiegare come lei potrebbe, in queste condizioni, affermare che ciò sia indiscutibilmente vero!


      Rimanere prigionieri dell’esempio non implica necessariamente non comprenderne il fine, ma prendere consapevolezza di una condizione ontologica che non si supera col DIRE che non vi che “l’unico Reale”, dopotutto la nostra condizione di prigionia, per quanto illusoria, non precludendoci affatto la possibilità di assentire che ciò SIA “l’unico Reale”, cattività che, se fosse del tutto irreale come si sostiene, costituirebbe una pura e semplice contraddizione.

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    7. Premesso che: “Si potrebbe ancora dire che Brahma [*] è il Tutto assoluto, appunto perché è infinito; ma, d’altra parte, se le cose sono in Brahma, non sono Brahma, se considerate nel loro aspetto distintivo, appunto precisamente perché cose relative e condizionate; LA LORO ESISTENZA D’ALTRONDE È PURA ILLUSIONE PER LA REALTÀ SUPREMA; ciò che è detto per le cose e non potrebbe convenire a Brahma, non è che l’espressione della relatività, e, giacché questa è illusoria, la distinzione lo è ugualmente, poiché l’uno dei suoi termini s’annulla dinnanzi all’altro; infatti NIENTE PUÒ ENTRARE IN CORRELAZIONE CON L’INFINITO…”, in particolare, l’aspetto separativo di: “…questa individualità, lungi dal rappresentare realmente l’essere totale, non ne è che uno stato, fra una serie indefinita di altri stati, la cui stessa somma è niente ancora se paragonata alla personalità, che è l’essere vero, essendo il suo stato permanente ed incondizionato, L’UNICO CHE POSSA ESSERE CONSIDERATO ASSOLUTAMENTE REALE. Il resto è indubbiamente anche reale, ma SOLTANTO IN MODO RELATIVO, in virtù della sua dipendenza dal principio ed in quanto ne riflette qualche cosa, COME L’IMMAGINE PRODOTTA NELLO SPECCHIO TRAE LA SUA REALTÀ DALL’OGGETTO, SENZA IL QUALE NON AVREBBE ALCUNA ESISTENZA; ma questa minore realtà [la “donna un po’ incinta” come è stata qui definita, ndr…], che è solo partecipata, è illusoria in rapporto alla realtà suprema, come la stessa immagine è anche illusoria in rapporto all’oggetto; SE SI PRETENDESSE ISOLARLA DAL PRINCIPIO, QUESTA ILLUSIONE DIVENTEREBBE IRREALTÀ PURA E SEMPLICE. Si comprende dunque come l’esistenza, vale a dire l’essere condizionato e manifestato, sia CONTEMPORANEAMENTE REALE IN UN CERTO SENSO E ILLUSORIA IN UN ALTRO: questo è un punto essenziale, CHE MAI HANNO CAPITO GLI OCCIDENTALI CHE HANNO OLTRAGGIOSAMENTE DEFORMATO IL VEDANTA con le loro interpretazioni erronee e piene di pregiudizi.”.
      Ovviamente, si dirà che chi guarda “il dito” di Guénon, si accontenta fideisticamente della spiegazione e non si pone domande, mentre chi ha guardato “la luna”, le domande se le è fatte e ha trovato pure risposte, però resta il fatto inconfutabile di quello riportato nella citazione, al punto di pensare che, della luna, non abbiano assimilato che il lato oscuro!
      [*] A proposito di “Brahman” che qui si vede da un capo all’altro degli articoli: “Bisogna notare che Brahmâ è una forma maschile, mentre Brahma è neutro; questa distinzione indispensabile, della più grande importanza (poiché non è altro che quella del «Supremo» e del «Non-Supremo»), non può essere fatta con l’uso, molto in voga fra gli orientalisti, dell’unica forma Brahman, che ugualmente appartiene ad entrambi i generi; perciò sopravvengono continue confusioni, soprattutto in una lingua come l’italiana, dove il genere neutro non esiste

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  7. Maitreyī risponde alle nuove di Anonimo:
    1. È difficile dare una risposta al secondo confuso intervento di Anonimo. Una sola cosa è del tutto intellegibile, ed è quando, in risposta alle citazioni che abbiamo riportato, afferma: «Così si esprimerebbero la śruti e Śaṃkara? Mi permetto di dubitare che ciò sia vero, almeno se intesa letteralmente in questo senso»; e «anche Gauḍapāda e Śaṃkara, non altrimenti erano, ma non sono e non saranno mai, parte integrante di questa “isolata interpretazione del vedanta”». È evidente che lo scopo dell’Anonimo non è quello di cercare di capire le mie argomentazioni, ma di contraddire per partito preso quanto è affermato dalla śruti, Gauḍapāda, Śaṃkara e dai loro attuali rappresentanti, come avevamo già evidenziato in precedenza. Se quanto pubblico contraddice ciò che è diventato un suo sistema mentale, invece di contestare dall’esteriore, Anonimo vada in India e si faccia accettare da un ācārya di Vedānta. Verificherà personalmente dall’interno come stanno le cose.
    Poiché il nostro scopo non è quello di convincere chi non vuol capire, ma quello di correggere sempre gli errori quando si presentano, citiamo a sostegno dell’advaitavāda gli śloka precedenti e quello seguente di MUGK III.34. Le persone intelligenti e in buona fede avranno così una visione più completa di questa parte delle Kārikā di Gauḍapāda dedicata al sonno profondo. Per chi legge si tratta, ovviamente, di una informazione libresca, non essendo ricevuta direttamente dalla bocca del guru. La lettura della carta stampata è sempre a rischio del “libero esame” da parte del lettore: ma pur sempre può essere una indicazione da tenere in considerazione.
    “Quando, seguendo le istruzioni della scrittura e del maestro, la mente cessa di pensare (na saṃkalpayate), come conseguenza della realizzazione della Realtà che è il Sé, allora la mente diventa non-mente (amanastām); in assenza di cose da percepire, diventa libero da percezioni (agraham).” (MUGK III.32)
    “Si dice che la conoscenza libera dall’immaginazione (akalpakam) è non-nata, è non differente dal Brahman conoscibile. La conoscenza che ha Brahman come suo argomento è senza inizio e senza fine. Il non-nato è conosciuto dalla conoscenza non-nata.” (MUGK III.33)
    “Deve essere conosciuta con attenzione l’attitudine della mente quando è sotto controllo, dotata di discriminazione e liberata da ogni immaginazione. Ben diversa e per nulla simile è l’attitudine della mente di chi sta in sonno profondo.” (MUGK III.34)
    “Questa mente dissolve se stessa in sonno profondo, ma non quando è sotto controllo. Proprio quella mente diventa il Brahman senza paura e autoluminoso.” (MUGK III.35)

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    1. Maitreyī, pensi che la sensazione di confusione che lei ha avuto del nostro intervento, noi l’abbiamo provata da quando il Filippi (possiamo permetterci di credere, senza essere tacciati di avere ‘bontempo’, che Maitreyī sia uno pseudonimo del Prof. Filippi, o la teoria del “factotum” si attaglierebbe solo ad alcuni e non ad altri?) ha iniziato a pubblicare su questo sito i suoi scritti.
      Come che sia, sempre come per lei, anche per noi, finalmente, una sola cosa è del tutto intelligibile, e cioè l’aver avuto del tutto chiaro che la ‘manifestazione informale’ non esiste.
      Non capivamo, fino all’illuminazione dell’ultimo articolo di ieri del Prof. Filippi, quale fosse la ratio di tutto questo argomentare, a nostro avviso, contraddittorio, poi ecco che finalmente ci è apparso tutto molto limpido «…Poiché ci sono ostinati sostenitori dell’esistenza positiva di una “manifestazione informale” […] La veglia e il sogno, dunque, sono il dominio dell’individuale e l’idea (kalpanā) di suṣupti non è affatto l’“informale”, ma semplicemente una creazione dell’immaginazione. Se la tanto conclamata “manifestazione informale” in realtà non esiste, il termine in-formale esiste e designa, in forma negativa, il Brahman stesso, come anche in-finito, in-descrivibile, in-condizionato ecc…[cit.] ».
      Insomma, questi giochetti di prestigio semantici (facciamo notare che ‘informale’ equivarrebbe qui a ‘sovrai-individuale’ o‘sovra-formale’, non a ‘non-manifestato’ tout court) vorrebbero annullare le differenze ontologiche tra Empireo ed Eliso, Swarga e Bhuvas, Deva e “Jinn”, facendo rientrare tutto cartesianamente in uno dei due termini del famoso dualismo, in questo seguendo le indebite semplificazioni ad usum delphini di un qualsiasi dizionarietto moderno!
      Ecco che allora maqāmāt/ aḥwāl sarebbero “…risultati psichici delle tecniche usate nelle vie del non-Supremo (cit.)” e all’affermazione del Prof. Ventura “la realizzazione può dirsi realmente completa solo quando in essa siano compresi al tempo stesso il manifestato e il non-manifestato, il suono e il silenzio, il non-Supremo e il Supremo”, si conferma apoditticamente che “Questa, miei cari lettori dotati del ben dell’intelletto, non ha nulla a che fare con la realizzazione suprema [e chi l’avrebbe mai sostenuto? ndr.], la mukhya mukti, che non può essere completa o incompleta, ma semplicemente essere: quella descritta da Ventura è una semplice via di reintegrazione, quella che erroneamente si suole chiamare “piccoli misteri” [che già sfuggono all’aspetto individuale, quale passaggio al limite della realizzazione integrale dell’individualità umana, ndr.] (altrove abbiamo spiegato che anche i grandi misteri eleusini si basavano sui riti, perfino collettivi, e che perciò non possono rappresentare la via della conoscenza… [quando si dice la modestia, ndr.] [cit.]”
      Ecco, potremmo star qui a discutere fino alla fine dei tempi (che, sempre in contrasto con quanto affermato da uno degli apologeti “dotati di ben intelletto” in un commento precedente, non mancherebbe poi moltissimo) che non se ne caverebbe il famoso ragno! E con questo mi pare ci si possa civilmente e definitivamente salutare.

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    2. Errata c.: la nota “[e chi l’avrebbe mai sostenuto? ndr.]” inserita nella citazione, ci è sfuggita ed era parte di un discorso precedente che avevamo cambiato, perciò è da non tenere in considerazione

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  8. 2. Śaṃkara, commentando questo ultimo śloka afferma:
    “In sonno profondo la mente con tutte le tendenze e impressioni che sono i semi di tutti i pensieri, come ignoranza, egoismo, attaccamento ecc. dissolve se stessa e raggiunge uno stato seminale che è una specie di oscurità e di non-differenziazione; quando la mente è sotto controllo (nigṛhītam) per mezzo della conoscenza che insorge dalla discriminazione, non si dissolve e non raggiunge lo stato seminale di oscurità; perciò è ragionevole che le attitudini delle menti di chi dorme (suṣupte) e di chi ha la mente controllata siano differenti. Proprio questa mente diventa il Supremo non duale Brahman stesso.” (MUGKŚBh III.35)
    Perciò il jñāni, quando dorme, a differenza dell’ignorante, ha sempre la mente controllata, avendo trasceso la mente che è come dire che ha raggiunto la non-mente, la pura coscienza. Infatti la mente individuale è solo un riflesso della coscienza e da quest’ultima riceve quella limitata consapevolezza che dimostra col ragionamento. Ovviamente con mente controllata, mente trascesa e non-mente non s’intende che, avendo superato i pensieri e l’illusione immaginifica, il jñāni sia diventato demente! Tutto il contrario, com’è dimostrato dalla cristallina dottrina dei maestri advaitin.
    Quando l’ignorante si sveglia dal sonno profondo, dove la sua mente di veglia non ha accesso, cerca di spiegarsi l’esperienza di suṣupti proprio con questa mente limitata. Egli allora afferma che “Lì non c’erano gli oggetti, non c’era il mondo, né tempo né spazio; c’era solo tenebra e non c’ero nemmeno io come soggetto percipiente”. La mente della veglia ha così immaginato la terza avasthā proiettandola sulla Realtà, come se fosse stata una sua esperienza individuale. Poi, a seconda della corrente della via del non-Supremo di appartenenza, afferma che quella tenebra è Īśvara, piuttosto che Māyā, la Śakti, prakṛti, o lo stato causale (kāraṇa avasthā). Sono tutte costruzioni mentali per cercare di spiegare con la mente della veglia cosa sia ciò su cui la mente della veglia non può indagare per sue limitazioni naturali. Tradizionalmente non si è mai interpretata suṣupti come “manifestazione informale”, (tale concetto di una “manifestazione arūpin” non esiste né è mai stato usato dal karma o dal jñāna kāṇḍa. Arūpin è usato per indicare solo l’assoluto Brahman), ma anche questa nuova teoria è da annoverare tra le speculazioni fatte dalla mente della veglia per spiegare lo stato di prājña, inaccessibile alla mente individuale.

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  9. 3. Invece la mente sotto controllo del jñāni non rimane esclusa dall’esperienza sonno profondo come la mente dell’ignorante. Anzi, la sua “conoscenza libera dall’immaginazione (akalpakam), che è non-nata, è non differente dal Brahman conoscibile”. (Conoscibile non significa qui “oggetto di conoscenza” poiché è stato precisato sopra che Il non-nato è conosciuto dalla conoscenza non-nata.) Questo è il significato di quanto si afferma con la frase “la terza avasthā, invero, non è uno stato, ma è il Quarto”. Il quale, come si sa, non è un’avasthā.
    Anche il jñāni appare agli altri che si trovano nella veglia, sveglio, sognante o addormentato. Ma quello è ciò che vedono gli ignoranti. Infatti il nostro Anonimo, lanciandoci la frase che citiamo di seguito come se fosse qualcosa che dovrebbe essere da noi contestato, dice, pur senza volerlo, una verità: “Di questo passo, sia lo stato di Vaishwanara che di Taijasa, chi avrebbe questa mente sotto controllo, non li riconoscerebbe come Stati ma come Turija [Turīya], ed in effetti, non per chi ha una mente sotto controllo (perché no? Ha letto con attenzione ciò che significa avere la mente sotto controllo? Cioè esattamente quello che aggiunge di seguito), ma per chi non ha più limitazioni di nessun tipo, mente compresa, questo è esattamente ciò che È!” Al fine di correggere un po’ la forma della affermazione dell’Anonimo, ma non la sostanza, aggiungiamo che per il jñāni non ci sono più le avasthā: egli è sempre eternamente libero, è il Brahmātman. Invece, lo ripetiamo, sono gli ignoranti che lo vedono in Vaiśvānara, Taijasa, o in sonno profondo.
    Si deve, in ogni caso, sempre tener ben presente che il punto di vista vyāvahārika è usato metodicamente come adhyāropa (assunzione dell’errore per poterlo poi superare). Non è possibile contrapporre il punto di vista vyavahāra alla Realtà pāramārthika come se fossero sullo stesso piano. In ogni caso si deve affrontare le dottrine che non si comprendono senza pregiudizi settari e con sincerità. La vita tradizionale è la sincerità: questa non è propriamente una concezione metafisica, ma è un consiglio utile di buon comportamento da seguire per cominciare a purificare la mente.

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  10. Maria Chiara de' Fenzi28 settembre 2020 alle ore 13:07

    Sig. Anonimo, lei è libero di interpretare male e di non capire. È normale che ciò accada dato che non è iniziato ad alcuna scuola hindū. Lei ha in testa una folla di nozioni che ha accumulato nel tempo e che con la sua fantasia ha voluto mettere a confronto; poi le ha mescolate creando un vero minestrone, infilando disordinatamente, nella citazione che segue, concezioni di fonti diversissime di cui non capisce la vera collocazione e che, in ogni caso, appartengono tutti allo stato di veglia eccetto uno solo che appartiene allo stato di sogno (saprà quale, considerata la sua preparazione dottrinale) (“Insomma, questi giochetti di prestigio semantici (facciamo notare che ‘informale’ equivarrebbe qui a ‘sovra-individuale’ o‘sovra-formale’, non a ‘non-manifestato’ tout court [questo è un errore così radicato in persone con la sua preparazione da essere irremovibile]) vorrebbero annullare le differenze ontologiche tra Empireo ed Eliso, Swarga e Bhuvas, Deva e “Jinn”, facendo rientrare tutto cartesianamente in uno dei due termini del famoso dualismo, in questo seguendo le indebite semplificazioni ad usum delphini di un qualsiasi dizionarietto moderno!” e ancora “ Non a caso lei ha citato la condizione poco favorevole di trovarsi in una stanza semibuia, che potrebbe essere paragonata alla Caverna di Platone”). Lascio stare per pura compassione l’accenno al dualismo cartesiano e alla caverna platonica, qui citati a sproposito, e vado diretta al grano: la sua ignoranza dell’uso degli esempi nel metodo vedāntico l’ha portata ha voler fare un esercizio dialettico completamente assurdo e del tutto inutile: “ma io non ho affatto sostenuto che ci siano gradi di realtà del serpente se si guarda una corda, ma gradi di realtà della corda, uno dei quali e che ‘sembri’ un serpente”. Nell’esempio, la corda rappresenta l’Assoluto: ma lei davvero crede che la Vera Natura del Sé abbia diversi livelli di Realtà? La Realtà è Unica e senza secondo, questo è l’Advaita Vedānta insegnato dalle Upaniṣad e da Śaṃkara. I gradi di realtà dell’“assoluto” sono credenza tipica della conoscenza del non-Supremo, che è la prospettiva nella quale lei è immerso. Per questa ragione lei si accanisce per partito preso a vedere ogni cosa dal solo punto di vista della veglia; è liberissimo di farlo, però è inutile che si arrabbi se viene corretto. Non lo si fa per fare “dispetto” come suppongo lei pensi, visto il modo in cui reagisce (atteggiamento condiviso da altri in altre sedi). Abbiamo corretto l’errore per fare emergere la realtà: nulla di più. Mi rendo conto che sia difficile staccarsi e liberarsi da un sistema di pensiero sclerotizzato; tuttavia, bisogna distaccarsene altrimenti si rimane acriticamente nelle proprie convinzioni di fede, difendendole con ogni mezzo contro tutto quello che pare scuoterle e minacciarle. Il Vedānta non si basa su convinzioni, su dogmi, su sistemi mentali. Il Vedānta tratta dell’unico fatto Reale, l’Ātman, la Vera natura del Sé, l’Essere, Pura Coscienza.
    Buon per lei se ha un suo maestro musulmano, col quale si trova bene: continui a seguire quel metodo, continui la sua via; ma non prenda come un fatto personale se correggiamo gli errori che continua a commettere riguardo al Vedānta, perché lo facciamo con cognizione di causa. Io, mi dispiace deluderla, non sono il Prof. Filippi (come non lo è neppure Maitreyī, da dove è nata questa fantasia?). Sono una donna occidentale, sono stata iniziata da un maestro hindū, ho fatto il percorso di karma yoga, e ho un saṃnyāsin come maestro di Vedānta. Quindi, se a lei non va cosa dice il Vedānta non posso farci nulla, ma faccia il favore non lo alteri in qualcosa che non è, solo per farlo quadrare, con inutile pedanteria, con le sue credenze.
    “Immersi nell’ignoranza, gli intelligenti che si reputano dotti vagano confusi come ciechi guidati da un cieco. (Kaṭha Upaniṣad, I. 1. 5).”

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    1. Sig.a de’ Fenzi, intanto mi permetto di dirle che la metafisica non è prerogativa delle scuole hindū (anche se voi qui avete basato tutte le vostre certezze su questo fatto…), per cui, la legittimità di poterne discutere con pertinenza dottrinale, non è esclusiva di chi ha intrapreso un percorso iniziatico in tale forma tradizionale, e il resto: mosca!
      Quello che ho in testa io, anche se qualche volta vacillo, lo so solo io e io soltanto, figuriamoci se lei può sussiegosamente e impudentemente permettersi di parlare nei miei riguardi di “folla di nozioni” che avrei accumulato nel tempo e che con la mia fantasia (?) avrei messo a confronto; il “minestrone” di cui lei parla, fa questo effetto proprio a quelli che credono di avere un’esclusiva sull’argomento, mentre in realtà sta proprio a testimoniare che la Metafisica non è appannaggio di chicchessia o di checchessia! Sul mescolamento, in parte le do ragione, già avevo parzialmente rettificato con il Sig. Rocchi, l’inopportunità di citare un aspetto “psicologico” – solo questo, intendiamoci: in un blog, di botto, trovare degli esempî calzanti rispetto a quello che si vuol sostenere, non è mai esercizio agevole, con l’aggravante che stiamo giocando a “uno contro tutti” – in riferimento all’aneddoto della corda e del serpente, di cui avrà già létto, per cui è inutile star qui a ripetere ciò che ho scritto, ma che lei, sempre in tono apodittico, tipico di questa collettività con la quale si schiera, si permetta di dire che io non ne capirei la vera collocazione, questa è una faccenda, si metta il cuore in pace, che, assieme ai suoi compagni di percorso, potrete permettervi il lusso di pensare e di dire, ma non potrete mai avere la certezza di dirimere.
      Détto ciò quindi, anch’io vado diretto al grano.
      In parte ho già risposto al suo quesito con il mio di oggi delle 9:20, comunque qualche altra considerazione non sarà inutile: affermare come ho scritto al Sig. Rocchi che l’intento che mi ha spinto ad usare un paradigma non del tutto pertinente, non era “di attribuire gradi all’Ātman”, significava che, nell’economia di quel contendere, mi stavo ponendo dalla “prospettiva (qui si parla per analogia, altrimenti non se ne potrebbe parlare affatto, che poi non partano i soliti rimbrotti dei maestrini…)” dell’Assoluto, ma se ci si pone dalla prospettiva (questa volta alla lettera) della Manifestazione, alla sua domanda “ma lei davvero crede che la Vera Natura del Sé abbia diversi livelli di Realtà?”, le debbo rispondere a malincuore: sì! E per questa semplicissima ragione già riportata nel mio commento precedente, ragione sulla quale, le vostre “inattaccabili” convinzioni, non possono nulla: “…se le cose sono in Brahma (notare che questa è la forma corretta - che non è “Brahmā” al maschile - da usare, non “Brahman”: per maggiori dettagli vedere la nota nel mio delle 9:20), non sono Brahma, se considerate nel loro aspetto distintivo, appunto precisamente perché cose relative e condizionate; LA LORO ESISTENZA D’ALTRONDE È PURA ILLUSIONE PER LA REALTÀ SUPREMA (…) infatti NIENTE PUÒ ENTRARE IN CORRELAZIONE CON L’INFINITO (…) L’UNICO CHE POSSA ESSERE CONSIDERATO ASSOLUTAMENTE REALE. Il resto è indubbiamente anche reale, ma SOLTANTO IN MODO RELATIVO, in virtù della sua dipendenza dal principio ed in quanto ne riflette qualche cosa, COME L’IMMAGINE PRODOTTA NELLO SPECCHIO TRAE LA SUA REALTÀ DALL’OGGETTO, SENZA IL QUALE NON AVREBBE ALCUNA ESISTENZA (…) SE SI PRETENDESSE ISOLARLA DAL PRINCIPIO, QUESTA ILLUSIONE DIVENTEREBBE IRREALTÀ PURA E SEMPLICE. Si comprende dunque come l’esistenza, vale a dire l’essere condizionato e manifestato, sia CONTEMPORANEAMENTE REALE IN UN CERTO SENSO E ILLUSORIA IN UN ALTRO : questo è un punto essenziale, CHE MAI HANNO CAPITO GLI OCCIDENTALI CHE HANNO OLTRAGGIOSAMENTE DEFORMATO IL VEDANTA con le loro interpretazioni erronee e piene di pregiudizi.”.
      (continua...)

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    2. (seconda parte...)

      Ecco qual è la ragione per la quale mi “accanisco”, non certo per partito preso: se voi che non siete avvezzi ai dogmi riuscite a confutare questa verità, alla quale aderisco totalmente, io cambierò idea all’istante, ma per adesso e in attesa di confutazioni, le resto ancora fermamente ancorato.
      Che questa visione dei “gradi” costituisca, non la “credenza” (?), ma le certezze delle vie del non-Supremo, posso anche in parte concordare, ma a patto che, come sembra di capire, questa prospettiva non debba essere esclusiva di quella del Supremo – ché sarebbe un’ennesima contraddizione – come sembra essere, invece, dai vostri convincimenti, appannaggio solo della tradizione hindù, non già per capibilissime secolarizzazioni delle altre forme tradizionali, ma per la loro incompletezza “embrionale”, se mi è consentito questo termine.
      E per finire: ma chi la autorizzerebbe a credere che io sia qui a disquisire di queste cose perché “indispettito”? Ma esiste ancora un senso del ridicolo o è andato completamente perduto? Seguendo il vostro pensiero le potrei chiedere: come potrebbe essere così sicura che sarei indispettito dal modo in cui reagisco, se qualsiasi tipo di azione, per voi, non costituirebbe se non una pura e semplice irrealtà, conseguentemente applicata anche ai suoi effetti? E per lo stesso motivo, come potreste mai corregge errori che continuerei a commettere a mo’ di mitraglietta?
      PS: anche a me spiace tantissimo deluderla: non ho mai pensato che lei fosse il Filippi; mi riferivo più che al caso particolare di Maitreyī, a quella condizione per cui, solo voi potete essere persone diverse sotto diversi pseudonimi, mentre la stessa cosa per altri, varrebbe come espressione di un unico “factotum”, tutto qui; adesso lei mi rassicura che nemmeno Maitreyī lo è? Bene, anche se la faccenda non ha per me il benché minimo interesse, non mi resta che crederle!

