René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
23. Vidêha-mukti e jîvan-mukti
La Liberazione, nell’ultimo caso di cui abbiamo parlato, è propriamente la liberazione fuori della forma corporea (vidêha-mukti), ottenuta al momento della morte in modo immediato, poiché la Conoscenza è già virtualmente perfetta prima della fine dell’esistenza terrena; deve essere dunque distinta dalla liberazione differita e graduale (krama-mukti), ma anche da quella ottenuta dallo Yogî già in questa vita (jîvan-mukti), in virtù della Conoscenza, non più soltanto virtuale e teorica, ma pienamente effettiva, tale cioè da realizzare veramente l’«Identità Suprema».
Bisogna comprendere, infatti, che il corpo, al pari di qualunque altra contingenza, non può costituire un ostacolo alla Liberazione; nulla può opporsi alla totalità assoluta, al cui confronto tutte le cose particolari sono come se non esistessero; rispetto allo scopo supremo, tutti gli stati dell’esistenza sono perfettamente equivalenti, per cui fra l’uomo vivo e l’uomo morto (intendendo tali espressioni in senso terreno) ormai non c’è più alcuna distinzione. Ecco dunque un’altra differenza essenziale fra la Liberazione e la «salvezza»: quest’ultima, secondo le religioni occidentali, non può essere effettivamente ottenuta e neanche essere sicura (vale a dire ottenuta virtualmente) prima della morte; l’azione può sempre far perdere ciò che ha fatto raggiungere; e fra certe modalità di uno stesso stato individuale può esservi incompatibilità, per lo meno accidentalmente e in condizioni particolari,[1] mentre ciò non accade quando si tratta di stati sopra-individuali, né, a maggior ragione, per lo stato incondizionato. Considerare le cose altrimenti è attribuire a un particolare modo di manifestazione un’importanza che non può avere, e che neppure l’intera manifestazione ha; solamente la prodigiosa insufficienza delle concezioni occidentali relative alla costituzione dell’essere umano può consentire una simile illusione, e soltanto essa, ancora, può far trovare sorprendente che la Liberazione possa compiersi durante la vita terrena così come in qualunque altro stato. La Liberazione o l’Unione, che sono la stessa cosa, implica «per sovrappiù», l’abbiamo già detto, il possesso di tutti gli stati, poiché è la realizzazione perfetta e la totalizzazione dell’essere; poco importa d’altronde che questi stati siano attualmente manifestati oppure no, poiché essi devono essere considerati metafisicamente soltanto come possibilità permanenti e immutabili. «Signore di molteplici stati semplicemente per effetto della sua volontà, lo Yogî non ne occupa che uno solo, lasciando gli altri vuoti del soffio animatore (prâna), come altrettanti strumenti inutilizzati; egli può animare più di una forma, come una sola lampada può alimentare più di un lucignolo».[2] «Lo Yogî» dice Aniruddha «è in connessione immediata con il principio primordiale dell’Universo, e di conseguenza (secondariamente) con tutto l’insieme dello spazio, del tempo e delle cose», vale a dire con la manifestazione, e più particolarmente con lo stato umano in tutte le sue modalità.[3]
Bisogna comprendere, infatti, che il corpo, al pari di qualunque altra contingenza, non può costituire un ostacolo alla Liberazione; nulla può opporsi alla totalità assoluta, al cui confronto tutte le cose particolari sono come se non esistessero; rispetto allo scopo supremo, tutti gli stati dell’esistenza sono perfettamente equivalenti, per cui fra l’uomo vivo e l’uomo morto (intendendo tali espressioni in senso terreno) ormai non c’è più alcuna distinzione. Ecco dunque un’altra differenza essenziale fra la Liberazione e la «salvezza»: quest’ultima, secondo le religioni occidentali, non può essere effettivamente ottenuta e neanche essere sicura (vale a dire ottenuta virtualmente) prima della morte; l’azione può sempre far perdere ciò che ha fatto raggiungere; e fra certe modalità di uno stesso stato individuale può esservi incompatibilità, per lo meno accidentalmente e in condizioni particolari,[1] mentre ciò non accade quando si tratta di stati sopra-individuali, né, a maggior ragione, per lo stato incondizionato. Considerare le cose altrimenti è attribuire a un particolare modo di manifestazione un’importanza che non può avere, e che neppure l’intera manifestazione ha; solamente la prodigiosa insufficienza delle concezioni occidentali relative alla costituzione dell’essere umano può consentire una simile illusione, e soltanto essa, ancora, può far trovare sorprendente che la Liberazione