"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

venerdì 2 novembre 2018

René Guénon - L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 5. Purusha inalterato dalle modificazioni individuali

René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

5. Purusha inalterato dalle modificazioni individuali

Secondo la Bhagavad-Gîtâ, «vi sono nel mondo due Purusha, l’uno distruttibile, l’altro indistruttibile: il primo è ripartito fra tutti gli esseri, l’altro è l’immutabile. 
Ma vi è un altro Purusha, il più alto (uttama), che si chiama Paramâtmâ e che, Signore imperituro, penetra e sostiene i tre mondi (la terra, l’atmosfera e il cielo, che rappresentano i tre gradi fondamentali fra cui sono ripartiti tutti i modi della manifestazione). Poiché io sono al di là del distruttibile e anche dell’indistruttibile (quale Principio Supremo dell’uno e dell’altro), sono celebrato nel mondo e nel Vêda con il nome di Purushottama».[1] Fra i primi due Purusha, il «distruttibile» è jîvâtmâ, la cui esistenza distinta è infatti transitoria e contingente come quella della stessa individualità, e l’«indistruttibile» è Âtmâ in quanto personalità, principio permanente dell’essere in tutti i suoi stati di manifestazione;[2] quanto al terzo, esso è, secondo ciò che dichiara espressamente il testo, Paramâtmâ, di cui la personalità è una determinazione primordiale, come abbiamo spiegato in precedenza. Quantunque la personalità sia in realtà al di là del dominio della molteplicità, si può tuttavia, in un certo senso, parlare di una personalità per ciascun essere (si tratta naturalmente dell’essere totale, e non di uno stato considerato isolatamente): perciò il Sânkhya, il cui punto di vista non raggiunge Purushottama, spesso presenta Purusha come molteplice; ma si deve notare che, anche in questo caso, il suo nome è sempre usato al singolare, per affermare nettamente la sua unità essenziale. Il Sânkhya non ha dunque nulla in comune con un «monadismo» del genere di quello di Leibniz, nel quale, d’altronde, la «sostanza individuale» è considerata un tutto completo, una specie di sistema chiuso, concezione incompatibile con ogni nozione di ordine veramente metafisico.
Purusha, considerato identico alla personalità, «è per così dire[3] una parte (ansha) del Supremo Ordinatore (che, tuttavia, non ha realmente parti, essendo assolutamente indivisibile e “senza dualità”) come una scintilla lo è del fuoco (la cui natura è d’altronde interamente in ogni scintilla)».[4] Purusha non è sottomesso alle condizioni che determinano l’individualità e, anche nei suoi rapporti con questa, resta inalterato dalle modificazioni individuali (quali, per esempio, il piacere e il dolore), che sono puramente contingenti e accidentali, non essenziali all’essere, e che provengono tutte dal principio plastico, Prakriti o Pradhâna, la loro sola radice. È da questa sostanza, la quale contiene in potenza tutte le possibilità di manifestazione, che le modificazioni sono prodotte nell’ordine manifestato, con lo sviluppo stesso di queste possibilità, o, per usare un linguaggio aristotelico, con il loro passaggio dalla potenza all’atto. «Ogni modificazione (parinâma),» dice Vijnâna-Bhikshu «a partire dalla produzione originale del mondo (vale a dire di ogni ciclo di esistenza) fino alla sua dissoluzione finale, proviene esclusivamente da Prakriti e dai suoi derivati», vale a dire dai ventiquattro primi tattwa del Sânkhya.
Purusha è tuttavia il principio essenziale di tutte le cose, perché determina lo sviluppo delle possibilità di Prakriti; ma esso stesso non entra mai nella manifestazione, sicché tutte le cose, considerate in modo distintivo, sono differenti da esso, e nulla di ciò che le concerne come tali (che costituisce quello che si può chiamare il «divenire») può pregiudicare la sua immutabilità. «Così la luce solare o lunare (suscettibile di molteplici modificazioni) sembra identica a ciò che la produce (la sorgente luminosa considerata come immutabile in se stessa), eppure ne è distinta (nella sua manifestazione esteriore, e parimenti le modificazioni o le qualità manifestate sono, come tali, distinte dal loro principio essenziale, in quanto non possono in alcun modo alterarlo). Come l’immagine del sole riflessa nell’acqua trema o vacilla, secondo le ondulazioni dell’acqua, senza tuttavia influire sulle altre immagini riflesse in essa né, a maggior ragione, influire sull’orbe solare, così le modificazioni di un individuo non alterano un altro individuo, né soprattutto il Supremo Ordinatore stesso»,[5] che è Purushottama, e al quale la personalità è realmente identica nella sua essenza, come ogni scintilla è identica al fuoco, considerato come indivisibile nella sua natura intima.
Qui l’«anima vivente» (jîvâtmâ) è paragonata all’immagine del sole nell’acqua, in quanto riflesso (âbhâsa), nell’ambito individuale e in rapporto a ciascun individuo, della Luce, principialmente una, dello «Spirito Universale» (Âtmâ); il raggio luminoso che fa esistere questa immagine e la unisce alla sua origine è, come vedremo, l’intelletto superiore (Buddhi), che appartiene alla manifestazione informale.[6] Quanto all’acqua, che riflette la luce solare, essa è di solito il simbolo del principio plastico (Prakriti), l’immagine della «passività universale»; d’altronde, questo simbolo, con lo stesso significato, è comune a tutte le dottrine tradizionali.[7] Qui, però, occorre limitarne il senso generale, poiché Buddhi, pur essendo informale e sopra-individuale, è ancora manifestata e, pertanto, dipende da Prakriti di cui è la prima produzione; l’acqua non può quindi rappresentare qui che l’insieme potenziale delle possibilità formali, vale a dire il dominio della manifestazione in modo individuale, e così essa lascia fuori di sé quelle possibilità informali che, pur corrispondendo a stati di manifestazione, devono tuttavia essere riferite all’Universale.[8]