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  11. Con la confutazione (apavāda) dell’Essere universale (saṃbhūti, Hiraṇyagarbha) si nega anche l’esistenza universale (sambhavaḥ pratiṣidhyate). Con il testo "chi potrebbe farlo nascere?" se ne nega qualsiasi causa. (Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā III.25)
    Quando si nega la meditazione sul saṃbhūti (Hiraṇyagarbha) si invalida l’intera manifestazione sulla base dell’affermazione “Entrano in una tenebra ancor più cieca quelli che meditano sull’Essere universale (saṃbhūti)” (Īśa Upaniṣad XII), perché se Hiraṇyagarbha fosse davvero reale, la meditazione su di lui non sarebbe confutata così chiaramente.
    Obiezione: con la confutazione di Hiraṇyagarbha s’intende disapprovare la combinazione di meditazione e di rituali, come è detto nello stesso testo: “Entrano in una cieca tenebra coloro che si impegnano nei riti [qui definiti avidyā]” (ĪU IX).
    Risposta: è corretto dire che con confutazione della meditazione su Hiraṇyagarbha s’intende confutare l’uso di meditare su saṃbhūti in combinazione con rituali chiamati vināśa (distruttibili, in quanto azioni). Inoltre, proprio perché si vuole che i riti vināśa siano mirati a trascendere la morte, la quale consiste nelle inclinazioni prodotte dall’ignoranza che si hanno fin dalla nascita, si pensa che anche la combinazione di meditazione sulla divinità e di rituali ingiunti per la purificazione della mente conduca oltre la morte. La morte consiste nel duplice desiderio per l’azione e per i suoi risultati, in cui si trasforma il duplice impulso generato dal desiderio dei risultati delle azioni. In questo caso l'uomo sarà purificato solo dall'impurità di quella morte caratterizzata dal duplice desiderio. Solo in seguito, infatti, sorge inevitabilmente la conoscenza dell'unicità del Sé supremo in chi si distacca dal mondo, sempre impegnato nella riflessione sulle verità upaniṣadiche, che fa superare la morte che non è altro che avidyā caratterizzata dal duplice desiderio. Perciò, rispetto alla preesistente ignoranza, la conoscenza di Brahman, che porta all'immortalità, viene alla stessa persona successivamente: e quindi si dice che la seconda sia preparata dalla prima. Di conseguenza, poiché la meditazione su Hiraṇyagarbha ha uno scopo diverso da quello della conoscenza del Brahman che porta all'immortalità, la confutazione della meditazione su Hiraṇyagarbha equivale alla sua negazione: è così perché non ha una diretta attinenza con la Liberazione, pur essendo un mezzo di purificazione. Così, dalla confutazione della meditazione su Hiraṇyagarbha ne consegue che egli ha solo un'esistenza relativa: e quindi si nega che questa esistenza relativa possa essere definita immortalità nell’ottica dell'unicità assolutamente reale del Sé. Così, “chi potrebbe far nascere il jīva” (BU. III.9.28-7), che solo l’illusione fa apparire come individuo e che esiste soltanto finché dura l'ignoranza? Allo sradicamento dell'ignoranza egli raggiunge la sua vera natura, perché nessuno, infatti, può far venire in esistenza il serpente, sovrapposto alla corda dall’ignoranza e che scompare una volta rimosso dalla discriminazione. Allo stesso modo nessuno può creare l’individuo. Le parole "kaḥ nu, chi dunque?", essendo usate con una interrogazione dubitativa, escludono qualsiasi causa (kāraṇam praṣidhyate). L'idea è che quando scompare una cosa che è stata creata dall'ignoranza, appare evidente che non aveva alcuna causa da cui nascere, secondo la śruti: "Esso non è nato da alcunché e nulla da esso è nato" (KaU I.2.18). (Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya III.25)

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    1. Non mi resta, quindi, che augurare a tutti voi un grande "in bocca al lupo" affinché possiate realizzare appieno, per la Via diretta, lo Stato Incondizionato, dell'Identità Suprema, dell’Ātman, del Brahman (come voi dite), che dir si voglia, senza passare per inutili orpelli rituali o di altro genere consimile.

      Mi permetto però di dubitare che, sia per le modalità (un blog), sia nel merito, proporre tali elevatissime possibilità di realizzazione come se fossero un qualsiasi prodotto commerciale (perché, che lo vogliate o meno, questa è la sensazione che se ne ricava…), in più rivolte ad un pubblico quale quello occidentale moderno, di cui si conoscono benissimo le finissime doti intellettuali, sia del tutto decontestualizzato dal vero intento con cui sono state scritte le verità che, lei Maitreyī, puntualmente riporta con magistrale precisione, il tutto non costituendo, mi sia permesso dirlo giunti a questo punto, se non una pericolosa “illusione” che potrebbe, come già ho evidenziato, far scambiare il serpente per una corda e non viceversa.

      As-salamu alaykum

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  12. Anonimo, così dicendo si defila, non ha risposto neppure ad una virgola di quel che le risponde Maitreyī. Fa della facile ironia per cambiare discorso, insinuare senza esserci la base dottrinale, non risponde alle citazioni di Śaṃkara. Il blog, che penso in molti stiano seguendo, non è ovviamente un supporto di alcuna realizzazione ma il palcoscenico in cui sono state presentate le differenti posizioni, e di questo ringrazio tutti coloro che sono intervenuti fino ad ora, penso a nome di tutti. Anonimo, che sia su carta o su uno schermo che differenza fa? E’ il contenuto che conta, sprezzare il mezzo è pretestuoso. Personalmente non ho letto nulla che possa apparire come “prodotto commerciale” ma scambi di altissimo livello dottrinale, tra questi anche i suoi interventi; poi, perché irridere questi disgraziati occidentali? Chi è riuscito a seguire il filo di questo interessante e non facile scambio è, presumo, un lettore occidentale. Il giudizio di chi tra le due posizioni sia il “serpente” e chi la “corda” dipende tutto dalla comprensione di questi, rimangono le ultime osservazioni di Maitreyī (o meglio di Śaṃkara che dice cose molto chiare), perché non rispondere senza divagare in supposizioni?

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    1. Mi permetta Sig. Manlio, ma credo che le sia sfuggita tutta la serie di commenti dell’altro articolo (“A proposito di un’alleanza anomala”) per i quali non direi che possa dirsi del sottoscritto che sia uno che se la dà a gambe levate! Mi sono permesso questo tipo di ironia, dopo la bellezza di una ventina di interventi, compresi anche quelli a questo articolo, dei quali solo il primo non è mio, pur se sotto lo pseudonimo Anonimo.
      Il punto è un altro: quello che io contesto non sono le citazioni di Śaṃkara nel merito, che conosco benissimo e che condivido appieno, ma l’uso letterale, strumentale e decontestualizzato che ne fanno i fautori di questa iniziativa metodologicamente discutibilissima: non so lei, ma io non posso che scorgevi un tipo di propaganda affatto fuori luogo.
      Inoltre, io non ho affatto detto che questo possa apparire come, o essere, un prodotto commerciale, ma che viene usato un metodo per proporlo paragonabile a quello che si usa per la vendita dei prodotti commerciali, che è tutta un’altra questione…
      Non sono punto qui per confutare Śaṃkara – e come sarebbe possibile? – ma il metodo con il quale viene proposto, metodo che non tiene conto di tante condizioni che se viste dall’Assoluto, non hanno e non possono avere nessuna importanza, viceversa da una prospettiva più limitata, ne hanno eccome, a maggior ragione per un ambiente come quello occidentale (se ne faccia una ragione), formato da individui assolutamente avulsi, non solo a queste vette intellettuali, ma squalificati per qualsiasi tipo di iniziazione, e se dico questo è perché so di cosa parlo, per aver conosciuto personalmente qualcuno che adesso aderisce entusiasticamente a questa iniziativa.
      Alla fine, a questo si riduce tutta la faccenda, per la quale mi pare di aver dedicato anche troppo del mio tempo, cercando di argomentare.
      Qui siamo a questi livelli: Socrate fischia; il treno fischia: Socrate è un treno! Quindi: cui prodest?... Cui prodest scelus, is fecit!

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    2. Anonimo, è evidente che mi riferivo all’ultimo commento di Maitreyī (nel presente post). Essendo un dibattito, con un intervento si risponde al precedente; certo che ho letto i suoi (?) precedenti ma sarebbe interessante una risposta a quello specifico. Poi sulla questione dell’anonimato mi conceda un certo disappunto: è una pessima abitudine, non si capisce chi è l’Anonimo dato che più utenti possono usare lo stesso anonimato. Un gruppo di lettura di 16 persone cui partecipo e che segue il dibattito è diviso tra 8 per Alberto Ventura e 7 Masetto della Rivista di Studi Tradizionali, 1 Paolo Urizzi… ridicola tombola, lo ammetto, ma sarebbe interessante sapere chi scrive e non lasciare questo dubbio.
      Senza parteggiare per nessuno si può almeno constatare oggettivamente che sul sito Veda Vyasa Mandala le persone che vi scrivono hanno un’identità, nome e cognome, anche quando è solo Maitreyī basta andare sul sito per vedere di chi si tratta per giunta con foto; leggendo il sito Veda Vyasa Mandala è ben chiaro il legame tradizionale verificabile per chi ne avesse voglia, piaccia o non piaccia, in passato c’è chi ha criticato le foto, invece ben vengano per verificarne la bontà per chi ne abbia la possibilità; invece dalla parte di Anonimo/i, chi sono? da dove vengono? chi rappresentano? con quale autorità? ma soprattutto cosa nascondono dietro l’anonimato? Chi non ha il coraggio di esporsi ha certamente qualcosa da nascondere, soprattutto perché, quanto viene detto e scritto nulla ha di compromettente o di giuridicamente perseguibile. Non vorrei sembrare troppo sospettoso ma chi non fornisce questi dati basilari richiama egli stesso una certa diffidenza prima ancora di leggere quanto scritto giusto o sbagliato che sia.
      Non so dove lei viva ma nella società civile ci si presenta e poi si inizia un dialogo, un blog non fa eccezione.
      Posso immaginare tutte le sue obiezioni in merito a questo argomento, la prego di non rispondermi evocando il segreto iniziatico né una realizzazione che richieda questo anonimato, solo per informarla che, almeno per quanto mi riguarda, rimane una certa diffidenza e non penso di essere solo se, come le ho già detto il disappunto è condiviso tra 16 lettori su 16, certamente non appartenenti a nessuna delle due parti.
      Personalmente non ci vedo nessuna propaganda almeno non più di quanto non ne faccia lei confutando: leggo solo delle eccellenti esposizioni dottrinali da parte del gruppo Veda Vyasa Mandala e da parte dei differenti Anonimi, esposizioni da cui ognuno trarrà la propria risoluzione, ecco tutto. Solo chi ha in animo un rancore vede qualcosa di più di questo. Dalla parte del gruppo Veda Vyasa Mandala leggo nel sito testi di dottrina e la filiazione tradizionale che li ispira, vorrei leggere lo stesso, filiazione e dottrina, da parte di chi li confuta, senza questo presupposto rimane solo speculazione filosofica, così come rimane per me incomprensibile la sua chiusa “Cui prodest scelus, is fecit!” in questo contesto.
      Manlio Manuli, un lettore

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  13. Sig. Manlio, a parte due commenti di altri due maleducati utenti “Anonimo”, il primo di questa serie e l’ultimo dell’altro articolo che si firma “daouda”, tutti gli altri post, fino a questo momento, sono da ascrivere al sottoscritto.
    In parte concordo con quello che dice, ma la mia “scelta” di postare con lo pseudonimo “Anonimo” è stata dettata dalla praticità dell’inoltro che tale blog offriva, per cui, non essendo molto avvezzo a questo tipo di comunicazione, né avendo la possibilità/volontà di iscrivermi con profili privati e altre diavolerie simili, sono stato costretto ad avvalermi di questa modalità non del tutto chiara, lo ammetto, ma nemmeno del tutto caotica, se si ha un minimo di perspicacia nel collegare la logica delle risposte.

    Détto questo: che cos’è che importa “chi” lo dice o “che cosa” si dice? Avrebbe più validità il contenuto se appiccicassi un avatar con la mia bella facciona? Ma anche ne avessi la possibilità, non sarei certo così ingenuo da spiattellare il mio nome, cognome e ritratto (che poi non avrebbe che la valenza di uno pseudonimo a sua volta…) a degli sconosciuti e su “luoghi” virtuali affatto torbidi e sospetti (i sé non in riferimento al blog particolare che ci ospita…), verso i quali nutro un’incurabile idiosincrasia da sempre.
    Facciamo così: se dovessi ancora (ma non credo) commentare qualcosa, sarà mia cura apporre alla fine del testo lo pseudonimo di… vediamo: “GATTO”! Problema risolto…

    “…invece dalla parte di Anonimo/i, chi sono? da dove vengono? chi rappresentano? con quale autorità? (cit.)”: stai a vedere adesso che per commentare su un trivio virtuale bisogna avere un mandato o essere “missionati”! Mi pare molto semplice: non rappresento che me stesso; non le piace? Non mi tenga in considerazione: altro problema risolto!
    “Chi non ha il coraggio di esporsi ha certamente qualcosa da nascondere, soprattutto perché, quanto viene detto e scritto nulla ha di compromettente o di giuridicamente perseguibile. (cit)”, viene un po’ da sorridere … Querele a parte, non attuabili in queste condizioni virtuali nemmeno per calunnie e offese fatte come se piovesse (ma è al corrente di alcuni blog che sembrano più l’ultima Bolgia dantesca che consessi di comunicazione?), diciamo che sì, ho qualcosa da nascondere, ma niente che possa riguardarvi, né che possa, se lo palesassi, cambiare di una virgola il significato di quello che, fin qui, ho sostenuto: certo, lei è un po’ troppo sospettoso (e curioso aggiungo)!
    Se nella società civile (?) prima ci si presenta, in un blog, che è lungi dal non far eccezione, non è del tutto consigliabile, scelta legittima che non è dettata punto da maleducazione, come lei vorrebbe insinuare; ma mi dica: il PIN del suo bancomat lo tiene nascosto o lo sbandiera ai quattro venti per non destare diffidenza e non passare da maleducato? Si metta il cuore in pace: i suoi ‘desiderata’ non potrà mai soddisfarli, per cui temo che i “misteri” non verranno mai svelati e le resteranno per sempre incomprensibili.
    E se riterrà, ipso facto, che quanto vado dicendo non sia niente di più che una inconcludente speculazione filosofica, beh, me ne faro a malincuore una ragione, ma questo è: prendere o lasciare!

    Quindi, cominciamo subito (per la verità con colpevole ritardo…) con quanto promesso circa lo pseudonimo…

    GATTO.

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    1. Sig. GATTO (comprenderà anche lei quanto questo sia ridicolo e francamente mi sembra una presa in giro, ma questo è, non la posso obbligare) chiedevo la sua identità (come da mia precedente) perché se da una parte è tutto chiaro, nome e cognome e lignaggio iniziatico, piaccia o non piaccia ma almeno si sa qual è la provenienza di quello che viene detto, dall’altra, la sua, non è per nulla chiaro; non vuole, va bene lo stesso, i lettori potranno trarre le loro conclusioni. Certo che è importante sapere il “chi” scrive; un conto è l’autorità di chi è ricollegato a questa o quella organizzazione iniziatica per cui ciò che scrive è frutto di un’esperienza diretta e un conto è la semplice opinione di chi è formato e fermato alle sole letture, degno anche lui di essere ascoltato ma ammetterà la differenza dei due casi.
      Quindi la mia non è curiosità (a volte le accuse riflettono solo il pensiero dell’accusatore non essendo capaci di pensare in modo diverso) ma da esterno, così come la maggior parte dei lettori, avrei le idee più chiare se, come penso, lei fosse un autore di cui si son letti i testi e così comprendere la continuità e la coerenza con gli interventi in questo blog.
      Sì, società civile, non è così scandaloso; a una conferenza prima di parlare non si sentirebbe obbligato anche lei a presentarsi ancorché rivolto a degli sconosciuti? Sono gli stessi che potrà trovare dietro a un blog, lettori interessati, non vedrei demoni ad ogni angolo, finirà per crearseli; inoltre se ritiene il blog (malgrado la smentita) una bolgia dantesca, luogo virtuale torbido e sospetto nonché trivio virtuale, perché li legge e ci scrive? Perché li legge e ci scrive (con insistenza) se non fosse toccato in prima persona dai post in oggetto?
      Infine che relazione ci sia tra l’identità (la sua) di chi espone legittimamente e convintamente la dottrina, il PIN del bancomat e i ‘misteri’ che mi sarebbero preclusi lo sa solo lei, ma la prego di tenersi la risposta, mi tengo i miei ‘desiderata’, non ci muoio, penso di aver capito con chi sto parlando, non l’identità ma la qualità e mi basta, non si scomodi con ulteriori risposte, non piace solo a me probabilmente piace ad altri. Di una cosa comunque sono sicuro, i lettori sono certamente disinteressati a tutto questo e preferiscono leggere altri tipi di interventi quindi non rubiamo altro spazio e tempo. La saluto.

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    2. "...nome e cognome e lignaggio iniziatico, piaccia o non piaccia ma almeno si sa qual è la provenienza di quello che viene detto...": lei con questa uscita si conferma di essere proprio "un lettore" e di un'ingenuità sopraffina; sul resto sorvoliamo: un in bocca al lupo anche a lei allora, ne avrà certamente bisogno... GATTO

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  14. Errata c.:"(IN sé non in riferimento al blog particolare che ci ospita…)

    GATTO

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  15. Gentilissimo Anonimo,
    grazie per l’augurio, anche se non è pertinente perché si augura di raggiungere qualcosa in futuro, una meta condizionata da spazio e tempo. Il mokṣa, invece, è qui e ora: c’è solo da capirlo.
    “[…] il sincero mumukṣu e cercatore di alto livello, spinto dall’unica aspirazione di raggiungere mokṣa qui e ora in questa vita, dovrà attuare il metodo di ātmānātma viveka [...]” (Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, Commento a “Le Cinque Gemme dell’Advaita”, Milano, Ekatos Ed. Pr. 2020, p. 58)
    “Il mokṣa è veramente l’esperienza intuitiva che il proprio Sé è Brahman (Brahmātmabhāva), che è eternamente auto sussistente e che può essere ottenuto qui e ora solo conoscendolo nel modo esatto. […] Per concludere produrremo un’ultima citazione:
    “Per questa ragione, dato che il fenomeno di essere dotati di un corpo è causato da un pensiero falso (mithyā pratyaya), solo il jñāni diventa privo di un corpo (videhi) mentre è ancora in vita. Questa verità così è stabilita” (BSŚBh I.1.4).” (Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’Avidyā; https://vedavyasamandala.com/6-lautentica-dottrina-di-saṃkara-sullavidya/)
    Aggiungeremo che non abbiamo mai usato la sua espressione “senza passare per inutili orpelli rituali o di altro genere consimile” per definire i metodi del karma yoga atti a purificare la mente. Tuttavia: “Ciò è vero per coloro che non hanno accesso all’insegnamento tradizionale impartito dal guru, per coloro che non hanno studiato le upaniṣad, per coloro che hanno la mente completamente rivolta agli oggetti esterni dei sensi, e per coloro che non si sono presi la briga di capire la natura dei validi mezzi di conoscenza. Ma, per coloro che sono di natura diversa, è altrettanto impossibile considerare reale l’esistenza della dualità di soggetto-oggetto, perché essi non vedono altro che la Coscienza dell’Ātman [...] perciò la possibilità di questa indagine e di colui che indaga è del tutto riconosciuta. Dunque, non è necessario alcuno sforzo per ottenere la conoscenza; lo sforzo è necessario solamente per rimuovere l’idea della sovrapposizione di Ātma-anātman. Perciò è del tutto possibile raggiungere la perfetta conoscenza” (Bhagavad Gītā Śaṃkara Bhāṣya XVIII.50.)
    A proposito di quanto lei dice dei nostri lettori occidentali, abbiamo la prova che chi è in grado di capire ha accolto i nostri scritti favorevolmente. Questo per noi è sufficiente. Quanto a coloro che rifiutano ciò che riportiamo, essi si autoescludono automaticamente. Le verità minori devono rimanere riservate, in quanto possono essere comprese in modo distorto. Invece per la verità metafisica non c’è necessità di riservatezza. Semplicemente, o la si capisce oppure non la si capisce affatto.

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    1. Maitreyi, il “gentilissimo”, a meno che non sia ironico come i miei auguri, se lo può benissimo risparmiare la prossima volta: questa vostra fastidiosa spocchietta da maestrini del Vedanta “prêt-à-porter” ha francamente un po’ stancato! Per attuare quello che voi ripetete a pappagallo, citando a desta e a manca passi di Śaṃkara come fossero recensioni di ‘Tripadvisor’, necessita di una realizzazione già effettiva che, per stare di manica larga, come minimo deve essere quella dei “Piccoli misteri”, non quella di… bidello! Ma cosa crede mai significhino le frasi da lei riportate come “…il sincero mumukṣu e cercatore di alto livello…”, che dà prova in questo modo di non saper nemmeno cosa cita, che l’“alto livello” dovrebbe essere costituito da un semplice quanto inutile e comico assenso razionale alla validità del concetto di Mokṣa? Credete sia sufficiente parlare di corde e serpenti, che pare di essere dal ferramenta o in uno zoo, a scelta, per scardinare quell’illusione che voi credete irreale? Di quale intuizione andate cianciando se non capite nemmeno a chi erano riferite le istanze di Śaṃkara, che per altro, nella sua esistenza, non ha mai smesso di simulare quello sforzo che voi non capite affatto, ingiungendo sempre i precetti rituali e nel contempo, per dare l’esempio non certo per “sua” necessità, praticandoli incessantemente? Chi sarebbero coloro che avrebbero una “natura diversa”, gli occidentali che si sono rivolti a voi perché sono stati scartati dalle organizzazioni alle quali avevano timidamente rivolto un richiesta di accesso? O quelli che vorrebbero saltare le anacronistiche zavorre rituali, solo perché hanno trovato su un blog la notizia che esiste una scorciatoia per arrivare senza troppi fastidî all’Ātman? Quelli che “vada in India e si faccia accettare da un ācārya di Vedānta. Verificherà personalmente dall’interno come stanno le cose.”? Quelli che non rivolgono l’attenzione agli oggetti esterni dei sensi perché hanno dei problemi relazionali e visto che c’è qualcuno che fa lo stesso, mi iscrivo? Quali sarebbero le “prove” che voi avreste per dire che chi è in grado di capire ha accolto i vostri scritti favorevolmente: queste? Sorge il tremendo sospetto che voi non siate molto diversi dagli ingenui ai quali vendete la Liberazione on-line, illusioni comprese ! La Metafisica non avrà certo la necessità della riservatezza, ma nemmeno quella di divulgarla alla Piero Angela! Il punto però è un altro: voi, più o meno consapevolmente, non state descrivendo la Metafisica (quello lo ha fatto magistralmente qualcuno ben più qualificato di voi tutti messi insieme, al punto che non si rimpiange affatto di non averla assimilata per il vostro tramite), voi state divulgando impudentemente la più alta via di accesso alla sua realizzazione, come fossimo nel Satya-yuga invece che al Bar Sport!

      GATTO (che poi qualcuno non faccia il lamentino...)

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    2. Maria Chiara de' Fenzi4 ottobre 2020 alle ore 08:52

      Complimenti per la dottrina e il livello di questo intervento.

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    3. ...Per la dottrina e relativi "livelli", ci siete voi a garantirli: tutto grasso che cola!

      GATTO

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    4. Maitrey,

      non risponda. E' indegno di qualsiasi considerazione.

      Un vicentino

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  16. Prego, fornisca:"...nome e cognome e lignaggio iniziatico, piaccia o non piaccia ma almeno si sa qual è la provenienza di quello che viene detto...(cit.)", per cortesia! I vicentini come gli 'Anonimo' non sono attendibili in questo blog e quello che affermano nulla cale a nessuno! ...E, per comodità di scrittura, al limite "Maitreyi": almeno imparare il nome... Se ritiene che non sia degno di nessuna risposta, qual è il motivo della sua (indiretta)? Fare le vergini violate, quando il Capo dell’iniziativa si permette il lusso di scomodare gli ambienti mafiosi per descrivere gli avversari, non ci fate una gran bella figura!

    PS: visto che ho citato il Sig. Manlio, mi piacerebbe sapere se "Sig. 'un vicentino'" suonerebbe ridicolo come "Sig. GATTO", ovvero se perché dà man forte, si può sopportare…
    GATTO

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    1. Anonimo/GATTO, lei ha iniziato con interventi molto interessanti, ma ora è diventato ridicolo. Evidentemente non ha più niente da dire a riguardo, si capisce molto bene. “Un vicentino” non propone argomentazioni dottrinali come ha fatto lei all’inizio, ragione che giustificava il mio appunto nei suoi confronti. “Un vicentino” fornisce solo un consiglio a Maitreyī, spero si noti la differenza dei due casi, per altro, se non l’avesse notato, la firma evoca evidentemente una sua intenzione, quindi precisa, espressa dalla nota popolare autobiografica: “Venexiani gran signori, padovani gran dotori, visentini magna gati…”, questo basta a soddisfare la mia “ingenuità sopraffina” . Adiós.

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    2. Contento lei, contenti tutti!

      GATTO

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  17. Maria Chiara de' Fenzi5 ottobre 2020 alle ore 10:03

    Ci pare d'uopo far capire ad altri lettori di questo blog, da dove sorga la similitudine con la mafia. In un articolo comparso mesi fa su una pagina FB (intitolata "il regno della quantità e i segni dei tempi") si parla del patto iniziatico in modo piuttosto peculiare che  ricorda molto il patto di fedeltà che devono fare i nuovi membri di una cosca mafiosa. Non si vuole dare del mafioso agli oppositori, si vuole solo sottolineare che le loro soi-disant “scuole iniziatiche” vedono l’iniziazione come un giuramento di fedeltà a un qualche gruppo di seguaci di un dato “maestro”, e qualora “un’iniziato” voglia uscire da detta “scuola” lo si taccia di tradimento, in maniera molto simile a ciò che avviene negli ambienti mafiosi. Nulla di più. Se essi la pensano così come si evince dall’articolo, non capisco perché se ne offendano tanto ora: sono loro che lo hanno scritto per dare, in maniera piuttosto esplicita, del traditore a qualcuno che evidentemente aveva preferito lasciare quell’ambiente. Noi crediamo che ognuno sia libero di scegliere ciò che più gli si confà, ed è altrettanto libero di lasciare e non seguire qualcosa nella quale non si trova a suo agio. Ognuno infatti è fautore del proprio destino anche, e soprattutto, di quello spirituale.
    link della pagina in questione:
    https://www.facebook.com/2114120328654572/photos/a.2114164638650141/3002767296456533/?type=3&theater 

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    1. Maria Chiara de' Fenzi5 ottobre 2020 alle ore 10:54

      Sono arrivati perfino a dichiarare che "Attraverso gli stessi fatti, dunque, ciascuno realizza le possibilità della propria natura, che per i Compagni traditori comportano momentaneamente la conservazione della vita corporea e la perdita di quella spirituale."