possa compiersi durante la vita terrena così come in qualunque altro stato. La Liberazione o l’Unione, che sono la stessa cosa, implica «per sovrappiù», l’abbiamo già detto, il possesso di tutti gli stati, poiché è la realizzazione perfetta e la totalizzazione dell’essere; poco importa d’altronde che questi stati siano attualmente manifestati oppure no, poiché essi devono essere considerati metafisicamente soltanto come possibilità permanenti e immutabili. «Signore di molteplici stati semplicemente per effetto della sua volontà, lo Yogî non ne occupa che uno solo, lasciando gli altri vuoti del soffio animatore (prâna), come altrettanti strumenti inutilizzati; egli può animare più di una forma, come una sola lampada può alimentare più di un lucignolo».[2] «Lo Yogî» dice Aniruddha «è in connessione immediata con il principio primordiale dell’Universo, e di conseguenza (secondariamente) con tutto l’insieme dello spazio, del tempo e delle cose», vale a dire con la manifestazione, e più particolarmente con lo stato umano in tutte le sue modalità.[3]
D’altronde, sarebbe un errore credere che la liberazione «fuori della forma» (vidêha-mukti) sia più completa di quella «durante la vita» (jîvan-mukti); se certi occidentali hanno commesso questo errore, è sempre per l’eccessiva importanza che attribuiscono allo stato corporeo, e ciò che abbiamo detto ci dispensa dall’insistervi più a lungo. Lo Yogî non ha più niente da ottenere in seguito, poiché ha veramente realizzato la «trasformazione» (vale a dire il passaggio al di là della forma), in se stesso, se non addirittura esteriormente; gli importa poco quindi che l’apparenza formale sussista nel mondo manifestato, dal momento che per lui essa non può ormai esistere altrimenti che in modo illusorio. A dire il vero, le apparenze rimangono così, senza cambiamento esteriore rispetto allo stato precedente, soltanto per gli altri, non per lui, poiché ormai esse non possono più limitarlo o condizionarlo; queste apparenze non lo toccano né lo concernono più di tutto il resto della manifestazione universale. «Lo Yogî, dopo aver attraversato il mare delle passioni,[4] è unito alla Tranquillità[5] e possiede nella sua pienezza il “Sé” (Âtmâ incondizionato, al quale è identificato). Avendo rinunciato ai piaceri che nascono dagli oggetti esteriori perituri (e che in se stessi non sono altro che modificazioni esteriori e accidentali dell’essere), e godendo della Beatitudine (Ânanda, che è il solo oggetto permanente e imperituro, per nulla differente dal “Sé”), egli è calmo e sereno come la fiaccola sotto uno spegnitoio,[6] nella pienezza della propria essenza (non più distinta dal Brahma Supremo). Durante la permanenza (apparente) nel corpo, egli non è affetto dalle proprietà di quest’ultimo, come il firmamento non è affetto da ciò che in esso volteggia (poiché egli, in realtà, contiene in sé tutti gli stati, senza essere da essi contenuto); conoscendo ogni cosa (e appunto perciò essendo ogni cosa, non “distintivamente”, ma come totalità assoluta), egli rimane immutabile, “non toccato” dalle contingenze».[7]
Non c’è, dunque, né può evidentemente esserci alcun grado spirituale superiore a quello dello Yogî, e questo, per la sua concentrazione in se stesso, è anche chiamato Muni, vale a dire il «Solitario»,[8] non nel senso corrente e letterale della parola, ma come colui che realizza nella pienezza del suo essere la Solitudine perfetta, e che non lascia sussistere nell’Unità Suprema (o meglio nella «Non-Dualità») alcuna distinzione fra esteriore e interiore e nemmeno una qualsiasi diversità extra-principiale. Per lui, l’illusione della «separatività» è definitivamente cessata, e con essa ogni confusione prodotta dall’ignoranza (avidyâ) che genera e mantiene questa illusione,[9] poiché «l’uomo, immaginandosi dapprima di essere l’“anima vivente” individuale (jîvâtmâ), è spaventato (credendo che vi sia un qualche essere altro da lui), come una persona che scambi erroneamente[10] un pezzo di corda per un serpente; ma la sua paura è scacciata dalla certezza che, in realtà, egli non è l’“anima vivente”, ma Âtmâ stesso (nella Sua universalità incondizionata)».[11]
