"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

mercoledì 31 ottobre 2018

Devadatta Kīrtideva Aśvamitra, La distruzione della falsa conoscenza: mithyā vinaśana - 5

Devadatta Kīrtideva Aśvamitra
La distruzione della falsa conoscenza: mithyā vinaśana

5 L’adhyāropāpavāda nell’esame dei tre stati di Coscienza: avasthātraya mīmāṃsā

Lavasthātraya mīmāṃsā rappresenta il metodo più elevato tra quelli vedāntici finora descritti, che s’identifica all’advaita vicāra stesso e che, perciò, conduce alla Liberazione finale dall’ignoranza.

I profani e gli iniziati della conoscenza non-suprema[1], considerano della vita umana soltanto lo stato di veglia, quindi pensano che il sogno sia una immaginazione mentale e che il sonno profondo sia semplicemente uno stato di riposo della mente, quando anche la fantasia è messa a tacere. Questo giudizio psicologico sul sogno e sul sonno dipende esclusivamente da quello che se ne pensa quando si è in veglia. È ciò che si definisce “pregiudizio della veglia” (jāgrat sācīkṛta). In realtà l’Ātman nella sua forma apparente di jīva sperimenta la condizione della vita non solo durante la veglia, ma anche negli altri due stati che, lungi dall’essere soltando fenomeni psicologici, devono essere in realtà considerati come suoi stati (avasthā) di Coscienza. Come è stato sufficientemente dimostrato nel primo capitolo di questo Mithyā Vinaśana, Coscienza è sinonimo di esistenza, perciò le avasthā sono dei veri stati d’esistenza. Per meglio capire quanto seguirà, analizziamo questo passo tratto dal commento di Śaṃkara alla Māṇḍūkya Upaniṣad:
Colui che ha la veglia (jāgarita) come stato di esistenza (sthāna), è la persona che sta nella veglia (jāgaritasthānaḥ). Egli, che prende conoscenza (prajñā) verso l’esterno (bahiḥ) degli oggetti da lui distinti è la persona cosciente di ciò che è esterno (bahiṣprajñāḥ). (MUŚBh 3)
Dal commento śaṃkariano traiamo le seguenti informazioni: l’Ātman, quando ha come stato d’esistenza la veglia, è una persona della veglia (jāgrat puruṣa)[2] che prende conoscenza degli oggetti che gli appaiono esterni e diversi da lui. Questi oggetti, aggiungiamo noi sull’autorità dei successivi passaggi della Māṇḍūkya, nel loro insieme, costituiscono il mondo della veglia (jāgrat prapañca). Ci sono tre concetti che riguardano la veglia: lo stato della veglia (jāgrat avasthā) in cui stanno la persona della veglia come soggetto (viṣaya) e una molteplicità di oggetti (viṣayī) esterni alla persona che costituiscono il mondo della veglia. Persona e mondo della veglia, assieme ai suoi molteplici componenti, sono dunque entrambi contenuti nello stato di coscienza della veglia. Analogamente:
Colui che ha il sogno (svapna) come stato di esistenza (sthāna) è la persona che sta nel sogno (svapnasthānaḥ). Quando è in stato di veglia, sebbene si trovi sempre in una condizione mentale, è dotato di diverse facoltà che lo fanno sembrare coinvolto negli oggetti esterni e questo lascia nella mente le loro impressioni. [...] Colui, che in sogno prende conoscenza (prajñā) verso l’interno (antaḥ) di quelle forme mentali impresse è la persona cosciente degli oggetti interni (antaḥ-prajñāḥ). (MUŚBh 4)
L’Ātman, quando ha come stato d’esistenza il sogno, è la persona del sogno (svapna puruṣa) che prende conoscenza degli oggetti interni. Questi oggetti nel loro insieme costituiscono il mondo del sogno (svapna prapañca). Anche qui ritroviamo tre concetti che riguardano il sogno: lo stato del sogno (svapna avasthā), in cui stanno la persona del sogno come soggetto e una molteplicità di oggetti interni alla persona che costituiscono il mondo del sogno. Persona e mondo del sogno, assieme ai suoi molteplici componenti, sono dunque entrambi contenuti nello stato di coscienza del sogno. L’unica apparente differenza consiste nel fatto che gli oggetti interni percepiti dal soggetto del sogno sono forme che l’Ātman ha portato nel mondo del sogno come impressioni mentali (saṃskāra) percepite nel mondo della veglia[3]. Śaṃkara però, affermando che “sebbene si trovi sempre in una condizione mentale” anche in stato di veglia, anticipa già la soluzione del problema della reciprocità tra gli stati di veglia e di sogno. Infatti la persona della veglia non conosce gli “oggetti esterni” per contatto diretto, perché questa conoscenza mentale è mediata dalle facoltà di percezione. La mente non ha la certezza dell’effettiva esistenza di oggetti esterni; perciò le informazioni, che arrivano alla mente del soggetto come forme degli oggetti esterni tramite i sensi, possono essere altrettante impressioni mentali provenienti dal mondo del sogno. È fondamentale quindi riflettere sulla stretta corrispondenza che intercorre tra lo stato di veglia, i suoi contenuti, vale a dire il puruṣa e gli oggetti del mondo della veglia, e lo stato di sogno che comprende il puruṣa e gli oggetti del mondo del sogno. La corrispondenza è tale per cui la persona che sogna considera il sogno come fosse veglia. Quello che perciò è necessario comprendere è che i due stati di veglia e di sogno sono tra loro incompatibili. Uno stato e tutto ciò che esso contiene, soggetto cosciente, il mondo e oggetti che gli appartengono, le leggi che lo reggono, le sue condizioni d’esistenza, il tempo, lo spazio, le relazioni e la causalità, sono incompatibili con l’altro stato e con i suoi contenuti. Inoltre l’uno esclude l’altro, nel senso che quando la veglia è (sat), il sogno è inesistente (asat) e quando esiste (sat) il sogno, la veglia è inesistente (asat). Ossia, quando è presente (bhava) il sogno, la veglia è assente (abhāva) e viceversa. Ma di questo abbiamo già trattato altrove[4].
