"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 22 ottobre 2018

René Guénon L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 2. Distinzione fondamentale fra il «Sé» e l’«io»

René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

2. Distinzione fondamentale fra il «Sé» e l’«io»

Per capire bene la dottrina del Vêdânta in ciò che concerne l’essere umano, è importante delineare innanzi tutto, il più nettamente possibile, la fondamentale distinzione fra il «Sé», che è il principio stesso dell’essere, e l’«io» individuale.
 È quasi superfluo dichiarare espressamente che l’uso del termine «Sé» non implica per noi alcuna comunanza d’interpretazione con certe scuole che hanno potuto far uso di questa parola ma che, sotto una terminologia orientale, per lo più incompresa, non hanno mai presentato che concezioni del tutto occidentali, peraltro singolarmente fantasiose; alludiamo non solamente al teosofismo, ma anche ad alcune scuole pseudo-orientali che hanno interamente snaturato il Vêdânta con il pretesto di adattarlo alla mentalità occidentale, e sulle quali abbiamo già avuto modo di dire come la pensiamo.
L’abuso di una parola non è, per noi, una ragione sufficiente perché si debba rinunciare a servirsene, a meno che non si trovi il modo di sostituirla con un’altra che sia altrettanto adatta per quello che si vuole esprimere, il che non è il caso nostro; d’altronde, se volessimo essere troppo rigorosi, finiremmo senza dubbio per non avere che ben poche parole a nostra disposizione, poiché difficilmente se ne trovano che non siano state usate più o meno abusivamente da qualche filosofo. Intendiamo evitare soltanto le parole create espressamente per concezioni con cui quelle che noi esponiamo non hanno niente in comune: tali sono, per esempio, le denominazioni dei diversi generi di sistemi filosofici; tali sono inoltre i termini che appartengono propriamente al vocabolario degli occultisti e degli altri «neospiritualisti»; ma, quanto alle parole che questi ultimi hanno soltanto preso in prestito da dottrine anteriori – che hanno l’abitudine di plagiare sfrontatamente, senza capirle –, non possiamo certo avere scrupoli a farle nostre, restituendo quel significato che loro conviene normalmente.
Invece dei termini «Sé» e «io», è possibile anche usare quelli di «personalità» e di «individualità», con una riserva tuttavia, poiché il «Sé», come spiegheremo più avanti, può essere ancora qualche cosa di più della personalità. I teosofisti, che sembrano essersi divertiti a ingarbugliare la loro terminologia, attribuiscono alla personalità e all’individualità un senso esattamente inverso a quello in cui vanno correttamente intese: essi identificano la prima con l’«io» e la seconda con il «Sé». Al contrario, prima di loro, anche in Occidente, ogni qual volta una distinzione è stata fatta fra queste due parole, la personalità è sempre stata considerata superiore all’individualità, ragione per cui diciamo che questo è il loro rapporto normale, ed è vantaggioso conservarlo. La filosofia scolastica, in particolare, non ha ignorato tale distinzione, ma non sembra averle conferito il suo pieno valore metafisico, né averne tratto le profonde conseguenze che vi sono implicite; ciò d’altronde accade frequentemente, anche quando essa presenta somiglianze notevolissime con certi aspetti delle dottrine orientali. In ogni caso, la personalità, intesa metafisicamente, non ha niente in comune con quello che i filosofi moderni chiamano sovente la «persona umana», che in realtà è soltanto l’individualità pura e semplice; del resto solo questa, e non la personalità, può essere propriamente chiamata umana. In linea di massima, sembra che gli Occidentali, anche quando nelle loro concezioni vogliono spingersi più in là di quanto non faccia la maggior parte di loro, scambino per personalità ciò che in realtà è soltanto la parte superiore dell’individualità, o una sua semplice estensione;[1] in tali condizioni, tutto ciò che riguarda l’ordine metafisico puro resta necessariamente al di fuori della loro comprensione.
Il «Sé» è il principio trascendente e permanente di cui l’essere manifestato, l’essere umano per esempio, non è che una modificazione transitoria e contingente, modificazione che non può d’altronde alterare in alcun modo il principio, come spiegheremo più diffusamente in seguito. Il «Sé», come tale, non è mai individualizzato, né può esserlo, poiché, dovendo sempre essere considerato sotto l’aspetto dell’eternità e dell’immutabilità, che sono gli attributi necessari dell’Essere puro, non è evidentemente suscettibile di alcuna particolarizzazione, che lo farebbe essere «altro da se stesso». Immutabile nella propria natura, esso sviluppa soltanto le possibilità indefinite che racchiude in Sé, con il passaggio relativo dalla potenza all’atto attraverso un’indefinità di gradi, senza che la sua permanenza essenziale ne sia compromessa, proprio perché questo passaggio non è che relativo, e perché questo sviluppo è tale, a dire il vero, solo nella misura in cui lo si considera dal lato della manifestazione, fuori della quale non può esistere alcuna successione, ma soltanto una perfetta simultaneità, per cui anche ciò che sotto un certo aspetto è virtuale si trova nondimeno realizzato nell’«eterno presente». Quanto alla manifestazione, si può dire che il «Sé» sviluppa le sue possibilità in tutte le modalità di realizzazione, in moltitudine indefinita, che per l’essere integrale sono altrettanti stati differenti, stati di cui uno solo, sottomesso a condizioni di esistenza particolarissime che lo definiscono, costituisce la parte, o meglio la determinazione peculiare di quell’essere che è l’individualità umana. Il «Sé» è così il principio per il quale esistono, ognuno nel proprio ambito, tutti gli stati dell’essere; e questo vale non soltanto per gli stati manifestati di cui abbiamo parlato, siano essi individuali, come la condizione umana, o sopra-individuali, ma anche, quantunque allora la parola «esistere» divenga impropria, per lo stato non-manifestato, comprendente tutte le possibilità che non sono suscettibili di alcuna manifestazione, e allo stesso tempo le possibilità di manifestazione stesse in modo principiale; ma questo medesimo «Sé» non esiste che di per se stesso, non avendo, né potendo avere, nell’unità totale e indivisibile della sua natura intima, alcun principio che gli sia esteriore[2].