Shankarâchârya enumera tre attributi che in qualche modo corrispondono ad altrettante funzioni del Sannyâsî possessore della Conoscenza, il quale, se questa Conoscenza è pienamente effettiva, non è altri che lo Yogî:[12] i tre attributi sono, in ordine ascendente, bâlya, pânditya e mauna.[13] La prima di queste parole indica letteralmente uno stato paragonabile a quello di un fanciullo (bâla);[14] è uno stadio di «non-espansione», se così possiamo dire, dove tutte le potenze dell’essere sono come concentrate in un solo punto, producendo con la loro unificazione una semplicità indifferenziata, apparentemente simile alla potenzialità embrionale.[15] È anche, in un senso un po’ diverso, ma che completa il precedente (poiché qui coesistono riassorbimento e pienezza), il ritorno allo «stato primordiale» di cui parlano tutte le tradizioni, e sul quale insistono più specialmente il Taoismo e l’esoterismo islamico; questo ritorno è effettivamente una tappa necessaria sulla via che porta all’Unione, poiché soltanto da questo «stato primordiale» si possono superare i limiti dell’individualità umana per elevarsi agli stati superiori.[16]
Uno stadio ulteriore è rappresentato da pânditya, vale a dire dal «sapere», attributo che si riferisce a una funzione di insegnamento: chi possiede la Conoscenza è qualificato per comunicarla agli altri o, più esattamente, per risvegliare in essi delle possibilità corrispondenti, poiché la Conoscenza, in se stessa, è rigorosamente personale e incomunicabile. Il Pandita ha dunque più specificamente il carattere di Guru o «Maestro spirituale»;[17] egli però può non avere che la perfezione della Conoscenza teorica, perciò è necessario considerare, come ultimo grado successivo a questo, mauna o lo stato del Muni, come unica condizione nella quale l’Unione può veramente realizzarsi. D’altronde, vi è un’altra parola, Kaivalya, che significa anche «isolamento»,[18] e che esprime insieme le idee di «perfezione» e di «totalità»; questa parola è spesso usata come equivalente di Moksha: kêvala indica lo stato assoluto e incondizionato, quello dell’essere «liberato» (mukta).
Abbiamo considerato i tre aspetti in questione come caratterizzanti altrettanti stadi preparatori all’Unione; ma, naturalmente, a maggior ragione li possiede lo Yogî giunto al fine supremo, così come possiede tutti gli stati nella pienezza della sua essenza.[19] Questi tre attributi sono d’altronde impliciti in ciò che è chiamato aishwarya, vale a dire la partecipazione all’essenza di Îshwara, poiché corrispondono rispettivamente alle tre Shakti della Trimûrti: se si osserva che lo «stato primordiale» è caratterizzato fondamentalmente dall’«Armonia», si vedrà immediatamente che bâlya corrisponde a Lakshmî, mentre pânditya corrisponde a Saraswatî e mauna a Pârvatî.[20] Questo punto è di particolare importanza quando si voglia comprendere cosa siano i «poteri» che appartengono al jîvan-mukta, come conseguenze secondarie della perfetta realizzazione metafisica.
D’altra parte, troviamo anche nella tradizione estremo-orientale una teoria che equivale esattamente a quella che abbiamo esposta: è la teoria delle «quattro Felicità», di cui le prime due sono: la «Longevità», che, come già abbiamo detto, non è altro che la perpetuità dell’esistenza individuale, e la «Posterità», che consiste nei prolungamenti indefiniti dell’individuo in tutte le sue modalità. Queste due «Felicità» non concernono dunque che l’estensione dell’individualità e si compendiano nella restaurazione dello «stato primordiale», che ne implica il pieno compimento; le due seguenti, che si riferiscono, al contrario, agli stati superiori ed extra-individuali dell’essere,[21] sono il «Grande Sapere» e la «Perfetta Solitudine», vale a dire pânditya e mauna. Infine, queste «quattro Felicità» ottengono la loro pienezza nella «quinta», che le contiene tutte in principio e le unisce sinteticamente nella loro essenza unica e indivisibile; questa «quinta Felicità» non ha un nome (come il «quarto stato» della Mândûkya Upanishad), poiché è inesprimibile e non può essere oggetto di alcuna conoscenza distintiva; ma è facile comprendere che ciò di cui si tratta non è altro che l’Unione stessa o l’«Identità Suprema», ottenuta nella realizzazione completa e totale di ciò che altre tradizioni chiamano l’«Uomo Universale» e per mezzo di essa, poiché lo Yogî, nel vero senso della parola, o l’«uomo trascendente» (tchen-jen) del Taoismo, è anche identico all’«Uomo Universale».[22]
[1] Questa restrizione è indispensabile, poiché, se vi fosse incompatibilità assoluta o essenziale, ciò renderebbe impossibile la totalizzazione dell’essere, in quanto nessuna modalità può restare al di fuori della realizzazione finale. D’altronde, basta l’interpretazione più essoterica della «resurrezione dei morti» per dimostrare che, anche dal punto di vista teologico, non può esservi un’antinomia irriducibile fra la «salvezza» e l’«incorporazione».
