"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 17 agosto 2019

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 24. Lo stato spirituale dello Yogî: l’«Identità Suprema»

René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

24. Lo stato spirituale dello Yogî: l’«Identità Suprema»

Per ciò che concerne lo stato dello Yogî, che, con la Conoscenza, è «liberato in vita» (jîvan-mukta) e ha realizzato l’«Identità Suprema», citeremo ancora Shankarâchârya;[1] quanto egli dice al riguardo, mostrando le possibilità più alte che l’essere può raggiungere, servirà allo stesso tempo da conclusione a questo studio.

«Lo Yogî, il cui intelletto è perfetto, contempla tutte le cose come contenute in se stesso (nel proprio “Sé”, senza alcuna distinzione fra esteriore e interiore), e così, con l’occhio della Conoscenza (jnâna-chakshus, espressione che potrebbe essere resa abbastanza esattamente con “intuizione intellettuale”), egli percepisce (o meglio concepisce, non razionalmente o discorsivamente, ma mediante una presa di coscienza diretta e un “assenso” immediato) che ogni cosa è Âtmâ.
«Egli sa che tutte le cose contingenti (le forme e le altre modalità della manifestazione) non sono altro che Âtmâ (nel loro principio), e che al di fuori di Âtmâ non c’è niente, “poiché le cose differiscono semplicemente (secondo un detto del Vêda) per designazione, accidente e nome, come le terraglie ricevono diversi nomi, quantunque siano soltanto forme differenti di terra”;[2] così egli percepisce (o concepisce, nello stesso senso che sopra) di essere lui stesso tutte le cose (poiché non vi è nulla diverso da lui o dal suo “Sé”).[3]
«Quando gli accidenti (formali e d’altro genere, comprendenti tanto la manifestazione sottile quanto quella grossolana) sono soppressi (poiché esistono solamente in modo illusorio, sicché sono davvero nulla rispetto al Principio), il Muni (qui sinonimo di Yogî) entra, con tutti gli esseri (in quanto essi non sono più distinti da lui) nell’Essenza che tutto penetra (e che è Âtmâ).[4]
«Egli è senza qualità (distinte), senza azione;[5] imperituro (akshara, non soggetto alla dissoluzione, che ha presa soltanto sulla molteplicità), senza volizione (applicata a un atto definito o a circostanze determinate); pieno di Beatitudine, immutabile, senza forma; eternamente libero e puro (non potendo subire costrizione né essere raggiunto o toccato in qualsiasi modo da qualcosa che sia altro da lui, poiché quest’altro non esiste, o per lo meno non ha che un’esistenza illusoria, mentre lo Yogî è nella realtà assoluta).
«Egli è come l’Etere (Âkâsha), che è diffuso dappertutto (senza differenziazione), e che simultaneamente penetra l’interno e l’esterno delle cose;[6] è incorruttibile, imperituro; egli è lo stesso in tutte le cose (infatti nessuna modificazione intacca la sua identità), puro, impassibile, inalterabile (nella sua immutabilità essenziale).
«Egli è (secondo le parole stesse del Vêda) “il Brahma Supremo, che è eterno, puro, libero, solo (nella Sua perfezione assoluta), incessantemente pieno di Beatitudine, senza dualità, Principio (incondizionato) di ogni esistenza, conoscente (senza che questa Conoscenza implichi alcuna distinzione fra soggetto e oggetto, ciò che sarebbe contrario alla ‘non-dualità’) e senza fine”.
«Egli è Brahma, posseduto il quale non c’è più nulla da possedere; goduta la Beatitudine del quale non c’è più alcuna felicità che possa essere desiderata; ottenuta la Conoscenza del quale non c’è conoscenza che possa essere ottenuta.
«Egli è Brahma, dopo aver visto il quale (con l’occhio della Conoscenza), nessun oggetto è contemplato; essendosi identificati con il quale, nessuna modificazione (come la nascita o la morte) viene più subita; avendo percepito il quale (non però come oggetto percepibile da una facoltà qualsiasi), non c’è più nulla da percepire (poiché ogni conoscenza distintiva è allora superata e come annullata).