Per quello che riguarda lo stato di sonno profondo, Śaṃkara dichiara:
Il sonno profondo consiste nell'essere incosciente di quella realtà che è caratteristica comune dei due stati in cui vi sono (alternatamente) la presenza e l'assenza dei (rispettivi) oggetti percepibili. Perciò l’avverbio di luogo nella frase: “... dove il dormiente non desidera fruire di alcunché né vede alcun sogno”[5] è usato per precisare che si tratta del sonno profondo. Perché suṣupti, che appare come incoscienza di quelle realtà, è ugualmente presente in tutti e tre gli stati. [...] Esso è detto indifferenziato perché tutte le molteplici dualità, che appaiono diversificate nelle altre due avasthā e che sono soltanto modificazioni mentali (mānasa vṛtti), qui sono indifferenziate pur senza confondersi tra loro, esattamente come il mondo fenomenico diurno diventa indifferenziato quando è coperto dalle tenebre notturne. In questo modo le esperienze coscienti che si hanno nel mondo della veglia e del sogno, che sono solamente mutevoli modificazioni mentali, qui rimangono immutabili. Questo stato è detto coscienza omogenea (prajñāghana) in quanto è caratterizzato dall’assenza di differenziazione. (MUŚBh 5)
Dalle parole di Śaṃkara si trae con chiarezza che anche la distinzione dei tre stati è un prodotto della mente individuale (antahkāraṇa). Incapace di concepire la Coscienza indifferenziata, la mente proietta su di essa l’immaginario stato di sonno profondo per poter in qualche modo rappresentarsi ciò che è al di fuori della sua portata d’indagine, ma di cui oscuramente intuisce l’esistenza. Infatti, anche se nessuno sa descriverlo, tutti al risveglio sanno intuitivamente di essere stati in sonno profondo. Se il sonno profondo fosse pura inesistenza, quell’intuizione non potrebbe esisterere affatto. Perciò suṣupti è una sovrapposizione mentale che nasconde Turīya, la vera natura del Brahman-Ātman. Ovvero, quando suṣupti non è più uno stato immaginato dalla mente individuale, ma è realizzato intuitivamente, essa è lo stesso Turīya. A questo punto si comprende perché esso sia “ugualmente presente in tutti e tre gli stati”.
