"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 25 ottobre 2018

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 3. Il centro vitale dell’essere umano, dimora di Brahma

René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

3. Il centro vitale dell’essere umano, dimora di Brahma

Il «Sé», come abbiamo visto in ciò che precede, non dev’essere distinto da Âtmâ; e, d’altra parte, Âtmâ è identificato con Brahma stesso: possiamo chiamare ciò l’«Identità Suprema», con un’espressione presa in prestito dall’esoterismo islamico, la cui dottrina, su questo e su molti altri punti, e malgrado le grandi differenze di forma, è in fondo la stessa di quella della tradizione indù.

La realizzazione di questa identità si opera per mezzo dello Yoga, vale a dire con l’unione intima ed essenziale dell’essere con il Principio Divino o, se si preferisce, con l’Universale; il senso proprio della parola Yoga è infatti «unione» e non altro,[1] malgrado le molteplici interpretazioni, una più fantasiosa dell’altra, proposte dagli orientalisti e dai teosofisti. È necessario notare che questa realizzazione non dev’essere considerata propriamente come una «effettuazione», o come «la produzione di un risultato non preesistente», secondo l’espressione di Shankarâchârya, poiché l’unione di cui si tratta, anche se non realizzata attualmente nel senso in cui noi qui la intendiamo, esiste pur sempre potenzialmente, o meglio, virtualmente; si tratta dunque soltanto, per l’essere individuale (poiché non si può parlare di «realizzazione» che in rapporto all’individuo), di prendere effettivamente coscienza di ciò che è realmente e fin dall’eternità.
Perciò si dice che Brahma risiede nel centro vitale dell’essere umano, e questo vale per qualsiasi essere umano, non soltanto per colui che è attualmente «unito» o «liberato», due parole che esprimono in fondo la stessa cosa vista sotto due aspetti differenti, la prima in rapporto al Principio, la seconda in rapporto alla manifestazione o all’esistenza condizionata. Si ritiene che questo centro vitale corrisponda analogicamente al ventricolo più piccolo (guhâ) del cuore (hridaya), che però non dev’essere confuso con il cuore nel senso ordinario della parola, ossia con l’organo fisiologico che ha appunto questo nome, poiché in realtà è il centro, non soltanto dell’individualità corporea, ma dell’individualità integrale, suscettibile d’una estensione indefinita nel suo ambito (che del resto è soltanto un grado dell’Esistenza), e della quale la modalità corporea non costituisce che una parte, anzi, una parte molto limitata, come già abbiamo visto.
Il cuore è considerato il centro della vita, e in effetti lo è, dal punto di vista fisiologico, rispetto alla circolazione del sangue, al quale la vitalità stessa è essenzialmente legata in modo particolarissimo, come tutte le tradizioni concordemente riconoscono; ma è inoltre considerato tale in un ordine superiore, e in qualche modo simbolicamente, rispetto all’Intelligenza universale (nel significato della parola araba El-Aql) nelle sue relazioni con l’individuo. A questo proposito è opportuno osservare che gli stessi Greci, e Aristotele fra gli altri, attribuivano al cuore la medesima funzione, e ne facevano inoltre la sede dell’intelligenza, se ci è consentito questo modo d’esprimerci, e non del sentimento, come sono soliti fare i moderni; il cervello, infatti, non è veramente che lo strumento del «mentale», vale a dire del pensiero discorsivo e riflessivo; così, secondo un simbolismo a cui abbiamo già accennato in precedenza, il cuore corrisponde al sole e il cervello alla luna. È ovvio, d’altronde, che, quando si designa il cuore come centro dell’individualità integrale, occorre fare ben attenzione a non considerare quella che è soltanto un’analogia come un’assimilazione, ed anche al fatto che si tratta solo di una corrispondenza, del resto per nulla arbitraria, ma perfettamente fondata, quantunque i nostri contemporanei siano per abitudine portati a disconoscerne le ragioni profonde.