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    2. Quello sostenuto con sorprendente ‘nonchalance’ dalla Sig. de’ Fenzi fa parte di quel solito, continuo, perenne e plurimo ribaltamento della realtà: “Noi crediamo che ognuno sia libero di scegliere ciò che più gli si confà, ed è altrettanto libero di lasciare e non seguire qualcosa nella quale non si trova a suo agio. Ognuno infatti è fautore del proprio destino anche, e soprattutto, di quello spirituale.” è un’affermazione che ha del disarmante! A parte che non si capisce di che “libertà” vadano cianciando i fautori dell’iniziativa per la quale tutto è IRREALE (quando fa comodo!), con queste belle uscite danno la dimensione di quale sia la comprensione effettiva, non già dell’alta metodologia realizzativa di cui scimmiottano la procedura, ma dell’iniziazione in sé.
      Quando scherzosamente ho definito la loro attitudine alla “non-dualità” ‘prêt-à-porter’, non credevo che, da metafora si fosse costretti a passare al senso letterale: c’è da rimanere basiti al constatare che per queste persone l’iniziazione non sia altro che un vestitino da cambiare a seconda delle fregole e/o delle mode del momento!
      A seguire questo stupefacente modo di ragionare, viene da pensare che, per loro, le porte dei Templi non siano quelle tradizionali con la toppa della serratura, ma non altro che “porte girevoli”, dalle quali entrare ed uscire come fossero quelle di grandi magazzini, dentro ai quali si fanno acquisti ‘à la page’.
      E visto che la signora si riferiva, qualche commento fa, al sottoscritto in tono compassionevole, anche noi con lo stesso tono le diciamo, in “camera caritatis”, che le risparmiamo tutte le ingiunzioni di qualsiasi organizzazione iniziatica di non “voltarsi mai indietro”, pena non solo il fallimento dell’opera, ma il grossissimo rischio al quale si va incontro, esponendosi inesorabilmente a un destino diversissimo da quello che hanno in mente tali sprovveduti.
      Oltretutto, le modalità con cui si avrebbe la pretesa di andarsene, almeno, con tutta eidenza per alcuni qui, non sono semplici “abbandoni”, ma vere e proprie ‘intemerata’ verso le organizzazioni alle quali prima si apparteneva, il che aggrava ulteriormente la già precaria posizione.
      E sempre in “camera caritatis”, l’indorare la “pillolina mafiosa” per aggiustare l’aggiustabile, è assolutamente patetico e inutile; con il consueto atteggiamento sovversivo, il gruppetto “non-duale” ribalta la questione: sono gli ambienti mafiosi che ricordano malamente quelli iniziatici! Dire quindi che certi ambienti iniziatici evocano la procedure mafiose, oltre a risultare calunnioso è indice, soprattutto, di nuovo, di un’incomprensione di quello che si vorrebbe trattare, che rasenta l’allucinante!
      GATTO

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    3. …In proposito, almeno per quelli “dotati di ben intelletto”, citiamo un passo del solito “insignificante” Guénon: “Secondo l’esoterismo islamico, colui che si presenta ad una determinata «porta», senza esservi giunto attraverso una via normale e legittima, vede tale porta chiudersi davanti a lui ed è obbligato a tornare indietro, ma non come se si trattasse di un semplice profano, cosa impossibile in quelle condizioni, bensì come saher (stregone o mago operante nel campo delle possibilità sottili d’ordine inferiore) […] non possiamo esprimerci più nettamente sulla questione se non dicendo che si tratta della via «infernale» nella sua pretesa di opporsi alla via «celeste», quando un’opposizione del genere, a cui potrebbero effettivamente far pensare le apparenze esteriori, non può essere in definitiva altro che illusoria; perciò, come abbiamo detto in precedenza a proposito della falsa spiritualità nel cui àmbito finiscono col perdersi quegli esseri che si sono impegnati in una specie di «realizzazione alla rovescia», una via simile non può in definitiva concludersi se non con la «disintegrazione» totale dell’essere cosciente, e con la sua dissoluzione senza ritorno.”!!!
      GATTO

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    4. Riguardo al capovolgimento dovuto alla confusione tra la complicità criminale e la sacralità del patto iniziatico, vediamo bene cosa succede a “buttare” argomenti iniziatici in un calderone dove a parole dovrebbe trattarsi di metafisica ma in effetti non vi è alcun «senso del sacro» e talvolta nemmeno la necessaria informazione su ciò di cui si parla. Ci sono gradi diversi di iniziazione e di conseguente gravità dell’impegno che si contrae. I moderni non hanno in genere nessuna idea di quello che tale impegno dovrebbe implicare, abituati come sono ad una sorta di turismo spiritualistico. Anche nell’esoterismo islamico vi sono naturalmente delle possibilità di ricollegarsi a turuq differenti rispettando le dovute regole, che implicano comunque una autorizzazione e una motivazione. Secondo quanto è stato precisato ulteriormente, l’infelice espressione che taccia una organizzazione iniziatica regolare di “ambiente mafioso” riguarda il caso specifico di una persona che volontariamente, circa 20 anni or sono, abbandonò la suddetta organizzazione. Trattandosi appunto di un caso specifico non è ovviamente possibile fornire “dati sensibili”. Possiamo dire tuttalpiù, per tornare sulle generali, che può verificarsi il caso di qualcuno che pensava, in un certo momento, di poter assumere l’impegno legato ad un ricollegamento iniziatico non di primo livello, e successivamente sviluppi certe particolarità individuali incompatibili con la stessa appartenenza - che ovviamente non possono avere nulla di metafisico -, e che pertanto preferisca cercare qualcosa di meno “impegnativo”.
      A distanza di tanti anni e per sentito dire da parte di persone piene di rancori (ci sono nel novero anche altri che avevano chiesto di entrare nella stessa organizzazione iniziatica ma non erano mai
      stati ammessi) andare a tirar fuori la Parabrahmam vidya e le più alte vette della realizzazione come “alibi”, siamo veramente alla “comica finale”.

      Ottavio

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  18. Maria Chiara de’ Fenzi5 ottobre 2020 alle ore 14:36

    Con guru s’intende il maestro che conferisce l’iniziazione. Qualora, come d’altronde spesso succede, il dīkṣāguru non fosse in grado di insegnare la conoscenza del Supremo Brahman, il discepolo che aspira alla Liberazione si dovrà rivolgere a un altro maestro dotato della Parabrahmam vidyā. Quest’ultimo non conferirà alcuna altra iniziazione, essendo già quel discepolo un dīkṣita; perciò quel maestro dovrà essere più propriamente considerato un istruttore spirituale (jñānaguru). Ovviamente, se l’aspirante fosse ancora un profano e il maestro di conoscenza del Supremo gli desse l’iniziazione, in questo caso quest’ultimo dovrà essere anche considerato un dīkṣāguru. Cfr. René Guénon, Initiation et réalisation spirituelle, Paris, éd. Éditions Traditionnelles, 1967, ch. XXI.

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  19. Anonimo GB
    Egregi Signori,

    sono francamente un po' dispiaciuto per la piega presa dagli interventi finali del Sig. Anonimo Gatto, che per la verità in partenza vertevano sulla dottrina e hanno stimolato uno scambio che ho trovato sinceramente molto interessante. Faccio solo notare che come mi è parso sinceramente apprezzabile l'impegno che ha profuso nei primi corposi interventi, è stata altrettanto apprezzabile la puntualità e l'impegno con il quale i membri di Veda Vyasa Mandala (più avanti per brevità VVM) hanno dato seguito al dibattito. Dibattito che non potevano non portare avanti secondo i dettami dell'Advaita Vedanta, che giustamente considerano il punto di vista più elevato in seno al mondo induista nei quali si sono inseriti. È normale che tale punto di vista non collimi perfettamente con quello della metafisica sufica, come non collima perfettamente con tutti i punti di vista non puramente advaita presenti nell'induismo.
    In fondo si dovrebbe giocare nella stessa squadra, il "nemico" comune essendo il pensiero ed il costume antitradizionale, moderno e post moderno ormai.
    Una cosa bisogna rilevarla però: l'attività del sito VVM (che personalmente ho accolto come una ventata d'aria fresca, in quanto l'eredità guenoniana, che pareva fino a prima come un monopolio sufico/islamico, ha ottenuto finalmente una testimonianza tradizionale dall'interno del mondo induista) ha scatenato una certa reazione critica, e credo personalmente eccessiva, da parte di alcuni almeno di questi stessi ambienti tradizionalisti e islamici.
    Insomma capisco il dibattito sulla dottrina, effettivamente la metafisica del puro non dualismo con la negazione ultima del mondo e dell'individuo e di Dio stesso, oppone delle resistenze che sono prelogiche nell'intelletto di un individuo che si pone alla ricerca della Verità ultima. Si è liberi anche in fine di rigettarla (forse perché non si è ancora pronti) ma non si può negare che esprima in maniera sistematica un punto di vista "più assoluto", "più non duale" rispetto ad altre dottrine, autenticamente metafisiche certo, ma non coincidenti con l'Advaitavada. Il Prof. Filippi ha in verità riconosciuto poi che a livello di "culminazioni" siano presenti, raramente, degli asserti di puro advaita anche fuori dal Vedanta indù, e ci sono esempi in ambiente sufico e non solo (es. Maister Eckhart). Un conto è una culminazione e un'apertura al puro advaita, un conto è una dottrina trasmessa da un sampradaya che ha come scopo la trasmissione della paravidya.
    Inoltre mi pare una garanzia di oggettività nel giudizio il fatto che alcuni del gruppo di VVM siano passati per un'iniziazione sufica. Almeno costoro parlano con una conoscenza dall'interno e con l'obiettivo non di rinnegare ciò che eventualmente lì si è appreso, ma di giudicarlo nell'ottica del nuovo orizzonte che si sono conquistati.
    Ci tengo a dire che parlo a nome mio soltanto, non rappresentando nulla e nessuno e non essendo iniziato. Seguo con grandissimo interesse il lavoro portato avanti dal gruppo VVM e mi auguro che non si scoraggino mai e che anzi intensifichino la loro attività, elergita oltretutto gratuitamente! Anche un blog in fondo che male fa se ci si può leggere qualcosa di livello? (Poi criticare un blog in quanto blog dall'interno del blog stesso è forse contradditorio, ma poco conta).
    Per quanto riguarda l'anonimato devo invece riferire che ognuno può avere le sue ragioni pratiche per preferirlo, e credo vada rispettato essendo in fondo più importante il cosa che non il chi. (Anche se nutro una grande ammirazione per chi come il Prof. Filippi ed il Prof. Ventura ha avuto il coraggio di esporsi pur appartenendo all'ambiente accademico). CONTINUA..

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  20. Anonimo GB
    CONTINUA..Comunque sia nella sostanza il blog non trovo si sia rivelato di così basso livello. Viceversa trovo un tantino imbarazzanti gli ultimi interventi su facebook nella pagina della Rivista di Studi Tradizionali: il Prof. Filippi in particolare si è preso la briga di dare una risposta articolata e affatto idiota, forse impegnativa, certamente non una "lunga tiritera"!
    Mi ha un po' stupito in negativo il breve scritto lì apparso del Prof. Ventura (al quale inoltre il Filippi riconosce un ricollegamento iniziatico serio). Oltretutto, non me ne vorrà la redazione di VVM se rendo pubblica l'informazione, ma proprio loro ben prima di queste ultime polemiche non mi hanno sconsigliato negli scambi avuti via mail i testi del Prof. Ventura (Ne approfitto per segnalare che in tali scambi si sono dimostrati veramente sempre gentili, lontanissimi da spirito "missionario", piuttosto hanno evidenziato la natura altamente individuale del percorso e ricollegamento iniziatico).

    Capita che mentre riprendo in mano il testo del mio intervento per pubblicarlo vedo gli ultimi due interventi del Prof. Ventura a commento del suo stesso articolo "A proposito di un'alleanza anomala": c'è poco da dire, leggete quello che vale molto più del mio umile intervento. Sono contento che abbia avuto ancora la pazienza di tornare a chiarificare la situazione.
    D'altronde credo che abbia comunque un senso dar seguito alle parole del Prof. Ventura, mentre rispetto all'ultimo breve intervento del Sig. Confienza su facebook si rimane sinceramente basiti. Quella sì francamente pare una "breve tiritera". Forse varrebbe la pena giusto dar seguito per fornire qualche informazione rispetto alla venerabile figura di Sri Swami Satcidanandendra Sarsavati e la sua discepolanza che è stata infangata in poche sommarie righe.
    Potrei solo suggerire ai detrattori di VVM di fornire e dar voce a qualcuno che possa essere con loro d'accordo e al contempo inserito nel mondo iniziatico induista (almeno induista se non vedantico!) e di non limitarsi a Guenon come fonte praticamente unica rispetto a quel mondo. Se è quasi certo che il francese sia stato iniziato in seno a qualche sampradaya induista, non è affatto certo che abbia avuto uno jnana guru di advaita vedanta. Con questo non significa che in assoluto non abbia avuto nozioni di questo: come ha dimostrato il Prof. Filippi citando dal Mahanirvanatantra, sezioni advaitiche si possono trovare anche all'infuori di Upanisad, Gita e Brahma Sutra coi relativi commentari di puro advaita. (Questo può far riflettere rispetto a come la paravidya sia in definitiva il metro e la garanzia ultima anche dell'aparavidya).
    Voglio aggiungere un'ultima cosa che nello specifico riguarda questo bel blog, infatti sempre su facebook nella pagina già citata si può leggere un'anticipazione di una recensione molto critica rivolta a questo luogo virtuale: se pero' si scorrono le etichette che categorizzano gli articoli presenti nel blog si può notare che le voci "Islam" e "Sufismo" compaiono di più che non "Induismo" e "Advaita Vedanta"; Guenon risulta di gran lunga l'autore più presente, risulta un articolo del Prof. Ventura, e si può semplicemente scorrere la lista per capire che più che un ambiente "fazioso" pare un luogo dove poter trovare articoli di diversa estrazione e intenti, accomunati dal fatto di avere un contenuto o un orientamento tradizionale e spirituale nel senso alto del termine. L'unica grave colpa, forse, è quella di ospitare tra i diversi e vari contributi proprio dei materiali presenti sul sito di VVM. Personalmente spero che tra i diversi articoli continuerete a dar spazio alle stimate voci di coloro che attivamente partecipano al gruppo Veda Vyasa Mandala.
    Un caro saluto.
    G.B.
    PS
    chiedo scusa per la traslitterazioni dei vocaboli in sanscrito evidentemente imprecisa e per altre eventuali sviste. Chiedo comprensione ho scritto su uno smartphone.

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    1. Anonimo Gb
      CORREZIONE: evidente scambio di persona dove scrivo:

      Capita che mentre riprendo in mano il testo del mio intervento per pubblicarlo vedo gli ultimi due interventi del Prof. Ventura a commento del suo stesso articolo "A proposito di un'alleanza anomala"

      Evidentemente intendevo i due articoli scritti dal Prof. Filippi e non dal Prof. Ventura.
      Scusate.

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  21. Anonimo G.B., per essere chiari: “Lei ha in testa una folla di nozioni che ha accumulato nel tempo e che con la sua fantasia ha voluto mettere a confronto; poi le ha mescolate creando un vero minestrone, infilando disordinatamente, nella citazione che segue, concezioni di fonti diversissime di cui non capisce la vera collocazione…(cit.)”; e ancora: “Lascio stare per pura compassione l’accenno al dualismo cartesiano e alla caverna platonica…(cit.)” e altre educate insinuazioni a noi rivolte… Ecco in che cosa è consistito il motivo della “piega [magari eccessiva…] presa dagli interventi finali del Sig. Anonimo Gatto”: il sottoscritto non essendo cristiano non è nemmeno uso a porgere l’altra guancia! E senza nemmeno considerare il grave fatto, malamente rettificato, di tirare in ballo ‘ambienti mafiosi’ per individuare organizzazioni che, a suo tempo avevano allontanato e/o rifiutato alcuni qui che adesso fanno le vergini violate.

    Détto questo, vorrei precisare quanto segue; qui non si contestano affatto le istanze della non-dualità vedantina (e come sarebbe possibile?), ma nell’ordine:

    1) L’esclusività di tale ‘prospettiva’, limitata alla sola tradizione indù, sostenuta dal gruppo qui in questione, con il che ci si pone nella valutazione contraddittoria di considerare tutte le altre tradizioni ortodosse incomplete, non in quanto vittime di secolarizzazioni più o meno spinte, ma in sé (non possono esistere nelle altre tradizioni solo accenni che evocherebbero malamente quello che si crede in possesso solo del Vedanta, se non per una questione meramente espositiva, dovuta alle diverse forme di espressione non sempre puramente intellettuali come quella vedantina).

    2) Ma soprattutto, l’imprudente, a dir poco, atteggiamento di mettere sbrigativamente alla portata di tutti (“[…] il sincero mumukṣu e cercatore di ALTO LIVELLO, spinto dall’unica aspirazione di raggiungere mokṣa qui e ora in questa vita, dovrà attuare il metodo di ātmānātma viveka [...]” (Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, Commento a “Le Cinque Gemme dell’Advaita”), il conseguente metodo ‘operativo’ (oltretutto, avulso, per la semplice ragione di essere un metodo affatto eterogeneo, alla costituzione di un occidentale, per di più moderno) che per la sua insuperabile elezione, necessità di aver già acquisito una realizzazione spirituale effettiva che va ben oltre, non occorrerebbe nemmeno dirlo, il semplice “turismo spiritualistico” (come lo ha ben definito Anonimo/Ottavio), con il quale si ha a che fare quasi esclusivamente quando i mezzi di cooptazione sono affidati a un blog.
    E quando non si trattasse strettamente di questo, ma di individui realmente qualificati, per una serie lunghissima di motivi, dei quali ci si può già essere fatti un’idea approssimativa dai commenti precedenti, non ci saremmo avvicinati di un passo per garantire i necessarî presupposti, affinché tale realizzazione possa essere effettiva e non restare invece una pericolosissima illusione.

    Il resto, come ben detto dal Filippi, non sono che filosofemi!

    GATTO

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  22. Maria Chiara de' Fenzi7 ottobre 2020 alle ore 01:13

    Ci fa sorridere la debolezza psicologica nei nostri oppositori che li porta a vedere fantomatici maghi neri e tenebrosi contro iniziati ovunque. D’altra parte questa tecnica di vero terrorismo psicologico è stata largamente usata dai capi di questi ambienti per spaventare e mantenere sotto il loro controllo le menti dei seguaci più influenzabili (a proposito di influenze sottili negative!). La natura tāmasa di questi individui non solo impedisce loro di vedere la Realtà, ma anche di disprezzarla quando se ne imbattono. D'altra parte non solo bisogna cercare la Realtà, ma anche saperla riconoscere; perché questo avvenga bisogna avere una mente purificata grazie al karma-yoga (se ancora non fosse chiaro con karma-yoga ci si riferisce a vie del non supremo [yantra, mantra e tantra]. Non abbiamo mai sostenuto che non siano utili, ma non sono conoscenza metafisica, non sono Vedānta, non sono Brahmavidyā!). A meno che non si nasca con tale purezza grazie a vite precedenti particolarmente sāttvika e allora si può accedere alla conoscenza suprema direttamente. 
    In ogni caso, bisogna  sempre partire però da una mente sana, altrimenti, più che di una purificazione, ci vuole una cura mentale.
    È evidente che le organizzazioni “iniziatiche” a cui appartengono i nostri oppositori non sono mafiose: abbiamo solo riscontrato che ci sono strette analogie nella mentalità. Infatti è evidente dall’articolo comparso su FB il messaggio che si vuole dare: chi lascia l’organizzazione è dichiarato traditore, Giuda. In una delle gentili risposte al nostro intervento, infatti, l’autore ha voluto confermarlo citando l'esempio di una persona che ha osato “tradire” (“ricollegamento iniziatico non di primo livello” che era troppo impegnativo ecc. Ma qui si sta parlando solo di Massoneria, di una iniziazione virtuale, i cui livelli sono esclusivamente ricostruzioni speculative. Il passaggio da un grado all'altro lì non avviene per realizzazione, ma per anzianità. Altro che primo livello troppo impegnativo!).
    La nostra esperienza iniziatica hindū non ha nulla a che vedere con quella di una società segreta. L'iniziazione è prima di tutto il passo interiore che fa il discepolo verso la conoscenza tramite il maestro. Si entra a far parte del gurukula, si ricevono delle ingiunzioni dal maestro e si inizia una via di karma-yoga per, come si diceva, purificare la mente. Effettivamente, non virtualmente. Il dīkṣita non subisce costrizioni perché il fine a cui è indirizzato è la Libertà stessa. Mai nessuno impone né pretende un patto di fedeltà. Poi, come ha esposto anche Guénon (come da nostro precedente intervento), se il jijñāsu che cerca la Conoscenza del Supremo, comprende che il suo il guru non può darne l’insegnamento, allora prenderà congedo da lui, ringraziandolo per ciò che da lui aveva ricevuto fino a quel momento. Quindi, è libero di cercare un maestro realizzato che gli insegni il metodo del Vedānta vicāra. Ogni vero guru è felice quando scopre che il proprio discepolo può aspirare a una conoscenza superiore. Solamente i falsi guru si offendono, dimostrando tutto il loro individualismo. Con il dīkṣāguru e il gurukula di origine si continua a mantenere un rapporto che può essere paragonabile a quello con la famiglia, come quando il figlio adulto lascia la casa paterna e inizia la sua vita indipendente. Non c’è tradimento, c’è crescita interiore.
    Cosa ci sia di comico o sovversivo in queste elementari nozioni sull’iniziazione, non si sa!
    [L’Ātman] non è affatto comprensibile quando è insegnato da un uomo che non ne è all’altezza. Per questo su di Esso si costruiscono teorie così diverse. Ma quando è insegnato da chi si è identificato a Quello (tat), non c’è più spazio per alcuna teoria, perché Esso è più sottile di quanto più sottile si possa immaginare. KU I. 2. 7-8.”

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  23. Maria Chiara de' Fenzi7 ottobre 2020 alle ore 01:15

    Inoltre a proposito della millantata impossibilità per gli individui moderni di poter realizzare la Vera natura del Sé, che è libera dal tempo e dallo spazio e da tutti gli altri attributi, citiamo Swami Satcidānandendra Sarasvati:

    "5. L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’avidyā
    Avidyā Śaṃkara Siddhānta
    È possibile per la gente d’oggi ottenere il frutto della Brahma vidyā?
    Ci sono alcuni che vogliono istillare il dubbio nelle menti dei mumukṣu āstika, dicendo: “Per i saggi dei tempi antichi poteva insorgere la realizzazione di Ātman (Ātma sākṣātkāra), ma questo non è più possibile per le persone d’oggi.” Citeremo una frase del Bhāṣya per provare che questa opinione non ha alcuna base.
    “Anche al tempo presente, chiunque rinunci all’attaccamento per gli oggetti esterni, riconosca l’Ātman come Brahman, rimuova tutti gli attributi proiettati dalla conoscenza illusoria, causata dalla bhrānti delle upādhi senza essere toccato dalle vāsanā del saṃsāra, senza che ci sia un interno e un esterno e conoscendosi come il solo e assoluto Brahman, costui diventa tutto questo veramente, dato che scompare il “non essere Tutto” (asarvatva) causato da avidyā. Sia per i saggi del passato, come Vāmadeva, che erano mahāvīrya 5, sia per i semplici esseri umani odierni che si reputano di minore livello, Brahman non ha alcuna distinzione né differenza di grado; e neppure la sua conoscenza subisce delle distinzioni di grado” (BUŚBh I.4.10).
    Ciò significa che Śaṃkara ha dichiarato autorevolmente che il jñāna distrugge e rimuove completamente l’ajñāna e che anche la totalizzazione (sarvātmabhāva) che è il frutto del jñāna emerge senza fallo per il jijñāsu qualificato anche in questi tempi moderni.”

    E sempre a questo proposito, in un altro passo, Samkara dice:
    “Eccetto ajñāna non è possibile immaginare alcun altro impedimento quale ostacolo al mokṣa, perché mokṣa è eterno (nitya) e, inoltre, non esiste separato dal puro essere del sādhaka” (BUŚBh III.3.1).

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    1. Maria Chiara de' Fenzi7 ottobre 2020 alle ore 08:46

      Si vuole fare una correzione: ci siamo accorti che nell'ultima parte del secondo intervento mancano i diacritici sul nome di Śaṃkara.

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    2. Sig.a de’ Fenzi, a noi invece non fa affatto sorridere il coriaceo scotoma di quelli che, per motivi ormai abbastanza evidenti a quelli dotati di - per restare alla vostra prosa - “ben intelletto”, maghi neri e controiniziati non li vedono, meglio: NON POSSONO che non vederli da nessuna parte.

      Non si sa nemmeno da che punto prendere dai i ‘capelli’ quest’Hidra, per iniziare a mettere un po’ di ordine a questa “minestrina” (magari fosse un “minestrone”!) slavata di nozioni buttate lì ad effetto, ma cercherò, per fortuna conscio della MIA ‘debolezza psicologica’ di fronte a certi “ambientini”, di farmi forza e dipanare, almeno approssimativamente, tali tiritere.

      Consigliando alla Sig.a de’ Fenzi, per il futuro, di non più tornare rovinosamente sulla questione “mafiosa” per non incrementare la già notevole brutta figura fatta, vorrei, stando sul generale, affermare che, non il semplice “lasciare” (che qui non è in questione), non privo anch’esso comunque di conseguenze, se non fatto con le dovute modalità ortodosse, ma il “consegnare” quello che si è contratto col patto iniziatico per scopi diversi da quelli giurati, costituisce il vero problema del “tradimento”; e qui, da tutta la letteratura prodotta in merito è esattamente di questo che, ahimè, si tratta e che viene abilmente dissimulato, anche fosse all’oscuro di tutti i fautori di tale iniziativa, il che, ahimè di nuovo, sembra lungi dall’essere credibile.
      Poi, si può certo capire che la natura tāmasa (la tentazione di parafrasare è irresistibile…) di alcuni “…non solo impedisce loro di vedere la Realtà, ma anche di disprezzarla quando se ne imbattono. D'altra parte non solo bisogna cercare la Realtà, ma anche saperla riconoscere…”, ma non si può certo giustificare, e finché avrò forza, a Dio piacendo (forse la traduzione a qualcuno sembrerà meno ostica…), continuerò nel mio compito.
      È altresì evidente che, quello che sto tentando di spiegare, affinché risulti catartico per qualcuno ha di tutta necessità il bisogno di “…partire però da una mente sana, altrimenti, più che di una purificazione, ci vuole una cura mentale (facciamo notare che usiamo sempre la gentile prosa dell’interlocutrice, che poi non si dica che sono originalmente insolente…)…”, ovvero quella sempre di “ben intelletto”, condizione che, se ne facciano una ragione i propagandisti di questa iniziativa, è meno diffusa di quello che si pensa e, comunque, non affatto esclusiva dei seguaci da loro arruolati; ed è appunto questo, come dicevo, che mi prefiggo di trovare anche qui, nonostante tutto, pur se il giochetto del “tutti contro uno”, mi rende la faccenda un po’ complicata, devo ammetterlo.

      Come per la Mafia, “Lascio stare per pura compassione l’accenno…(cit.)” alla Libera Muratoria: non posso pensare, come dicevo dall’altra parte al Sig. Munnu, di scendere in discussioni con persone che non conoscono affatto quello di cui hanno l’ardire di parlare apoditticamente, tanto più, per il caso in oggetto che ci concerne, con una donna (la prego gentilmente di credere che tale mio atteggiamento, non è punto dovuto ad un irrequieto sentimento misogino, né ad una alterigia maschilista, ma ad una semplice questione ontologica, ovvero di “swadharma” (questo termine le risulterà senz’altro più comprensibile), che definisce il gentil (?) sesso, per cui, tutto quello che si dovrebbe dire, non costituirebbe che un’inutile perdita di tempo…).
      (continua...)