Dopo aver chiarito la dottrina avasthātraya, affrontiamo ora la discussione sul metodo dell’adhyāropāpavāda applicato ai tre stati di Coscienza. Abbiamo visto che nella dottrina la relazione soggetto-oggetto svolge una importante funzione sussidiaria. Per procedere oltre si deve anche comprendere con precisione qual è la visione che ha il Vedānta della relazione tra generale e particolare (sāmānya-viśeṣa sambandha), ovvero tra il genere (janas) e una sua parte (aṃśa). Questa relazione, per sua natura, è applicabile a diversi livelli che possono essere descritti in svariati modi, ma che tradizionalmente, come per esempio accade anche nello Yoga darśana, sono enumerati a partire dal particolare più limitato al generale più estenso[6]. Per esempio la mano è una parte del mio corpo, il mio corpo lo è della mia individualità, io come singolo individuo sono parte della mia famiglia, la mia famiglia della casta d’appartenenza, la casta della specie umana e così via[7]. Il generale ingloba e colloca nell’ordine cosmico (ṛtu) ogni particolare. Il caso più esteso del rapporto tra generale e particolare è la relazione che intercorre tra macrocosmo, ossia l’universale (samaṣṭhi), e il microcosmo, l’individuale (vyaṣṭhi)[8]. Per comprendere appieno questa relazione si devono però aggiungere a essa anche le categorie del soggetto e dell’oggetto (grāhāgrāhakbhāva o viṣaya-viṣayī sambandha). Vogliamo dire che, in questa prospettiva, l’individuo, che qui rappresenta il particolare, è anche il soggetto conoscitore (viṣaya o jñātṛ, pramātṛ) e le cose ed esseri compresi nell’universale sono gli oggetti della sua conoscenza (viṣayī o jñeya, prameya). Si attribuisce all’individuo una coscienza (ahamkāra) che, per quanto parziale, gli permette di essere un conoscitore, ossia di esercitare la sua attività conoscitiva (jñāpti) nei confronti degli oggetti di conoscenza. Questi ultimi, al soggetto appaiono non coscienti (acit), anche se si tratta di altri esseri, poiché rimangono oggetti passivi di questo atto conoscitivo. Naturalmente la coscienza individuale (jīvātman o aham) è tale soltanto se essa è considerata come una forma limitata della vera Coscienza (Caitanya), in quanto la sua reale natura (satya svarūpa) è l’Ātman stesso. Per capire meglio questa idea della limitazione della coscienza individuale, è tradizionale produrre il seguente esempio. Il sole di notte irraggia la sua luce in ogni direzione dello spazio. La sua luce appare invisibile nelle tenebre a meno che la luna non si frapponga interrompendo una parte del flusso dei raggi solari. La luce che la luna riflette in questo modo è solo una piccola parte della luce solare. Così è la coscienza individuale: essa è solo un parziale riflesso dell’Ātman-Caitanya sulla superficie limitata della buddhi[9].
Nella veglia, l’individuale corrisponde all’ego identificato al corpo e l’universale a Vaiśvanāra (Virāṭ). Nel sogno, l’individuale corrisponde all’ego identificato alla mente e l’universale a taijasa, ossia a Hiraṇyagarbha (MU III-IV). In altre parole l’aham è il soggetto particolare che si relaziona all’oggetto massimo conoscibile nel suo proprio stato (avasthā). Virāṭ, tuttavia, è la proiezione di Hiraṇyagarbha nel jagrat avasthā, nel senso che esso rappresenta il “corpo” di Hiraṇyagarbha nel mondo della veglia; come, d’altra parte Hiraṇyagarbha è il jīva di Virāṭ nel mondo del sogno. Questo è un punto di vista comunque limitato all’individuale, in quanto le due avasthā, integrate in un’unica realtà universale, non sono diverse dal Testimone (Sākṣin), vale a dire da suṣupti.
In questo caso si considera il Sākṣin solo a livello universale, cioè riferito ai due stati di coscienza di veglia e di sogno, come colui che presta “parte” della sua coscienza al jīvātman, come nel precedente esempio della luce solare e della luna. Si dovrà però comprendere che si sta comunque parlando solo dal punto di vista dell’adhyāropa. La seguente śruti ne spiega il perché:
Quando un tamburo è percosso, non si è capaci di cogliere separatamente i singoli suoni particolari, ma si odono solo i suoni inclusi nel suono genarale del tamburo, cioè nel suono generale che è prodotto dalla percussione di ripetuti colpi battuti sul tamburo. (BU II.4.7)
Nel suo Bhāṣya Śaṃkara così commenta:
Diamo questo esempio: durante la nostra esperienza di vita possiamo osservare che non si può percepire una cosa del tutto separata da qualcos’altro, essendo quest’ultimo l’essenza di quella cosa. Perciò nell’esempio, quando un tamburo o altro [strumento] è percosso dal percussore, non possiamo distinguere le molteplici note particolari dal suono generale del tamburo: esse sono tutte incluse come variazioni nel suono generale del tamburo. Diciamo che quelle sono tutte note del tamburo e che non hanno una esistenza separata dal suono generale del tamburo. Oppure possiamo dire che le note particolari prodotte da differenti colpi sono incluse nel suono generale prodotto da quelle percussioni. Non le si può percepire come note distinte, poiché non hanno un’esistenza separata. Così nessuna cosa particolare è percepita in veglia e in sogno separata dalla pura Coscienza (prajñāna). Perciò quelle cose devono essere considerate non esistenti se sono separate dalla pura Coscienza. (BUŚBh II.4.7)