Il «Sé», considerato in rapporto a un essere, come abbiamo fatto, è propriamente la personalità; si potrebbe, è vero, restringere l’uso di quest’ultimo termine al «Sé» come principio degli stati manifestati, nello stesso modo in cui la «Personalità Divina», Îshwara, è il principio della manifestazione universale; ma lo si può anche estendere analogicamente al «Sé» come principio di tutti gli stati dell’essere, manifestati e non-manifestati. Questa personalità è una determinazione immediata, primordiale e non particolarizzata del principio chiamato in sanscrito Âtmâ o Paramâtmâ, e che, in mancanza di un termine migliore, possiamo chiamare lo «Spirito Universale», a condizione però, s’intende, di non ravvisare nell’uso del termine «spirito» niente che possa ricordare le concezioni filosofiche occidentali e, specialmente, a condizione di non farne un correlativo di «materia», come quasi sempre è per i moderni, che a tale riguardo, anche inconsciamente, subiscono l’influenza del dualismo cartesiano.[3] La vera metafisica, vogliamo ancora ripeterlo a questo proposito, si pone ben al di là di tutte le opposizioni – di cui quella fra «spiritualismo» e «materialismo» può fornirci il modello –, né deve in alcun modo preoccuparsi dei problemi più o meno particolari, e spesso del tutto artificiosi, prodotti da simili opposizioni.
Âtmâ penetra tutte le cose, le quali sono, per così dire, delle sue modificazioni accidentali e, secondo l’espressione di Râmânuja, «costituiscono in qualche modo il suo corpo (la parola dev’essere intesa qui solo in un senso puramente analogico), siano esse di natura intelligente o non-intelligente», vale a dire, secondo le concezioni occidentali, siano esse «spirituali» oppure «materiali», perché questo, dato che esprime solo una diversità di condizioni nella manifestazione, non comporta alcuna differenza per il principio incondizionato e non-manifestato. Quest’ultimo, infatti, è il «Supremo Sé» (la traduzione letterale di Paramâtmâ) di tutto ciò che esiste, in qualunque modo esso si presenti, e rimane sempre «lo stesso», tanto attraverso la molteplicità indefinita dei gradi dell’Esistenza, intesa in senso universale, quanto di là dall’Esistenza, vale a dire nella non-manifestazione principiale.
Il «Sé», anche per un essere qualsiasi, è identico in realtà ad Âtmâ, poiché è essenzialmente al di là di ogni distinzione e particolarizzazione; perciò, in sanscrito, la stessa parola âtman, nei casi diversi dal nominativo, fa le veci del pronome riflessivo «se stesso». Il «Sé» non è dunque affatto veramente distinto da Âtmâ, se non quando lo si considera particolarmente e «distintivamente» in rapporto a un essere, anzi, più precisamente, in rapporto a un certo stato definito di quest’essere, come lo stato umano, e soltanto in quanto lo si considera da questo punto di vista speciale e limitato. In tal caso, d’altronde, il «Sé» non diventa effettivamente distinto in qualche modo da Âtmâ, poiché non può essere «altro da se stesso», come abbiamo detto sopra, né può evidentemente essere modificato dal punto di vista dal quale lo si considera, non più che da qualunque altra contingenza. È necessario aggiungere che, nella misura stessa in cui si fa questa distinzione, ci si allontana dalla considerazione diretta del «Sé» per considerare in realtà soltanto il suo riflesso nell’individualità umana, o in qualsivoglia altro stato dell’essere, poiché è ovvio che dinanzi al «Sé» tutti gli stati della manifestazione sono rigorosamente equivalenti e possono essere considerati alla stessa maniera; adesso, però, è l’individualità umana che ci interessa più particolarmente. Questo riflesso di cui parliamo determina ciò che si può chiamare il centro dell’individualità; ma, se lo si isola dal suo principio, vale a dire dal «Sé», la sua esistenza è allora puramente illusoria, poiché è soltanto dal principio che trae tutta la sua realtà, e possiede effettivamente questa realtà solo in quanto partecipa alla natura del «Sé», vale a dire in quanto s’identifica a esso per universalizzazione.
La personalità, vogliamo ancora sottolineare, appartiene essenzialmente all’ordine dei principi nel senso più rigoroso della parola, ossia all’ordine universale; essa non può dunque essere considerata che dal punto di vista della metafisica pura, il cui ambito è appunto l’Universale. Gli «pseudo-metafisici» dell’Occidente hanno l’abitudine di confondere con l’Universale cose che, in realtà, appartengono all’ordine individuale; o meglio, dato che essi non concepiscono affatto l’Universale, ciò a cui indebitamente attribuiscono questo nome è di solito il generale, che propriamente è soltanto una semplice estensione dell’individuale. Certuni spingono ancora oltre la confusione: i filosofi «empiristi», che non riescono neanche a concepire il generale, l’assimilano al collettivo, che, in verità, è proprio soltanto del particolare; per queste successive degradazioni, si arriva infine a ridurre ogni cosa allo stesso livello della conoscenza sensibile, che molti considerano infatti come la sola possibile, poiché il loro orizzonte mentale non si estende al di là di tale ambito ed essi vorrebbero imporre a tutti le limitazioni derivanti soltanto dalla loro stessa incapacità, sia essa naturale o acquisita con un’educazione particolare.
Per prevenire ogni equivoco del genere di quelli segnalati, daremo, una volta per tutte, la seguente tavola, che precisa le distinzioni essenziali a questo riguardo, e alla quale preghiamo i nostri lettori di riferirsi ogni qual volta sarà necessario, per evitare ripetizioni alquanto fastidiose:

Universale



Generale

Individuale –

Collettivo

Particolare –



Singolare

È importante aggiungere che la distinzione fra l’Universale e l’individuale non deve essere affatto considerata una correlazione, poiché il secondo dei due termini, annullandosi totalmente di fronte al primo, non gli può essere opposto in alcun modo. Ciò è anche vero per quel che concerne il non-manifestato e il manifestato; d’altronde, potrebbe sembrare a prima vista che l’Universale e il non-manifestato debbano coincidere, e da un certo punto di vista la loro identificazione sarebbe infatti giustificata, poiché, metafisicamente, l’essenziale è il non-manifestato. Tuttavia, occorre tener conto di certi stati di manifestazione che, essendo informali, sono appunto perciò sopra-individuali; se dunque non si distingue che tra l’Universale e l’individuale, si dovrà necessariamente riferire questi stati all’Universale, tanto più che si tratta di una manifestazione in qualche modo ancora principiale, per lo meno rispetto agli stati individuali; ma ciò, ovviamente, non deve far dimenticare che tutto quel che è manifestato, anche a questi gradi superiori, è necessariamente condizionato, vale a dire relativo. Se si considerano le cose in tal modo, l’Universale sarà, non più solamente il non-manifestato, ma l’informale, comprendente nello stesso tempo il non-manifestato e gli stati di manifestazione sopra-individuali; quanto all’individuale, esso contiene tutti i gradi della manifestazione formale, vale a dire tutti gli stati nei quali gli esseri sono rivestiti di forme, poiché ciò che propriamente caratterizza l’individualità e la costituisce essenzialmente come tale, è appunto la presenza della forma fra le condizioni limitative che definiscono e determinano uno stato d’esistenza. Possiamo ancora riassumere queste ultime considerazioni nella tavola seguente:


Non-manifestazione

Universale –



Manifestazione informale



Stato sottile
Individuale –
Manifestazione formale –



Stato grossolano

Le espressioni «stato sottile» e «stato grossolano», che si riferiscono a gradi differenti della manifestazione formale, saranno spiegate più avanti; ma possiamo accennare fin d’ora che quest’ultima distinzione ha valore soltanto a condizione di prendere come punto di partenza l’individualità umana, o più precisamente il mondo corporeo o sensibile. Lo «stato grossolano», infatti, non è altro che la stessa esistenza corporea, alla quale l’individualità umana, come si vedrà, non appartiene che per una delle sue modalità, e non nel suo sviluppo integrale; quanto allo «stato sottile», esso comprende da una parte le modalità extra-corporee dell’essere umano, o di ogni altro essere nello stesso stato di esistenza, e dall’altra anche tutti gli stati individuali diversi da quello. Come si può osservare, questi due termini non sono veramente simmetrici e neppure confrontabili, poiché l’uno rappresenta soltanto una parte di uno degli stati indefinitamente molteplici che costituiscono la manifestazione formale, mentre l’altro comprende tutto il resto di questa manifestazione.[4] La simmetria si ritrova, fino a un certo punto, soltanto se ci si limita alla considerazione della sola individualità umana e del resto è proprio da questo punto di vista che la distinzione di cui si tratta è in primo luogo stabilita dalla dottrina indù; anche se poi questo punto di vista viene superato, ed è adottato soltanto perché si riesca effettivamente a superarlo, ciò nondimeno dobbiamo inevitabilmente prenderlo come base e termine di paragone, poiché concerne lo stato in cui attualmente ci troviamo. Diremo dunque che l’essere umano, considerato nella sua interezza, comporta un certo insieme di possibilità che costituiscono la sua modalità corporea o grossolana, nonché una moltitudine di altre possibilità che, prolungandosi in diversi sensi di là da questa, costituiscono le sue modalità sottili; tutte queste possibilità riunite non rappresentano tuttavia che un solo e uno stesso grado dell’Esistenza universale. Ne consegue che l’individualità umana è allo stesso tempo molto più e molto meno di quello che gli Occidentali di solito credono che sia: molto più, perché essi ne conoscono quasi soltanto la modalità corporea, che è un’infima parte delle sue possibilità; ma anche molto meno, perché questa individualità, lungi dal rappresentare realmente l’essere totale, non ne è che uno stato, fra una serie indefinita di altri stati, la cui stessa somma è ancora nulla rispetto alla personalità, che è l’essere vero, perché soltanto essa è il suo stato permanente e incondizionato, e soltanto questo può essere considerato assolutamente reale. Indubbiamente, anche tutto il resto è reale, ma soltanto in modo relativo, in virtù della sua dipendenza dal principio e in quanto ne riflette qualche cosa, come l’immagine prodotta nello specchio trae tutta la sua realtà dall’oggetto, senza il quale non avrebbe alcuna esistenza; ma questa minore realtà, che è solo partecipata, è illusoria rispetto alla realtà suprema, come la stessa immagine è anch’essa illusoria rispetto all’oggetto; e, se si pretendesse di isolarla dal principio, questa illusione diventerebbe irrealtà pura e semplice. Si comprende dunque come l’esistenza, vale a dire l’essere condizionato e manifestato, sia allo stesso tempo reale in un certo senso e illusoria in un altro; questo è uno dei punti essenziali mai capiti dagli Occidentali che hanno oltraggiosamente deformato il Vêdânta con le loro interpretazioni erronee e piene di pregiudizi.
Dobbiamo ancora avvertire in particolare i filosofi che l’Universale e l’individuale non sono affatto per noi ciò che essi chiamano «categorie»; e ricorderemo loro, poiché i moderni sembrano averlo un poco dimenticato, che le «categorie», nell’accezione aristotelica della parola, non sono che i più generali fra tutti i generi, e perciò appartengono ancora all’ambito dell’individuale, di cui d’altronde, da un certo punto di vista, segnano il limite. Sarebbe più giusto assimilare all’Universale ciò che gli scolastici chiamano i «trascendentali», che appunto oltrepassano tutti i generi, comprese le «categorie»; ma, se questi «trascendentali» appartengono all’ordine universale, sarebbe però sempre un errore credere che costituiscano tutto l’Universale, o anche che siano ciò che vi è di più importante per la metafisica pura; essi sono coestensivi all’Essere, ma non vanno affatto al di là dell’Essere, al quale d’altronde si ferma la dottrina che così li concepisce. Ora, se l’«ontologia» o conoscenza dell’Essere rientra nella metafisica, essa è però lungi dal costituire tutta quanta la metafisica, poiché l’Essere non è affatto il non-manifestato in Sé, ma semplicemente il principio della manifestazione; di conseguenza, ciò che è di là dall’Essere è metafisicamente molto più importante dell’Essere stesso. In altre parole è Brahma, non Îshwara, che dev’essere riconosciuto come il Principio Supremo; ciò è dichiarato espressamente e prima di ogni altra cosa dai Brahma-Sûtra, che esordiscono con queste parole: «Ora comincia lo studio di Brahma», a cui Shankarâchârya aggiunge il seguente commento: «Ingiungendo la ricerca di Brahma, questo primo sûtra raccomanda uno studio ragionato dei testi delle Upanishad, fatto con l’aiuto di una dialettica che (prendendoli per base e principio) non sia mai in disaccordo con essi e che, come essi (ma a titolo di semplice mezzo ausiliario), si proponga per fine la Liberazione».