[1] Bhagavad-Gîtâ, XV, 16-18.
[2] Sono «i due uccelli che stanno su uno stesso albero», secondo i testi delle Upanishad citati in una nota precedente. D’altra parte, anche nella Katha Upanishad, 2° Adhyâya, 6a Valli, shruti 1, si parla di un albero, ma questo simbolo ha allora un’applicazione «macrocosmica», non più «microcosmica»: «Il mondo è come un fico eterno (ashwattha sanâtana) la cui radice è rivolta in alto e i cui rami affondano nella terra»; parimenti, nella Bhagavad-Gîtâ, XV, 1: «È un fico imperituro, la radice in alto e i rami in basso, le cui foglie sono gli inni del Vêda; chi lo conosce, conosce il Vêda». La radice è in alto perché rappresenta il principio, e i rami sono in basso perché rappresentano il dispiegarsi della manifestazione; l’albero è capovolto perché l’analogia va applicata, qui come dappertutto, in senso inverso. In entrambi i casi si dice che l’albero è il fico sacro (ashwattha o pippala); in questa o in altre forme, il simbolismo dell’«Albero del Mondo» è lungi dall’essere peculiare dell’India: la quercia dei Celti, il tiglio dei Germani, il frassino degli Scandinavi rappresentano esattamente la stessa cosa.
[3] La parola iva indica che si tratta di un paragone (upamâ) o di un modo di parlare destinato a facilitare la comprensione, che però non dev’essere inteso alla lettera. Ecco un testo taoista che esprime un’idea consimile: «Le norme di ogni genere, come quella che di più organi fa un corpo (o di più stati un essere)... sono altrettante partecipazioni del Rettore Universale. Queste partecipazioni non L’aumentano, né Lo diminuiscono, poiché sono comunicate da Lui, non staccate da Lui» (Tchoang-tseu, cap. II; traduzione di Padre Wieger, p. 217 [L. Wieger, Les Pères du système taoïste, Belles lettres, Paris, 1975]).
[4] Brahma-Sûtra, 2° Adhyâya, 3° Pâda, sûtra 43. Ricordiamo che noi seguiamo principalmente, nella nostra interpretazione, il commento di Shankarâchârya.
[5] Brahma-Sûtra, 2° Adhyâya, 3° Pâda, sûtra 46-53.
[6] Occorre notare che il raggio presuppone un mezzo di propagazione (manifestazione in modo non-individualizzato), e che l’immagine presuppone un piano di riflessione (individualizzazione attraverso le condizioni di un certo stato d’esistenza).
[7] A questo riguardo, si può far riferimento in particolare all’inizio del Genesi, 1, 2: «E lo Spirito di Dio aleggiava sulle Acque». Nel passo citato vi è una chiarissima indicazione concernente i due principi complementari di cui stiamo parlando, in quanto lo Spirito corrisponde a Purusha e le Acque a Prakriti. Da un punto di vista differente, e nondimeno collegato analogicamente al precedente, il Ruahh Elohim del testo ebraico è anche assimilabile a Hamsa, il Cigno simbolico, veicolo di Brahmâ, che cova il Brahmânda, l’«Uovo del Mondo» contenuto nelle Acque primordiali; occorre notare che Hamsa è anche il «soffio» (spiritus), che è il senso primario di Ruahh in ebraico. Infine, se ci