E aggiunge una importante annotazione che riguarda la molteplicità dei generi sintetizzati nell’universale, quasi quest’ultimo fosse il “generale dei generi”:
È stato citato qui più d’un esempio per richiamare l’attenzione sul fatto che ci sono diversi livelli di “generale”. Ben si sa che ci sono numerosi generi di esseri animati e di cose inanimate tra loro distinte. Tali esempi servono a mostrare come una serie di livelli intermedi debbano essere inclusi nella categoria suprema del generale [vale a dire l’universale] che è la Pura Coscienza. Come la categoria di suoni particolari e generali di un tamburo, di una conchiglia [śaṃkha] o di una vīṇā sono inclusi nell’armonia generale del suono, così si può sapere che, durante il mantenimento dell’universo, le varietà di generi e di parti sono un tutt’uno con il Brahman.  (BUŚBh II.4.9)
Risulta chiaramente che qui la natura di Brahman come genere supremo, ossia come universale, non deve essere presa alla lettera, perché ogni cosa che non sia il Sé è non reale e perciò non può essere considerata come parte di un genere rappresentato dal Brahman[10]. Da ciò deriva che l'Ātman non è un genere al quale si possano attribuire parti subordinate. Perciò quando si parla di Brahman come se fosse l’universale, in realtà si sta trattando di Hiraṇyagarbha. A proposito di Brahman come assoluto e non come un universale formato da parti, Śaṃkara dichiara commentando la Bhagavad Gītā:
È noto a tutti che per ogni cosa ci sono due nozioni che si qualificano reciprocamente, come le due nozioni della formula un “loto blu”[11]. Troviamo anche queste due nozioni abbinate quando pensiamo a un “vaso esistente”, un “vestito esistente”, un “elefante esistente” e così di seguito. Di queste due nozioni “vaso” e le altre consimili sono variabili, come abbiamo già dimostrato in precedenza; ma questo non vale per la nozione di “esistente”. Così sulla questione se la natura essenziale delle due nozioni sia l’esistenza o la non esistenza, il Sé o il non-sé, i conoscitori della verità giungono alla conclusione che ciò che esiste sempre è, mentre ciò che non esiste non è mai. (BhGŚBh II.16)
E poiché non ci può essere generale senza parti, si deve concludere che Ātman è un genere solo dal punto di vista dell’adhyāropa, utilizzato esclusivamente per scopi didattici. È così che dobbiamo considerare tutti e tre gli stati di coscienza, quando la śruti li attribuisce all'Ātman, come per esempio:
Colui che sta nello stato di veglia e ha la coscienza rivolta verso l’esterno è Vaiśvānara che, dotato di sette membra e diciannove bocche, fruisce degli oggetti grossolani: esso è il primo pāda. (MU 3); Colui che sta nello stato di sogno e ha la coscienza rivolta verso l’interno è Taijasa che, dotato di sette membra e diciannove bocche, fruisce degli oggetti sottili: esso è il secondo pāda. (Ibid. 4); Colui che sta nello stato di sonno profondo, senza oggetti desiderabili né sogni, è Coscienza (Prājñā) unica indifferenziata, Coscienza omogenea (prajñāghana) e sostanziata di beatitudine (ānandamaya): esso è il terzo pāda, che sperimenta beatitudine ed è la porta attraverso cui testimonia [sui primi due stati]. (Ibid. 5)
Queste tre citazioni della Māṇḍūkya Upaniṣad, che descrivono l’Ātman in sequenza ādhibhautika, ādhidaivika, ādhyātmika, nei suoi aspetti allargati alla massima estensione microcosmica e macrocosmica concepibile, sono proposte soltanto come adhyāropa. L’apavāda invece corrisponde alla seguente citazione della medesima Upaniṣad:
[I jñāni] sanno che Turīya (il quarto) non è quello che è cosciente del mondo esterno né quello che è cosciente del mondo interno; e nemmeno quello che è cosciente di entrambi quei mondi[12]. [Sanno che Turīya] non è nemmeno quella Coscienza unica indifferenziata, Coscienza omogenea, e che nemmeno è assenza di Coscienza [come la mente della veglia s’immagina sia suṣupti]. [I jñāni sanno] che è invisibile (adṛṣṭa), al di là di qualsiasi relazione empirica (avyavahārya), libero dall’essere un soggetto agente (agrāhya[13]), non deducibile (alakṣana[14] [per mezzo della logica], inconcepibile (acintya[15]) [al pensiero], indescrivibile (avapadeśya[16]) [a parole, pada], la cui unica valida prova (sāra[17]) d’esistenza è la coscienza di esistere come unico Sé (eka Ātma pratyaya[18]), al di là dei fenomeni mondani (prapañcopaśama[19]), immutabile (śānta), propizio (śiva), non duale (advaita), l’Ātman che così deve essere conosciuto (MU 7)
Chi così conosce è liberato in vita (jīvan mukta).