[2] Commento di Bhavadêva-Mishra ai Brahma-Sûtra.
[3] Ecco un testo taoista in cui sono espresse le stesse idee: «Quello (l’essere che ha raggiunto questo stato nel quale è unito alla totalità universale) non dipenderà più da nulla; sarà perfettamente libero... Perciò si dice molto giustamente: l’essere sovrumano non ha più individualità propria; l’uomo trascendente non ha più azione propria; il Saggio non ha neanche più un nome proprio, poiché è uno col Tutto» (Tchoang-tseu, cap. I; trad. di Padre Wieger, p. 211). Lo Yogî o il jîvan-mukta è infatti libero dal nome e dalla forma (nâmarûpa), che sono gli elementi costitutivi e caratteristici dell’individualità; abbiamo già citato i testi delle Upanishad in cui tale cessazione del nome e della forma è affermata esplicitamente.
[4] È il dominio delle «Acque inferiori» o delle possibilità formali; le passioni sono qui usate per designare tutte le modificazioni contingenti che costituiscono la «corrente delle forme».
[5] È la «Grande Pace» (Es-Sakînah) dell’esoterismo islamico, o la Pax Profunda della tradizione rosacrociana; la parola Shekinah, in ebraico, indica la «presenza reale» della Divinità, o la «Luce della gloria» nella quale e per la quale, secondo la teologia cristiana, si opera la «visione beatifica» (cfr. la «gloria di Dio» nel testo già citato dell’Apocalisse, 21, 23). Ecco ancora un testo taoista che si riferisce allo stesso argomento: «La pace nel vuoto è uno stato indefinibile. È possibile stabilirsi in essa. Non la si prende né la si dà. Un tempo si mirava ad essa. Ora si preferisce esercitare la bontà e l’equità, che non danno lo stesso risultato» (Lie-Tseu, cap. I; trad. di Padre Wieger, p. 77). Il «vuoto» di cui si parla è il «quarto stato» della Mândûkya Upanishad, che infatti è indefinibile, poiché assolutamente incondizionato, e di cui non si può parlare che in forma negativa. Le parole «un tempo» e «ora» si riferiscono ai differenti periodi del ciclo dell’umanità sulla Terra: le condizioni dell’epoca attuale (che corrisponde al Kali-Yuga) sono tali che in grande maggioranza gli uomini si vincolano all’azione e al sentimento, che non possono condurli di là dai limiti della loro individualità, e meno ancora allo stato supremo e incondizionato.
[6] Da ciò è facile comprendere il vero senso della parola Nirvâna, di cui gli orientalisti hanno dato tante interpretazioni; questa parola, lungi dall’essere peculiare del Buddhismo come talvolta si crede, significa letteralmente «estinzione del soffio o dell’agitazione», dunque stato di un essere che non è più sottomesso ad alcun cambiamento né ad alcuna modificazione, definitivamente liberato dalla forma, come pure da tutti gli altri accidenti o vincoli dell’esistenza manifestata. Nirvâna è la condizione sopra-individuale (quella di Prâjna), e Parinirvâna è lo stato incondizionato; si usano anche, nello stesso senso, le parole Nirvritti, «estinzione del cambiamento o dell’azione», e Parinirvritti. Nell’esoterismo islamico, le parole corrispondenti sono fanâ, «estinzione», e fanâ el-fanâ, letteralmente: «estinzione dell’estinzione».
[7] Âtma-Bodha di Shankarâchârya.
