René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
14. Lo stato di sonno profondo o la condizione di Prâjna
«Quando l’essere che dorme non prova alcun desiderio e non è soggetto ad alcun sogno, il suo stato è quello di sonno profondo (sushupta-sthâna); colui (vale a dire Âtmâ stesso in questa condizione) che in questo stato è divenuto uno (senza alcuna distinzione o differenziazione),[1] che si è identificato con un insieme sintetico (unico e senza determinazione particolare) di Conoscenza integrale (Prajnâna-ghana),[2] che è (per penetrazione e assimilazione intima) pieno di Beatitudine (ânandamaya), che gode veramente di questa Beatitudine (Ânanda, quale dominio a lui proprio) e la cui bocca (lo strumento di conoscenza) è (unicamente) la Coscienza totale (Chit) stessa (senza intermediari o particolarizzazioni di alcun genere), costui è chiamato Prâjna (Colui che conosce al di fuori e di là da ogni condizione speciale): questa è la terza condizione».[3]
Come ci si può immediatamente rendere conto, in questo stato il veicolo di Âtmâ è il kârana-sharîra, dato che esso è l’ânandamaya-kosha; e, quantunque se ne parli analogicamente come di un veicolo o di un involucro, non è affatto veramente distinto dallo stesso Âtmâ, poiché ormai siamo di là dalla distinzione. La Beatitudine è fatta di tutte le possibilità di Âtmâ, si potrebbe dire che ne sia la somma stessa; e se Âtmâ, in quanto Prâjna, gode di questa Beatitudine come del dominio che gli è proprio, è perché essa, in realtà, non è altro che la pienezza del suo essere, come abbiamo già accennato in precedenza. È uno stato essenzialmente informale e sopra-individuale; non può dunque in alcun modo trattarsi di uno stato «psichico» o «psicologico», come alcuni orientalisti hanno creduto. Ciò che è propriamente «psichico», infatti, è lo stato sottile; e nel fare questa assimilazione prendiamo la parola «psichico» nel suo senso primitivo, quello che aveva per gli antichi, senza preoccuparci delle diverse accezioni molto più specialistiche che le sono state attribuite in seguito, con le quali non potrebbe nemmeno più riferirsi all’intero stato sottile. La psicologia degli Occidentali moderni infatti non concerne che una parte ristrettissima dell’individualità umana, in cui il «mentale» è in relazione immediata con la modalità corporea, dati i metodi che usa, essa è incapace di spingersi oltre e in ogni caso l’oggetto stesso che si propone, ossia lo studio esclusivo dei fenomeni mentali, la limita rigorosamente al dominio dell’individualità, sicché lo stato di cui ora si tratta sfugge necessariamente alle sue indagini, e si potrebbe anche dire che le è doppiamente inaccessibile, in primo luogo perché questo stato è al di là del «mentale» o del pensiero discorsivo e differenziato, e poi perché è anche al di là di qualunque «fenomeno», vale a dire al di là di ogni manifestazione formale.
Questo stato di indifferenziazione, nel quale l’intera conoscenza, ivi compresa quella degli altri stati, è accentrata sinteticamente nell’unità essenziale e fondamentale dell’essere, è lo stato non-manifestato o «non-sviluppato» (avyakta), principio e causa (kârana) di tutta la manifestazione, a partire dal quale essa si sviluppa nella molteplicità dei suoi diversi stati, e più particolarmente, per quel che concerne l’essere umano, nei suoi stati sottile e grossolano. Questo non-manifestato, concepito come radice del manifestato (vyakta) che ne è soltanto l’effetto (kârya), è identificato, sotto questo aspetto, con Mûla-Prakriti, la «Natura primordiale»; in realtà, esso è insieme Purusha e Prakriti, poiché li contiene entrambi nella sua stessa indifferenziazione, essendo causa nel senso completo della parola, vale a dire allo stesso tempo «causa efficiente» e «causa materiale», per usare la terminologia ordinaria, alla quale peraltro preferiremmo di gran lunga le espressioni «causa essenziale» e «causa sostanziale», poiché questi due aspetti complementari della causalità si riferiscono appunto rispettivamente all’«essenza» e alla «sostanza», quali le abbiamo definite in precedenza. Se quindi, in questo terzo stato, Âtmâ è al di là della distinzione fra Purusha e Prakriti, o fra i due poli della manifestazione, è perché esso non è più nell’esistenza condizionata, bensì al grado dell’Essere puro; tuttavia dobbiamo includervi inoltre Purusha e Prakriti, che sono ancora non-manifestati, e anche, in un certo senso, come vedremo fra poco, gli stati informali della manifestazione, che abbiamo già dovuto riferire all’Universale, poiché in verità sono degli stati sopra-individuali dell’essere; d’altronde, ricordiamolo ancora, tutti gli stati manifestati sono contenuti, in principio e sinteticamente, nell’Essere non-manifestato.