«Egli è Brahma, dappertutto e in tutto diffuso (poiché non c’è nulla al di fuori di Lui e tutto è necessariamente contenuto nella Sua Infinità):[7] nello spazio intermedio, in ciò che è sopra e in ciò che è sotto (vale a dire nell’insieme dei tre mondi); il vero, pieno di Beatitudine, senza dualità, indivisibile, eterno.
«Egli è Brahma, affermato nel Vêdânta come assolutamente distinto da ciò che penetra (che, invece, non è affatto distinto da Lui, o per lo meno se ne distingue solamente in modo illusorio),[8] incessantemente pieno di Beatitudine e senza dualità.
«Egli è Brahma, “da cui (secondo il Vêda) sono prodotti la vita (jîva), il senso interno (manas), le facoltà di sensazione e di azione (jnânêndriya e karmêndriya) e gli elementi (tanmâtra e bhûta) che compongono il mondo manifestato (sia nell’ordine sottile che in quello grossolano)”.
«Egli è Brahma, in cui tutte le cose sono unite (di là da ogni distinzione, anche principiale), da cui tutti gli atti dipendono (quantunque Egli stesso sia senza azione); perciò è diffuso in tutto (senza divisione, dispersione, o differenziazione di qualsiasi specie).
«Egli è Brahma, senza grandezza o dimensioni (incondizionato), senza estensione (poiché indivisibile e senza parti), senza origine (essendo eterno), incorruttibile, senza forma, senza qualità (determinate), senza qualunque attributo o carattere.
«Egli è Brahma, da cui tutte le cose sono illuminate (partecipando della Sua essenza secondo i loro gradi di realtà), la cui Luce fa brillare il sole e gli altri corpi luminosi, ma che non è reso manifesto dalla loro luce.[9]
«Egli stesso penetra la propria essenza eterna (non differente dal Brahma Supremo), e (simultaneamente) contempla il Mondo intero (manifestato e non-manifestato) (anche) come Brahma, così come il fuoco penetra intimamente una palla di ferro incandescente e (allo stesso tempo) si mostra esteriormente (manifestandosi ai sensi con la sua luce e il suo calore).
«Brahma non è affatto simile al Mondo,[10] e al di fuori di Brahma non c’è nulla (poiché, se vi fosse alcunché al di fuori di Lui, Egli non potrebbe essere infinito); ciò che sembra esistere al di fuori di Lui non può esistere (così) che in modo illusorio, come l’apparenza dell’acqua (il miraggio) nel deserto (maru).[11]
«Di tutto quello che è visto, udito (e percepito o concepito da una qualunque facoltà), niente esiste (veramente) al di fuori di Brahma; e, in virtù della Conoscenza (principiale e suprema), Brahma è contemplato come l’unico vero, pieno di Beatitudine, senza dualità.
«L’occhio della Conoscenza contempla il vero Brahma, pieno di Beatitudine, che penetra tutto; ma l’occhio dell’ignoranza non Lo scopre, non Lo scorge, come il cieco non vede la luce sensibile.
«Il “Sé”, illuminato dalla meditazione (quando una conoscenza teorica, dunque ancora indiretta, lo fa apparire come se ricevesse la Luce da una sorgente altra da sé, il che è ancora una distinzione illusoria), e poi infiammato dal fuoco della Conoscenza (che realizza la sua identità essenziale con la Luce Suprema), è liberato da tutti gli accidenti (o modificazioni contingenti) e brilla nel proprio splendore come l’oro purificato nel fuoco.[12]
«Quando il Sole della Conoscenza spirituale sorge nel cielo del cuore (vale a dire al centro dell’essere, designato come Brahma-pura), esso scaccia le tenebre (dell’ignoranza che vela l’unica realtà assoluta), penetra tutto, tutto avvolge e tutto illumina.
«Chi ha compiuto il pellegrinaggio del proprio “Sé”, un pellegrinaggio nel quale non c’è nulla che riguardi la situazione, il luogo o il tempo (né alcuna altra circostanza o condizione particolare)[13], che è dovunque[14] (e sempre, nell’immutabilità dell’“eterno presente”), nel quale non si sente né il calore, né il freddo (né alcuna impressione sensibile o anche mentale), e che procura una felicità permanente e una liberazione definitiva da ogni turbamento (o da ogni modificazione), è senza azione, conosce tutte le cose (in Brahma), e ottiene la Beatitudine Eterna».