«In questa dimora di Brahma (Brahma-pura)», vale a dire nel centro vitale di cui abbiamo parlato, «vi è un piccolo loto, una dimora nella quale c’è una piccola cavità (dahara), occupata dall’Etere (Âkâsha); si deve cercare Ciò che risiede in questo luogo, e Lo si conoscerà».[2] In questo centro dell’individualità, infatti, non risiede soltanto l’elemento etereo, principio degli altri quattro elementi sensibili, come potrebbe credere chi si arrestasse al significato più esteriore, cioè a quello che riguarda unicamente il mondo corporeo. Questo elemento svolge sì la funzione di principio nel mondo corporeo, ma in un senso tutto relativo, così come questo stesso mondo è eminentemente relativo, ed è proprio questo senso che bisogna trasporre analogicamente. D’altronde l’Etere è menzionato qui solo come «supporto» per tale trasposizione, e la stessa conclusione del testo lo suggerisce esplicitamente, poiché, se non si trattasse in realtà di altra cosa, evidentemente non vi sarebbe niente da cercare; aggiungeremo che il loto e la cavità di cui si parla devono essere anche considerati simbolicamente, perché una «localizzazione» di questo genere non va certo intesa alla lettera, dal momento che, superato il punto di vista dell’individualità corporea, le altre modalità non sono più sottomesse alla condizione spaziale.
Ciò di cui veramente si tratta non è neppure soltanto l’«anima vivente» (jîvâtmâ), ossia la manifestazione particolare del «Sé» nella vita (jîva), dunque nell’individuo umano, considerato più particolarmente sotto l’aspetto vitale, che esprime una delle condizioni d’esistenza le quali propriamente definiscono il suo stato, e che, d’altronde, si riferisce a tutto l’insieme delle sue modalità. Infatti, metafisicamente, tale manifestazione non dev’essere considerata separatamente dal suo principio, che è il «Sé»; e se questo appare come jîva nell’ambito dell’esistenza individuale, dunque in modo illusorio, esso è però Âtmâ nella realtà suprema. «Questo Âtmâ che sta nel cuore è più piccolo di un chicco di riso, più piccolo di un chicco d’orzo, più piccolo di un chicco di senape, più piccolo di un chicco di miglio, più piccolo del germe racchiuso in un chicco di miglio; questo Âtmâ che sta nel cuore è anche più grande della terra (il dominio della manifestazione grossolana), più grande dell’atmosfera (il dominio della manifestazione sottile), più grande del cielo (il dominio della manifestazione informale), più grande di tutti questi mondi messi insieme (vale a dire è al di là di ogni manifestazione, essendo l’incondizionato)».[3] Il fatto è che, poiché l’analogia va applicata, secondo quanto già abbiamo spiegato, in senso inverso – allo stesso modo in cui l’immagine di un oggetto in uno specchio è invertita rispetto all’oggetto –, quello che è il primo o il più grande nell’ordine principiale è, per lo meno apparentemente, l’ultimo o il più piccolo nell’ordine della manifestazione.[4] Per rendere la cosa più chiara, prenderemo dei termini di paragone nel campo della matematica: il punto geometrico è nullo quantitativamente, né occupa spazio, benché sia il principio da cui è prodotto tutto lo spazio, che è lo sviluppo delle sue virtualità;[5] allo stesso modo l’unità aritmetica è il più piccolo dei numeri se la si considera all’interno della loro molteplicità, ma in linea di principio è il più grande, poiché li contiene tutti virtualmente e ne produce l’intera serie con la sola ripetizione indefinita di se stessa. Il «Sé» è solo potenzialmente nell’individuo, finché l’«Unione» non è realizzata,[6] perciò è paragonabile a un seme o a un germe; ma l’individuo e l’intera manifestazione esistono soltanto per esso e hanno realtà solo perché partecipano della sua essenza, mentre esso oltrepassa immensamente l’intera manifestazione, essendo il Principio unico di tutte le cose.
Se diciamo che il «Sé» è potenzialmente nell’individuo e che l’«Unione» esiste solo virtualmente prima della realizzazione, evidentemente ciò è da intendersi soltanto dal punto di vista dell’individuo stesso. Infatti il «Sé» non è soggetto ad alcuna contingenza, perché è essenzialmente incondizionato; è immutabile nella sua «permanente attualità», e così non può avere in sé alcunché di potenziale. Occorre quindi aver cura nel distinguere «potenzialità» e «possibilità»: la prima indica la capacità di avere un certo sviluppo, presuppone una possibile «attualizzazione», e può dunque applicarsi solamente al «divenire» o alla manifestazione; le possibilità, invece, considerate nello stato principiale e non-manifestato, che esclude ogni «divenire», non possono in alcun modo essere viste come potenziali. All’individuo, però, tutte le possibilità