"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

lunedì 14 gennaio 2019

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 13. Lo stato di sogno o la condizione di Taijasa

René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

13. Lo stato di sogno o la condizione di Taijasa

«La seconda condizione è Taijasa (il “Luminoso” nome derivato da Têjas, che è la designazione dell’elemento igneo), la cui sede è nello stato di sogno (swapna-sthâna), che ha la conoscenza degli oggetti interni (mentali), ha sette membra e diciannove bocche, e ha per dominio il mondo della manifestazione sottile».[1]
In questo stato le facoltà esterne, pur sussistendo in potenza, si riassorbono nel senso interno (manas), che ne è l’origine comune, il supporto e il fine immediato, e che risiede nelle arterie luminose (nâdî) della forma sottile, in cui si estende in modo indiviso, come un calore diffuso. D’altronde, lo stesso elemento igneo, considerato nelle sue proprietà essenziali, è insieme luce e calore; e, come indica il nome stesso di Taijasa dato allo stato sottile, questi due aspetti, opportunamente trasposti (poiché non si tratta più allora di qualità sensibili), devono ritrovarsi anche in questo stato. Come già abbiamo avuto occasione di far notare in altre circostanze, tutto ciò che si riferisce a tale stato riguarda molto da vicino la natura stessa della vita, che è inseparabile dal calore; ricorderemo inoltre che su questo punto come su molti altri le concezioni di Aristotele sono in pieno accordo con quelle degli Orientali. Quanto alla luminosità di cui si parlava, con ciò occorre intendere il riflesso e la diffrazione della Luce intelligibile nelle modalità extra-sensibili della manifestazione formale (di cui d’altronde dobbiamo prendere in considerazione soltanto ciò che concerne lo stato umano). D’altra parte, la stessa forma sottile (sûkshma-sharîra o linga-sharîra), nella quale risiede Taijasa, è anche assimilata a un veicolo igneo,[2] quantunque debba essere distinta dal fuoco corporeo (l’elemento Têjas o ciò che ne deriva) che è percepito dai sensi della forma grossolana (sthûla-sharîra), veicolo di Vaishwânara, e più specialmente dalla vista, poiché la visibilità, presupponendo necessariamente la presenza della luce, è fra le qualità sensibili quella che propriamente appartiene a Têjas; nello stato sottile, però, non si può più in alcun modo parlare di bhûta, ma soltanto dei tanmâtra corrispondenti, che ne sono i principi determinanti immediati. Le nâdî, o arterie della forma sottile, non devono assolutamente essere confuse con le arterie corporee attraverso le quali si compie la circolazione del sangue, e corrispondono piuttosto, fisiologicamente, alle ramificazioni del sistema nervoso, poiché sono esplicitamente descritte come luminose; ora, dato che il fuoco è in qualche modo polarizzato in luce e calore, lo stato sottile è collegato a quello corporeo in due modi differenti e complementari: tramite il sangue, per quanto riguarda la qualità calorica, tramite il sistema nervoso, per quanto riguarda quella luminosa.[3] Tuttavia, deve essere ben chiaro che fra le nâdî e i nervi non vi è che una semplice corrispondenza, non una identificazione, poiché le prime non sono corporee, e in realtà si tratta di due domini differenti all’interno dell’individualità integrale. Parimenti, quando si stabilisce un rapporto tra le funzioni delle nâdî e la respirazione,[4] perché questa è essenziale al mantenimento della vita e corrisponde invero all’atto vitale principale, non bisogna affatto concludere di poterle immaginare come specie di canali in cui circolerebbe l’aria; sarebbe confondere con un elemento corporeo il «soffio vitale» (prâna), che appartiene propriamente all’ordine della manifestazione sottile.