L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
4. Purusha e Prakriti
Dobbiamo ora considerare Purusha, non più in se stesso, ma in rapporto alla manifestazione; questo ci consentirà di capire meglio in seguito come esso possa essere visto sotto diversi aspetti, pur essendo in realtà uno solo.
Diremo dunque che Purusha, affinché la manifestazione si produca, deve entrare in correlazione con un altro principio, sebbene una tale correlazione sia inesistente per ciò che concerne il suo aspetto più elevato (uttama), e non vi sia in realtà proprio nessun altro principio, se non in senso relativo, al di fuori del Principio Supremo; ma, quando si tratta della manifestazione, anche principialmente, già siamo nell’ambito della relatività. Il correlativo di Purusha è allora Prakriti, la sostanza primordiale indifferenziata, il principio passivo, rappresentato come femminile, mentre Purusha, chiamato anche Pumas, è il principio attivo, rappresentato come maschile; e, pur rimanendo immanifesti in se stessi, sono tuttavia i due poli della manifestazione. L’unione di questi due principi complementari produce lo sviluppo integrale dello stato individuale umano, e ciò relativamente a ogni individuo; lo stesso vale per tutti gli stati manifestati dell’essere diversi da quello umano, poiché, se dobbiamo studiare più specialmente questo stato, è bene però non dimenticare mai che è solo uno stato fra gli altri, e che Purusha e Prakriti ci appaiono risultare in qualche modo da una polarizzazione dell’essere principiale non fino al limite della sola individualità umana, bensì fino al limite della totalità degli stati manifestati, in molteplicità indefinita.
Se, invece di considerare isolatamente ogni individuo, esaminiamo l’ambito complessivo formato da un grado determinato dell’Esistenza, quale ad esempio l’ambito individuale dove si dispiega lo stato umano, o qualsiasi altro ambito analogo dell’esistenza manifestata, parimenti definito da un certo insieme di condizioni particolari e limitative, Purusha, per tale ambito (comprendente tutti gli esseri che vi sviluppano le loro possibilità di manifestazione corrispondenti, tanto successivamente quanto simultaneamente), è assimilato a Prajâpati, il «Signore degli esseri prodotti», espressione di Brahma stesso concepito come Volontà Divina e Ordinatore Supremo.[1] Questa Volontà si manifesta più specialmente, in ciascun particolare ciclo di esistenza, come il Manu di quel ciclo, che gli dà la sua Legge (Dharma); infatti Manu, come abbiamo già spiegato altrove, non deve in alcun modo essere considerato un personaggio storico né un «mito», bensì un principio, che è propriamente l’Intelligenza cosmica, immagine riflessa di Brahma (e in realtà una cosa sola con Lui) che si esprime come Legislatore primordiale e universale.[2] Come Manu è il prototipo dell’uomo (mânava), così la coppia Purusha-Prakriti, rispetto a un determinato stato dell’essere, può venire considerata equivalente, nell’ambito di esistenza che corrisponde a quello stato, a ciò che l’esoterismo islamico chiama l’«Uomo Universale» (El-Insânul-kâmil),[3] concezione che d’altronde può essere poi estesa a tutto l’insieme degli stati manifestati, e che allora stabilisce l’analogia costitutiva fra la manifestazione universale e la sua modalità individuale umana,[4] o, per usare il linguaggio di certe scuole occidentali, fra il «macrocosmo» e il «microcosmo».[5]
A questo punto, è indispensabile osservare che la concezione della coppia Purusha-Prakriti non ha alcuna relazione con una qualsiasi concezione «dualista», e che, in particolare, è totalmente differente dal dualismo «spirito-materia» della filosofia occidentale moderna, la cui origine è in realtà imputabile al cartesianismo. Non si può considerare Purusha come corrispondente alla nozione filosofica di «spirito», come abbiamo già accennato a proposito della designazione di Âtmâ come «Spirito Universale», che è accettabile solo a patto che venga intesa in un senso del tutto diverso; e, malgrado le asserzioni di numerosi orientalisti, Prakriti corrisponde ancora meno alla nozione di «materia», la quale d’altronde è completamente estranea al pensiero indù, a tal punto che in sanscrito non esiste alcuna parola che la possa esprimere, neanche approssimativamente, il che dimostra che tale nozione non è veramente fondamentale. Del resto, è assai probabile che gli stessi Greci non avessero la nozione di materia quale è intesa dai moderni, sia filosofi che fisici; in ogni caso, il senso della parola ΰλη in Aristotele coincide con quello di «sostanza» in tutta la sua universalità, e εϊδος, (che la parola «forma» rende piuttosto male, per gli equivoci cui può troppo facilmente dar luogo) corrisponde non meno esattamente all’«essenza», considerata come correlativa della «sostanza». Infatti, le parole «essenza» e «sostanza», prese nella loro accezione più ampia, sono forse, nelle lingue occidentali, quelle che meglio fanno capire la concezione di cui stiamo parlando, concezione d’ordine molto più universale di quella di «spirito» e «materia», e di cui quest’ultima non rappresenta tutt’al più che un aspetto particolarissimo, una specificazione in rapporto a un determinato stato d’esistenza, fuori del quale cessa interamente d’essere valida, invece di essere applicabile alla totalità della manifestazione universale, come è il caso della concezione di «essenza» e di «sostanza». È inoltre necessario aggiungere che la distinzione fra queste ultime, pur fondamentale rispetto a ogni altra, non per questo è meno relativa: essa è la prima fra tutte le dualità, quella da cui derivano tutte le altre direttamente o indirettamente, e da dove propriamente ha inizio la molteplicità; ma in questa dualità non bisogna vedere l’espressione di una irriducibilità assoluta che certamente non può esserci: è l’Essere Universale che, relativamente alla manifestazione di cui è il principio, si polarizza in «essenza» e in «sostanza», senza peraltro che la sua intima unità ne sia in alcun modo alterata. Ricorderemo a questo proposito che il Vêdânta, appunto perché puramente metafisico, è essenzialmente la «dottrina della non-dualità» (adwaita-vâda);[6] se il Sânkhya è potuto apparire «dualista» a chi non l’ha capito, ciò dipende dal suo punto di vista che si ferma alla considerazione della prima dualità, ciò che però non gli impedisce affatto di ammettere come possibile tutto ciò che l’oltrepassa, contrariamente alle concezioni sistematiche, prerogativa dei filosofi.