[8] La radice della parola Muni è da accostare al greco μόνος, «solo», tanto più che il suo derivato mauna significa «silenzio» o «la condizione di Muni». Alcuni commentatori la ricollegano al termine manana, pensiero riflesso e concentrato, derivato da manas, e allora la parola Muni indica più specificamente «colui che si sforza di raggiungere la Liberazione per mezzo della meditazione».
[9] A quest’ordine appartiene in particolare la «falsa imputazione» (adhyâsa), che consiste nel riferire a una cosa attributi che non le appartengono veramente.
[10] Un errore di questo genere è chiamato vivarta: si tratta propriamente di una modificazione che non altera affatto l’essenza dell’essere al quale è attribuita, e che dunque interessa soltanto colui che per effetto di un’illusione la riferisce ad esso.
[11] Âtma-Bodha di Shankarâchârya.
[12] Lo stato di Sannyâsi è propriamente l’ultimo dei quattro âshrama (i primi tre sono quelli di Brahmachârî o «studente della Scienza sacra», discepolo di un Guru, di Grihastha o «capofamiglia» e di Vânaprastha o «anacoreta»); ma il nome di Sannyâsi è anche talvolta attribuito, come qui, al Sâdhu, vale a dire a colui che ha compiuto la perfetta realizzazione, e che è ativarnâshramî, come abbiamo visto sopra.
[13] Commento ai Brahma-Sûtra, 3° Adhyâya, 4° Pâda, sûtra 47-50.
[14] Cfr. le parole del Vangelo: «Il Regno dei Cieli appartiene a chi è come questi bambini... Chi non accoglie il Regno di Dio come un bambino, non vi entrerà» (Matteo, 19, 14; Luca, 18, 16 e 17).
[15] Questo stadio corrisponde al «Dragone nascosto» del simbolismo estremo-orientale. Un altro simbolo frequentemente usato è quello della tartaruga che si ritrae interamente nel suo guscio.
[16] Ciò corrisponde allo «stato edenico» della tradizione giudaico-cristiana; perciò Dante colloca il Paradiso terrestre in cima alla montagna del Purgatorio, vale a dire proprio nel punto in cui l’essere lascia la Terra, o lo stato umano, per salire ai Cieli (chiamati «Regno di Dio» nella precedente citazione dal Vangelo).
[17] Il Guru corrisponde allo Shaykh delle scuole islamiche, chiamato anche murabbul-murîdîn; il Murîd è il discepolo, vale a dire il Brahmachârî indù.
[18] L’«isolamento» è ancora il «vuoto» di cui si parla nel testo taoista citato sopra; e questo «vuoto», d’altra parte, è in realtà anche l’assoluta pienezza.
[19] Si può anche rilevare che i tre attributi sono in qualche modo «prefigurati» rispettivamente, e nello stesso ordine, dai primi tre âshrama; il quarto âshrama, quello del Sannyâsi (inteso qui nel suo significato più comune), riunisce in sé e per così dire riassume gli altri tre, così come lo stato finale dello Yogî comprende «eminentemente» tutti gli stati particolari, prima attraversati come altrettanti stadi preliminari.
[20] Lakshmî è la Shakti di Vishnu; Saraswatî o Vâch è quella di Brahmâ; Pârvatî, quella di Shiva. Pârvatî è anche chiamata Durgâ, vale a dire «difficile da avvicinare». È notevole che una corrispondenza con queste tre Shakti si ritrovi perfino nelle tradizioni occidentali: così, nel simbolismo massonico, i «tre pilastri principali del Tempio» sono «Saggezza, Forza, Bellezza»; qui, la Saggezza è Saraswatî, la Forza è Pârvatî e la Bellezza è Lakshmî. Parimenti, Leibniz, che aveva ricevuto qualche insegnamento esoterico (d’altronde abbastanza elementare) di provenienza rosacrociana, chiama i tre principali attributi divini «Saggezza, Potenza, Bontà», ciò che è esattamente la stessa cosa, poiché «Bellezza» e «Bontà» in fondo sono soltanto (come per i Greci e specialmente per Platone) due aspetti di una sola idea, che è appunto quella di «Armonia».
[21] Perciò, mentre le prime due «Felicità» appartengono all’ambito del Confucianesimo, le altre due rientrano in quello del Taoismo.
[22] Questa identità è ugualmente affermata nelle teorie dell’esoterismo islamico sulla «manifestazione del Profeta».
Nessun commento:
Posta un commento