che lo oltrepassano appaiono potenziali, perché, nella misura in cui egli considera se stesso in modo «separativo», come se avesse da sé il proprio essere, ciò che può raggiungere è propriamente soltanto un riflesso (âbhâsa), e non queste possibilità stesse; benché ciò sia soltanto un’illusione, possiamo comunque affermare che queste possibilità restano sempre potenziali per l’individuo, poiché egli non può raggiungerle in quanto individuo e, non appena esse sono realizzate, non esiste invero più alcuna individualità, come spiegheremo più compiutamente quando dovremo parlare della «Liberazione». Ma qui dobbiamo porci al di là del punto di vista individuale, al quale, pur considerandolo illusorio, nondimeno riconosciamo quella realtà che può assumere nel suo ordine; anche quando consideriamo l’individuo, ciò è possibile solo in quanto l’individuo dipende essenzialmente dal Principio, unico fondamento di questa realtà, e in quanto si integra, virtualmente o effettivamente, con l’essere totale; metafisicamente, tutto deve essere in definitiva ricollegato al Principio, che è il «Sé».
Così, dal punto di vista fisico, ciò che risiede nel centro vitale è l’Etere; dal punto di vista psichico, è l’«anima vivente», e fin qui non oltrepassiamo il dominio delle possibilità individuali; ma ciò che risiede nel centro vitale è anche e soprattutto, dal punto di vista metafisico, il «Sé» principiale e incondizionato. È dunque proprio lo «Spirito Universale» (Âtmâ) a essere, in realtà, lo stesso Brahma, il «Supremo Ordinatore»; e così è pienamente giustificata la designazione di questo centro come Brahma-pura. Ora Brahma, concepito in tale maniera nell’uomo (e lo si potrebbe considerare in modo simile in rapporto a ogni stato dell’essere), è chiamato Purusha, perché riposa o risiede nell’individualità (si tratta, ripetiamolo ancora, dell’individualità integrale, non semplicemente dell’individualità limitata alla sua modalità corporea) come in una città (puri-shaya), perché pura, nel senso proprio e letterale, significa «città».[7]
Nel centro vitale, residenza di Purusha, «non brilla il sole, né la luna, né le stelle, né i lampi; meno ancora questo fuoco visibile (l’elemento igneo sensibile, o Têjas, la cui qualità propria è la visibilità). Tutto brilla in seguito all’irraggiamento di Purusha (riflettendo la sua luce); e questo tutto (l’individualità integrale, considerata come “microcosmo”) è illuminato dal suo splendore».[8] Parimenti si legge nella Bhagavad-Gîtâ:[9] «Bisogna cercare il luogo (simboleggiante uno stato) da cui non c’è ritorno (alla manifestazione), e rifugiarsi nel Purusha primordiale donde è venuto l’impulso originario (della manifestazione universale)... Quel luogo, né il sole, né la luna, né il fuoco lo rischiarano; quella è la mia suprema dimora».[10] Purusha è rappresentato come una luce (jyotis), perché la luce simboleggia la Conoscenza, ed esso è la fonte di ogni altra luce, che in fondo è soltanto il suo riflesso, perché ogni conoscenza relativa non può esistere che per partecipazione, sia pure indiretta e lontana, all’essenza della Conoscenza suprema. Nella luce di questa Conoscenza, tutte le cose sono in perfetta simultaneità, poiché, principialmente, non può esservi che un «eterno presente», l’immutabilità escludendo ogni successione; i rapporti fra possibilità che, in Sé, sono eternamente contenute nel Principio non appaiono in modo successivo (il che non significa necessariamente in modo temporale) che nell’ordine del manifestato. «Questo Purusha, della grandezza di un pollice (angushtha-mâtra, espressione che non va intesa letteralmente come dimensione spaziale, ma che si riferisce alla stessa idea a cui allude il paragone con il seme),[11] è di una luminosità chiara come un fuoco senza fumo (senza alcuna mescolanza di oscurità o d’ignoranza); è il signore del passato e del futuro (essendo eterno, dunque onnipresente, per cui contiene attualmente tutto ciò che appare come passato e futuro rispetto a un qualunque momento della manifestazione; questo, d’altronde, può essere trasposto al di fuori di quella particolare modalità di successione che è propriamente il tempo); esso è oggi (nello stato attuale che costituisce l’individualità umana) e sarà domani (e in tutti i cicli o stati di esistenza) tale quale è (in Sé, principialmente, fin dall’eternità)».[12]