Dobbiamo precisare ancora che cosa sia Prakriti, il primo dei venticinque principi (tattwa) enumerati nel Sânkhya; ma abbiamo dovuto prendere in esame Purusha prima di Prakriti, essendo inammissibile che il principio plastico o sostanziale (nel significato strettamente etimologico della parola, che esprime il «substratum universale», vale a dire il supporto di tutta la manifestazione)[7] sia dotato di «spontaneità», dato che è puramente potenziale e passivo, atto a ricevere qualunque determinazione, senza possederne però attualmente alcuna. Prakriti non può dunque essere veramente causa di per se stessa (alludiamo alla «causalità efficiente»), al di fuori dell’azione, o meglio dell’influenza del principio essenziale, Purusha, il quale è, potremmo dire, il «determinante» della manifestazione; tutte le cose manifestate sono prodotte da Prakriti, di cui sono determinazioni o modificazioni, ma senza la presenza di Purusha queste produzioni sarebbero sprovviste di ogni realtà. L’opinione secondo cui Prakriti sarebbe sufficiente a se stessa come principio della manifestazione potrebbe essere ricavata soltanto da una concezione completamente errata del Sânkhya derivante semplicemente dal fatto che, in questa dottrina, ciò che è chiamato «produzione» è sempre considerato esclusivamente sotto l’aspetto «sostanziale», e forse anche dal fatto che Purusha vi è enumerato soltanto quale venticinquesimo tattwa, peraltro interamente indipendente dagli altri, i quali comprendono Prakriti e tutte le sue modificazioni; un’opinione del genere sarebbe del resto formalmente contraria all’insegnamento del Vêda.
Mûla-Prakriti è la «Natura primordiale» (chiamata in arabo El-Fitrah), radice di tutte le manifestazioni (mûla significa infatti «radice»); essa è chiamata anche Pradhâna, vale a dire «ciò che è posto prima d’ogni cosa», contenendo in potenza tutte le determinazioni; secondo i Purâna è identica a Mâyâ, concepita come «madre delle forme». È indifferenziata (avyakta) e «indistinguibile», non essendo né composta di parti né dotata di qualità, può essere soltanto inferita dai suoi effetti, poiché non la si può percepire in se stessa, ed è produttiva senza essere essa stessa produzione. «Essendo radice, è senza radice, poiché non sarebbe radice, se essa stessa avesse una radice».[8] «Prakriti, radice di tutto, non è una produzione. Sette principi, il grande (Mahat, che è il principio intellettuale o Buddhi) e gli altri (ahankâra o la coscienza individuale, che genera la nozione dell’“io”, e i cinque tanmâtra o determinazioni essenziali delle cose), sono insieme produzioni (di Prakriti) e produttivi (rispetto ai seguenti). Sedici (gli undici indriya o facoltà di sensazione e di azione, ivi compreso il manas o “mentale”, e i cinque bhûta o elementi sostanziali e sensibili) sono produzioni (improduttive). Purusha non è né produzione, né produttivo (in se stesso)»,[9] quantunque sia la sua azione, o meglio la sua attività «non-agente», secondo un’espressione che prendiamo in prestito dalla tradizione estremo-orientale, a determinare essenzialmente tutto ciò che è produzione sostanziale in Prakriti.[10]
Aggiungeremo, per completare queste nozioni, che Prakriti, pur essendo necessariamente una sola nella sua «indistinzione», contiene in sé una triplicità che, attualizzandosi sotto l’influsso «ordinatore» di Purusha, produce le sue molteplici determinazioni. Infatti possiede tre guna o qualità costitutive, che sono in perfetto equilibrio nella sua indifferenziazione primordiale; ogni manifestazione o modificazione della sostanza rappresenta una rottura di questo equilibrio, e gli esseri, nei loro differenti stati di manifestazione, partecipano dei tre guna in gradi diversi e, per così dire, secondo proporzioni indefinitamente varie. Questi guna non sono dunque degli stati, ma condizioni dell’Esistenza universale, alle quali sono sottomessi tutti gli esseri manifestati, e che occorre aver cura di distinguere dalle condizioni particolari che determinano e definiscono questo o quello stato o modo della manifestazione. I tre guna sono: sattwa, la conformità all’essenza pura dell’Essere (Sat), che è identificata con la Luce intelligibile o con la Conoscenza, ed è rappresentata come una tendenza ascendente; rajas, l’impulso espansivo, in base al quale l’essere si sviluppa in un certo stato e, in qualche modo, a un livello determinato dell’esistenza; infine tamas, l’oscurità, assimilata all’ignoranza, e rappresentata come una tendenza discendente. Ci limiteremo per ora a queste definizioni, che abbiamo già accennate altrove; non è questo il luogo per esporre più completamente queste considerazioni, che esulano un poco dal nostro tema, né è il luogo per parlare delle applicazioni diverse alle quali esse danno luogo, specialmente per ciò che concerne la teoria cosmologica degli elementi; questi sviluppi troveranno migliore collocazione in altri studi.