Consideriamo ora perché il metodo basato sull’avasthātraya mīmāṃsā è superiore a tutti le altre prakriyā. Il metodo per distinguere l’osservatore dall’osservato (dṛg-dṛśya viveka), Il metodo per distinguere l’osservatore dall’osservato (dṛg-dṛśya viveka) s’avvale di una tecnica sussidiaria, ossia la riflessione per stabilire i rapporti di soggetto-oggetto (viṣaya-viṣayī sambandha vicāra) e quella per scoprire se l’oggetto sia passibile di vera conoscenza (vidyā-avidyā vicāra). Esso si basa prevalentemente sull’uso della logica applicata (pramāṇa tarka) e si mette in pratica in forma contemplativa ascoltando (śrāvaṇa) le argomentazioni upaniṣadiche (śrauta tarka) insegnate dal guru. Il risultato di questo metodo è la discriminazione tramite “neti neti”, che annulla le distinzioni tra la persona che osserva e gli oggetti osservati. Allo stesso modo si comprende che una indagine conoscitiva non è conoscenza vera. E poiché l’Ātman non può essere oggetto di conoscenza, il vero jñana deve necessariamente essere compreso come Coscienza del Sé. Queste fasi preliminari dunque correggono l’angolatura distorta con cui fin dalla nascita ci si relaziona con il mondo. Applicando queste tecniche si demolisce principalmente l’erronea visione estesa delle nostre esperienze, rendendo inconsistente la realtà empirica.
Il metodo basato sui cinque involucri di Ātman (pañcakośa vicāra) si associa alla discussione più generale se il mondo è stato manifestato, è conservato e sarà dissolto (sṛṣṭi-sthiti-saṃhāra vicāra). L’apprendimento orale conduce alla riflessione (manana) che si conclude con la certezza dell’illusorietà dei rapporti temporali. Potente strumento per questo processo intellettuale è il kārya-kāraṇa sambandha vicāra, che dimostra l’inesistenza della dualità causa-effetto. In questo modo si prova anche che non esiste alcuna relazione di causa-effetto al di fuori della limitata condizione d’esistenza temporale. In breve, le tecniche elencate consentono di comprendere l’illusorietà dell’intero mondo manifestato, considerato come comprensivo dei due stati d’esistenza jagrat e svapna avasthā. Al di là di questi stati illusori è implicita l’esistenza di una Realtà soggiacente.
Nelle vie più intellettuali della conoscenza non-suprema (aparavidyā), purché il metodo preveda livelli meditativi[20] e non sia perciò limitato all’uso di mantra e yantra, considerazioni analoghe conducono il discepolo verso la rinuncia (vairāgya, saṃnyāsa). Questo livello di pratica è ciò che il Vedānta e la Bhagavad Gītā definiscono karma yoga ed è ciò che rappresenta la necessaria purificazione della mente come preparazione e avvio al jñāna[21].
Per procedere ancora oltre si fa ricorso al metodo sāmānya-viśeṣa viveka, che parte dalla propria coscienza particolare (cioè individuale, l’ahamkāra), considerata come persona-soggetto della veglia, e che integra via via tutti gli oggetti ed esseri della veglia nelle loro categorie generali. Questa reductio ad unum si conclude con la sintesi di tutti i “generi” nell’universale del mondo della veglia. In questo modo si realizza un rapporto micro-macrocosmico che coincide con la dualità di un soggetto unico e d’un unico oggetto: l’aham e il prapañca preso come un tutt’uno. Questa è la realizzazione vedāntica che si raggiunge seguendo la corrente dualista di Madhva (Dvaita Vedānta prasthāna). Per procedere oltre si devono estendere i limiti del proprio aham particolare, riconosciuti come fittizi, fino a farli coincidere con il generale. Così, per fare un esempio, l’individuo umano scompare nella sua particolarità fino a inglobare l’intera specie umana e così via per tutte le altre generalità di cui è parte. Ciò avviene per integrazione di tutte le componenti individuali e si conclude con l’identificazione della coscienza individuale con la coscienza dell’intero stato di veglia. In questo modo, alla fine, non c’è più traccia della dualità soggetto- oggetto, aham e mondo. Rimane soltanto l’essere che ha assimilato a sé l’intero stato di veglia, che è lui stesso lo stato di veglia, l’Uomo universale, integrato [22] a Hiraṇyagarbha. Questa è la realizzazione vedāntica che si raggiunge seguendo la corrente della “Non dualità con distinzione” di Rāmānuja (Viśiṣṭādvaita Vedānta prasthāna).