si pone dal punto di vista della costituzione del mondo corporeo, Ruahh è l’Aria (Vâyu); se ciò non dovesse portarci a considerazioni troppo lunghe, potremmo dimostrare che fra la Bibbia e il Vêda esiste una concordanza perfetta, per ciò che concerne l’ordine di sviluppo degli elementi sensibili. In ogni caso, in ciò che abbiamo detto è possibile trovare l’indicazione di tre sensi sovrapposti, che si riferiscono rispettivamente ai tre gradi fondamentali della manifestazione (informale, sottile, grossolana), che la tradizione indù chiama i «tre mondi» (Tribhuvana). Questi tre mondi figurano anche nella Qabbalah ebraica con i nomi di Beriah, Ietsirah, Asiah; al di sopra di tutti sta Atsiluth, lo stato principiale della non-manifestazione.
[8] Se si conserva al simbolo dell’acqua il suo senso generale, l’insieme delle possibilità formali è designato con il nome di «Acque inferiori», e quello delle possibilità informali con il nome di «Acque superiori». La separazione delle «Acque inferiori» e delle «Acque superiori», dal punto di vista cosmogonico, si trova anch’essa descritta nel Genesi, 1, 6 e 7; occorre inoltre rilevare che la parola Maîm, che in ebraico designa l’acqua, ha la forma del duale, il che può essere inteso come un riferimento, fra l’altro, al «duplice caos» delle possibilità formali e informali allo stato potenziale. Le Acque primordiali, prima della separazione, sono la totalità delle possibilità di manifestazione, in quanto essa costituisce l’aspetto potenziale dell’Essere Universale, che è propriamente Prakriti. Lo stesso simbolismo ha ancora un altro senso, superiore agli altri, che si ottiene trasponendolo al di là dell’Essere stesso: le Acque rappresentano allora la Possibilità Universale, considerata in modo assolutamente totale, ossia come ciò che nella sua infinità abbraccia allo stesso tempo il dominio della manifestazione e quello della non-manifestazione. Quest’ultimo senso è il più elevato; al grado immediatamente inferiore, nella polarizzazione primordiale dell’Essere, abbiamo Prakriti, con la quale siamo ancora solo al principio della manifestazione. Poi, continuando a scendere, possiamo considerare, come abbiamo fatto in precedenza, i tre gradi della manifestazione: ai primi due corrisponderà allora il «duplice caos» di cui già abbiamo parlato, e al mondo corporeo, infine, l’Acqua in quanto elemento sensibile (Ap). Quest’ultima, d’altronde, si trova già implicitamente contenuta, come tutto ciò che appartiene alla manifestazione grossolana, nel dominio delle «Acque inferiori», poiché la manifestazione sottile funge da principio immediato e relativo rispetto alla manifestazione grossolana. Benché queste spiegazioni siano un po’ lunghe, crediamo che non saranno inutili per far comprendere, con esempi, come si possa considerare una pluralità di significati e di applicazioni nei testi tradizionali.

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