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    3. (seconda parte...fine)

      Però, alcune cose necessitano di ulteriori precisazioni: sempre la Sig.a fa finta di non capire – e se non capisce è peggio – che qui non è questione esclusivamente di intraprendere una via iniziatica per la prima volta, ma anche quella di sostituirne una a quella precedente.
      Come ha infatti rilevato Anonimo /Ottavio, “…Anche nell’esoterismo islamico vi sono naturalmente delle possibilità di ricollegarsi a turuq differenti rispettando le dovute regole, che implicano comunque una autorizzazione e una motivazione…”, per cui, l’esempio portato circa “…SE IL JIJÑĀSU che cerca la Conoscenza del Supremo, COMPRENDE che il suo il guru non può darne l’insegnamento, allora prenderà congedo da lui, ringraziandolo per ciò che da lui aveva ricevuto fino a quel momento. Quindi, è libero di cercare un maestro realizzato che gli insegni il metodo del Vedānta vicāra. Ogni vero guru è felice quando scopre che il proprio discepolo può aspirare a una conoscenza superiore. Solamente i falsi guru si offendono, dimostrando tutto il loro individualismo (cit.).” oltre a non c’entrare nulla, come al solito, sovverte la normalità: non è l’allievo che può permettersi di dire quando il suo Guru non gli serve più, ma il Guru stesso che sa quando non è più d’aiuto al suo allievo e quando lo può indirizzare da uno più “competente” di lui: questo è quello che sosteneva Guénon e non il contrario! Altro che “guru felici” di accettare le istanze dell’allievo, con il che si dimostrerebbero proprio essere FALSI; altro che: “…Il dīkṣita non subisce costrizioni perché il fine a cui è indirizzato è la Libertà (sic!) stessa… (cit.)”! Inoltre, per chi è già iniziato in un'altra organizzazione iniziatica, può esistere la condizione, tanto più l’ambiente nel quale riceve quella nuova è eterogeneo rispetto al precedente, che ci siano delle incompatibilità di varia natura, per cui non si farebbe che alimentare una sorta di commistione pericolosissima per la compagine sottile dell’individuo che sconsideratamente ne farebbe da supporto: ma è mai possibile che non si abbiano nemmeno le più basilari nozioni iniziatiche? Ecco in cosa consiste una delle multiformi facce di quel “turismo spirituale” di cui accennava Anonimo/Ottavio.

      Per finire, Signora, lei mi fa dire una volta in più quello che non ho mai detto né mai nemmeno pensato: “Inoltre a proposito della millantata IMPOSSIBILITÀ per gli individui moderni di poter realizzare la Vera natura del Sé, che è libera dal tempo e dallo spazio e da tutti gli altri attributi…(cit.)”: legga attentamente quello che ho scritto, non ho certo tempo di ripetere indefinitamente le solite cose!

      Saluti
      GATTO

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  24. Riflessioni sul post del 2 ottobre 2020 20:39 firmato: Manlio, un lettore

    Egregio sig. Manlio, da lettore quale anche io sono, mi permetto di inserirmi in questa discussione, se me lo consente, per offrire un diverso punto di vista; un angolo visuale che ha a che fare con quello che lei ha chiamato “gruppo di lettura”. Ritengo, infatti, che il vero “terreno di scontro”, mi passi il modo di dire, riguardi proprio l’ambito del “gruppo di lettori”, cioè di chi, non essendo parte attiva in nessuno dei due “schieramenti”, partecipa comunque al confronto in quanto la propria “disposizione naturale” lo ha portato ad interessarsi di questioni riguardanti la realizzazione metafisica e ad incontrarsi su questo blog, ognuno mosso, immagino, da una ricerca spirituale e/o da un’aspirazione iniziatica. In quest’ottica, per chiarire il mio punto di vista, mi prendo la libertà di avvalermi delle citazioni di alcuni brani tratti da diversi articoli del Sig. A. Balestrieri, intitolati “Nuove tecniche di attacco all’opera di René Guénon”, comparsi prima sulla Rivista di Studi Tradizionali e poi raccolti nel libro: René Guénon e l’Occidente (Luni, Milano, 1999, testo da cui ho estratto i passaggi che seguono). Vorrei prima di tutto far notare, con le parole dell’autore, come:
    «L’opera di René Guénon [sia] stata spesso fatta seguito ad attacchi il cui scopo ultimo è sempre stato di ostacolarne i normali sviluppi, ossia di impedire che degli esseri facenti parte del mondo moderno occidentale, stimolati dalla sua lettura, prendano coscienza delle loro possibilità intellettuali e cerchino di attualizzarle [in nota: “Che questo sia lo scopo che René Guénon si prefiggeva con i suoi libri è evidente quando si ricordi questo passo di Oriente e Occidente (…): ”]. Il processo di attualizzazione di queste possibilità coinvolge tutte le facoltà di un essere, e tende a ordinarle gerarchicamente rispetto a un centro in cui risiede tutta la loro realtà; essendo queste facoltà in rapporto con le determinazioni dell’ambiente in cui l’essere è situato, ogni sforzo in questa direzione è potenzialmente un rischio per la ‘costruzione’ del mondo moderno, eminentemente disordinata e illusoria» (p.67).
    Si tratta dunque, evidentemente,
    «di impedire che degli esseri che fanno parte del mondo moderno occidentale, presa coscienza delle loro possibilità intellettuali, cerchino di attualizzarle; quale miglior modo di rendere sterili i loro sforzi che presentar loro la possibilità [in nota: “La citazione è tratta da uno degli ultimi articoli scritti da René Guénon per mettere in guardia contro un tentativo analogo che egli prevedeva (anche se forse non identico nei mezzi della sua ‘messa in opera’)”]» (p. 83).
    Come si può vedere, mutatis mutandis, la questione, alla fine, si riduce quasi sempre a questo: attaccare l’opera di René Guénon al fine di
    «distogliere i destinatari potenziali [della sua opera] dal suo approfondimento, per impedir loro di inoltrarsi sul cammino dell’attualizzazione delle possibilità intellettuali di cui sono gli eventuali portatori» (p. 136).
    A questo punto, non è forse inutile chiarire che
    «a differenza di qualcun altro, che pensa che l’opera di Guénon abbia bisogno di essere ‘difesa’, noi crediamo di sapere sufficientemente bene che l’opera di questo autore e la fonte della sua ispirazione sono di per sé ben al di là di ogni attacco umano, e per questo non ci preoccupiamo più del necessario» (p. 153). CONTINUA

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  25. Quello che invece è necessario, ed è questo che, a parere del sottoscritto, hanno sempre fatto i collaboratori della Rivista di Studi Tradizionali oltre al lavoro di glossa dell’opera di Guénon, è «smascherare i piani» di coloro che vorrebbero
    «impedire, agendo sugli animi dei lettori potenziali più che sui loro intelletti, che l’opera di René Guénon sia accostata da qualcuno che avrebbe la qualità per capirla, perché, operato l’avvicinamento, le conseguenze potrebbero anche risultare gravi per le forze che hanno dato origine al mondo moderno» (p. 154).
    Le aggressioni all’opera di Guénon sono iniziate appena questa ha cominciato a venire alla luce, quando l’Autore era ancora vivente, e si sono intensificate dopo la sua morte, adattandosi alle mutevoli condizioni dell’ambiente, passando dalle più dirette e grossolane a quelle via via sempre più subdole e sofisticate.
    Il motivo di tale ostilità è da ricercarsi nel fatto che quest’opera costituisce – a tutt’oggi – l’unico adattamento della Tradizione Unica in una forma adeguata alla mentalità di noi occidentali moderni. Costituendo questa un corpus “animato”, potremmo dire, dallo Spirito da cui promana, è come tale che andrebbe accostata, evitando di mutilarla credendo di poter scegliere cosa tenere e cosa rigettare. Ognuno dovrebbe piuttosto sforzarsi “semplicemente” di comprenderla al meglio delle possibilità consentite dal proprio “orizzonte intellettuale”, meditandola come quel simbolo che di fatto è, ed accogliendola tout court, in virtù, almeno inizialmente, di un assentimento teorico ad essa, assentimento che, ben lungi dal costituire una fideistica credenza, rappresenta piuttosto un “barlume” della vera intuizione intellettuale, ovvero di quella facoltà che – sola – permette il reale riconoscimento delle verità metafisiche. Tale ri-conoscimento, che al livello più elevato è sinonimo di realizzazione effettiva, è una condizione ottenibile solo da quei pochi “eletti” che, per gradi (buon per chi è – o si illude di essere? – qualificato per una via di conoscenza diretta!), attraverso un costante e duro lavoro rituale di purificazione, all’interno di una organizzazione tradizionale autentica e adeguata a degli occidentali moderni, sono riusciti a progredire nel cammino spirituale.
    Per inciso, la battuta sull’illusione di ritenersi qualificati per una via di conoscenza diretta non è affatto una esagerazione, perché pare che vi sia un nutrito gruppo di persone che ci crede davvero. Nella pagina Facebook di una delle più attive commentatrici del team Veda Vyasa Mandala, per esempio, si legge che:
    «In questa via iniziatica [il jñāna mārga, ovvero l’advaita vedānta], che poi non è una via, perché non c’è nulla da percorrere, il metodo è la conoscenza pura. Senza alcun supporto rituale. Certo, per accedervi è necessario aver preliminarmente purificato la mente con una via di portata inferiore, quella che [un contraddittore] impropriamente definisce di “piccoli misteri”» (sic!).
    Queste persone, a cui evidentemente manca del tutto “il senso delle proporzioni”, per usare un eufemismo, si palesano comunque velocemente per quello che sono in realtà (come si usa dire: “il diavolo fa la pentola ma non il coperchio”), perché, appena smettono di trattenere il loro malcelato astio verso l’opera di Guénon, compaiono il dileggio e i… consigli pratici per una rapida realizzazione metafisica! Continuando a scorrere il post precedente, infatti, si legge:
    «Quindi segua gli insegnamenti e le letture che lei crede più adatti per se stesso e continui nella sua fede nella “chiarezza cristallina di un René Guénon nello spiegare l'autentico significato di concetti come quello di Identità Suprema, Uomo Universale, Realizzazione Discendente, e via discorrendo”. Sappia però che ci sono maestri "vivi e vegeti," e soprattutto Realizzati, che insegnano tutt'altro da questi stereotipi degli esoteristi occidentali; e che forse potrebbe incontrare durante una vacanza spirituale (se lei ne fa)» (sic!). CONTINUA

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  26. Ora, tralasciando questi aspetti tragicomici – ma non per questo meno pericolosi – e tornando al discorso precedente, alla fine, come si vede, tutto si riduce ad una semplice considerazione: o si riconosce l’opera di Guénon per quello che è, o non la si (ri)conosce affatto. In quest’ultimo caso, meglio sarebbe allora evitare di far riferimento ad essa o, peggio ancora, fingere apprezzamento per poi trattarla come fosse il prodotto mentale di un “pensatore” qualunque, concedendo a quest’ultimo, al massimo, delle qualità intellettuali fuori dall’ordinario!
    René Guénon ha scritto e si è “sacrificato” (nel senso etimologico del termine) per noi, occidentali della fine del Kali-Yuga, e, a mio modesto parere, i collaboratori della Rivista di Studi Tradizionali sono stati e continuano ad essere, per l’assoluta e dimostrata aderenza e coerenza all’opera di Guénon, l’unico e ultimo baluardo a difesa (nel senso sopra detto) di questa “perla ineguagliabile in questa oscura epoca di fine di un ciclo storico e cosmico ad un tempo” (RST n° 96-97, 2003, ultima pagina).
    Personalmente non credo si possa far di più e meglio che raccomandarne lo studio, dedicandosi ad essa con la migliore disposizione d’animo possibile. Solo in questo modo si potrà acquisire, infatti, quella preliminare ma indispensabile preparazione teorica, «la sola che sia in certo qual modo comunicabile», che però è già di per sé in grado di fornire una «certezza vera, ancora più forte di una certezza matematica» (R. Guénon La Metafisica orientale, Luni 1998, Milano, 25) e, con essa, i necessari strumenti per poter riconoscere la vera Metafisica dalle sue contraffazioni, anche quelle che si possono presentare (qualcuna anche in buona fede) sotto i più suadenti travestimenti:
    “Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti” (Mt 24,24).

    Cordialmente

    Giovanni Forteguerra

    FINE

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    1. Sig. Forteguerra, mi cita e mi costringe per educazione a rispondere anche se avevo deciso di tacere. Cita Balestreri ma il suo ragionamento non mi convince e le spiego il perché: c’è la brutta abitudine di voler istruire le persone e condizionarle con il proprio punto di vista che esula dalla dottrina stretta; personalmente ritengo che i lettori non abbiano bisogno di questo ma che siano maturi per capire dove è la verità seppur misurata alla propria comprensione e alle proprie disposizioni naturali.
      Trovo contraddittorio (ma è comprensibile la ragione) dire da una parte che l’opera di Guénon non ha bisogno di alcuna difesa perché “al di là di ogni attacco umano” e dall’altra ci si scapicolli per difenderla. Un po’ di coerenza, che ognuno se la legga, se la comprenda in funzione delle proprie capacità intellettive e ne tragga le dovute conseguenze senza che qualcuno gli suggerisca quali debbano essere. Questo, penso che me lo riconosca, non è stato fatto e continua a non essere fatto, ognuno si è sentito e si sente in diritto di essere l’unico interprete di Guénon. Dato che credo fermamente (ma non sono il solo) che effettivamente l’opera di Guénon si difenda da sola e non abbia bisogno di nessuna glossa come dice lei (ma questo vale per qualunque autore a ben pensarci per il semplice fatto di essere stata espressa nelle intenzioni dell’autore) mi fan sorridere i tentativi di difesa che, a leggerli bene, non fanno che peggiorare la situazione in quanto, ça va sans dire, il difensore non può mai essere più informato del difeso. Il condizionamento di chi volesse attaccare Guénon nei riguardi di un aspirante non è più condizionante di quanto sia il condizionamento del difensore. L’unica difesa possibile, mi permetta per essere coerenti, dovrebbe limitarsi alla riproduzione pedissequa dell’opera difesa senza aggiungervi una virgola (cosa che non è mai successo a mia conoscenza). Oppure valida è la difesa che Guénon stesso vivente ha fatto della sua opera; chi meglio di lui poteva sapere quando e come intervenire sapendo cosa e con che intenzioni ha scritto?
      Che gli attacchi all’opera di Guénon impediscano che degli esseri stimolati dalla sua lettura, prendano coscienza delle loro possibilità intellettuali e comprometta la possibilità di attualizzarle è una supposizione di Balestrieri che non condivido. Anzi è proprio la capacità intellettuale di questi individui che è provata da questo dualismo, Guénon e attacco alla sua opera; non si deve sottovalutare la capacità intellettuale del lettore, personalmente (ma non sono il solo) dove c’è odore di condizionamento cerco di starmene alla larga, è questo il mio punto di vista. Leggo, comprendo quel che riesco, e prendo le mie risoluzioni. Eppoi, mi scusi, ma chi è Balestreri?
      Se voglio accettare istruzioni da qualcuno ho bisogno di credenziali, è questo che sostenevo con l’anonimo Gatto che ha glissato, ma mi sono preso dell’ingenuo, pensava di offendermi non conoscendo il significato del termine invece mi onora. Si parla di via di conoscenza ma quando si chiede di conoscere le credenziali di chi vuol essere autorità non è più possibile, come si dice dalle mie parti “ca nisciuno è fess”. (CONTINUA)

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    2. L’aggressione all’opera di Guénon mi sembra una sciocchezza; diffido dell’idea di un complottismo antiguénoninano, ha tutti i limiti di ogni complottismo, ha poco di intellettuale e molto della psicologia del complottista. Forse conoscerà questo passo di Guénon: “Gelosia e rivalità individuali non possono in effetti trovare posto alcuno nel vero dominio iniziatico, mentre invece, al contrario, ne hanno uno assai grande nel modo d’agire dei falsi istruttori; e sono unicamente costoro a dover essere denunciati e combattuti, ogni qualvolta le circostanze lo esigono, non soltanto dai Maestri spirituali autentici, ma anche da tutti quelli che, a qualunque livello, hanno coscienza di cos’è realmente l’iniziazione” (“Veri e falsi istruttori spirituali”), diffido di chiunque si ponga in questa posizione di gelosia e rivalità, individui, gruppi e riviste. Quando leggo la prima riga di polemica, chiudo la pubblicazione e la uso per il camino.
      Riguardo alla sua imparzialità mi permetta di dubitare vista la pubblicità che ne fa nella terza parte, ma va bene lo stesso, ognuno fa quel che gli pare della propria vita. Su un punto vorrei però porre l’attenzione: lei scrive “o si riconosce l’opera di Guénon per quello che è, o non la si (ri)conosce affatto”; ma a lei o chi per lei, chi glielo dice di averla letta e averla riconosciuta per quella che è? A me sembra, sicuro di non essere smentito, che sia una supposizione autoreferenziale; qualsiasi ragione mi potrà portare a suo sostegno, ci pensi bene, sarà sempre autoreferenziale per cui quel riconoscimento sarà sempre relativo alla sua individualità, per cui a me sembra un atto di orgoglio pensare di aver compreso “l’opera di Guénon per quello che è”. Chi l’ha detto e dove sta la regola secondo la quale se “non la si (ri)conosce affatto” (ma anche in questo caso, chi lo dice se non un’individualità contraria?) “meglio sarebbe allora evitare di far riferimento ad essa”? “Chi l’ha detto e dove sta la regola” le sembrerà una riduzione relativistica, invece risponde esattamente a quella richiesta di credenziali che se rifiutata, da chiunque, rimane a mio avviso l’indice e il segno manifesto che dietro a tali rifiuti ci sia il nulla. In 10.000 hanno tentato di dirmi, contraddicendosi l’un l’altro, cosa volesse dire Guénon senza convincermi affatto. Meglio sarebbe in questi casi, non in assoluto, dire “secondo me…”, “questa la mia opinione…” ecc.
      La citazione evangelica “Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti ecc.” non mi impressiona gran che: vale quanto sopra, magari è il sottoscritto o magari è lei che fa il tifo per qualche falso cristo o profeta, ma scommettiamo che ognuno di noi è sicuro con «certezza vera, ancora più forte di una certezza matematica», del contrario?
      La prego non si scomodi a rispondermi per cercare di correggermi, non mi servono giudizi, questo è quello che penso, non rappresento niente e nessuno e mi tengo ben stretto quanto detto. La saluto. (FINE)

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  27. Gentile Sig. Forteguerra,

    mi permetto di esprimere una riflessione circa il suo intervento.
    Credo sia ben noto che la persona e l'opera di Guénon abbiano subito attacchi di ogni sorta, sia durante la sua esistenza sia successivamente, i più insidiosi dei quali provenienti da personaggi che gli si dichiaravano vicini. Pertanto mi sento di dire che le citazioni del Balestrieri da lei riportate sono inoppugnabili.
    Tuttavia non vedo come l'esposizione rigorosa della dottrina dell'Advaita Vedānta possa essere considerata un tradimento dell'opera di Guénon, anziché uno dei suoi possibili compimenti. Vorrei inoltre sottolineare che i riferimenti presenti nel sito Veda Vyāsa Maṇḍala agli attuali eredi della paramparā di Śaṃkara potrebbero essere proficuamente visti come l'occasione, per un occidentale aspirante alla conoscenza metafisica, di prendere contatto diretto con la fonte da cui tale insegnamento ancora promana.
    Chi invece dovesse intravvedere nella propria via iniziatica una simile possibilità non avrebbe altro da fare che ignorare queste indicazioni e proseguire serenamente il proprio cammino (fermo restando che - a parere di chi scrive - a prescindere dalla tradizione di riferimento, una meditata lettura dei testi proposti nel sito VVM non può che essere di giovamento per il proprio percorso di ricerca spirituale e, di riflesso, per l'organizzazione iniziatica cui si appartiene).
    Il mettere in discussione, con la sfrontatezza mostrata da alcuni interventi apparsi sulla Rivista di Studi Tradizionali, la qualità di riconosciuti maestri di Advaita Vedānta, non è certo degno di chi si fa paladino della difesa della Tradizione (del resto tale qualità sarebbe facilmente riscontrabile recandosi personalmente nei luoghi in cui questo insegnamento viene trasmesso).
    Insomma, non mi sembra affatto opportuno, in un dibattito su questioni di tale importanza, fare dell'ironia sulle qualità intellettuali di coloro che si sono presi la briga di esporre una dottrina di così alto livello: come possiamo esprimerci con tanta sicurezza circa le qualificazioni iniziatiche di un'altra persona? Non è questa una prerogativa esclusiva del maestro a cui un aspirante si rivolge?
    E infine: non ritiene che in questo modo si distolga l'attenzione dalla comprensione della dottrina esposta?
    Mi lasci aggiungere che appare altrettanto inappropriato parlare, in questo caso, di piani sovversivi nei confronti dell'opera di Guénon e quindi della Tradizione. Non ho trovato in nessuna parte del sito Veda Vyāsa Maṇḍala alcuna concessione alla mentalità che sta a fondamento del mondo moderno; al contrario è evidente la ferma condanna delle sue origini e di tutti i suoi sviluppi.
    Per concludere: sono stato un lettore della Rivista di Studi Tradizionali e ne ho a lungo apprezzato la qualità degli interventi, tuttavia non posso fare a meno di constatare l'enorme abbaglio che essa ha preso nel considerare come avverso alla Tradizione l'encomiabile e generoso lavoro intellettuale del Prof. Filippi e dei sui collaboratori. Temo che, nell'ostinarsi ad essere più realista del re, la linea editoriale della suddetta rivista rischi di diventare un “nemico in più per l'opera di René Guénon”.

    Cordialmente,

    Madhava

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  28. Egregi Signori Manlio e Madhava,
    non è mai stata mia intenzione voler dimostrare il torto di uno o la ragione dell’altro, e mi spiace se posso aver dato l’impressione di chi vuole salire in cattedra.
    Sono infatti abbastanza certo del fatto che chi si è già formato una solida convinzione, dall’una o dall’altra parte, non la cambierà certo perché persuaso dagli argomenti della controparte. Quindi, lungi da me l’idea di cercare di correggere o giudicare qualcuno, come dice il Sig. Manlio. Ognuno di noi sarà giudicato, quello sì, al momento della “pesatura delle anime”, e lì non ci saranno né contraddittori né dibattiti. Per nessuno.
    Come ho detto chiaramente all’inizio del mio precedente commento, le considerazioni che ho esposto erano, e rimangono, rivolte ai lettori che seguono queste discussioni e che ancora non si sono fatti una opinione chiara e precisa. E il motivo di ciò è dato dal fatto che “quando si sia convinti della necessità di certi mutamenti, bisogna pur cominciare a far qualcosa in questo senso [esprimere certe idee], e dare almeno, a coloro che ne sono capaci, l’occasione di sviluppare le loro facoltà latenti. La prima difficoltà è di raggiungere coloro che tali qualificazioni possiedono e forse non suppongono minimamente quali siano le loro possibilità” (René Guénon, Oriente e Occidente, Luni, Milano 1993).
    È esclusivamente a costoro che intendevo rivolgermi, e per questo motivo. Non ad altri e niente di più.
    Per quanto riguarda tutta la serie di domande del genere “chi siete per dire questo o quello”, la risposta, per quanto mi riguarda è: nessuno! (e così penso si possa dichiarare risolta anche la questione della autoreferenzialità).
    Si chiede poi: “ma a lei o chi per lei, chi glielo dice di averla letta [l’opera di Guénon] e averla riconosciuta per quella che è?”. Visto che anche in questo caso non è mio scopo convincere nessuno, mi appoggerò semplicemente ai due principi della logica classica che servono a dimostrare quando una proposizione è vera o non lo è, condivisi da tutti, anche da chi, di “assentimento”, proprio non vuol sentir parlare.
    Il primo è il “principio di non contraddizione”, che stabilisce che se una data proposizione X è vera, allora non può essere vera anche la sua negazione, cioè la proposizione “non-X”. L’altro è il “principio del terzo escluso” (tertium non datur): se una proposizione X è vera, allora “non-X” è falsa, e se X è falsa, allora “non-X” è vera; non esiste una terza possibilità.
    Nella fattispecie, se la dottrina esposta da Guénon fa riferimento, ad esempio, agli stati informali e alla realizzazione discendente, e c’è chi accetta in toto queste affermazioni e ne trae le necessarie conseguenze e poi c’è invece chi non le accetta e ne trae, inevitabilmente, altre conseguenze, significa che il primo gruppo “l’ha riconosciuta per quello che è” e l’altro no: tertium non datur!
    CONTINUA

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  29. CONTINUA
    Quanto sopra dovrebbe rispondere anche al perché si senta il bisogno di “dire da una parte che l’opera di Guénon non ha bisogno di alcuna difesa perché ‘al di là di ogni attacco umano’ e dall’altra ci si scapicolli per difenderla”. Il motivo, lo ripeto, non è difendere René Guénon o la sua opera, ma i lettori di quest’Autore, direttamente chiamati in causa da “Veda Vyāsa Maṇḍala [il quale, esplicitamente] si rivolge ai lettori intelligenti delle opere di René Guénon, l’unico fermo rappresentante del pensiero tradizionale del ventesimo secolo in Occidente, a condizione che siano liberi da ogni legame con i suoi imitatori occidentali che, auto nominatisi “maestri”, ingannevolmente a lui si richiamano” (https://vedavyasamandala.com/chi-siamo/). Per questo ho scritto che, in simili condizioni, sarebbe meglio evitare di far riferimento all’opera di Guénon o, peggio ancora, fingere apprezzamento per essa e poi trattarla come fosse il prodotto mentale di un “pensatore” qualunque.
    L’ho detto e lo ripeto: non voglio convincere nessuno, e personalmente ritengo che la cosa migliore da fare sia semplicemente raccomandare lo studio dell’opera di Guénon, dedicandovisi con la migliore disposizione d’animo possibile. Ma a chi assente con sincerità ad essa, e per di più rispetta i principi di logica “di non contraddizione” e “del terzo escluso”, sia concesso di correggere chi non lo fa, almeno a beneficio di altri.