L’intuizione diretta di ciò che è la natura reale della Coscienza assoluta, a cui s’accede con l’Advaita Vedānta śaṃkariano, avviene a conclusione della avasthātraya sādhanā insegnata principalmente nella Māṇḍūkya Upaniṣad. Tralasciamo le diverse angolature con cui si deve prestare attenzione al raffronto tra le tre avasthā in base alla propria esperienza, atte a favorire l’intuizione, poiché possono essere d’interesse soltanto all’advitīya sādhaka. L’importante è che il metodo supremo è la comprensione di ciò che Gauḍapāda così descrive:
Non c’è manifestazione né dissoluzione né limitazione; non c’è nessuno che si sforzi o aspiri a ottenere la Liberazione; e non c’è nemmeno nessun liberato. Questa è la verità suprema . (MU II.32)
Metodo quindi puramente conoscitivo o, meglio, metodo per intuire la propria esistenza eterna, pura, cosciente, libera: nitya, śuddha, buddha, mukta sambhava. Anche la discriminazione di anātman, a questo punto, appare chiaramente essere stato un adhyāropa, poiché anche il vyavahāra si riassorbe nell’Identità suprema della Coscienza assoluta:
Qualsiasi cosa sembra essere nata a causa del punto di vista empirico: perciò non c’è nulla che sia eterno. Ma nella visione della Realtà tutte le cose sono l’Ātman senza nascita (aja); perciò non c’è alcuna [loro] distruzione (ucchedaḥ). (MU IV.57)
In questo risiede la superiorità metafisica del avasthātraya mīmāṃsā su qualsiasi altra sādhanā.

*

A nostra certa conoscenza, l’unica forma iniziatica che utilizzi la dottrina dei tre stati di Coscienza in modo paragonabile a quello vedāntico, è il Taoismo. Ci affidiamo all’ottima traduzione di Léon Wieger[23] per le citazioni che sottoponiamo del lettore. Abbiamo tralasciato i passaggi che considerano il sogno e il sonno profondo dal punto di vista psicologico o divinatorio, per evidenziare le affermazioni dottrinali più pregnanti. Sia il lettore a trarre le riflessioni che possono scaturire dalla comparazione con il metodo avasthātraya mīmāṃsā del Vedānta.
All’angolo sud-ovest della terra [...] c’è il paese che si chiama Kou-mang. I suoi abitanti [...] dormono quasi in continuazione, svegliandosi una volta ogni cinquanta giorni. Essi considerano reale quello che hanno provato durante il sonno e illusione quello che hanno provato nello stato di veglia.(Nella Cina) [...] si parla e agisce molto. Gli uomini alternano la veglia e il sonno e considerano reale quello che hanno provato durante lo stato di veglia e falso quello che hanno provato in sonno. All’angolo nord-est della terra [...] c’è il paese di Fou-lao. Gli abitanti [...] sono quasi sempre in movimento e riposano poco. Vegliano molto e dormono poco. Essi considerano reale quello che hanno provato durante lo stato di veglia. (Lie-tzeu, 3.C, p. 88)Tutto è uno: durante il sonno l’anima non distratta si assorbe in quell’unità. Durante la veglia, distratta, distingue esseri diversi. (Tchoang-tzeu, 2.B, p. 158)Gli Uomini Veri d’un tempo non erano turbati da nessun sogno durante il sonno né erano gravati di tristezza durante la veglia. (Tchoang-tzeu, 6.B, p. 178)Non esistono individui realmente tali, ma solo dei prolungamenti del Tao. Racconta Tchoang-tzeu: «Una volta di notte io fui una farfalla che volteggiava contenta della sua sorte. Poi mi svegliai che ero Tchoang-tzeu. Io chi sono in realtà? Una farfalla che sogna di essere Tchoang-tzeu, o Tchoang-tzeu che immagina d’essere una farfalla? Sono forse due individui diversi? C’è stata una reale trasformazione d’un individuo in un altro?» Né l’una né l’altra, afferma il commento. Ci sono state due trasformazioni irreali dell’unico Essere, del Tao universale, in cui tutti gli esseri, in tutti i loro stati, sono uno. (Tchoang-tzeu, 2.J, p. 163)Il Produttore-Trasformatore produce e trasforma, diventa sensibile, si riveste di forme, assume l’intelletto, acquisisce le energie, agisce e va in sonno, restando sempre lui. Dire che esseri distinti vengano prodotti e trasformati, diventino sensibili, rivestano delle forme, assumano l’intelletto, acquisiscano le energie, agiscano e vadano in sonno, è un errore. (Lie-tzeu, 1.B, p. 59)La vita termina con un sonno a cui segue un nuovo risveglio. (Tchoang-tzeu, 