[5] Si dice che il numero totale delle nâdî sia di settantaduemila; per altri testi tuttavia sarebbe di settecentoventi milioni; ma la differenza è più apparente che reale, poiché, come sempre accade in simili casi, questi numeri devono essere intesi simbolicamente, non letteralmente; è facile rendersene conto se si osserva che sono in relazione evidente con i numeri ciclici.[6] Avremo ancora occasione di diffonderci ulteriormente sulla questione delle arterie sottili, come pure sul processo dei diversi gradi di riassorbimento delle facoltà individuali, riassorbimento che, come abbiamo detto, si compie in senso inverso rispetto allo sviluppo di queste stesse facoltà.
Nello stato di sogno l’«anima vivente» individuale (jîvâtmâ) «è essa stessa la sua luce», e produce, per effetto del suo solo desiderio (kâma), un mondo che procede interamente da se stessa, e i cui oggetti consistono esclusivamente in concezioni mentali, vale a dire in combinazioni di idee rivestite di forme sottili, che dipendono sostanzialmente dalla forma sottile dell’individuo stesso, di cui tali oggetti ideali non sono in definitiva che altrettante modificazioni accidentali e secondarie.[7] Questa produzione, d’altronde, ha sempre qualche cosa di incompleto e di incoordinato; perciò è considerata illusoria (mâyâmaya), o dotata solo di un’esistenza apparente (prâtibhâsika), mentre, nel mondo sensibile, nel quale si trova allo stato di veglia, la stessa «anima vivente» ha la facoltà di agire nel senso di una produzione «pratica» (vyâvahârika), anch’essa senza dubbio illusoria rispetto alla realtà assoluta (paramârtha), e transitoria come ogni manifestazione, ma che nondimeno ha una realtà relativa e una stabilità sufficiente per servire ai bisogni della vita ordinaria e «profana» (laukika, parola derivata da loka, «mondo», da intendersi in un senso del tutto paragonabile a quello che ha di solito nel Vangelo). Tuttavia è bene osservare che questa differenza, nel rispettivo orientamento dell’attività dell’essere nei due stati, non implica una superiorità effettiva dello stato di veglia su quello di sogno, quando ciascuno stato sia considerato in se stesso; per lo meno, una superiorità valida soltanto dal punto di vista «profano» non può, metafisicamente, essere considerata una vera superiorità; anzi, sotto un altro aspetto, le possibilità dello stato di sogno sono più estese di quelle dello stato di veglia, e permettono all’individuo di sfuggire, in una certa misura, ad alcune delle condizioni limitative alle quali è sottomesso nella sua modalità corporea.[8] Comunque sia, assolutamente reale (pâramârthika) è esclusivamente il «Sé» (Âtmâ); è ciò che non può essere in alcun modo raggiunto da concezioni che, in una qualunque forma, si limitano alla considerazione degli oggetti esterni e interni, la cui conoscenza costituisce rispettivamente lo stato di veglia e quello di sogno, concezioni che perciò, non spingendosi oltre l’insieme di questi due stati, restano interamente nei limiti della manifestazione formale e dell’individualità umana.