[1] La radice di questa parola si ritrova, appena alterata, nel latino jungere e nei suoi derivati.
[2] Chhândogya Upanishad, 8° Prapâthaka, 1° Khanda, shruti 1.
[3] Chhândogya Upanishad, 3° Prapâthaka, 14° Khanda, shruti 3. È impossibile non ricordare a questo proposito la parabola del Vangelo: «Il Regno dei Cieli è simile a un granello di senape che un uomo prende e semina nel suo campo; esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande di tutti gli altri legumi e diviene un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a riposarsi sui suoi rami» (Matteo, 13, 31-32). Quantunque il punto di vista sia sicuramente differente, è facile capire come la concezione del «Regno dei Cieli» possa essere trasposta metafisicamente: la crescita dell’albero è lo sviluppo delle possibilità; e perfino gli «uccelli del cielo», che allora rappresentano gli stati superiori dell’essere, ricordano un simbolismo simile usato in un altro testo delle Upanishad: «Due uccelli, compagni inseparabilmente uniti, stanno su uno stesso albero; l’uno mangia il frutto dell’albero; l’altro guarda senza mangiare» (Mundaka Upanishad, 3° Mundaka, 1° Khanda, shruti l; Shwêtâshwatara Upanishad, 4° Adhyâya, shruti 6). Il primo dei due uccelli è jîvâtmâ, impegnato nel campo dell’azione e delle sue conseguenze; il secondo è l’Âtmâ incondizionato, cioè pura Conoscenza; se sono inseparabilmente uniti, è perché il primo non è distinto dal secondo che in modo illusorio.
[4] Anche in questo caso, troviamo lo stesso concetto espresso con grande chiarezza nel Vangelo: «Gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi» (Matteo, 20, 16).
[5] Anche da un punto di vista più esteriore, quello della geometria ordinaria ed elementare, si può far osservare che, per spostamento continuo, il punto produce la linea, la linea la superficie, e quest’ultima il volume; ma, inversamente, la superficie è l’intersezione di due volumi, la linea è l’intersezione di due superfici, il punto è l’intersezione di due linee.
[6] Dei resto, è in realtà l’individuo che è nel «Sé», e l’essere ne prende effettivamente coscienza quando l’«Unione» è realizzata; ma questa presa di coscienza implica la liberazione dalle limitazioni che costituiscono l’individualità come tale, e che, più in generale, condizionano ogni manifestazione. Quando parliamo del «Sé» come in certo modo presente nell’individuo, ci poniamo dal punto di vista della manifestazione, e anche questa è un’applicazione del senso inverso.
[7] Senza dubbio questa spiegazione della parola Purusha non deve essere considerata una derivazione etimologica; essa rientra nell’ambito del Nirukta, vale a dire di una interpretazione che si basa principalmente sul valore simbolico degli elementi di cui sono composte le parole; questo metodo esplicativo, per lo più incompreso dagli orientalisti, è in un certo modo paragonabile a quello che si incontra nella Qabbalah ebraica; non era nemmeno interamente sconosciuto ai Greci, e ve ne sono esempi nel Cratilo di Platone. Quanto al significato di Purusha, facciamo notare che puru esprime un’idea di «pienezza».
[8] Katha Upanishad, 2° Adhyâya, 5a Valli, shruti 15; Mundaka Upanishad, 2° Mundaka, 2° Khanda, shruti 10; Shwêtâshwatara Upanishad, 6° Adhyâya, shruti 14.
[9] È noto che la Bhagavad-Gîtâ è un episodio del Mahâbhârata, e a questo proposito ricorderemo che gli Itihâsa, vale a dire il Râmâyana e il Mahâbhârata, dato che fanno parte della Smriti, sono tutt’altra cosa che semplici «poemi epici» nel senso «profano» in cui li intendono gli Occidentali.
[10] Bhagavad-Gîtâ, XV, 4 e 6. Occorre segnalare l’interessante somiglianza di questi testi con il seguente passo della descrizione della «Gerusalemme Celeste» nell’Apocalisse, 21, 23: «E la città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna, perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello». Da ciò si può vedere come la «Gerusalemme Celeste» non sia senza rapporti con la «città di Brahma»; per chi non ignori la relazione che unisce l’«Agnello» del simbolismo cristiano all’Agni vedico, l’accostamento è ancora più significativo. Senza poter insistere su quest’ultimo punto, diremo, per evitare ogni falsa interpretazione, che non pretendiamo affatto di stabilire una relazione etimologica fra Agnus e Ignis (l’equivalente latino di Agni); ma somiglianze fonetiche come quella esistente fra queste due parole hanno spesso una parte importante nel simbolismo; del resto, per noi, non c’è nulla di fortuito in questo, poiché tutto ciò che esiste ha la sua ragione d’essere, comprese le forme del linguaggio. Conviene ancora notare, a questo stesso riguardo, che il veicolo di Agni è un ariete.
[11] Si potrebbe anche, a questo proposito, stabilire un paragone con l’«endogenia dell’Immortale» insegnata dalla tradizione taoista, come pure con il luz o «nocciolo di immortalità» della tradizione ebraica.
[12] Katha Upanishad, 2° Adhyâya, 4a Valli, shruti 12 e 13. Nell’esoterismo islamico, la stessa idea è espressa in termini quasi identici da Mohyîddîn Ibn Arabi nel suo Trattato dell’Unità (Risâlatu-l-Ahadiyah): «Egli (Allah) è ora tale quale è stato (fin da tutta l’eternità) tutti i giorni nello stato di Creatore Sublime». La sola differenza riguarda l’idea di «creazione», propria delle dottrine tradizionali che, almeno parzialmente, si ricollegano al Giudaismo; in fondo questo non è che un modo particolare di esprimere ciò che si riferisce alla manifestazione universale e alla sua relazione con il Principio. [Una traduzione del Trattato dell’Unità è stata pubblicata nei fascicoli 7 e 8 della «Rivista di Studi Tradizionali». N.d.T.].

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