[1] Âtma-Bodha. Riunendo diversi passi di questo trattato, non ci atterremo rigorosamente, in questi estratti, all’ordine del testo; d’altronde, in genere, la concatenazione logica delle idee non può essere esattamente la stessa in un testo sanscrito e in una traduzione in lingua occidentale, date le differenze esistenti fra certi «modi di pensare», sulle quali abbiamo insistito in altre occasioni.
[2] Si veda Chhândogya Upanishad, 6° Prapâthaka, 1° Khanda, shruti 4-6.
[3] Notiamo a questo proposito che Aristotele, nel Περί ψυχής, dichiara esplicitamente che «l’anima è tutto ciò che essa conosce»; si può scorgere in questa asserzione il segno di una convergenza abbastanza chiara, a questo riguardo, fra la dottrina aristotelica e quelle orientali, malgrado le riserve che sempre si impongono per la differenza dei punti di vista; ma questa affermazione, in Aristotele e nei suoi continuatori, sembra essere rimasta puramente teorica. Si deve dunque ammettere che le conseguenze di questa idea dell’identificazione per mezzo della Conoscenza, per quanto concerne la realizzazione metafisica, sono rimaste del tutto insospettate per gli Occidentali, a eccezione di alcune scuole propriamente iniziatiche, che non hanno alcun punto di contatto con tutto ciò che abitualmente è chiamato «filosofia».
[4] «Il Principio è sopra ogni cosa, è a tutto comune, tutto contiene e tutto penetra; l’Infinità è il suo attributo, il solo col quale si possa designarlo, poiché non ha un nome che gli sia proprio» (Tchoang-tseu, cap. XXV; trad. di Padre Wieger, p. 437).
[5] Cfr. il «non-agire» (wou-wei) della tradizione estremo-orientale.
[6] L’ubiquità è usata qui come simbolo dell’onnipresenza, nel senso con il quale abbiamo già impiegato questa parola.
[7] Ricorderemo ancora il testo taoista che abbiamo già citato più estesamente: «Non domandate se il Principio è in questo o in quello; Esso è in tutti gli esseri...» (Tchoang-tseu, cap. XXII; trad. di Padre Wieger, p. 395).
[8] Ricordiamo che questa irreciprocità nella relazione fra Brahma e il Mondo implica espressamente la condanna tanto del «panteismo» come dell’«immanentismo» in tutte le sue forme.
[9] Secondo un testo precedentemente citato, Egli è «Ciò da cui tutto è manifestato, ma che non è manifestato da nulla» (Kêna Upanishad, 1° Khanda, shruti 5-8).
[10] L’esclusione di ogni concezione panteistica è qui reiterata; in presenza di affermazioni tanto nette, non riusciamo a spiegarci certi errori di interpretazione in voga in Occidente.
[11] La parola maru, derivata dalla radice mri, «morire», designa qualunque regione arida, interamente sprovvista d’acqua, e più precisamente un deserto sabbioso, il cui aspetto uniforme può essere usato come supporto di meditazione per evocare l’idea dell’indifferenziazione principiale.
[12] Si è visto sopra che l’oro è ritenuto essere di natura luminosa.
[13] «Ogni distinzione di tempo o di luogo è illusoria; la concezione di tutti i possibili (compresi sinteticamente nella Possibilità Universale, assoluta e totale) si compie senza movimenti e fuori del tempo» (Lie-tseu, cap. III; trad. di Padre Wieger, p. 107).
[14] Allo stesso modo, nelle tradizioni esoteriche occidentali, si dice che i veri Rosacroce si riuniscono «nel Tempio dello Spirito Santo, che è dappertutto». Questi Rosacroce non hanno ovviamente niente in comune con le molteplici organizzazioni moderne che hanno assunto lo stesso nome; si dice che, poco dopo la Guerra dei trent’anni, essi lasciarono l’Europa e si ritirarono in Asia, il che si può d’altronde interpretare simbolicamente piuttosto che letteralmente.

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