    Cordialmente

    Giovanni Forteguerra

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  30. Gian Giuseppe Filippi9 ottobre 2020 alle ore 09:07

    1. Del messaggio del sig. Giovanni Forteguerra (nonostante lo pseudonimo bellicoso) apprezziamo il tono edulcorato dopo le aggressioni verbali più fantasiose e malevole che ci sono state rivolte. Evidentemente ciò ha anche urtato la suscettibilità di alcuni lettori non necessariamente favorevoli a Veda Vyāsa Maṇḍala. Le intemperanze, infatti, non riscuotono simpatie presso le persone equilibrate, perciò chi le organizza ha deciso di cambiare registro. Tuttavia le applicazioni della logica aristotelica utilizzate in forma semplificata dal sig. Forteguerra, non appaiono affatto determinanti. Infatti la logica aristotelica si applica nel suo sviluppo dimostrativo partendo da un presupposto dato per certo in forma aprioristica. In questo caso il presupposto è quello di aver ragione. Conclusione logica, seguendo il principio di non contraddizione, Veda Vyāsa Maṇḍala ha torto. Se ciò che pensa il sig. Forteguerra è vero, ciò che è opposto a quello che egli pensa è falso. Se, invece, quello che gli pensa è falso, il contrario è vero: tertium non datur. Ovviamente, se il presupposto indiscutibile è il dogma dell’infallibilità di Guénon, ciò che pensa il sig. Forteguerra obbligatoriamente sarà vero: Secundum non datur. Che applicazione della logica è mai questa? Infatti, dipendendo dal presupposto, la logica di Aristotele può essere usata anche in senso malefico, come Guénon ha ben indicato alcune volte. Invece la logica vedāntica non parte da un presupposto scelto del logico a suo piacimento, ma da una indubbia constatazione universale, vale a dire quella di essere l’Ātman cosciente. Da lì inizia il Vedānta vicāra. E, come dice Śaṃkara: “è impossibile negare il proprio Sé, perché anche chi lo negasse è Ātman” (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, I.1.4). Il Signore che ha strutturato simile ragionamento afferma poi che l’opera di Guénon deve essere accettata in toto come pura verità, e che perciò Veda Vyāsa Maṇḍala obbligatoriamente respinge in toto la stessa opera. Invece, tertium datur. Perché noi abbiamo ogni diritto di riconoscere dell’opera di René Guénon tutte le parti che rispondano appieno allo Śāstra. Sulla base di tale riconoscimento lo abbiamo definito l’unico fermo rappresentante del pensiero tradizionale del ventesimo secolo. Unico perché altri non ce ne sono stati.Ciò che respingiamo sono quegli ambienti che di Guénon hanno fatto un idolo, proclamando così la sua infallibilità. Questo atteggiamento fideistico è del tutto contrario alla via della conoscenza che noi seguiamo. Rifacendoci con rigore agli insegnamenti dei nostri maestri di Advaita Vedānta, di cui pubblichiamo sul Sito e per Ekatos gli scritti e gli upadeśa, riconosciamo la validità della sua opera, ma non ne possiamo validare, ogni qualvolta appaiano, gli errori dottrinali contrari alla śruti, all’insegnamento śaṃkariano come si è trasmesso nei secoli. In questo modo abbiamo operato delle rettifiche sul piano metafisico mantenendo intatto ciò che corrisponde esattamente alla dottrina che seguiamo. Questo è l’atteggiamento corretto tradizionale. Infatti avere dei maestri più o meno autentici e seguire ciò che si legge nei libri di Guénon invece che i loro insegnamenti dottrinali, è una anomalia del tutto occidentale. Non si dica che non è così, perché tutte le citazioni che i nostri oppositori producono provengono esclusivamente da Guénon, citato come un testo sacro, e mai dai loro maestri, che rimangono sempre nascosti da una cortina fumogena.

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  31. Gian Giuseppe Filippi9 ottobre 2020 alle ore 09:08

    2. Per essere più chiari produrremo un esempio inoppugnabile di un’affermazione di Guénon da correggere, che ci è stato fornito recentemente da un delirante contestatore Anonimo indegno d’ulteriore nota. Costui cita un passaggio del capitolo XXXVIII de “Le Règne de la Quantité” allo scopo di accusarci di essere degli stregoni, leitmotif tipicamente torinese per mantenere compatto il gruppo con la paura. È inutile spiegare a chi non può capire che l’Advatavāda non si occupa né fa ricorso ad alcun tipo di psichismo né superiore né, tanto meno, inferiore, ma esclusivamente di conoscenza. E che la conoscenza è l’unico mezzo per raggiungere l’abhaya.
    La citazione di Guénon si conclude con il seguente passaggio: “et, comme nous l’avons déjà dit plus haut à propos de la fausse spiritualité où vont se perdre certains êtres engagés dans une sorte de «réalisation à rebours», cette voie ne peut aboutir finalement qu’à la «désintégration» totale de l’être conscient et a sa dissolution sans retour”. Questa affermazione è una impossibilità metafisica, perché l’essere cosciente nelle Upaniṣad, cioè per il Vedānta, è lo stesso Brahman-Ātman: “Il Brahman ha eternamente la natura della Coscienza luminosa […] in altri termini l’Ātman è tutto ciò che è, l’Ātman è la Pura Coscienza stessa.” (Māṇḍūkya Upaniṣad Gauḍapāda Kārikā Śaṃkara Bhāṣya, III.36). E la smṛti aggiunge: “Ciò che pervade tutto questo (idam, l’intero universo), sappi che è indistruttibile (avināśi). Nessuno può causare la distruzione (vināśam) di ciò che è imperituro (avyayasya)” (Bhagavad Gītā, II.17). Perciò la disintegrazione totale dell’essere cosciente e la sua dissoluzione senza ritorno è una pura impossibilità senza eccezioni. Accettare un simile evidente errore e rifiutarsi di correggerlo può essere possibile soltanto per una mente in cui la fede cieca ottenebra il desiderio di conoscenza. Ci sarà sempre un post-guénoniano che cercherà di giustificare tale imprudente affermazione, disquisendo sul fatto che Guénon non intendeva parlare di Ātman, ma di qualche componente individuale, nonostante che il termine usato “être conscient” sia inequivocabile. Risponderemo che nemmeno ciò che è manifestato può essere “disintegrato totalmente” e “dissolto senza ritorno”, perché in tale dominio si parla di “trasformazione” (pariṇāmana) e mai di distruzione totale: il legno bruciato si trasforma in cenere ecc. Nemmeno l’ignoranza può essere distrutta, perché non si può distruggere ciò che non esiste. Quando si conosce la corda, non si è distrutto il serpente. Si riconosce che il serpente non c’è mai stato. Era solo una fantasia. Ma questo riguarda il jñāni, non l’uomo ordinario.

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    1. Vorrei sottolineare questo passaggio del sig. Filippi, mi sembra molto importante:
      "È inutile spiegare a chi non può capire che l’Advatavāda non si occupa né fa ricorso ad alcun tipo di psichismo né superiore né, tanto meno, inferiore, ma esclusivamente di conoscenza. E che la conoscenza è l’unico mezzo per raggiungere l’abhaya".
      Grazie per la precisazione.

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    2. Buongiorno Sig. Filippi, avevo deciso di non usare ‘sto giro “…le aggressioni verbali più fantasiose e malevole (cit.)…”, anche se la tentazione era forte, in quanto sembrava un affare tra lei e il Sig. Forteguerra, quando, toh, mi accorgo di essere sempre (indirettamente: perché non ci si abbassa a tanto!) nei suoi pensieri.

      Preciso anche che affermare: “Le intemperanze, infatti, non riscuotono simpatie presso le persone equilibrate…(cit.: come dicevo, più che altro ‘equilibriste’)”, dal pulpito da cui si predica l’accostamento ‘iniziatico-mafioso’ ha del tragicomico, per cui, quando è il caso, non mi sento affatto ingiustificato se uso un tono ‘aggressivo’.
      Comunque, capisco che il ‘repetita iuvant’ non sia da sottovalutare come modalità di apprendimento, ma qui si ha a che fare con gente “de coccio” e continuare a dire le stesse cose è snervante…
      Allora, rimando nuovamente i lettori a quanto già scritto sui motivi per i quali ho ritenuto opportuno citare G. e non altri, e nel contempo chiedo: ma quando si cita Śaṃkara, si citano le “sue” glosse alla Śruti, la quale non può essere sua in proprio, o cosa? Chi avrebbe mai pensato che, chi lo fa, lo faccia credendo di citare un testo sacro e non un’autorevole smṛti? E perché allora, quando si fa la stessa cosa con G. rimanete a bocca aperta e insinuate che, chi lo fa, non possa che farlo credendo di avere a che fare con un testo sacro (ridicolo!)? Ecco confezionate delle belle domande retoriche a cui qualcuno, appartenente al gruppo VVM, certamente sarà anche tentato di dare delle risposte intelligenti.

      Ma andiamo nel dettaglio: “Sulla base di tale riconoscimento lo abbiamo definito l’unico fermo rappresentante del pensiero tradizionale del ventesimo secolo. Unico perché altri non ce ne sono stati…(cit.)”: come dire: bella forza essere gli unici! Finissima boutade di persuasiva retorica: e se ce n’erano due o tre? Non sarebbe stato senz’altro l’unico… E bravi i nostri finissimi retori che insegnano l’uso della logica aristotelica, ma proseguiamo: “…Ciò che respingiamo sono quegli ambienti che di Guénon hanno fatto un IDOLO, proclamando così la sua infallibilità. Questo ATTEGGIAMENTO FIDEISTICO è del tutto contrario alla via della conoscenza che noi seguiamo. (cit.)”: ma santo iddio, quante volte bisogna ripetere ancora, che chi elegge l’infallibilità “guénoniana?” (il virgolettato è d’obbligo e pure il punto interrogativo!) – come voi eleggete quella “śaṃkariana?” – lo fa proprio perché non ha fatto di G. un idolo, cosa inoltre, punto impossibile per chi sa che la sua individualità non conta che uno zero assoluto? E chi lo idolatra, o pensa che gli altri lo idolatrino, di solito è perché non c’ha capito nulla dell’infallibilità, né della dottrina, niente di niente? E cosa importantissima: quell’aspetto con il quale si assimila tale insegnamento, non può essere affatto ‘fideistico’, come viene reiteratamente, sconsideratamente e banalmente definito - ché non è che un semplice ‘credere’ exoterico -, ma un ‘assentimento’ che ha a che fare esclusivamente, non con l’individuo, ma con l’“essere”, nella fattispecie con il “sovrano interiore” o, per usare un termine avvezzo alla “compagnia non-duale”, con l’“Antarayamin”, la cui modalità di assimilazione è dovuta a quel ‘riconoscimento (ri-COR-do) platonico’ (l’annoverarmi o meno in quest’ultima categoria, riguarda solo me e me soltanto, né il Filippi né altri, per cui l’accenno è impersonale e dovuto solamente alla valutazione come possibilità…) che va sotto il nome di “Reminiscenza” o “Anamnesi” che dir si voglia.
      (Continua…)

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    3. (seconda parte… fine)
      Avevo notato in precedenza che il Sig. Filippi aveva delle grossissime difficoltà circa la traslazione del senso del discorso dal ‘significante’ al ‘significato’ sotteso, ma non immaginavo così spinta; non sarà inutile perciò riportare per esteso la sua divertente proposizione: “Per essere più chiari produrremo un esempio inoppugnabile di un’affermazione di Guénon da correggere, che ci è stato fornito recentemente da un delirante (grazie per l’“equilibrio”, ndr.) contestatore Anonimo indegno d’ulteriore nota. Costui cita un passaggio del capitolo XXXVIII de “Le Règne de la Quantité” ALLO SCOPO DI ACCUSARCI DI ESSERE DEGLI STREGONI, leitmotif tipicamente torinese per MANTENERE COMPATTO IL GRUPPO CON LA PAURA.”.
      Qui, devo usare tutta la mia forza per non scoppiare a ridere; sono quasi imbarazzato a dirlo: ma pensa seriamente il Sig. Filippi che di lui abbia una così alta considerazione? Se è sì, si è tragicamente sbagliato; se è no ha spudoratamente mentito! E che dire del fatto che, a quanto è dato capire, ci avrebbe assegnato il delicato compito di mantenere compatto il gruppo torinese con la paura? Adesso non riesco a fermarmi dal ridere, per cui faccio una pausa …

      …Ricomposto, chiedo: a parte il divertente aspetto di tutela che comicamente mi viene addebitato, che cosa lo induce a credere che io faccia parte del gruppo torinese, il fatto che la penso come loro? Questo sì che è un bel esempio di esercizio fideistico contrario alla via della conoscenza che voi avreste la pretesa di seguire!

      Nel dettaglio: “È inutile spiegare a chi non può capire che l’Advatavāda NON SI OCCUPA NÉ FA RICORSO AD ALCUN TIPO DI PSICHISMO né superiore né, tanto meno, inferiore, ma esclusivamente di conoscenza…(cit.)”: l’Advatavāda non si occupa né fa ricorso ad alcun tipo di psichismo né superiore né, tanto meno, inferiore, ma esclusivamente di conoscenza perché questa è la sua essenza; molto, molto diverso il discorso è per quelli che si OCCUPANO di quello che l’Advatavāda NON SI OCCUPA, per cui senza aggiungere altro, sempre quelli “di ben intelletto”, confido capiscano quello che intendo dire.

      La taglio corta, perché è tempo perso: tutta la tiritera sull’errore di G. (un altro? Caspita: magari ci sarà pure qualcuno che lo idolatra, ma ce ne sono tanti, troppi, che lo considerano al livello di una, absit iniuria verbis, Susanna Tamaro di turno e il suo “Va’ dove ti porta il cuore”!), circa la sua inconsapevolezza dell’impossibilità metafisica della “disintegrazione totale dell’essere cosciente e la sua dissoluzione senza ritorno”, è di una idiozia sesquipedale, dovuta proprio ad una fede cieca, “equivalente e contraria (non uso apposta la locuzione comune e al contempo contraddittoria “UGUALE e contraria” perché conscio di essere al cospetto di insigni rappresentati della logica aristotelica…), a quella dei presunti suoi idolatri: io non ci vedo semplicemente che un’iperbole giustificabilissima, se si ha in mente quanto G. fosse al corrente della mentalità occidentale, tutt’altro che avvezza alla metafisica, per cui ha volutamente eletto, una volta tanto e mosso da compassione, un sano metodo “pedagogico” in luogo di una cruda e pura esposizione metafisica, “…per mantenere compatto il gruppo con la paura…(cit.)”. A quanto e dato constatare, però, per molti, tale sano avvertimento non ha sortito effetto alcuno, visto che, sordi, hanno preferito considerarsi dei jñāni e non degli uomini ordinarî.

      GATTO

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  32. I
    Egregio Professor Filippi,
    mi fa piacere che gradisca il mio stile comunicativo (che comunque definirei semmai pacato, più che “edulcorato”), però, per correttezza verso terzi chiamati in causa, bisogna che le dica che il sottoscritto scrive per proprio conto e non per mandato di qualcuno “che ha deciso di cambiare registro” addolcendo i toni.
    Devo correggerla anche su un altro punto: il presupposto della mia disquisizione sui principi della logica aristotelica non era né quello “di aver ragione” né “il dogma dell’infallibilità di Guénon” (che poi sarebbero due presupposti diversi, ma lasciamo stare). Il presupposto, invece, era che chi è in grado di assentire completamente alla dottrina esposta da Guénon, traendone poi le logiche e necessarie conseguenze, si può dire che abbia compreso la sua opera e, viceversa, chi non è in grado di farlo non si può dire che l’abbia capita per quello che è. Comunque, detto ciò, sono d’accordo con lei che queste sottigliezze dialettiche, come lei giustamente afferma, “semplificano” – fin troppo, aggiungo io – il discorso. Allora, se me lo consente, vorrei ora rivolgermi invece, nuovamente
    AI LETTORI
    (dato che sono sempre più convinto, come dicevo, del fatto che chi si è già formato una solida convinzione, dall’una o dall’altra parte, non la cambierà perché persuaso dagli argomenti della controparte) reinserendo quel che avevo volontariamente escluso, cioè la questione dell’ “assentimento”. Per farlo, questa volta, mi servirò delle delucidazioni fornite dal Sig. Giovanni Ponte, un altro collaboratore della Rivista di Studi Tradizionali. Egli, nei primi numeri della Rivista, così si esprimeva su questo tema: «Tutto dipende da quell'assentimento essenziale alla verità metafisica e alla presenza spirituale che è incomunicabile e che, per chi lo riconosce dentro di sé, è immediato nella sua evidenza. E questo assentimento, che scaturisce dall'intuizione di quel Principio unico in cui risiede la realtà profonda di tutti gli esseri e che è il Sé universale, rappresenta anche un inesprimibile e formidabile strumento di unione fra tutti coloro che vi partecipano». Ed: «È importante esser consapevoli della portata inalienabile già insita in un assentimento teorico autentico alla realtà metafisica: “ogni risultato, anche parziale, ottenuto dall’essere nel corso della realizzazione metafisica, è ottenuto in maniera definitiva. Tale risultato costituisce per esso un’acquisizione permanente che nulla potrà mai fargli perdere; il lavoro compiuto in questo ordine, anche se viene ad essere interrotto prima del termine finale, è fatto una volta per sempre, proprio perché d’ordine atemporale. Ciò vale anche per la semplice conoscenza teorica, poiché ogni conoscenza porta il proprio frutto in se stessa...” (cfr. René Guénon, La Metafisica orientale)».

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  33. II
    Infine, l’autore ricordava anche come: «Un vero assentimento intellettuale implica sempre, nell’essere umano, un mutamento in profondità delle sue condizioni, e questo mutamento, ancorché possa sfuggire in gran parte alla coscienza individuale, crea naturalmente dei rapporti nuovi con le stesse influenze spirituali, dal cui intervento dipende, in definitiva, qualsiasi realizzazione effettiva».
    Per finire, vorrei segnalare il “giochino” dialettico secondo cui, come lei dice: “Ciò che respingiamo sono quegli ambienti che di Guénon hanno fatto un idolo, proclamando così la sua infallibilità”. L’infallibilità di Guénon dipenderebbe dunque dal fatto che “certi ambienti” ne “hanno fatto un idolo”?
    Mi pare veramente un’enormità. Parlo per me, ma credo che anche tutti coloro che hanno riconosciuto la voce della Tradizione Unica esprimersi nell’opera di Guénon in virtù di quell’assentimento di cui parlavo prima, siano concordi nell’affermare che infallibilità della dottrina tradizionale esposta da Guénon deriva, come ho già detto, dalla fonte da cui promana, e non da “se stesso”, motivo per cui nessuno di noi può essere accusato di essere un “adoratore di idoli”. Queste affermazioni, anche se vergate in guanti bianchi, suonano veramente offensive.
    Sull’ “atteggiamento fideistico” non ci voglio tornar su: è talmente semplice capire la differenza tra credenza e – di nuovo – assentimento, che chi non la capisce vuol dire che non la vuol capire.
    E qui mi fermo.

    Cordialmente

    G. F.

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    1. Sig. Forteguerra, mi permetta una precisazione sulla sua chiosa: “Sull’ “atteggiamento fideistico” non ci voglio tornar su: è talmente semplice capire la differenza tra credenza e – di nuovo – assentimento, che chi non la capisce vuol dire che non la VUOL capire.”:

      Io credo che, nella fattispecie riguardante i componenti di questa particolare iniziativa sull’Advaita, non sia punto una questione di “volontà”, ma di “potenzialità”.
      Come scrivevo qualche commento fa, una partecipazione cosciente nella scelta di contrastare il punto di vista tradizionale, e più precisamente la particolare forma assunta che in questo fine ciclo è stata espressa dall’opera “di” Guénon (perché, diciamocelo: quale altro sarebbe il movente di tutta questa pantomima?), non è completamente da escludere, ma a mio modestissimo avviso, perlomeno leggendo i commenti di chi qui ha partecipato alla querelle, non ce n’è nemmeno l’ombra! Una volontaria “mala fede” è perciò stesso sempre passibile di redenzione, in quanto chi la dissimula, sa perfettamente che quello che sta perseguendo (i motivi implicanti, dal punto di vista dal quale mi sto ponendo adesso, non interessano affatto…) è una menzogna più o meno spinta che usa per interesse, epperò deve conoscere necessariamente la verità di cui ne ha alterato il significato.
      Viceversa, la più totale buona fede nel perseguire l’errore come fosse verità è irredimibile, non potendo riconoscere nel modo più assoluto quale sia la fonte di cui ne ‘scimmiotta’ la parvenza, anzi: la crede la fonte stessa.

      Questo era per dire che, la “buona fede”, contrariamente a quello che certa morale difende come attenuante, è in realtà un’aggravante e la condizione peggiore da combattere, in quanto, chi ne è il supporto è impossibilitato a riconoscere come un errore ciò che in questo modo divulga e difende.

      Insomma, la faccenda è ben più grave e molto più difficile da contrastare che se si fosse in presenza di pur abili millantatori (e questo esclude totalmente le ridicole insinuazioni che sono state scritte a nostro carico, da alcuni utenti del blog, e in particolare del Filippi che ha creduto di essere stato identificato come un “mago nero”): succede a volte che le ‘vittime’ siano di gran lunga peggiori dei carnefici!

      GATTO

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    2. Gian Giuseppe Filippi13 ottobre 2020 alle ore 17:48

      1. Signor Forteguerra, prendo atto che afferma di scrivere per proprio conto, il che non sposta d’una virgola che la corrente d’appartenenza rimanga la medesima di altri “torinesi” che, per la verità in forma assai incivile ci aggrediscono da un paio d’anni e che ora si rammaricano perché “osiamo” ribattere. Quanto poi alla sua osservazione per cui “aver ragione” e “il dogma dell’infallibilità di Guénon” sarebbero due presupposti invece di uno, essa è chiaramente contraddetta da quanto ella stessa afferma: “il presupposto, invece, era che chi è in grado di assentire completamente alla dottrina esposta da Guénon, traendone poi le logiche e necessarie conseguenze, si può dire che abbia compreso la sua opera e, viceversa, chi non è in grado di farlo non si può dire che l’abbia capita per quello che è”. Ossia “io, che sono in grado di assentire completamente alla dottrina esposta da Guénon, l’ho capita e voi no. Ergo, io ho ragione e voi no.” Ma soprassediamo a queste esibizioni di logica di basso profilo, che pare vi affascinino, ma che non servono a nulla e andiamo al suo proclama ai lettori. Proclama in cui lei vuole dirozzare ed edulcorare gli attacchi astiosi e privi di contenuti di quel gruppo che, in tutta evidenza, hanno infastidito diversi lettori del blog e che possono aver scosso anche qualche aderente ancora in buona fede di ciò che resta della “tariqa” di Maridort. La sua citazione da Ponte è una dichiarazione di fede, non una dimostrazione. Se preferite usare il termine assentimento in luogo di fede, siete liberissimi di giocare con le parole. La sostanza non cambia. Infatti l’assentimento completo a una dottrina fino alle logiche e necessarie conseguenze è la caratteristica unica della fede, non solo dei post-guénoniani, ma di tutti gli aderenti a sette, ideologie e partiti politici. Questo condizionamento della mente dura finché non interviene un nuovo fatto o una nuova prospettiva. Questo può indurre a riflettere. Oppure, se si teme che il fatto nuovo incrini una credenza sclerotizzata, la fede (o assenso) si muta in fanatismo astioso. Se, dunque, un fatto contraddice quanto si crede, tanto peggio per il fatto! Anche l’intenzione con cui si cita Guénon va nella stessa direzione: “Nel corso di una realizzazione” significa ben altro che una semplice adesione alla lettura di libri. Certamente non possiamo concordare del tutto con il concetto di “risultato parziale” per quello che riguarda una “realizzazione metafisica” in quanto tale realizzazione (sākṣārkāra) non può essere divisa in parti o in tappe; ma se con ciò Guénon intendeva più propriamente il perfezionamento e la purificazione dell’individualità, è del tutto condivisibile. Non è altrettanto condivisibile ciò che afferma poi riguardo “la portata inalienabile già insita in un assentimento teorico autentico alla realtà metafisica.” Per due motivi: il primo riguarda l’assentimento alla realtà metafisica, che invece presso i nostri oppositori non esiste, com’è provato dal netto rifiuto di accettare le citazioni upaniṣadiche, śaṃkariane e degli ācārya da noi prodotte. E, in secondo luogo, per la qualità della conoscenza attinente all’adesione teorica, ossia di una dottrina letta sui libri. Infatti la conoscenza teorica, come anche la ben superiore conoscenza effettiva della scienza del non-Supremo, dipende da una azione d’indagine conoscitiva. Il conoscente, grazie allo sforzo impegnato nell’attività di conoscenza, alla fine conosce il conosciuto.

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    3. Gian Giuseppe Filippi13 ottobre 2020 alle ore 19:13

      2. Come si può facilmente rilevare, sig. Forteguerra, e come abbiamo dimostrato innumerevoli volte sul nostro Sito, questo non è jñāna, ma è un’azione conoscitiva (jñāpti), un karma intellettuale. E tutti i frutti dell’azione che hanno avuto un inizio temporale, spaziale, di causa-effetto ecc. devono necessariamente avere una fine. L’azione, anche se d’indagine conoscitiva, non può uscire dal dominio dell’azione, non può raggiungere l’eterno, l’assoluto. Affermare che la conoscenza teorica sia un’acquisizione permanente perché d’ordine atemporale può servire a compiacere coloro che ritengono di averla raggiunta; ma questo sì è volersi illudere. Tutti i nostri oppositori, com’ella stessa, hanno evitato di affrontare un argomento da noi ripetutamente sollevato e di primaria importanza. I libri di Guénon sono stati di grande utilità, oltre che per riconoscere la mostruosità della civiltà moderna, soprattutto per capire cos’è la tradizione, cos’è l’iniziazione, cos’è la realizzazione, nonché la necessità di un collegamento a un maestro con una indiscutibile trasmissione iniziatica e dotato di autentiche conoscenze metodiche e dottrinali. Una volta identificato un tale vero maestro ed esserne diventati discepoli, l’utilità di tali libri è trascesa dalla messa in pratica dell’insegnamento iniziatico ricevuto al fine realizzativo. L’anomalia degli “ambienti iniziatici” europei è invece rappresentata dal fatto che l’opera di Guénon non deve essere trascesa. Essa rappresenta una sorta di rivelazione a cui ci si deve riferire in tutto e per tutto. Proprio quello che ella chiama assentimento completo. Fede cieca. Non si vuole nemmeno prendere in considerazione la nostra ripetuta puntualizzazione che tra i guénoniani e Guénon non c’è alcuna trasmissione iniziatica né metodica né dottrinale. È solo la lettura dei suoi libri. Da questa lettura non può scaturire alcunché di operativo, ma solo una utile indicazione teorica. Nessuno ha affrontato questo quesito. Nessuno ha nemmeno mai controbattuto ad alcuni rilievi dottrinali mossi ad alcune affermazioni di Guénon sulla base dell’evidente incompatibilità con la dottrina della śruti, di Śaṃkara e della sua paramparā. Qualcuno ha cercato di contrapporci lunghe citazioni tratte dallo stesso Guénon. Ma questo modo di procedere è un circolo vizioso e non ha alcuna rilevanza probatoria. Facciamo l’esempio più evidente che ha sconvolto gli adoratori di Guénon, quello della manifestazione informale o sopraindividuale. Testi alla mano abbiamo dimostrato che tale manifestazione non esiste, in quanto la manifestazione stessa c’è soltanto allorché c’è nome e forma. Abbiamo dimostrato che esiste un solo e unico arūpin, il Brahman non duale. Chi ha ribattuto ha soltanto pubblicato citazioni da Guénon che afferma l’esistenza dell’informale, citazioni che, per l’appunto, abbiamo corretto sulla base dei testi vedāntici. Per dimostrare che su questo punto Guénon aveva ragione, i nostri oppositori avrebbero dovuto dimostrare l’esistenza dell’informale nella śruti e nei testi della lunga tradizione advitīya. Ma, perché no?, anche nei testi sufici, taoisti, qabbalistici e quanti altri. Invece niente. A proposito della vile insinuazione basata su una citazione di Guénon sui “maghi neri”, abbiamo fatto rilevare che lì si trova l’affermazione della possibilità della disintegrazione totale dell’essere cosciente. Nessuna reazione dottrinale. Infine, poiché ho accennato a questa stolta accusa, lanciata con successivo nascondimento della mano, sottolineo che persino il “pacato” sig. Forteguerra si allinea a certo Anonimo, rivolgendoci la frase di Matteo “Sorgeranno infatti falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi portenti e miracoli, così da indurre in errore, se possibile, anche gli eletti” (Mt 24,24). Questo è sempre stato lo stile “torinese” per mantenere compatto il gregge.