[1] Praiâpati è anche Vishwakarma, il «principio costruttivo universale»; il suo nome e la sua funzione sono suscettibili d’altronde di applicazioni molteplici e più o meno specializzate, secondo che siano o meno collegati alla considerazione di questo o quel ciclo o stato determinato.
[2] È interessante notare che anche in altre tradizioni il Legislatore primordiale è designato con nomi la cui radice è la stessa di quella del Manu indù: tali sono, in particolare, il Menes o Mina degli Egizi, il Minos dei Greci e il Menw dei Celti; è dunque un errore considerare questi nomi come nomi di personaggi storici.
[3] È l’Adam Qadmon della Qabbalah ebraica; è anche il «Re» (Wang) della tradizione estremo-orientale (Tao-te-king, XXV).
[4] Ricordiamo che l’istituzione delle caste si fonda essenzialmente su questa analogia. Sul ruolo di Purusha considerato dal punto di vista qui accennato, si veda in particolare il Purusha-Sûkta del Rig-Vêda, X, 90. Vishwakarma, aspetto o funzione dell’«Uomo Universale», corrisponde al «Grande Architetto dell’Universo» delle iniziazioni occidentali.
[5] Questi termini appartengono propriamente all’Ermetismo e riteniamo di non doverci preoccupare dell’uso più o meno abusivo che di essi è stato fatto da parte degli pseudo-esoteristi contemporanei.
[6] Abbiamo spiegato, nell’Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, che questo «non-dualismo» non va confuso con il «monismo», che, qualunque forma prenda, è, come il «dualismo», di ordine semplicemente filosofico e non metafisico; esso non ha nulla in comune neppure con il «panteismo» ed è tanto meno assimilabile ad esso in quanto quest’ultima denominazione, quando è usata in un senso ragionevole, implica sempre un certo «naturalismo» propriamente antimetafisico.
[7] Aggiungiamo, per evitare ogni possibile errore di interpretazione, che il senso da noi attribuito alla parola «sostanza» non è affatto quello in cui questo termine è stato usato da Spinoza, in quanto per un effetto della confusione «panteista» egli se ne serve per designare l’Essere Universale stesso, almeno nella misura in cui è capace di concepirlo; in realtà, l’Essere Universale è di là dalla distinzione di Purusha e Prakriti, che si unificano in esso come loro principio comune.
[8] Sânkhya-Sûtra, 1° Adhyâya, sûtra 67.
[9] Sânkhya-Kârikâ, shloka 3.
[10] Colebrooke (Essais sur la Philosophie des Hindous, tradotti in francese da G. Pauthier, 1er Essai) ha segnalato con ragione la notevole concordanza che esiste fra l’ultimo passo citato e i seguenti, tratti dal De divisione naturae di Scoto Erigena: «La divisione della Natura mi sembra doversi stabilire secondo quattro differenti specie, di cui la prima è ciò che crea e non è creato; la seconda, ciò che è creato e a sua volta crea; la terza, ciò che è creato e non crea; e la quarta, infine, ciò che non è creato e nemmeno crea» (Libro primo). «Ma la prima specie e la quarta (assimilabili rispettivamente a Prakriti e a Purusha) coincidono (si confondono, o meglio, si uniscono) nella Natura Divina, poiché questa può esser detta creatrice e increata, quale è in se stessa, ma anche né creatrice né creata, poiché, essendo infinita, nulla può produrre che le sia esteriore, né vi è possibilità alcuna che essa non sia in sé e per Sé» (Libro terzo). Si noterà tuttavia la sostituzione dell’idea di «creazione» a quella di «produzione»; d’altra parte, l’espressione «Natura Divina» non è perfettamente adeguata, poiché ciò che designa è propriamente l’Essere Universale: in realtà, è Prakriti la natura primordiale, e Purusha, essenzialmente immutabile, è al di fuori della Natura, il cui nome stesso esprime un’idea di «divenire».
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