6.F, p. 182)Il sogno è un contatto fatto con l’anima; la realtà (della percezione oggettiva) è un contatto con il corpo. I pensieri diurni e i sogni notturni sono tutti solo delle impressioni [mentali]. Perciò coloro che hanno l’anima stabile, pensano e sognano poco e attribuiscono poca importanza ai loro pensieri e sogni. Sanno che il pensiero e il sogno non hanno la realtà che sembrano avere, ma sono dei riflessi della fantasmagoria cosmica. Gli antichi saggi pensavano ben poco quando erano in veglia e non sognavano affatto quando dormivano; e nemmeno parlavano dei loro pensieri e dei loro sogni, perchè essi consideravano assai poco sia gli uni sia gli altri. (Lie-tzeu 3.C, p. 88)La vita non sarà forse un sogno? Alcuni, richiamati alla veglia da un sogno piacevole, se ne dispiacciono. Altri, liberati da un sogno triste con il risveglio, se ne rallegrano. Gli uni e gli altri hanno creduto alla realtà del sogno mentre sognavano. Al risveglio si sono detti che era solo un vano sogno. Questo accade anche al grande risveglio, la morte, dopo la quale si dice che la vita non è stata altro che un lungo sogno. Ma tra i vivi pochi lo capiscono. Quasi tutti credono di essere davvero svegli. Davvero alcuni si credono dei Re, altri dei servi. Tutti noi sognamo, voi e io. Io che vi dico che sognate, sogno anch’io il mio sogno. (Tchoang-tzeu, 2.H, p. 162)Per lui [il saggio] lo stato della vita e della morte sono la stessa cosa. Fra questi stati egli non distingue alcuna anteriorità o posteriorità, poichè li ritiene anelli d’un catena infinita. Crede che gli esseri subiscano fatalmente trasformazioni successive, che si devono sopportare in pace, senza preoccuparsene. Immerso nella corrente di queste trasformazioni, l’essere non ha che una confusa conoscenza di ciò che gli capita. Tutta la vita è come un sogno. Tu e io, che stiamo discutendo, siamo due sognatori non risvegliati. [...] Nessuno sa esattamente per quale ragione è lui né la natura intima di questo “io”. (Tchoang-tzeu, 6.H, p. 184)

Dal sito Veda Vyāsa Maṇḍala: www.vedavyasamandala.com



[1] Perfino i vedāntin dualisti, come i dvaitin di Madhva, i viśiṣtādvaitin di Rāmānuja, che pure seguono gli insegnamenti upaniṣadici e conoscono la dottrina della Māṇḍūkya Upaniṣad sui quattro pāda di Ātman, trascurano il metodo dell’avasthātraya mīmāṃsā, basando la loro ricerca sulla sola esperienza di veglia. Per queste scuole vedāntiche l’avasthātraya rappresenta soltanto una dottrina che spiega la pervadenza di Brahman nell’intera manifestazione universale. Essi poggiano il loro insegnamento, oltre che sui testi vedāntici, su metodi pratici (prakriyā) dell’azione corporea, parlata o meditata. Alcuni advaitin post-śaṃkariani, anche storicamente celebri, i quali in tutta evidenza non avevano raggiunto la meta sperata per mezzo dell’avasthātraya mīmāṃsā, hanno ripiegato su questi metodi caratteristici delle vie a tappe della conoscenza del non-Supremo (aparavidyā mārga). L’affermazione secondo cui dopo śrāvaṇa, manana e nididhyāsana si debba far ricorso a mantra o upāsanā per raggiungere il mokṣa rappresenta una vera e propria deviazione dal puro Advaita Vedānta.
[2] L’Upaniṣad gli attribuisce il nome di Viśvānara (nella sua forma aggettivale Vaiśvāvara) l’Uomo universale. Tuttavia, per la precisione, considerate le condizioni ridotte di questo grado d’esistenza, la sua universalità in realtà si limita alla modalità grossolana (adhibhūta). L’uomo per essere universale nella sua completezza deve anche estendersi al livello sottile del macrocosmo (adhidaiva), associandosi (o aggregandosi) così a Hiraṇyagarbha.
[3] Possono anche essere forme di oggetti percepiti in stato di veglia di una o più nascite precedenti.
[4]Alcune precisazioni sul metodo dell’Advaita II”, https://www.vedavyasamandala.com/alcune-precisazioni-sul-metodo-dell-2
[5] MU 5. Vale a dire che l’avverbio “dove” non vuole indicare una collocazione spaziale.
[6] Come fa anche il Vaiśeṣika, mentre il Sāṃkhya procede dal generale al particolare.
[7] Un caso applicato di questo rapporto parte-genere è quello che intercorre tra un singolo individuo specifico (jāta) e la specie (jāti) d’appartenenza.