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  34. Prima precisazione: è il caso di smettere con le ridicole argomentazioni sulla lettera ‘na’. Io sono in possesso di una laurea specifica e conosco bene il sistema grafico devanāgarī. Anzitutto la ‘na’ non è affatto una lettera, coma la chiama Guénon, ma una sillaba (akṣara). Nel quaderno di esercizi di scrittura sanscrita di Guénon riprodotto da Masetto sono evidenziate alcune ‘na’ nella loro forma intera e in composizione con altre consonanti e semivocali. In quest’ultimo caso, però, non si tratta più della sillaba ‘na’, ma della nasalizzazione tramite ‘visarga’ o soppressione della ‘a’ che trasforma il suono originale in una nasalizzazione (anusvāra). A seconda dei casi su cui non mi dilungo, questo suono nasale, che non è più la famosa “lettera na” né è più così pronunciata, può essere scritta come un punto al di sopra della riga che unisce tutte le akṣara, oppure nella forma originale della ‘na’ a cui è stata soppressa l’asta verticale. Se Guénon nel suo corsivo, ha scelto di scrivere questa nasalizzazione come una virgola in orizzontale (a forma della parte superiore della chela del cancro, per far felici i prigionieri del simbolismo), ciò riguarda la sua grafia; per esempio ha anche deciso di riempire di inchiostro l’occhiello della ‘na’-‘n’. Io, personalmente, uso un’altra forma come mi è stato insegnano da un docente indiano. Però spacciare questa sua ‘virgola orizzontale’ per quello che chiaramente Guénon ha descritto come una semicirconferenza convessa verso l’alto con un punto al suo centro, può essere accettato soltanto da chi non riconosce mai l’evidenza. L’evidenza che si tratta della ‘enne’ del Vattan, che persino Vâlsan ha avuto l’onestà, in questo caso, di riconoscere. L’ostinazione di Masetto è motivata dalla ferma intenzione di dimostrare la sua ignoranza nel merito, seguito da tutti coloro che, pur incompetenti, applaudono. L’articolo del sig. Enzo Cosma apparso su questo Blog rimane del tutto intatto, incontrovertibile e mai impugnato.
    Seconda precisazione: Riguardo all’affermazione “… non credo che sia cosa affatto peregrina indirizzare le ricerche proprio in questa direzione- quella cioè di includere ipoteticamente anche questi “maestri” nell’ambito eterodosso”, sottolineo che i maestri a cui ci rifacciamo dichiaratamente e senza nascondimenti e di cui abbiamo tradotto e pubblicato alcune opere, sono dei paramaṃsa saṃnyāsin, tra cui diversi Jagadguru dei quattro Śaṃkara Pīṭham. Con che faccia tosta un individuo occidentale che per paura o vergogna non dichiara la sua provenienza iniziatica (se c’è), si permette di promuovere sul Web un tentativo di spionaggio al fine di dimostrare la loro “eterodossia” a scopo diffamatorio? Dovrebbe, invece, riflettere accuratamente su quanto ha riportato da Guénon a proposito di porte chiuse.

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    1. I

      Maitreyī, visto le reazioni a vario livello scomposte, che sarebbero prerogativa solo di quelli rapiti dal miraggio della dualità dell’Ātman, diventa sempre più difficile credere che le chiacchiere sulla IRREALTÀ delle cose, si traducano anche in qualcosa di effettivo nella vostra “compagnia non-duale” e che, in sostanza, ciò non sia dovuto ad altro se non al fatto che continuate anche voi, vostro malgrado, a vedere ‘serpenti’ al posto di ‘corde’, quando non sia il caso, ben più grave, del contrario.
      Altrimenti non si capirebbe il perché ve la prendiate così a cuore, oltretutto, interpretando malamente, meglio: facendo finta di non capire quanto da me scritto, usando dei termini in italiano a sproposito per spiegarlo: l’ho ripetuto mille volte che non è per paura, né per vergogna, ma per prudenza, ma a quanto è dato vedere siamo di fronte a un muro di gomma! Allora, siccome potrei star qui a ripeterlo per altre mille, mi adeguo per sfinimento alla sua spiegazione e per restare in tema con la metafora d’elezione di tutta questa messinscena, dico: sì, non mi paleso per una sana paura che la corda che spacciate come tale, non sia in realtà che un serpente; e per vergogna di mischiarmi con degli illusi.
      Ecco, se non vi va bene nemmeno questa spiegazione, mi arrendo…

      Circa invece le questioni ‘spionaggio’, ‘diffamazione’ et similia, devo un po’ insistere col dire che lei dovrebbe dedicarsi all’italiano tanto quanto si terrebbe (condizionale d’obbligo) occupata col sanscrito, perché la sua laurea specialistica deve averla un po’ distratta dall’approfondirlo, e qui siamo in ItaGlia non a Varanasi!
      Procedo quindi con uno “spelling” sui generis: SPIONAGGIO: “Attività CLANDESTINA [dal lat. clandestinus (der. dell’avv. clam «di nascosto», ndr.] svolta allo scopo di raccogliere, a vantaggio di uno stato, informazioni utili dal punto di vista scientifico, economico, politico e spec. militare riguardanti un altro stato.”.
      Diffamazione: “reato consistente nel recare offesa all’altrui reputazione comunicando a due o più persone, a voce o per iscritto, e FUORI DELLA PRESENZA DELLA PERSONA OFFESA, oppure diffondendo, per mezzo della stampa, notizie di fatti che possano comunque ledere o diminuire la stima morale o intellettuale o professionale che la persona gode nell’ambiente in cui vive. Ingiuria e diffamazione NON POSSONO ESSERE PUNITI se commessi in uno stato di rabbia determinato dall’AVER SUBITO, DALLA STESSA VITTIMA, UNA PRECEDENTE INGIURIA O DIFFAMAZIONE. Si può reagire alle parole con le parole, non con intimidazioni o violenze. È però necessario che la reazione sia immediata e frutto dell’ira del momento”. In conclusione: questo mio atteggiamento è stato dovuto anche ad una reazione che voi avete provocato (una per tutte: l’atteggiamento mafioso di ‘equilibrata’ vostra valutazione…); inoltre, pur considerato in senso traslato, il termine ‘spionaggio’ non può lo stesso stare in piedi, visto che ho ufficializzato il mio intento e sono venuto proprio in casa vostra a dirlo, non camuffato da apologeta, ma palesato come detrattore; e ancora, l’avverbio ‘ipoteticamente’, con il quale precisavo questa mia affermazione, lo ribadisco, non può rendermi colpevole di diffamazione, né di ingiuria, né di calunnia, né di niente, oltretutto, come ho sempre sostenuto, gli individui di questa intrapresa, maestri o accoliti che siano, non interessandomi nel modo più assoluto.
      Per cui, non per diffamare chicchessia, ma per smascherare in sé quello che io ritengo essere il vero movente e scopo di questa iniziativa, condizioni che non sarebbe peregrino considerare, sempre come ho già affermato, completamente dissimulate a tutti indistintamente i suoi membri, ancorché maestri.
      (continua...)

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    2. II
      Chiarito ciò (piissima illusione…), procederei con l’asfissiante questione della lettara (pardon: sillaba) ‘NA’.
      Dall’altissimo della sua laurea specialistica, Maitreyī ci fa sapere che: “Anzitutto la ‘na’ non è affatto una lettera, coma la chiama Guénon, ma una sillaba (akṣara)…”; dal basso invece della mia ignoranza, faccio presente che anche il Cosma sostiene che: “ Nel sistema Akṣharapalli, che usa le singole lettere e l’accoppiamento sillabico, LA LETTERA NA devanāgarī ha valore 2…”: siamo sempre in presenza del problema ‘significante-significato’ tanto inviso al gruppo o della semplice ignoranza del termine “sineddoche”? Si vorrebbe quindi insinuare che G. non sapesse nemmeno che la NA fosse una sillaba? Questa fa il paio con l’altra insinuazione per cui avrebbe avuto una conoscenza del Sanscrito da asilo, perché non usava il tratto continuo come appare oggi su Wikipedia essere il modo corretto per scriverlo?
      Détto ciò, sempre dal basso della mia ignoranza, affermando che la componente essenziale (la radice) del linguaggio è sempre stata la consonante, non la vocale, azzardo: che questo fosse la condizione da cui partiva G. nel proporre la somiglianza tra le due lettere, la pronuncia non rimanendo certo quella precedente se si sopprime la vocale, ma non diventando nemmeno un suono completamente eterogeneo; inoltre, che non si può dalle lauree specialistiche trarre alcunché di legittimo per disquisire con pertinenza sulla Scienza delle Lettere; infine, che se G. non fosse stato assolutamente giustificato nel proporre questa convergenza, e nessuno fosse in grado di confutare lo studio del Cosma (il fatto che non ci sia nessuno attualmente, non esclude che non ci sia mai stato, o che ci sia, ma, per mille motivi, non si trovi o non voglia farsi trovare…), bisognerebbe ammettere che G. si sia sbagliato, ma questo non significherebbe altro se non che avrebbe parlato in suo nome e non per il tramite della sua funzione.
      Questo non costituirebbe che una cosa più unica che rara, perché, quello che qui si vuole far passare da questo preteso equivoco è che se è falso il presupposto, deve essere necessariamente falsa anche la conclusione riguardante la correlazione tra l’Induismo e l’Islam, e che, soprattutto, questo parlare in proprio nome, non sia per G. che l’unica chiave di lettura della sua opera. So benissimo qual è il gioco delle tre carte che in certi ambientini si gioca: dimostrare che G. ha sbagliato una volta, o poche, significa dire che tutto della “sua” opera può essere messo in discussione (soprattutto quando fa comodo), con il che, infallibilità e relativo assentimento da parte dei suoi lettori vanno a farsi benedire, non restando altro che gli applausi! Di questa perfetta logica che il gruppo di VVM mette a disposizione di chi vuol seguirlo, in cui tutto sembra essere finalmente spiegato incontrovertibilmente sull’affaire Guénon, mi sovviene ciò che Dante faceva dire al consigliere di frode Guido da Montefeltro, dopo che il Demonio prese possesso della sua anima e nonostante l’assoluzione di Papa Bonifacio VIII: «O me dolente, come mi riscossi quando mi prese dicendomi: “Forse tu non pensavi ch’io loico fossi?”»!
      (continua…)

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    3. III
      Per finire vorrei documentare quanto riportato da G. Manara nel n° 60 di RdST, nell’articolo “Sui parassiti dell’opera di Guénon; qualche aggiornamento…(nota 20, pa. 41)”, perché ricalca a mio avviso alla lettera quello che sta avvenendo di nuovo con la presente iniziativa di VVM (non crediate di essere un’esclusiva novità in campo di proposte simili): « … A proposito della pretesa divulgazione in Europa di insegnamenti indù di un ordine particolarmente elevato, ricordiamo che G. osservava tra l’altro: “C’è da chiedersi come un Indù possa ignorare del tutto in quale momento del kali-yuga ci si trovi attualmente e arrivi al punto di affermare che ‘…sono giunti i tempi in cui l’intero sistema del Vedanta può essere esposto pubblicamente…’, mentre una sia pur minima conoscenza delle leggi cicliche impone, al contrario, di dire che mai come ora essi sono stati meno favorevoli (…) per questa ragione (…) tutto quello che rappresenta una conoscenza tradizionale di ordine veramente profondo (…) diventa dovunque sempre più difficilmente accessibile; di fronte all’invadenza della mentalità moderna e profana è evidente che non potrebbe essere altrimenti; ma allora come si può misconoscere la realtà al punto di affermare tutto l’opposto e con la stessa tranquillità con cui si enuncerebbe la verità più incontestabile? (cap. XXII, IL Regno dQeiSdT)” R.G. alludeva qui, in particolare, al proselitismo svolto in Francia dal gruppo facente capo a Siddheshwaranda e con l’occasione di riferirsi ad esso, egli osservava inoltre, nella sua corrispondenza, che ovviamente (‘…il va de soi que…’) per degli Occidentali la pretesa trasmissione di un’iniziazione indù come quella in questione non ha nessun valore»!

      A quelli “di ben intelletto” la scelta di schierarsi…

      GATTO

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    4. Errata c.:"Siddheshwarananda"
      GATTO

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  35. Nel mio primo intervento dicevo che  l'accritudine di certi personaggi facevano da filtro per capire quale strada non intraprendere, adesso aggiungo che la ignoranza di questi certi fa pietà.

    Il tale GATTO continua ad arrampicarsi sugli specchi su qualsiasi commentario debba minimamente rispondere in forma dottrinale, cerca le più svariate scuse per evitare di nominare quale sia la sua, di quali maestri si nutra.

    Forse a questo le serva l'anonimato? a nascondere che dietro a tanto palabrerio ci sia solo una (pseudo) cultura libresca? Pur di negare che in fondo, essendo così attaccato alla sua individualità, si sente colpire la sua fede (pardon'assentimento')si crede e si la racconta essere il detentore della chiave per capire la opera di Guénon e come tale il diffesore della "Tradizione"...evidentemente un arduo compito che lo acceca in tal modo che l'impedisce veder in quanti modi gli fu spiegato che qui nessuno c'è l'ha col maestro francese! Potrebbe per favore indicare in quale parte di VVM viene osteggiato? eppure si accanisce a commentare solo questi due post lasciando perdere ad esempio quello della lettera NŪN, e non mi venga con "l'antipasto "postato della RST in facebook (tra l'altro un social molto Tradizionale!). Nel suo intercalare di frasi latine (lo fa sentire più colto?) potrebbe usare al meno lo stile e correttezza di Guénon nei confronti dei suoi interlocutori, si legga Frammenti Dottrinali e veda un po'.

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  36. Annalisa Halima Porta11 ottobre 2020 alle ore 21:17

    È possibile attenersi e leggere solo dati dottrinali evitando ogni volta una pagina introduttiva e ripetitivi incisi di sarcasmo? Dopo un po' stancano e soprattutto non convincono nessuno. Grazie.

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    1. Annalisa Halima Porta, temo per quello che mi riguarda, che finché gli altri continueranno col loro di ‘sarcasmo’, sarò costretto a rispondere colpo su colpo. Mi rendo conto che sono incisi che stancano: li può sempre leggere frettolosamente o saltare, certo è che non son proprio stati fatti con l’intento di convincere nessuno, come è ovvio che sia e come lei sembra credere invece, ma per sistemare delle faccende che, fra l’altro, non ho innescato io. Prego!

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  37. Roberto Arvo. Al contrario di alcuni che vedono in queste diatribe una sorta di "disturbo della quiete pubblica",auspico invece che non si torni al precedente silenzio quasi tombale, e che si possano leggere commenti a complemento degli articoli riportati,così da ottenere come l'impressione che non siamo poi solo quattro gatti.....ma magari almeno cinque. Anche se,a quanto sembra,"www" tradotto in "codice "ascii", pare dia 666...un numeretto spesso poco simpatico.

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    1. Ho dato una scórsa al codice ASCII di cui non conoscevo punto l’esistenza, perciò riporto testualmente: il “6” codifica la lettera “B”, per cui non può dare il “666”; la “W” corrisponde all’“87” e la “w” al “119”, quindi ancora nessuna corrispondenza con quanto sostenuto.
      Invece, vorrei fare un appunto più preciso: nella lingua araba, di cui se non ricordo male, nell’articolo del Cosma sempre sulla lettera (pardon: sillaba) NA, veniva messa in discussione fosse sacra, quindi né più né meno che un codice ASCII, la “w” corrisponde effettivamente al numero “6”, ergo i conti cominciano a tornare…
      GATTO

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    2. Errata corrige: la “B” corrisponde al “66” e non al “6” come ho in precedenza riportato, quindi, pur avvicinandosi, ancora nulla; invece, il “6”, corrisponde, guarda caso, al simbolo “(♠)”! Questa volta la relazione è abbastanza sorprendente invece: chi conosce un po’ i Tarocchi, questa non può che essere una stranissima convergenza perché il ‘seme’, in particolare l’Asso, di picche è il simbolo della Morte: per noi “…prigionieri del simbolismo (cit.)” e non, ovviamente, per i “non-duali”, costituisce cosa affatto inquietante!
      GATTO

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    3. Mi permetto una semplice osservazione,dopo aver preso atto delle sue considerazioni. È evidente che non ho alcuna dimestichezza con ciò che riguarda internet.....diciamo per scelta personale. Ad ogni modo la "rete" del "world wide web" supporta, come si sa,la totalità della conoscenza umana del nostro tempo e come tale, realizza in modo invertito la Conoscenza primeva che si postula vi fosse agli esordi di questo Manvantara. Dunque siamo di fronte ad un "segno dei tempi", così come se ne osservano tanti altri, dalla cosiddetta intelligenza artificiale alla smaterializzazione "invertita" della moneta e via dicendo. Non sembra mancare molto all'epilogo fatale anche perché i "marchi sinistri" sono impressi in ogni cosa.Vero è che con Confucio possiamo dire che "è meglio accendere una luce che maledire l'oscurità". Un saluto.

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    4. Ho pensato, a titolo di curiosità, di chiedere conto ad un personale interlocutore, quale fosse la ragione per la quale aveva affermato (come da me incautamente riportato in precedenza) l'equivalenza del WWW col numero 666. In un primo momento temevo si trattasse della semplice operazione che consiste nel sommare i numeri che compongono 87, vale a dire 87= 8+7=15=6 Ma per fortuna non si trattava di questo (nel senso che "nella notte scura tutte le vacche sembrano nere), bensì di una considerazione legata, a suo dire, a corrispondenze con l'alfabeto ebraico. E qui alzo le mani, non avendone conoscenza alcuna. In sostanza la lettera "w" sarebbe la traslitterazione della lettera ebraica "vau". Dunque quando digitiamo www, in termini numerici,digitiamo un "666". Poi mi viene detto che nella Cabala ebraica, la lettera "shin" conterrebbe tre "vav", che simboleggiano il "fuoco eterno". Quale valenza abbia tutto questo e se le corrispondenze sono o meno giuste, non sta a me dirlo. Ripeto che ne ho chiesto conto a titolo di curiosità e comunque niente può cambiare il fatto che "internet" e la sua pseudo sapienza universale, porti con sé un carattere "sinistro", che replica in modo invertito e parodistico, la Conoscenza Vera.

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    5. Non posso che concordare con lei sig. Arvo, ma quello che volevo dire, e che adesso in una certa misura ha risolto, è che non riuscivo a capire quale fosse il collegamento con quello che stava sostenendo circa il codice ASCII.
      Adesso che ha in parte spiegato, la convergenza risulta ancora più allarmante, ancorché più chiara, visto che ha scomodato anche l’ebraico che è un altro idioma sacro, in questo, del tutto in accordo con l’arabo.
      Mi scusi se non approfondisco meglio, ma sono impegnato a rispondere ai nuovi commenti (vaneggiamenti?) dei “padroni del vapore” (mi si passi l’iperbole metaforica)…
      GATTO

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    6. Non posso che concordare con lei sig. Arvo, ma quello che volevo dire, e che adesso in una certa misura ha risolto, è che non riuscivo a capire quale fosse il collegamento con quello che stava sostenendo circa il codice ASCII.
      Adesso che ha in parte spiegato, la convergenza risulta ancora più allarmante, ancorché più chiara, visto che ha scomodato anche l’ebraico che è un altro idioma sacro, in questo, del tutto in accordo con l’arabo.
      Mi scusi se non approfondisco meglio, ma sono impegnato a rispondere ai nuovi commenti (vaneggiamenti?) dei “padroni del vapore” (mi si passi l’iperbole metaforica)…
      GATTO

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  38. Gian Giuseppe Filippi12 ottobre 2020 alle ore 12:38

    Al Sig. Carlo Bellini. Se mi è permesso, vorrei aggiungere qualche considerazione riguardo la paura (bhaya) e la non-paura (abhaya). Infatti, quanto scrivevo in proposito non appare del tutto sufficiente per averne un quadro completo. Inizierei affermando che il contrario della paura è il coraggio (vikrama), mentre la non-paura è libertà sia dalla paura sia dal coraggio. Abhaya, infatti, è lo stato non duale del Supremo Brahman.
    “Esso [l’Ātman] rifletté: «Di cosa dovrei aver paura se non c’è null’altro al di fuori di me?» La paura, a questa riflessione su cosa ci fosse da temere, scomparve. C’è paura quando c’è un secondo oltre al Sé” (BU 1.4.2).
    Questa affermazione upaniṣadica corrisponde naturalmente all’Advaita Vedānta. Ma tutte le altre correnti iniziatiche che, a diverso titolo, sono dualiste, differiscono da questo punto di vista:
    “Questo [adhyātma] yoga che non è in relazione con altro da Sé rimane inaccessibile alla maggior parte degli yogin, poiché gli yogin provano paura in quanto vedono la paura là dove non può esserci” (MUGK III.39) E Śaṃkara commenta: “Quegli yogin hanno paura di quello yoga che, invero, è privo di paura (abhaya), perché pensano che esso provoca l’estinzione della loro individualità. O, meglio, gli yogin che sono privi di discriminazione e che per paura paventano l’annientamento della loro individualità, provano paura per ciò che in realtà è libero di paura” (MUGKŚBh III.39). E aggiunge: “… hanno paura davanti al pensiero dell’Ātman non duale ed eterno (ajāta), e, credendo nell’esistenza della molteplicità degli oggetti, prestano fede alla [realtà della] dualità. Possono tuttavia seguire la retta via [del dharma]” (MUGKŚBh IV.43).
    Infatti anche i dualisti che provano paura per l’Assoluto possono seguire regolarmente una via del non-Supremo e, qualora avessero doverosamente purificato la mente, potrebbero alla fine arrivare all’Advaita. Infatti coloro che seguono per fede quelle vie dualistiche, possono trasporre la paura per l’Assoluto in timor di Dio, che, nei suoi limiti, è pur sempre una virtù. Da ciò la concezione di sottomissione e accettazione della “volontà” divina, nel timore di non incorrere nelle sanzioni dell’Altissimo.
    Tuttavia è il caso di soffermarsi su un altro aspetto della questione. La paura è pur sempre soltanto un’emozione provata dal manas. Si tratta di una emozione che porta a un indebolimento dell’individualità e può provocare una fessura attraverso cui si possono insinuare le influenze sottili più pericolose. Infatti le influenze sottili, che appartengono alla realtà di pura apparenza (prātipathika sattā), sono della natura della fascinazione, per cui influiscono su coloro che sono aperti a questo tipo di paure. Le influenze magiche, sciamaniche, stregonesche, e perfino le più sciocche suggestioni spiritiche possono attivarsi solamente in chi rimane aperto a questo tipo di esperienze. Perciò fomentare la paura nei confronti di maghi neri et similes ha decisamente una connotazione sinistra.

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    1. ... tertium non datur! Ovviamente... E poi dicono che il Diavolo sta nel dettaglî!

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    2. Errata c.: ..."nei" dettaglî!
      GATTO

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    3. Errata c.: ..."nei" dettaglî!
      GATTO

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    4.  Gatto, nei primi commenti sembrava che parlasse seriamente, ma ormai i suoi interventi hanno preso una piega a dir poco comica! il grande difensore non sapendo più dove aggrapparsi tira in ballo perfino i tarocchi...credevo che l'Islam condannasse le arti divinatorie eppure lei le interpreta? poi si passa ai codici ascii per andare a scovare una tripla w tradotta in 666 che simboleggerebbe che cosa? per non dimenticare ancora una volta l'articolo di Enzo Cosma che nemmeno l'ha letto (sennò non scriverebbe quello che scrive) oppure gli ha dato una lettura talmente superficiale che le sono sfuggite diverse cose, pazienza, si sa che la mancanza d'attenzione è un problema tra i teenager d'oggi, non riescono a mantenerla  oltre le prime quattro righe.

      Visto che la sua è diventata una crociata (all'incontrario) potrebbe spiegare apertamente contro che cosa sta lottando? ancora non ho ben chiaro quale sia questo "Avversario"contro il quale si sente così nell'obbligo di combattere con tutta la sua "conoscenza"...

      Credo che i suoi compagni ormai si sentano talmente in imbarazzo di avere un "alleato"del genere per cui hanno peferito il silenzio, ma la prego lei continui pure che una risata al giorno leva il medico di torno, e di questi tempi non guasta mai.

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    5. E' sicuro di star bene Sig. Martin?

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  39. Maria Chiara de' Fenzi12 ottobre 2020 alle ore 15:45

    Con una frequenza sempre più rapida e scomposta i nostri oppositori continuano pedantemente a controbattere a tutto e a tutti, qualcuno anche molto maleducatamente. Poco importa loro la qualità di ciò che dicono, ma la quantità delle contestazioni. Continuano a farci sorridere i vani tentativi di attaccare le persone in mancanza di argomenti con cui contraddirci. Forse dovremmo sentirci lusingati dal fatto che per rispondere citino abbondantemente i nostri interventi; mancano forse le idee e le conoscenze adatte per intervenire? Ci dispiace, ma non accettiamo consigli da sconosciuti (per puro buonsenso) e se si risentono per le palesi somiglianze con la mentalità mafiosa che affiora dalle loro dichiarazioni non è certo colpa nostra: basta rileggere l’articolo su tradimento e traditori che hanno scritto e pubblicato su una loro pagina FB, per capire la loro distorsione mentale.
    Per quanto riguarda la massoneria, sappiamo bene che è un ambiente solo maschile, dato che quello del muratore era un mestiere per soli uomini; ma credo che anch’essi sappiano che il “gran segreto” dei loro rituali e regolamenti si trova svelato in decine e decine di libri alla portata di tutti. D’altra parte la dottrina corrispondente è cosmologica, non certo metafisica e non richiede alcun tipo di preparazione intellettuale. Inoltre, perché dovremmo tacere su ciò che è più che comprensibile attraverso la mera lettura, quando gli oppositori sproloquiano di Vedānta senza alcuna comprensione, senza una specifica trasmissione e soprattutto senza avere un maestro che abbia loro spiegato e insegnato il Vedānta vicāra, della cui esistenza sono stati informati esclusivamente dopo la loro astiosa lettura del Sito Veda Vyāsa Maṇḍala? Sono, invece, pregati di esporre la loro dottrina appresa dalla bocca dei loro maestri, quegli insegnamenti che essi sostengono avere le stesse vette del Vedānta.
    Per quanto concerne il svadharma (e non è un termine che si possa applicare alla massoneria, infatti il nostro non ha voluto usare il termine “ruolo” fingendosi “politically correct”), noi sappiamo bene qual è il nostro e non troviamo nulla di strano nell’essere riconosciuta quale donna. Crediamo che il problema riguardo al sesso dell’interlocutore riguardi solo i nostri oppositori (non si creda che ci si riferisca solo a questo commento: c’è un precedente di qualcuno che però almeno ha avuto il coraggio di firmarsi). Questo atteggiamento è comprensibile, considerato l’ambiente che frequentano. Tutto sommato maschile-femminile sono solo forme: chi dà importanza a queste differenze non sa elevarsi oltre il deha e i prāṇa, le componenti più basse dell’individualità, rappresentati soltanto dai primi due kośa. Gli altri tre kośa costituenti l’individualità sono al di là delle differenze maschio-femmina e, a quanto dicono, sono quelle qualitativamente più elevate.
    Inoltre, è vero, bisogna leggere e capire ciò che si legge. Infatti il nostro intervento voleva spiegare la differenza dell’iniziazione tradizionale hindū rispetto a quella dell’ambiente frequentato dai nostri oppositori. Ribadisco, se non fosse chiaro, che nell’ambiente tradizionale hindū mai nessuno pretende un patto di fedeltà dall’iniziato con tanto di giuramento. E, ripetiamo ancora (nella dubbiosa speranza che “repetita iuvent”), il dīkṣita non vi subisce costrizioni perché il fine a cui è indirizzato è la Libertà stessa. Ma, veramente non si comprende a quale Libertà ci si riferisce? Se non fosse chiaro: “[…] lo stato di Libertà è solo il Brahman.” (Brahma Sūtra Śaṁkara Bhāṣya -BSŚBh-, III.4.52).