[1] Léon Daudet, in alcune sue opere (L’Hérédo e Le Monde des images), ha distinto nell’essere umano ciò che chiama il «Sé» e l’«io»; ma per noi fanno entrambi ugualmente parte dell’individualità, e tutto ciò è di competenza della psicologia che, per contro, non può in alcun modo raggiungere la personalità; questa distinzione indica tuttavia una sorta di presentimento, assai degno di nota in un autore che non ha la pretesa di essere un metafisico.
[2] Esporremo più compiutamente in altri studi la teoria metafisica degli stati multipli dell’essere; qui accenniamo ciò che è indispensabile per la comprensione di quanto concerne la costituzione dell’essere umano.
[3] Teologicamente, quando si dice che «Dio è puro spirito», è verosimile che anche questo non debba essere inteso in un senso in cui «spirito» si oppone a «materia», e in cui questi due termini possono essere compresi soltanto uno in relazione all’altro, poiché in tal caso si giungerebbe a una specie di concezione «demiurgica», più o meno prossima a quella attribuita al Manicheismo; non è men vero che una tale espressione è di quelle che possono facilmente dar luogo a false interpretazioni, che finiscono con il sostituire «un essere» all’Essere puro.
[4] Possiamo far capire questa asimmetria mediante una semplicissima constatazione che si rifà alla logica ordinaria: considerando un attributo o una qualità, si dividono tutte le cose possibili in due gruppi: da una parte quello delle cose che posseggono tale qualità, dall’altra quello delle cose che non la posseggono; ma, mentre il primo gruppo si trova così definito e determinato positivamente, il secondo, che è caratterizzato soltanto in modo puramente negativo, non è affatto limitato da ciò ed è in realtà indefinito; non vi è dunque né comune misura né simmetria fra questi due gruppi, che così non costituiscono realmente una divisione binaria, e la cui distinzione vale d’altronde evidentemente solo dal punto di vista particolare della qualità presa come punto di partenza, poiché il secondo gruppo non ha alcuna omogeneità e può comprendere cose che non hanno niente in comune fra loro, il che tuttavia non impedisce a questa divisione di essere pienamente valida sotto l’aspetto considerato. Ora è appunto così che distinguiamo il manifestato e il non-manifestato, poi, nel manifestato, il formale e l’informale, e infine, nel formale stesso, il corporeo e l’incorporeo.

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