[8] È sufficiente questa breve definizione per comprendere che l’universale è l’“universo mondo” inteso sinteticamente come un tutt’uno e non come la sommatoria degli oggetti ed esseri che contiene. Quando qui si parla dell’“uomo universale” (Viśvānara), si vuole intendere colui che ha esteso tutte le sue componenti corporee (bhūta) all’intero mondo della veglia rappresentato da Virāṭ, il principio della manifestazione grossolana. Oppure colui che ha esteso tutte le sue componenti corporee e sottili all’intero mondo rappresentato da Hiraṇyagarbha, principio della manifestazione sottile e grossolana. Vale a dire l’integrazione della completa individualità a partire dal corpo . Naturalmente nel primo caso non si tratta d’una universalizzazione compiuta, poiché ancora corrisponde al generale esteso solo alla modalità grossolana. Poiché si è detto che l’universale è il mondo preso come un tutto, si comprenderà che l’Uomo universale non può essere che un tutt’uno con il mondo. Perciò per il Vedānta l’unico universale è il mondo. Il che non vuol affatto dire che sia l’Assoluto, come troppo spesso qualcuno erroneamente suppone, poiché l’Assoluto è la realtà metafisica, mentre l’universale è manifestato. Così l’Uomo universale, per quanto elevata sia la sua realizzazione, non è affatto il Liberato dal saṃsāra, com’è dimostrato dal fatto che ritorna a manifestarsi foss’anche per svolgere una “missione” (dautya). Appare evidente per quale ragione il problema degli “universali” che per due millenni ha tanto preoccupato la filosofia e teologia occidentale, in India non si pone neppure. Infatti questi “universali” dell’Occidente sono soltanto sottocategorie corrispondenti ai generi che, com’è evidente, non sono né reali né eterni in quanto se esistono nella veglia non esistono nel sogno e viceversa (cioè sono satasat); né tanto meno sono pure astrazioni speculative, come è stato sostenuto con pochezza intellettuale dai “nominalisti”.
[9] Talvolta la coscienza individuale è considerata una parte e la Coscienza (Caitanya) il generale nella sua estensione massima, cioè l’universale. Ma questa concezione è errata perché la Coscienza è l’assoluto. La relazione particolare-generale è possibile all’interno della sola visione empirica (vyāvahārika dṛṣṭi), ma è impossibile tra una realtà empirica (vyāvahārika sattā) e l’Assoluto (pāramārtika sattā).
[10] Come si è già detto, la relazione tra particolare e generale è possibile in una realtà empirica, mentre è impossibile tra relativo e Assoluto.
[11] Le due nozioni sono il “loto” e “blu”. Il primo, il “loto”, rappresenta la nozione principale ossia l’oggetto esistente che fa da supporto all’altra nozione, il “blu”, che è la nozione secondaria, cioè una caratteristica variabile attribuita al loto. Gli altri esempi, in cui l’esistenza stessa è la nozione principale, presentano una anomalia nella loro formulazione: in essi, “vaso” ed “elefante” ecc. compaiono come se fossero la nozione principale e l’ “esistenza” quella secondaria e aggettivale. Questa anomalia comune in tutte le lingue, dovrebbe essere corretta come segue: l’esistenza “vasale”, l’esistenza “elefantina” ecc. Ciò accade perché tutte le lingue, comprese quelle sacre, possono esprimere solamente realtà vyāvahārika.
[12] In questi due casi si tratta sempre della coscienza individuale, anche se presa nella sua estensione massima nell’universale. Perché anche a livello di Hiraṇyagarbha, i legami con l’individualità non sono per nulla ancora interrotti.
[13] Grāha (che afferra) significa soggetto.
[14] Non deducibile in quanto privo di caratteristiche (lakṣana) sulle quali basare un processo deduttivo.
[15] Che non può essere immaginato, pensato e meditato (cintya) in alcun modo.
[16] Impossibile da definire a parole (pada).
[17] Sāra significa essenza eterna, punto fisso indiscutibile, certezza incrollabile. Corrisponde all’idea di “pramāṇa supremo”.
[18] Ātma pratyaya: la certezza di esistere e di essere cosciente.
[19] Upaśama letteralmente significa pacificato. Prapañcopaśama: pacificato, avendo superato le preoccupazioni del mondo
[20] In questo caso si suol dire che il sādhaka è diventato un upāsaka. Altrimenti il perfezionamento dell’individuo consentirà la sua universalizzazione postuma a conclusione del devayāna.
[21] Nell’Advaita Vedānta questa fase di purificazione mentale non è raggiunta passando in modo dettagliato attraverso l’uso preliminare di rituali compiuti con il corpo e la parola, ma in una forma sintetica tramite śrāvaṇa-manana-nididhyāsana. La purificazione della mente corrisponde a ciò che altrove è definito “perfezionamento dello stato individuale”. Nelle vie della conoscenza non-suprema il raggiungimento di questo stato può anche essere corredato da poteri straordinari e da fenomeni di ringiovanimento e correzione di difetti corporei, cose largamente evitate nel Vedānta.
[22] Non si può dire “identificato”, in quanto si trova ancora nella manifestazione sottoposta alla dualità, perciò in questo stato si mantiene una certa sottile distinzione (viśiṣṭa).
[23] L. Wieger, Les pères du système taoïste, Paris, Les Belles Lettres, 1950.

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