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  40. Maria Chiara de' Fenzi12 ottobre 2020 alle ore 15:51

    Per quanto riguarda il passare da una tradizione all’altra, chi sono loro per sostenere che non è possibile? Dovrebbero fare il favore di spiegare quali sarebbero “le incompatibilità di varia natura che alimenterebbero una sorta di commistione pericolosissima per la compagine sottile dell’individuo che sconsideratamente ne farebbe da supporto”? Non era stato lo stesso Guénon (come sempre ricordano loro) iniziato a una tariqa, maestro massone, anche iniziato al taoismo e ad una non specificata via hindū? Bisogna smetterla di spaventare i neofiti con questi spauracchi di “commistioni pericolosissime per la compagine sottile dell’individuo”. Queste riguardano ambienti completamente diversi e di livello infimo, ossessionati dai tanto temuti maghi neri e controiniziati, ossessione ereditata da una mentalità “esoterica” largamente ricalcata sull’occultismo e teosofismo. Per noi queste cose non hanno alcuna rilevanza nella cerca della Realtà; anzi, palesano solo un morboso e distorto attaccamento all’individualità sia da parte di chi usa questi metodi di persuasione occulta sia di chi questa persuasione la subisce. Non serviva che ci confermassero sguaiatamente che non siamo maghi neri, lo sapevamo. Però l’insinuazione maligna c’è stata. Invece preoccupante è cosa si deduce da ciò che ha scritto uno di questi oppositori, e cioè che questi stregoni da costui sono tenuti in alta considerazione (“ma pensa seriamente il Sig. Filippi che di lui abbia una così alta considerazione?”-cit. Sappiamo già che l’oppositore ipocritamente negherà come è suo stile).
    Sorvoliamo su una serie delirante di “domande retoriche” caotiche (in cui si conclude che secondo costui: Guénon=Śaṃkara! e se non voleva dire questo, come puntualmente dichiarerà, allora deve imparare a essere meno ambiguo quando scrive e in un italiano intelligibile). Correggiamo però un punto importante: la śruti é l’antyapramāna!:
    “Quando si afferma che le Upaniṣad sono antyapramāṇa, ciò non significa che devono essere credute come articoli di fede. Le scritture indicano l’ultima realtà in accordo con l’esperienza intuitiva di ognuno; dopo aver mostrato la realtà, non è più possibile dubitare della loro veridicità: questo è il vero significato di antyapramāṇa. Le Upaniṣad ricordano a ognuno la propria esperienza intuitiva che sempre esiste, affermando che non siamo dotati di corpo, sensi e mente. “Non c’è nessuno che vede se non Lui.” (BU III.7.23) “Il Signore supremo è conosciuto come Sé conoscente (vijñānātman), differente da colui che agisce nel corpo, sperimentatore, sovrapposto dall’ignoranza (avidyā)” (BSŚBh I.1.17). Quindi la nozione che siamo dei pramātṛ è una proiezione di avidyā. Per questa ragione tutti i pramāṇa, che il pramātṛ usa per conoscere gli oggetti che lo circondano, sono suggeriti da avidyā. Questi pramāṇa sono reali nel dominio di avidyā; ma osservati dal punto di vista dell’esperienza intuitiva non duale, si capirà che le relazioni dei pramātṛ e dei prameya sono false ed erronee. Perciò non siamo veramente pramātṛ, non siamo anime trasmigranti, ma quel Supremo Sé che è l’ultima e assoluta realtà. Quando i vedāntin s’affidano alla śruti perché in accordo con la loro esperienza intuitiva, sulla base dell’antyapramāṇa essi affermano che i pramāṇa sono suggeriti solo da avidyā. Questo porta a dire che anche le Upaniṣad non sono affatto validi mezzi di conoscenza. Tuttavia, questo riguarda una visione particolare della śruti per cui essa diventa mezzo non valido solo dopo che si è riconosciuta la verità che l’Ātman è il Brahman non duale. In questo senso la śruti è chiamata antyapramāṇa, ultimo mezzo valido di conoscenza; cioè dopo che gli insegnamenti delle scritture sono riconosciuti intuitivamente, allora il fatto di usarli come pramāṇa diventa inutile. Dravidācārya afferma a questo riguardo: La śruti diventa un valido mezzo per conoscere la verità solo perché ci esorta a rimuovere dall’ultima Realtà tutte le caratteristiche che non le appartengono.” (Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, “Dottrina e Metodo dell’Advaita Vedānta”).

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    Risposte
    1. I

      Non ce ne vorranno i lettori, anche se potrà sembrare noioso, ma crediamo non sia inutile mettere a punto le questioni contingenti alimentate dalle, mi si passi il termine, “vergini violate” qui presenti (mi riferisco a tutti indistintamente i fautori della pantomima, non alla sig. de Fenzi in particolare: che poi non venga traslato il significato da metaforico qual è, a ingiuria sessista, per cortesia…), che vorrebbero addirittura che non controbattessimo a tutto e a tutti, per poi anche lamentarsi quando non lo si fa: continuino pure a sorridere se a loro aggrada, ma sostenere che attaccheremmo esclusivamente le persone senza un minimo di argomenti, beh, questo è abbastanza evidente a chi vuol vedere che non è affatto così! Non si capisce poi come sembrino sorpresi dal fatto che per rispondere a loro, si citino anche i loro interventi: e che dovremmo fare, citare quelli del Ventura se non rispondiamo a lui? Ed è proprio perché non mancano le idee né le conoscenze adatte per intervenire che ci permettiamo di controbattere e non il contrario: francamente non si capisce dove vogliano andare a parare… Mah…

      Prendiamo atto anche che ci si ostina a non seguire i consiglî dati, solo perché provengono da uno sconosciuto, arrivando sino al punto di insinuare che sarebbe colpa nostra, non loro, se ci risentiremmo per le palesi somiglianze con la mentalità mafiosa: non occorre dire altro per capire che siamo in presenza di veri e proprî “gamberi” che credono di camminar in avanti! All’uopo, si dice, basterebbe “…rileggere l’articolo su tradimento e traditori che hanno scritto e pubblicato su una loro pagina FB, per capire la loro distorsione mentale…”: si potrà certo rileggere fino a impararlo a memoria, ma se non lo si capisce: cui prodest? E poi, “…su una LORO pagina FB…”: ma LORO CHI??? Il sottoscritto è già più che a sufficienza occupato a tenere a bada un IO, per permettersi il lusso di complicare la sua esistenza anche con un LORO! Apprendiamo inoltre: che la Libera Muratoria sarebbe “un ambiente solo maschile”, cioè alla stregua di come potrebbe essere solo femminile il circolo del cucito delle comari, e non, invece e soprattutto, un’iniziazione maschile; che il “gran segreto” massonico sarebbe da mo’ stato svelato perché “…si trova (…) in decine e decine di libri alla portata di tutti…” (cosa per altro biasimevole…) con il che anche quello del Vedānta non si troverebbe proprio in belle acque, potendo perciò essere entrambi annoverati tra segreti di… Pulcinella (bel modo di aver assimilato il concetto di ‘segreto iniziatico’ in particolare e di iniziazione, in generale!); che, ancora, dal fatto di essere una dottrina cosmologica e non metafisica (che poi, se si intende definire la differenza tra Piccoli e Grandi misteri, non e vero nemmeno quello, ma: che lo dico a fare?…), ipso facto, non richiedendo nessun tipo di preparazione intellettuale, se ne dovrebbe dedurre che sarebbe sufficiente, che so, fare un po’ di bicipiti per mescolare la malta… e avanti di questo passo…

      Come si può ben vedere, qui non c’è da sorridere imitando il loro esempio, ma da piangere a dirotto se si pensa che loro possono parlare a ruota libera blaterando di Libera Muratoria, non conoscendone nulla, mentre noi non potremmo farlo col Vedānta, oltretutto, e qui bisogna tenersi forte, perché circa la sua esistenza saremmo: “…stati informati esclusivamente dopo la loro (nostra, ndr.) astiosa lettura del Sito Veda Vyāsa Maṇḍala”!!! Ma che problemi avranno mai questi signori?

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    2. II
      Ci sfugge altresì la questione de “il svadharma (sic! Ribadisco: qui siamo in ItaGlia non a Varanasi e per la ‘s impura’ vanno rispettate delle regole…)”: che c’entrerebbe mai il “politically correct”? Noi abbiamo voluto usare proprio il termine “swadharma” e non “ruolo”, esattamente per questo insindacabile motivo: “…Quel che meglio consente di capirlo è la nozione di swadharma com’è intesa nella dottrina indù, nozione essa stessa tutta qualitativa, in quanto riguarda lo svolgimento da parte di ciascun essere di un’attività conforme alla sua essenza o alla sua natura propria, e per ciò stesso eminentemente conforme all’«ordine» (rita) nel senso già da noi precisato; ed è mediante questa stessa nozione, o meglio per la sua assenza, che si evidenzia nettamente il difetto della concezione profana e moderna. Secondo quest’ultima un uomo può dedicarsi ad una professione qualsiasi, ed anche cambiarla a suo piacimento, come se questa professione fosse qualcosa di puramente esteriore a lui, senza alcun reale legame con ciò che egli veramente è, cioè con ciò che lo fa essere se stesso e non un altro. Nella concezione tradizionale, al contrario, ciascuno deve normalmente svolgere la funzione cui è destinato dalla sua stessa natura, con le attitudini che questa essenzialmente implica [Si noti che lo stesso termine «mestiere» significa propriamente «funzione» secondo la sua derivazione etimologica dal latino ministerium]; e non può svolgerne un’altra, senza che ciò rappresenti un grave disordine che avrà una ripercussione su tutta l’organizzazione sociale di cui egli fa parte (R.G. IL R. della Q. e i S. dei T., cap. 8: ‘Mestieri antichi e industria moderna’)…”: e questa sarebbe la profonda comprensione della vita tradizionale in generale e, in particolare, dell’iniziazione di certi “pesci boccaloni” che avrebbero la pretesa di essere degli elevati jñāni e non invece dei semplicissimi uomini ordinarî? Un piccolo accenno va fatto anche per la questione dei cinque kośa “…le componenti più basse dell’individualità rappresentati soltanto dai primi due kośa. kośa costituenti l’individualità sono al di là delle differenze maschio-femmina…(cit.)”. Di questa solita e incresciosa confusione tra individualità ed “essere”, nonché per la complessità dell’argomento, sminuito “occamianamente” dai soliti ‘elevati jñāni’, non possiamo che rimandare i lettori allo studio de “L’Uomo e il suo divenire secondo il Vedanta cap. 9. “Gli involucri del «sé»; i cinque vayu o funzioni vitali”, anticipando però che: “…Si sarà potuto anche notare che, fra i cinque involucri del «Sé», tre ne costituiscono la forma sottile (mentre uno solo corrisponde ad ognuno degli altri due stati condizionati d’Atma: per l’uno, perché è in realtà appena una modalità speciale e determinata dell’individuo [quella corporea, ndr.] ; per l’altro, perché è uno stato essenzialmente unificato e «non-distinto»); ciò è ancora una prova ben manifesta della complessità dello stato nel quale il «Sé» ha questa forma per veicolo, complessità che sempre bisogna ricordare se si vuol ben comprendere ciò che potrà dirsene quando sarà considerato da punti di vista differenti. (ibid cap. 17. ‘L’evoluzione postuma dell’essere umano’)”: e come dice bene la sig. de Fenzi, supportata da un invidiabile latino: “repetita iuvEnt”!

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    3. III
      Un’ultima cosa prima di passare alle faccende serie, tralasciando le altre meno importanti fesserie (bisogna pur chiamarle col loro nome le cose…) , altrimenti non si finirebbe più davvero: “…Bisogna smetterla di spaventare i neofiti con questi spauracchi di “commistioni pericolosissime per la compagine sottile dell’individuo”. Queste riguardano ambienti completamente diversi e di livello infimo, ossessionati dai tanto temuti maghi neri e controiniziati, ossessione ereditata da una mentalità “esoterica” largamente ricalcata sull’occultismo e teosofismo. (cit).”. Solo una semplicissima domanda: come ha ben evidenziato il sig. Forteguerra, si vorrebbe insinuare che, dopo tutto quello che G. ha scritto su Occultismo e Teosofismo che è a tutti (?) noto, e per aver parlato di controiniziati e ‘maghi neri’ come ne ha parlato, lo avrebbe fatto possedendo anche una ‘…mentalità “esoterica” largamente ricalcata sull’occultismo e teosofismo’? Mi permetto di dire che, rettificando in parte ciò che ha sostenuto il Forteguerra, lorsignori non hanno affatto ‘fornito’ ‘…un chiaro ed inequivocabile… “documento d’identità”.’, gli è solo ‘caduto’ involontariamente dal ‘pacchetto regalo’ nel quale lo avevano inserito e che avevano malamente infiocchettato, con una ridicola simulazione di approvazione dell’‘opus guénonniano’!

      Per finire (per modo di dire…), qualche parola sull’equazione Guénon=Śaṃkara: già per il ‘principio degli indiscernibili’ sarebbe una condizione metafisicamente impossibile (a proposito che il sig. Filippi si lagna solo della presunta carente inconsapevolezza del G. in materia: guardi in casa sua!), però non sarà inutile precisare che, lungi dall’essere ‘uguali’ sarebbero, semmai, equivalenti; ma anche qui (si tengano forte i ‘non-duali’), noi affermiamo categoricamente che, per quanto queste cose non potrebbero essere sistemate in una sorta di classifica, la funzione di G. è stata nettamente più “cattolica”, per usare un termine che farà andare su tutte le furie i qui presenti “padroni del vapore” (e forse anche qualcun altro antagonista nella presente disputa), ovvero universale, rispetto a quella di Śaṃkara: a voi, se non potete farne a meno, pensare, per ridurre ai minimi termini la questione, che gli sia, perciò, stato superiore.
      Bisogna ritornare un attimo a ciò che sosteneva Petrus (ecc., ecc…), in un commento dell’altro thread: “…Che l’autorità di Guénon derivi da una sua realizzazione questo nessuno lo può sapere se non il diretto interessato, che mai ha fatto una tale dichiarazione. (cit.)”, al quale ribattevo “lungi anche qui dall’essere vero quello che, sempre apoditticamente, si afferma …cit)”.
      Ora, la sig. a de Fenzi sostiene: “…Non era stato lo stesso Guénon (come sempre ricordano loro) iniziato a una tariqa, maestro massone, anche iniziato al taoismo e ad una non specificata via hindū?”, con questo significando che, non si vede per qual motivo, chi ‘applaude’ al Maestro, poi non ne trae le dovute conseguenze logiche e si intestardisce invece, in modo contraddittorio, a seminare spauracchi su chi vorrebbe fare come lui. Bisogna dirlo vigorosamente: la si deve smettere di trattare G. come un pivello che avrebbe iniziato a interessarsi di esoterismo come potrebbe fare uno che inizia a imparare ad andar in bicicletta! Quello che segue elimina in modo definitivo certe paranoie e risponde in un sol colpo sia alle congetture del Petrus che della sig.a Fenzi.

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    4. IV
      Per non dilungarci più del necessario, accenniamo all’altissima via di realizzazione degli “Afrad” (“Solitarî”)” il cui numero è “indeterminato”, facenti capo a El-Khidr che non è sotto la giurisdizione del Polo (Qtub) dell’epoca, vale a dire che non segue vie di realizzazione rientranti nelle normali modalità di accesso alle iniziazioni conosciute. Ebbene, proprio circa un articolo di G. su El-Khidr, in una lettera privata affermava (tutto il maiuscolo che sugue è nostro):“…Avrei molte cose da dire a questo proposito, ma è dubbio che le scriva mai, perché, DI FATTO, tale argomento è di quelli che mi toccano n po’ troppo direttamente…(Rivista dST n° 72: ‘René Guénon e le forme della Tradizione’)”.; e circa il modo di trattare G. come un ‘self-made man’ partito dal nulla come un pivello qualsiasi, forse annoiato dalla vita (come tanti qui se ne vedono…), proponiamo un’altra sua lettera del 4/9/1934: “No, il mio non è certo un caso di ‘convertito’, da nessun punto di vista; anzi non concepisco nemmeno che QUESTE COSE POSSANO AVER AVUTO PER ME UN ‘INIZIO’; è del resto questo il motivo per cui il MIO ‘ESEMPIO’, SE COSÌ POSSO DIRE, NON POTREBBE ESSERE DI ALCUNA UTILITÀ PER NESSUNO…(ibid).”.
      Infine, in riferimento a quanto detto sempre dalla sig. Fenzi “…Per quanto riguarda il passare da una tradizione all’altra, chi sono loro per sostenere che non è possibile? Dovrebbero fare il favore di spiegare quali sarebbero ‘le incompatibilità di varia natura che alimenterebbero una sorta di commistione pericolosissima per la compagine sottile dell’individuo che sconsideratamente ne farebbe da supporto’?..(cit.)”, cosa che noi sostenevamo in un altro commento, ecco un estratto da Rivista dST (n° 31; G. Manara, ‘Difficoltà e possibilità per le donne occidentali aspiranti all’iniziazione’), che, guarda caso, cade a fagiolo, che dipana la ‘vexata’, vexata almeno per chi è ‘di ben intelletto’, per gli altri, essendo tutto così maledettamente semplice fino a rasentare il ridicolo, il problema nemmeno si pone: “…Quanto al Taoismo, poi, che dovrebbe qui entrare in considerazione per il suo carattere iniziatico (a parte le riserve sulle condizione in cui può sussistere attualmente), sappiamo che quei pochissimi non estremo-orientali che hanno avuto, PER CIRCOSTANZE DEL TUTTO ECCEZIONALI, dei contatti diretti con esso, hanno constatato quanto poco fosse praticabile per degli Occidentali [in nota: Ricordiamo il caso di A. de Pouvourville il quale, a motivo del suo lungo soggiorno nel Tonchino e dei suoi rapporti con ambienti locali qualificati, e in particolare con il Tong-Sang Nguyen Te Duc-Luat, ebbe la straordinaria possibilità di accedere all’iniziazione taoista , ricevendo il nome di Matgioi (Occhio del giorno). Dopo il suo ritorno in Europa, le notizie sull’ultima parte della sua vita fanno pensare che egli non fu in grado di mantenere dei rapporti effettivi con la via iniziatica a cui era stato ricollegato; egli stesso, del resto, parlando negativamente delle possibilità per un occidentale di avvicinare l’iniziazione taoista, disse che non era possibile che trovare altro che delle porte sbarrate, o delle PORTE CHE SI SAREBBERO SOCCHIUSE STRIDENDO SINISTRAMENTE (testualmente: “…qui s’entr’ouveraient en griçant…”). Quanto a G., il quale pure conobbe il Taoismo direttamente, ricordiamo l’osservazione contenuta in una lettera ‘…non conosco un metodo intellettualmente più duro… (di quello taoista)’, e del resto sappiamo anche che egli sconsigliò nettamente agli Europei la ricerca di un legame tradizionale in quella direzione.].”.

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    5. V
      E circa il Vedānta: “…Per completezza d’esame, accenneremo però ancora ad un altro caso: al di fuori delle caste non vi sono soltanto i ‘fuori casta’ nel senso indicato (avarna), ma anche coloro che, in virtù della loro realizzazione spirituale attraverso la forma tradizionale indù o ATTRAVERSO UN’ALTRA FORMA TRADIZIONALE, o anche in virtù della LORO ‘SAGGEZZA INNATA’, si situano in realtà al di sopra delle caste (ativarna), in un senso in certo modo analogo agli ‘uomini primordiali’ del Satya-yuga, dell’‘età dell’oro’ o di come altrimenti si qualifichi la condizione di ‘prossimità’ ai principi sopra-umani. Per essi la tradizione indù offre modalità iniziatiche di una ‘via diretta’ verso la realizzazione metafisica che si pongono naturalmente al di là dell’ordine delle caste: è il caso del Vanaprastha e del Sannyāsi, ed è il caso di quanto vi è di più elevato nella via propria del Vedānta. CIÒ SI IDENTIFICA IN FONDO, ESSENZIALMENTE ALL’ASPETTO PIÙ PROFONDO DELLA VIA INIZIATICA IN QUALUNQUE TRADIZIONE COMPLETA VERSO L’ALTO. Ma l’esistenza di insegnamenti indù al riguardo, la cui enunciazione è diventata in parte ampiamente accessibile anche a profani HA RESO POSSIBILI STRANE ILLUSIONI [invece di capire…] quali sarebbero in realtà, secondo gli autentici insegnamenti tradizionali indù, le qualificazioni indispensabili e la realizzazione preliminare richiesti per intraprendere effettivamente una ‘via diretta’ come quella a cui si riferisce il Vedānta. Praticamente, si tratta di esseri che hanno già conseguito un grado così eminente di purificazione e di compimento delle possibilità umane [NON A CHIACCHIERE, ndr.] da non essere ormai più vincolati da legami e da bisogni individuali; anzi, essi devono aver rinunciato [SEMPRE NON A CHIACCHIERE, ndr.] ‘a tutte le gioie passeggere, da quelle che può procurare un corpo animato a quelle che corrispondono allo stato divino di Brahmā’, ed essi devono già aver distolto la mente da ciò che non è la Realtà Suprema [in nota: queste ed altre condizioni sono enunciate, in particolare, nel Vivēka-ciūdā-mani di Shankarāchārya, dove è pure precisato che ‘…se l’investigatore ha rinunciato al mondo SOLO A PAROLE, lo squalo del desiderio lo afferra alla gola, lo obbliga a discostarsi dalla buona via e LO FA ANNEGARE A MEZZA STRADA.’.”.
      GATTO

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    6. "nella dubbiosa speranza che "repetita iuvent”, iuvent: conguintivo presente 3a persona plurale

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    7. Capisco la finezza Anonimo, il punto è che se lo si mette tra virgolette, non fa più parte del contesto e quindi il congiuntivo salta e deve restare come locuzione: perciò ribadisco "repetita iuvant", senza se e senza ma!
      GATTO

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  41. Nei miei precedenti interventi ho dichiarato che, a titolo personale, intendevo rivolgermi esclusivamente ai lettori di questo blog che, non possedendo ancora «quell'assentimento essenziale alla verità metafisica e alla presenza spirituale che è incomunicabile e che, per chi lo riconosce dentro di sé, è immediato nella sua evidenza», sono più a rischio di essere… “sviati”. È sempre a costoro che porgo il mio modestissimo contributo.
    Per una strana coincidenza, vedo che i recenti post dei rappresentanti di VVM vengono anch’essi rivolti espressamente a questi “neofiti”. Assolutamente lecito, ovviamente, ma l’argomento utilizzato pare essere inedito e anche assai pericoloso, oltre che in aperto contrasto, come al solito, con quanto esplicitamente dichiarato da René Guénon.
    Il titolo di questa nuova sortita, tanto incauta quanto inattesa, potrebbe essere: “Chi ha paura del lupo cattivo?”
    Leggendo si apprende infatti che: “Le influenze magiche, sciamaniche, stregonesche, e perfino le più sciocche suggestioni spiritiche possono attivarsi solamente in chi rimane aperto a questo tipo di esperienze [emozioni che portano a un indebolimento dell’individualità e possono provocare una fessura attraverso cui si possono insinuare le influenze sottili più pericolose. Infatti le influenze sottili (…) influiscono su coloro che sono aperti a questo tipo di paure]. Perciò fomentare la paura nei confronti di maghi neri et similes ha decisamente una connotazione sinistra” (sic!). E poi che : “Per [loro] queste cose non hanno alcuna rilevanza nella cerca della Realtà”, e quindi “Bisogna smetterla di spaventare i neofiti con questi spauracchi di ‘commistioni pericolosissime per la compagine sottile dell’individuo’“.
    Come a dire: “smettetela di mettere in guardia contro i pericoli che, seppur reali per chi non sia ancora passato oltre il dominio individuale, potrebbero allertare qualcuno”.
    Il sottoscritto non ha nessuna autorità per pensare di poter correggere qualcuno, a parte quella proveniente dall’assentimento all’opera di Guénon che, a questo argomento, ha dedicato un intero capitolo di “Iniziazione e realizzazione spirituale”, intitolato “La malattia dell’angoscia” (reperibile anche in questo blog: https://scienzasacra.blogspot.com/2014/06/rene-guenon-iniziazione-e-realizzazione_9.html#more) Invito pertanto quanti non lo conoscono a leggerlo.
    Lo stesso Guénon ha poi dedicato un’ampia parte della sua opera proprio a mettere in guardia contro questo genere di pericoli: coloro per i quali “questi spauracchi” “non hanno alcuna rilevanza nella cerca della Realtà” oseranno dunque spingersi a dichiarare che chi li denunciati così recisamente e diffusamente ha “fomentato la paura nei confronti di maghi neri et similes” e quindi “ha decisamente una connotazione sinistra”?!
    Se tale fosse il caso, questi “estimatori dell’opera di Guénon” fornirebbero finalmente un chiaro ed inequivocabile… “documento d’identità”.