Il dominio della manifestazione sottile può, per la sua natura «mentale», essere chiamato mondo ideale, al fine di distinguerlo così dal mondo sensibile, che è il dominio della manifestazione grossolana; ma questa designazione non andrebbe intesa allo stesso modo del «mondo intelligibile» di Platone, poiché le «idee» platoniche sono le possibilità allo stato principiale, che devono essere riferite al dominio informale; nello stato sottile, possono esistere soltanto idee ancora rivestite di forme, poiché le possibilità che esso comporta non oltrepassano l’esistenza individuale.[9] Soprattutto non si dovrebbe qui pensare a un’opposizione, come quella che certi filosofi moderni si compiacciono di stabilire fra «ideale» e «reale», opposizione che non ha per noi alcun significato: tutto ciò che è, in qualunque modo, è reale per il solo fatto di essere, e possiede precisamente il genere e il grado di realtà che convengono alla sua natura propria; ciò che consiste in idee (è tutto qui il senso che diamo alla parola «ideale») non è per questo né più né meno reale di ciò che consiste in altra cosa, perché ogni possibilità trova posto necessariamente al livello che la sua stessa determinazione le assegna gerarchicamente nell’Universo.
Nell’ordine della manifestazione universale, come il mondo sensibile nel suo insieme è identificato con Virâj, così questo mondo ideale di cui abbiamo parlato è identificato con Hiranyagarbha (ossia, letteralmente, l’«Embrione d’Oro»),[10] che è Brahmâ (determinazione di Brahma come effetto, kârya)[11] rinchiuso nell’«Uovo del Mondo» (Brahmânda),[12] dal quale si svilupperà, secondo le sue modalità di realizzazione, l’intera manifestazione formale che vi è virtualmente contenuta come concezione di questo Hiranyagarbha, germe primordiale della Luce cosmica.[13] Inoltre Hiranyagarbha è chiamato «insieme sintetico di vita» (jîva-ghana);[14] in effetti, esso è davvero la «Vita Universale»,[15] per il già menzionato legame tra lo stato sottile e la vita, la quale, anche considerata in tutta l’estensione di cui è suscettibile (e non circoscritta alla sola vita organica o corporea, a cui si limita il punto di vista fisiologico),[16] non è d’altronde che una delle speciali condizioni dello stato d’esistenza al quale appartiene l’individualità umana; l’ambito della vita non oltrepassa dunque le possibilità insite in questo stato, il quale, naturalmente, deve qui essere considerato nella sua integralità, di cui fanno parte tanto le modalità sottili quanto quella grossolana.
Sia che ci si ponga dal punto di vista «macrocosmico», come abbiamo fatto ora, sia da quello «microcosmico» che abbiamo adottato inizialmente, il mondo ideale è concepito mediante facoltà che corrispondono analogicamente a quelle attraverso cui è percepito il mondo sensibile o, se si preferisce, mediante facoltà che in linea di principio sono le stesse (in quanto sono sempre facoltà individuali), considerate però in una diversa modalità d’esistenza e a un diverso grado di sviluppo, poiché la loro attività si svolge in un dominio differente. Perciò Âtmâ, in questo stato di sogno, vale a dire in quanto Taijasa, ha lo stesso numero di membra e di bocche (o strumenti di conoscenza) che ha in quello di veglia come Vaishwânara;[17] è inutile, del resto, ripeterne l’enumerazione, poiché le definizioni che ne abbiamo dato in precedenza possono egualmente applicarsi, con una appropriata trasposizione, ai due domini della manifestazione grossolana o sensibile e di quella sottile o ideale.