    G. F.

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    1. Maria Chiara de' Fenzi13 ottobre 2020 alle ore 13:16

      Gentile Sig. G.F.,

      capisco che non si sia d'accordo, ma questo non vuol dire che lei possa distorcere quello che era il significato di ciò che ho scritto nel mio intervento. Si riconosce chiaramente la sua volontà di manipolare il messaggio originale per “influenzare” l'opinione dei lettori, tecnica usata in vari interventi precedenti e in altre sedi da lei e da altri del suo ambiente. Uno dei nostri oppositori ha scritto questo in un suo intervento:



      “Inoltre, per chi è già iniziato in un'altra organizzazione iniziatica, può esistere la condizione, tanto più l'ambiente nel quale riceve quella nuova è eterogeneo rispetto al precedente, che ci siano delle incompatibilità di varia natura, per cui non si farebbe che alimentare una sorta di commistione pericolosissima per la compagine sottile dell'individuo che sconsideratamente ne farebbe da supporto”



      Alla luce di ciò, è chiaro a cosa mi riferissi nel mio precedente intervento. Si tiene unito il gruppo spaventando i neofiti con questi avvertimenti tipici del terrorismo psicologico, facendo loro giurare patti di fedeltà e poi accusandoli di tradimento e additandoli come traditori qualora se ne allontanassero. E visto che malignamente prima si insinua che siamo un gruppo di controiniziati e maghi neri, e poi si rettifica sgangheratamente, ho voluto sottolineare che noi dagli ambienti di occultismo e spiritismo ecc. ci teniamo ben lontani perché sono ambienti infimi, morbosi, distorti e soprattutto impuri, l’esatto opposto della Metafisica, e non perché li temiamo. Invece, con la solita costanza, si evita di rispondere alle argomentazioni da noi poste. si glissa sul fatto che tra di voi c’è qualcuno che si oppone con tutta la sua rabbia al Vedānta e ai suoi rappresentanti, e si tace sulle molteplici iniziazioni di Guénon che confermano la possibilità di passare “dal centro” di una tradizione “al centro” di un'altra. E non ci si rifugi nell’affermazione che il suo era un caso straordinario, affermazione del tutto gratuita e indimostrabile. Ma soprattutto da questi ambienti non si ottiene mai alcuna risposta: mai si ribatte con dottrina alla dottrina. Si contrappongono soltanto citazioni dai libri di Guénon più o meno attinenti.

      È chiaro che non è possibile un dialogo con chi è accecato dalla rabbia e da qualche sorta di invidia e gelosia, mascherandola come una preoccupazione verso i lettori (o meglio verso l'opinione dei lettori), i quali vengono trattati come non abbastanza intelligenti e incapaci di trarre le loro conclusioni dalla lettura di tutti questi scambi. Noi siamo sempre stati chiari, non abbiamo tenuto nascosto nulla, perché questa è la natura delle scuole iniziatiche a cui apparteniamo.

      "In verità questo è l’onnipervadente Ātman senza nascita, decadenza e morte, Brahman immortale, privo di paura. Brahman come è noto è senza paura. Chiunque conosce così diventa davvero quel Brahman senza paura." (BU IV.4.25)

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    2. "È chiaro che non è possibile un dialogo con chi è accecato dalla rabbia e da qualche sorta di invidia e gelosia, mascherandola come una preoccupazione verso i lettori (o meglio verso l'opinione dei lettori), i quali vengono trattati come non abbastanza intelligenti e incapaci di trarre le loro conclusioni dalla lettura di tutti questi scambi. (cit)": ma si sta rendendo conto delle stupidaggini che sta dicendo, o no?
      GATTO

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    3. Non vorrei essere scortese con una signora, ma è francamente inutile riprendere tutte queste sue farneticazioni per rettificarle una ad una (oltre ad essere un giochino al quale non intendo prestarmi). Pensi pure quello che vuole.
      Mi lasci però dire che per una che ha dichiarato candidamente di percorre una «via iniziatica [il jñāna mārga, ovvero l’advaita vedānta], che poi non è una via, perché non c’è nulla da percorrere, [in cui] il metodo è la conoscenza pura. Senza alcun supporto rituale», alla quale, «Certo, per accedervi è necessario aver preliminarmente purificato la mente con una via di portata inferiore, quella (…) dei “piccoli misteri”», ecco, dicevo, certo che per una che percorre (o è già arrivata?) una tale via iniziatica di “conoscenza pura” come il “jñāna mārga” e che quindi deve aver già “preliminarmente purificato la mente con una via di portata inferiore” quali sono i “piccoli misteri”… anche lei ne schiuma di rabbia!
      G.F.

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    4. Maria Chiara de' Fenzi14 ottobre 2020 alle ore 10:30

      Comme d'habitude, si attacca con vane parole "l'avversario" (pardon, l'avversaria, che poi non si dica che sono una delle innumerevoli "manifestazioni" del prof. Filippi), per nascondere l'incapacità di rispondere.

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    5. ...Su questo siamo in perfetta sintonia, cara Sig.a de' Fenzi!

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  42. Anonimo GB

    Come già detto in un precedente intervento sono un semplice "lettore".
    Francamente mi spiace per livello che si è raggiunto: partiti da questioni di dottrina, che pur intramezzate da qualche "schermaglia" avevano senso ed interesse, si è passati a messaggi allusivi ed inquisitori.
    Esplicitamente, a beneficio di chi come me difetta di intelletto, chiedo umilmente al Sig. Giovanni Forteguerra cosa intende asserire con la conclusione ipotetica e allusiva del suo ultimo intervento.
    Che il gruppo VVM è una pericolosa combricola controiniziatica? che ha lo scopo di screditare l'opera di Guénon? (a quale fine poi?) Magari operare addirittura pericolosamente sul versante dello psichico come realmente fanno i (per fortuna) rarissimi "stregoni e maghi neri"? (Per altro come ci si può stupire che da un punto di vista advaita non venga dato alcun conto a simili figure. Si rifletta sul fatto che molte linee iniziatiche si siano interrotte, vadano morendo, degenerino, mentre l'Advaita Vedanta è vivo e vegeto anche nel mezzo del kali yuga).
    Implicitamente si vuole dire che anche i loro guru e le rispettive parampara sarebbero tutt'altro che tradizionali? O la cosa è più perversa: con la loro opera vogliono opporsi non solo a Guénon, ma agli stessi autentici rappresentanti dell'Advaita Vedanta, loro guru compresi, falsando insegnamenti e dottrina e riducento l'Advaita Vedanta alla parodia neovedantica o a qualcosa di ancora diverso e peggiore? (Si vadano a confrontare i contenuti di VVM con qualsiasi sito neovedanta e ci si lasci guidare dal buon senso per un giudizio in merito).
    Se nulla di quanto da me ipotizzato, di cosa dovrebbero essere messi in guardia i semplici lettori come il sottoscritto?
    Non è spirito polemico, realmente non capisco.

    Per fortuna mi pare che più precipiti il dibattito più certi interventi spiccano per dottrina, chiarezza e lucidità.
    Per quanto mi riguarda comunque mi sembra che la "rotta è cambiata", e non si tratta più di "difendere" o "giustificare" la meritoria attività del Prof. Filippi e di tutti gli altri che animano il sito VVM, ma sarebbe semmai da difendere per davvero l'opera di Guénon da chi per "fede", "dogmatismo", o "assertimento" è andato ben oltre il suo testo scritto (che è ciò che abbiamo perché il francese, e lo sappiamo tutti, non ha mai dato iniziazioni e mai si è considerato un maestro).
    Sarebbe il caso di distinguere Guénon dal guenonismo. La metafora migliore per definire la "funzione" del grande francese è stata proprio quella fornita da non mi ricordo chi di VVM che ha fatto riferimento al "dito che indica la luna", in un'epoca in cui troppe dita puntano in basso, aggiungo io.
    Care personalità di VVM non scoraggiatevi! Complimenti a voi e al blog.

    Giordano

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    1. Signor Giordano, “che difetta di intelletto” è solo lei a dirlo. Io non mi sono mai permesso neanche di pensarlo, prova ne è che ho dichiarato più volte che i miei modesti e personali interventi erano rivolti proprio a persone che, al contrario, considero dotate di sano intelletto; almeno finché non si dia prova del contrario. Ma anche questa ultima affermazione, prima che si risenta, è, come la precedente “conclusione ipotetica”, solo una considerazione generale e per niente una “asserzione allusiva”. Alla serie di domande che mi rivolge, essendo esclusivamente sue elucubrazioni, bisogna per forza che si risponda da solo; io non saprei proprio cosa replicare a cose che non ho mai né detto né pensato…
      Riguardo all’interrogativo finale, invece: “di cosa dovrebbero essere messi in guardia i semplici lettori come il sottoscritto?”, posso rispondere invitandola a rileggere il mio primo commento. Non saprei ridirlo meglio di come ho già tentato di fare.
      Mi permetta di aggiungere, senza “spirito polemico, realmente non capisco” nemmeno io, come dice lei, come possa trovare allusiva una risposta ad una affermazione – questa sì “allusiva” – come quella del Professor Filippi quando afferma che chi fomenta “la paura nei confronti di maghi neri et similes ha decisamente una connotazione sinistra”!
      E comunque, ci mancherebbe, ognuno è libero di guardare la luna indicata dal dito di chi la indica. Altri, che preferiscono guardare il sole, seguono la direzione mostrata da un altro dito. Questa sì è un’allusione.
      Cordialmente

      G.F.

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    2. Anonimo GB

      Gentile Sig. Forteguerra,
      la ringrazio per il suo, oltretutto celere, riscontro e chiedo sinceramente scusa se ha trovato nel mio intervento un qualcosa di provocatorio perché non era affatto mia intenzione: evidentemente la forma dell'intervento è stata imperfetta.
      Il contenuto però resta intatto; ho riletto i suoi interventi, e sembrano tutti puntare ad un "mettere in guardia" che se ho ben compreso (ma è possibile che non sia così) implica: 1)l'accettazione della totalità degli asserti presenti nell'opera di G. 2) il conseguente errore di chi si discosta da anche solo alcuni di tali asserti e quindi il "sospetto" anche rispetto a chi sostiene di apprezzare e condivide l'opera ma se ne discosta parzialmente 3) Il gruppo di Torino che ruota intorno alla RdST è fedelissimo all'opera di G, quindi più autorevole di altri e "incaricato" di denunciare eventuali deviazioni (Non è certamente tutto ciò che ha detto, però mi sembrano nodi centrali).
      Io mi permetto di dubitare di tale schema, che trovo un tantino rigido, e in tal senso si corre il rischio di passare da Guénon al "guenonismo". Per me l'opera di G. è fondamentale ed ha cambiato il mio orizzonte intellettuale ed esistenziale, ma fermarsi alla sua lettera sarebbe fermarsi al "dito".
      L'affermazione del Prof. Filippi non mi pare allusiva, semplicemente esprime il parere, che ha ben argomentato,
      per cui "fomentare la paura" non può essere di aiuto per chi è alla ricerca o già sul cammino di una via iniziatica.
      Ho definito la sua conclusione allusiva semplicemente perché non mi è così chiaro a cosa corrisponderebbe la "carta di identità" di cui parlava: insomma premesse chiare e conclusione non esplicita.
      In fondo mi interessava la sua opinione, anche se mi sembra che non potrò condividerla.
      Non si senta comunque obbligato a darmi seguito per semplice educazione. Voglia credere però che il mio intento non era provocatorio.
      La saluto cordialmente.

      Giordano

      PS
      A parte le mie "elucubrazioni" però dicevo anche altro, in particolare mi sarebbe interessata una considerazione rispetto alla problematica per cui G ha lasciato dottrina ma non iniziazione, per cui comunque non ci si può affidare a lui solo per fare il passo oltre la conoscenza teorica

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  43. In qualche commento più in alto ho letto delle mostruosità relativamente al patto iniziatico. L’argomento sembra solo apparentemente distante dal soggetto qui in discussione. Come certamente sanno alcuni commentatori di questo post, il patto iniziatico del tasawwuf (sufismo) è calcato sul modello del giuramento di Hudaybiya descritto dal versetto 10 della sura Al-Fath:

    “In verità coloro che prestano giuramento [di fedeltà], è ad Allâh che lo prestano: la mano di Allâh è sopra le loro mani. Chi mancherà al giuramento lo farà solo a suo danno; a chi invece si atterrà al patto con Allah, Egli concederà una ricompensa immensa”.

    Ogni patto iniziatico è quindi stretto tra l’uomo e Allâh; Allâh è qui concepito come il principio intimo di ogni essere (né islamico, né cristiano, né indù, ecc.) e per questo motivo insolubile, anche volendo; il rito che sancisce questo legame, il vero e proprio patto iniziatico esteriore, è solo il simbolo di ciò che esiste da sempre e per sempre (questo legame come potrebbe nascere ad un certo momento della vita di un essere?). Per questa ragione il patto iniziatico MAI è concepito e stretto con un essere umano o con un’organizzazione riconducibile ad uno o più uomini che sono, per essere precisi, solo dei tramiti temporanei, mutevoli, contingenti e mortali (pensare diversamente sarebbe contraddire il principio stesso dell’iniziazione assegnando una realtà ad una nafs - costitutiva dell’individualità umana - che non ne ha, fosse anche il più grande dei maestri). I maestri con cui si stringe questo patto muoiono, il patto persiste.
    Pensare che il patto iniziatico sia stretto tra due persone (maestro e discepolo) o con l’organizzazione che li rappresenta è una enormità sconosciuta all’interno delle vere turuq orientali e non è fuori luogo pensare di descriverla come criminale (etim.) per cui condannabile quando concepita in questo modo. Forse in occidente è diffusa questa idea ma per ben altri motivi che nulla hanno di iniziatico; se si vuole conoscere cosa sia il tasawwuf (sufismo) vero, si faccia un viaggio nei paesi in cui ancora sopravvivono le turuq tradizionali e non ci si affidi alle fotocopie occidentali, costruzioni artificiali create ad hoc su una psiche occidentale “straniera” alla forma tradizionale impiantata forzosamente (per questo gli si fa digerire quel che si vuole), oppure attratta da questo genere di psichismo, difetto su cui alcuni hanno buon gioco presentandosi come “autorità”. Ammalate di tecnicismo le turuq/fotocopie occidentali sono le prime a soccombere della propria malattia: chiedete loro di mostrare la silsilah o l’ijâza dei loro maestri e diventerete automaticamente maghi neri e se già legati da patto iniziatico dei contro-iniziati. Laggiù, in oriente, tutte queste sovrastrutture psichiche non esistono… esistono altri generi di problemi di cui è meglio sorvolare.
    A conclusione mi sembra pertinente riportare quanto scriveva Guénon:

    “la qualità iniziatica, una volta che sia stata ricevuta, non è assolutamente legata al fatto di essere membri attivi di questa o di quella organizzazione; effettuato che sia, il ricollegamento a un’organizzazione tradizionale non può più essere rotto per nessuna ragione, e permane anche quando l’individuo non abbia più con tale organizzazione nessuna relazione apparente, cosa che sotto questo profilo non ha che un’importanza del tutto secondaria. Già solo questo sarebbe sufficiente […] a far vedere quanto profondamente le organizzazioni iniziatiche differiscano dalle associazioni profane…”.

    Questo dimostra che quando una organizzazione comincia a concepire in tal modo l’iniziazione, è lei che diventa a tutti gli effetti “profana” (non è il termine corretto ma è per capirsi).

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    1. Gian Giuseppe Filippi14 ottobre 2020 alle ore 10:38

      Quanto afferma il sig. Abd-es-Samad corrisponde esattamente a quanto è verificabile presso le vere ṭuruq, come anche è stata mia personale esperienza. Nell’induismo il magistero (gurutva) è appannaggio dei brāhmaṇa e non degli kṣatriya, per cui l’aspetto del patto bellico non si pone. Ma si tratta soltanto di una differenza formale tra tradizioni diverse, che non pregiudica l’efficacia del risultato.

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    2. Abd-es-Samad, condivido in generale quanto da lei esposto, solo mi permetta alcune precisazioni, perché non si capisce, con il suo commento, dove voglia andare a parare.
      Intanto, dire: “In qualche commento più in alto ho letto delle mostruosità relativamente al patto iniziatico…”, risulta alquanto sibillino, perché è stato detto tutto e il suo contrario, per cui precisare quali sarebbero e a chi dovrebbero essere ricondotte tali mostruosità, non sarebbe affatto ridondante.
      Inoltre, verissimo che “…Ogni patto iniziatico è quindi stretto tra l’uomo e Allâh; Allâh è qui concepito come il principio intimo di ogni essere (né islamico, né cristiano, né indù, ecc.) e per questo motivo insolubile, anche volendo (…) Per questa ragione il patto iniziatico MAI è concepito e stretto con un essere umano o con un’organizzazione riconducibile ad uno o più uomini che sono, per essere precisi, solo dei tramiti temporanei (…) Pensare che il patto iniziatico sia stretto tra due persone (maestro e discepolo) o con l’organizzazione che li rappresenta è una enormità sconosciuta all’interno delle vere turuq orientali…”, ma non si può certo considerare indifferente la modalità e le condizioni con cui tale patto è stato stretto.
      Ricordiamo a proposito cosa sosteneva G. (visto che, siccome lo ha citato favorevolmente, parrebbe di capire che lo tenga in considerazione quale autorità in materia…) in una lettera a Caudron del Maggio 1935: “…Détto ciò, proverò a rispondere alle vostre domande; del resto, la risposta è tanto più semplice e più facile che devo astenermi dell’influire sulle decisioni di chiunque, poiché spetta a ciascuno di scegliere lui stesso la via che gli conviene meglio. Insomma, avete ora dinnanzi a voi, senza lasciare l’Europa, la possibilità di ricollegamento a due organizzazioni iniziatiche, una occidentale, l’altra orientale [Massoneria e Sufismo…] Devo aggiungere che non c’è la minima incompatibilità tra questi due collegamenti, e che, per una stessa persona, non sono affatto esclusivi uno dell’altro […] Per il ricollegamento a più organizzazioni, A CONDIZIONE CHE NON VI SIA INCOMPATIBILITÀ TRA LORO (POICHÉ CIÒ PUÒ ANCHE CAPITARE IN ALCUNI CASI), mi sembra che si potrebbe applicare un proverbio che dice ‘Due sicurezze valgono meglio di una’, perché soprattutto in mezzo alla confusione attuale, qualcuno può non sapere esattamente prima, da quale parte gli sarà possibile ottenere i migliori risultati.”. E mi sia concesso sommariamente intervenire: credere che ciò sia dovuto all’azione di una idea “…criminale (etim.) per cui condannabile quando concepita in questo modo…”, giustificando la cosa col fatto che i Maestri, con i quali si è contratto tale Patto, ‘muoiono’ ma il Patto resta, è del tutto semplicisticn, in quanto, tali Maestri, lasciano solo la modalità corporea, cosa affatto differente.
      Altra questione: “…Forse in occidente è diffusa questa idea ma per ben altri motivi che nulla hanno di iniziatico; se si vuole conoscere cosa sia il tasawwuf (sufismo) vero, si faccia un viaggio nei paesi in cui ancora sopravvivono le turuq tradizionali e non ci si affidi alle fotocopie occidentali…”: di quali fotocopie sta parlando? Io personalmente ho avuto al fortuna/sfortuna di non di non averne mai sentito parlare: nel caso lo volesse/potesse, potrebbe essere più esplicito in merito? Nella mia modesta esperienza ho sempre avuto a che fare con delle Zawiya occidentali che, una volta chiesta la la silsilah o l’ijâza dei Maestri, non si sono messe a vaneggiare di maghi neri e di controiniziati, ma hanno semplicemente documentato quanto richiesto senza la minima esitazione, al punto che ho potuto constatare di persona, oltre ai documenti, l’effettivo collegamemto con la Tariqa alla quale dicevano di appartenere.
      GATTO

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    3. I
      A proposito di iniziazione e di Guru

      In accordo con quanto scritto dal Sig. Abd-es-Samad:” Per questa ragione il patto iniziatico Mai è concepito e stretto con un essere umano o con un’organizzazione riconducibile a uno o più uomini che sono, per essere precisi, solo dei tramiti temporanei…”, aggiungo quanto segue:


      Sri Sri Chandrasekhara Bharati Swamiji nella sua opera ‘ The call of the Jagadguru’ così dice:
      “Perché un qualsiasi sforzo dia frutto, è necessario che la persona che impegna se stessa in tale sforzo debba essere qualificata per farlo. In modo similare, per prima cosa dobbiamo considerare se abbiamo in noi le qualifiche necessarie per essere capaci di cercare rifugio in un Guru. (pag 4)
      Un Guru è necessario per conoscere le nostre doti spirituali, per uscire dallo stadio in cui siamo, per decidere che tipo di azione intraprendere per uno stadio ulteriore, per istruirci e guidarci bene. (pag 7)
      Nei rami del sapere ordinario, un insegnante insegna ai suoi studenti quello che egli conosce su un determinato soggetto e li rende competenti come lui. Il Guru, oceano di misericordia, è pronto ad innalzarci e a benedirci con il bene più grande; è nostro imprescindibile dovere seguirlo, inginocchiarci ai suoi sacri piedi e abbandonarci a lui incondizionatamente (pag 12)”.
      Da un upadeśa di Śrī Śrī Prakāśānandendra Sarasvatī:
      “Dare dīkșā è dare un simbolo e il suggerimento è insito in essa. Le cose più profonde possono essere date solo dal simbolo. All’inizio capisci solo una parte e questo ti aiuta a meditare, e può essere una meditazione yoga, bhakta o contemplazione vedantica. Ognuno ha la sua meditazione adatta, può averne anche diverse, combinate. Alcuni ne possono fare una sola, se non sono a loro agio. Il maestro te la dà e poi tu scegli, secondo la tua naturale inclinazione. Se ti pesa, non farlo: ti scinde la mente. Prova per qualche giorno: se ti senti a casa, quella è la tua via. Nella meditazione vedantica è richiesta una comprensione. Nello yoga devi guardare e nella bhakti devi provare un’emozione, un sentimento”.
      “Dio non è una forma, ma è onnipervadente e ogni volta assume una forma. Così è il Guru. Il Guru non è una persona, il Guru è Īśvara. Il Sākșin, il Paramātmā è il Guru. Il Guru umano è solo il suo rappresentante. Quando il Guru muore, vai da un altro Guru. Il gurusthāna è direttamente da Dio. Vai da un Guru famoso: non ti piace? Cambia. Alcuni Guru si offendono. Il Guru è un principio, non è una persona, non deve offendersi. Tu vuoi l’acqua, non il bicchiere che te la porta. Il contenuto è Īśvara, il bicchiere il Guru”.
      Dalla Bhāvana Upanișad:
      Guru è chi impartisce il sapere sacro al discepolo.
      Egli, regolandosi interiormente, aiuta a distruggere l’ignoranza che incatena il discepolo al ciclo della trasmigrazione.
      La tradizione vedica ha la nozione di iniziazione, quale rito speciale e necessario preludio per l’acquisizione della conoscenza delle scritture. I passaggi vedici sottolineano anche l’importanza divina delle parole sacre impartite da un maestro realizzato.
      La sua guida è considerata del tutto indispensabile, perché la conoscenza si realizza soltanto quando è comunicata da lui. Egli non è solamente il dispensatore della parola ricca di potere (mantra dātā), ma anche protegge il discepolo da tutti gli ostacoli, mantenendo la forza di questa parola tramite la sua costante vigilanza e la sua grazia. Il concetto di iniziazione comprende anche questa influenza costante del maestro sul lavoro interiore del discepolo.

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    4. II
      Un testo tantrico recita:” Senza iniziazione non vi può essere liberazione dalla schiavitù fenomenica; e non può esserci iniziazione senza maestro. Da qui deriva la catena di maestri (guruparamparā)”.
      Il discepolo considera il Guru da cui ha ricevuto la completa consacrazione come una divinità superiore agli Dei. Il testo dice:” Se il Dio fosse adirato con te, il Guru ti proteggerebbe; ma se lo stesso Guru fosse dispiaciuto con te, nessuno potrebbe salvarti!”.
      Il risveglio spirituale del discepolo è un evento di portata universale che, oltre al Sé dell’aspirante (Ātman), conta su tre elementi necessari per essere completo: il Guru, il sacro mantra e la divinità prescelta (devatā) a cui identificarsi.
      Nel Tantrarāja Tantra (I. 96-100) e nello Śrividyārņava Tantra (I. 382-386) vi è l’abituale invocazione al Guru:
      “Sia fatta adorazione al Guru che è il Signore, il maestro, Śiva stesso. Egli assume numerose forme per trasmettere la saggezza che porta alla Liberazione. Egli è sempre nuovo, e consta di nove aspetti (i nove recinti dello Śrī Cakra); ma la sua forma trascendente è una soltanto. Egli è il sole che distrugge l’oscurità dell’ignoranza; egli è una pura concentrazione di coscienza. E’ libero, sommo e la sua compassione costituisce la sua forma. In ogni circostanza è generoso con i suoi devoti e con le persone spiritualmente mature. Egli è la facoltà di discriminazione (viveka) in tutti gli uomini che discriminano (vivekin); è l’espressione in tutti i modi di espressione; è la luce in tutte le cose che risplendono; ed è la conoscenza in tutti i mortali che conoscono. Il discepolo s’impegna affinché la propria mente sia la sede del Guru”.
      Da alcuni upadeśa di Śrī Śrī Prakāśānandendra Sarasvatī:
      “L’insegnamento reale non è legato alla persona, ma è quello che proviene da Dio. Questa persona è solo un ‘megafono’, è come un mezzo. Guru e rși sono dei mezzi. […] Se non sei contento, va da un altro maestro. Si possono avere più Guru, questo aiuta a capire meglio. Quello di cui hai bisogno è la conoscenza che puoi trovare in un canto, in un insegnamento, in un oggetto. […] Comunque la conoscenza e il metodo trasmessi al discepolo sono frutto dell’esperienza.
      E’ il Sākșin che t’insegna; qualsiasi cosa io dico, non sono io, è il Guru. Il Guru non è una persona, la persona occupa una funzione. Il Guru abbandona il suo jīva e assume lo śāstra dṛșți. Da quel livello vengono i suoi insegnamenti, perciò sono parole di Īśvara. Perché dovrei insegnarti da jīva a te che hai un jīva? Fare namaskāra a un jīva? Non ha senso. Tu hai bisogno di qualcosa che trascenda il jīvatva, cioè il punto di vista del Sākșin. Perciò ogni frase viene da quel livello. Questo è lo śāstra: quando il Guru fa tutt’uno con Īśvara. Īśvara s’esprime tramite il Guru”.
      Tutte parole chiarissime, tutte parole di Swami legati a una paramparā conosciuta, riscontrabile, risalente a Maestri primordiali e divini. Chi scrive sul sito VVM è discepolo di tali linee iniziatiche, non inventa nulla, ha ricevuto direttamente dalla voce (śrāvaņa) di tali Guru insegnamenti riservati. Altro che maghi neri!

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    5. Lasciando Durgā Devī al suo destino di "copista", ci interessava più che altro rilevare del commento del Filippi a Abd-es-Samad (piccolo appunto: visto il significato sotteso dell''outing' del commento sull'altro thread, il sospetto che qui il Filippi si sia risposto da solo è fortissimo...) che se parlare di 'vere turuq', a cui si fa cenno nel succitato suo commento, ha la stessa attendibilità di quando si parla di quelle 'false' (le" pseudoiniziazioni del guénonismo...(cit)") tra le quali si annovera anche la "tariqa" (scritta dal Filippi, rigorosamente tra virgolette...) torinese , beh, non si può certo dire che, per la proprietà transitiva, si possa prendere come oro colato e a cuor leggero, ciò che da questa insigne tribuna esce come verità rivelata!
      GATTO

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    6. Orgogliosa di essere una “copista” di Śaṃkara, non una “copiona” di René Guénon.

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    7. Ottima battuta, Durgā Devī! Senza celia...
      GATTO

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    8. Faccia prendere aria al suo orgoglio ogni tanto, o rischia di diventare anemico!

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