[1] Mândûkya Upanishad, shruti 4. Lo stato sottile è chiamato in questo testo pravivikta, letteralmente «predistinto», poiché è uno stato di distinzione che precede la manifestazione grossolana; la stessa parola significa anche «separato», poiché l’«anima vivente», nello stato di sogno, è in qualche modo chiusa in se stessa, contrariamente a quanto accade nello stato di veglia, «comune a tutti gli uomini».
[2] Abbiamo altrove ricordato, a questo proposito, il «carro di fuoco» sul quale il profeta Elia salì in cielo (Secondo libro dei Re, 2, 11).
[3] Abbiamo già accennato, a proposito della costituzione dell’annamaya-kosha, cioè dell’organismo corporeo, che gli elementi del sistema nervoso provengono dall’assimilazione delle sostanze ignee. Il sangue invece, essendo liquido, è formato a partire dalle sostanze acquee, ma è necessario che esse abbiano prima subito un’elaborazione dovuta all’azione del calore vitale, che è la manifestazione di Agni Vaishwânara; esse hanno soltanto una funzione di supporto plastico che serve alla fissazione di un elemento di natura ignea: il fuoco e l’acqua sono qui, l’uno rispetto all’altra, «essenza» e «sostanza» in senso relativo. Ciò potrebbe essere facilmente paragonato a certe teorie alchemiche, come quelle in cui interviene la considerazione dei principi chiamati «zolfo» e «mercurio», l’uno attivo e l’altro passivo, e rispettivamente analoghi, nell’ordine dei «misti», al fuoco e all’acqua nell’ordine degli elementi, senza parlare delle altre molteplici designazioni che sono date simbolicamente, nel linguaggio ermetico, ai due termini correlativi d’una simile dualità.
[4] Alludiamo più in particolare agli insegnamenti che si ricollegano allo Hatha-Yoga, vale a dire ai metodi preparatori all’«Unione» (Yoga, nel senso proprio della parola) fondati sull’assimilazione di certi ritmi, legati principalmente alla regolazione del respiro. Ciò che è chiamato dhikr nelle scuole esoteriche arabe ha esattamente la stessa ragione d’essere, e spesso anche i procedimenti messi in opera sono del tutto simili nelle due tradizioni, il che ai nostri occhi non è però affatto indizio di un plagio; la scienza del ritmo infatti può essere stata conosciuta dagli uni e dagli altri in modo del tutto indipendente, poiché si tratta d’una scienza che ha il suo oggetto proprio e che corrisponde a un ordine di realtà chiaramente definito, quantunque essa sia interamente ignorata dagli Occidentali.
[5] Questa confusione è stata effettivamente commessa da alcuni orientalisti, la cui comprensione è chiaramente incapace di oltrepassare i limiti del mondo corporeo.
[6] I numeri ciclici fondamentali sono: 72=23 ´32; 108=22 ´33; 432=24 ´33=72 ´6=108 ´4; essi si riferiscono in particolar modo alla divisione geometrica del cerchio (360=72 ´5=12 ´30) e alla durata del periodo astronomico della precessione degli equinozi (72 ´360=432 ´60=25.920 anni); ma queste non sono che le loro applicazioni più immediate ed elementari, né ci è possibile qui approfondire le considerazioni propriamente simboliche alle quali si giunge con la trasposizione di questi dati in ordini differenti.
[7] Cfr. Brihad-Âranyaka Upanishad, 4° Adhyâya, 3° Brâhmana, shruti 9 e 10.
[8] Sullo stato di sogno, cfr. Brahma-Sûtra, 3° Adhyâya, 2° Pâda, sûtra 1-6.
[9] Lo stato sottile è propriamente il dominio della ψυχή, e non quello del νοϋς; quest’ultimo corrisponde in realtà a Buddhi, vale a dire all’intelletto sopra-individuale.
[10] Questo nome ha un senso assai prossimo a quello di Taijasa, poiché l’oro, secondo la dottrina indù, è la «luce minerale»; gli alchimisti lo consideravano anche, fra i metalli, il corrispondente analogico del Sole fra i pianeti; è per lo meno curioso notare che il nome stesso dell’oro (aurum) è identico alla parola ebraica (a)ôr, che significa «luce».
[11] Occorre notare che Brahmâ è maschile, mentre Brahma è neutro; questa distinzione indispensabile e della massima importanza (poiché corrisponde a quella fra «Supremo» e «Non-Supremo») non può essere fatta con l’uso, corrente fra gli orientalisti, dell’unica forma Brahman, che appartiene in egual modo a entrambi i generi; da ciò derivano continue confusioni, soprattutto nelle lingue in cui il genere neutro non esiste.
[12] Il simbolo cosmogonico dell’«Uovo del Mondo» non è peculiare dell’India; lo ritroviamo specialmente nel Mazdeismo, nella tradizione egizia (l’Uovo di Kneph), in quella dei Druidi e in quella degli Orfici. La condizione embrionale, che corrisponde per ciascun essere individuale a ciò che è il Brahmânda nell’ordine cosmico, è chiamata in sanscrito pinda; l’analogia costitutiva fra «microcosmo» e «macrocosmo», considerati sotto questo aspetto, è espressa dalla formula: Yathâ pinda tathâ Brahmânda, «quale è l’embrione individuale, tale è l’Uovo del Mondo».
[13] Perciò Virâj deriva da Hiranyagarbha, e Manu, a sua volta, da Virâj.
[14] La parola ghana significa in primo luogo nuvola, e di conseguenza una massa compatta e indifferenziata.
[15] «E la Vita era la Luce degli uomini» (Giovanni, 1, 4).
[16] Alludiamo più particolarmente all’estensione dell’idea di vita che è implicita nel punto di vista delle religioni occidentali, e che si riferisce effettivamente a possibilità insite in un prolungamento dell’individualità umana; si tratta, come abbiamo spiegato altrove, di ciò che la tradizione estremo-orientale chiama «longevità».
[17] Queste facoltà devono essere qui considerate come ripartite nei tre «involucri», la cui unione costituisce la forma sottile (vijnânamaya-kosha, manomaya-kosha, prânamaya-kosha).

Nessun commento:

Posta un commento