D’altra parte, in questo stato, i diversi oggetti della manifestazione, anche quelli della manifestazione individuale, esterni e interni, non sono affatto distrutti, ma sussistono in modo principiale, essendo unificati appunto perché non più concepiti sotto l’aspetto secondario e contingente della distinzione; essi si ritrovano necessariamente fra le possibilità del «Sé», che, essendo cosciente della propria permanenza nell’«eterno presente», rimane di per sé cosciente di tutte queste possibilità, considerate «non-distintivamente» nella Conoscenza integrale.[4] Se fosse altrimenti, e se gli oggetti della manifestazione non sussistessero in questo modo, principialmente (supposizione d’altronde di per sé impossibile poiché questi oggetti sarebbero allora un puro niente, che non potrebbe esistere in alcuna maniera, neppure in modo illusorio), non vi potrebbe essere un ritorno dallo stato di sonno profondo agli stati di sogno e di veglia, poiché tutta la manifestazione formale sarebbe allora irrimediabilmente distrutta per l’essere non appena esso entrasse nel sonno profondo; ora, un tale ritorno è invece sempre possibile e si produce effettivamente, almeno per l’essere che non è attualmente «liberato», vale a dire definitivamente svincolato dalle condizioni dell’esistenza individuale.
La parola Chit non deve essere intesa, come prima il suo derivato chitta, nel senso ristretto di pensiero individuale e formale (questa determinazione restrittiva, che implica una modificazione mediante riflesso, è infatti espressa nel derivato dal suffisso ta, che è la terminazione del participio passivo), bensì in senso universale, come Coscienza totale del «Sé», considerata in rapporto al suo unico oggetto, che è Ânanda o la Beatitudine.[5] Questo oggetto, pur costituendo allora in qualche modo l’involucro del «Sé» (ânandamaya-kosha), come dianzi abbiamo spiegato, è identico al soggetto stesso, che è Sat o l’Essere puro, e non ne è affatto veramente distinto, né può esserlo, in effetti, là dove non esiste più alcuna distinzione reale[6]. Così questi tre, Sat, Chit e Ânanda (generalmente riuniti in Sachchidânanda),[7] sono assolutamente un unico e medesimo essere, e questo «uno» è Âtmâ, considerato al di fuori e al di là di tutte le condizioni particolari che determinano ciascuno dei suoi diversi stati di manifestazione.
Nello stato di Prâjna, che è anche talvolta designato con il nome di samprasâda o «serenità»,[8] la Luce intelligibile è colta direttamente, in ciò che costituisce l’intuizione intellettuale, e non più di riflesso, attraverso il «mentale» (manas), come negli stati individuali. Abbiamo precedentemente riferito l’espressione «intuizione intellettuale» a Buddhi, facoltà di conoscenza sopra-razionale e sopra-individuale, quantunque già manifestata; sotto questo aspetto, è necessario dunque, in certo modo, includere Buddhi nello stato di Prâjna, che comprenderà così tutto ciò che è al di là dell’esistenza individuale. Dobbiamo allora considerare nell’Essere una nuova triade, costituita da Purusha, Prakriti e Buddhi, vale a dire dai due poli della manifestazione, «essenza» e «sostanza», e dalla prima produzione di Prakriti per influsso di Purusha, produzione che è la manifestazione informale. Bisogna aggiungere, peraltro, che questa triade rappresenta solamente ciò che si potrebbe chiamare l’«esteriorità» dell’Essere, e quindi non coincide affatto con l’altra triade principiale che abbiamo considerato e che si riferisce invero all’«interiorità» dell’Essere, di cui tale triade sarebbe piuttosto una prima particolarizzazione distintiva;[9] è evidente che, parlando qui di «esteriore» e di «interiore», noi usiamo un linguaggio puramente analogico, fondato su un simbolismo spaziale, e che non può applicarsi letteralmente all’Essere puro. D’altronde, la triade Sachchidânanda, che è coestensiva all’Essere, si esprime ancora, nell’ordine della manifestazione informale, in quella che viene distinta all’interno di Buddhi e di cui abbiamo già parlato: il Matsya-Purâna, che allora citammo, dichiara che «nell’Universale, Mahat (o Buddhi) è Îshwara»; e Prâjna è anche Îshwara, a cui propriamente appartiene il kârana-sharîra. Si può aggiungere altresì che la Trimûrti o «triplice manifestazione» è soltanto l’«esteriorità» di Îshwara, che, in Sé, è indipendente da ogni manifestazione, di cui è il principio, poiché è l’Essere stesso; tutto quello che abbiamo detto di Îshwara, tanto in Sé, quanto in rapporto alla manifestazione, possiamo ugualmente dirlo di Prâjna che con esso è identificato. Così, al di fuori del punto di vista particolare della manifestazione e dei diversi stati condizionati che da esso dipendono in questa manifestazione, l’intelletto non è affatto differente da Âtmâ, che deve essere considerato come «ciò che conosce se stesso mediante se stesso», poiché allora non vi è più alcuna realtà veramente distinta da esso, tutto essendo compreso nelle sue stesse possibilità; ed è appunto in questa «Conoscenza di Sé» che risiede propriamente la Beatitudine.
«Questo (Prâjna) è il Signore (Îshwara) di tutto (sarva, parola che implica qui, nella sua estensione universale, l’insieme dei “tre mondi”, cioè di tutti gli stati di manifestazione sinteticamente compresi nel loro principio); Egli è onnisciente (poiché tutto Gli è presente nella Conoscenza integrale, ed Egli conosce direttamente tutti gli effetti nella causa principiale totale, che non è in alcun modo distinta da Lui);[10] Egli è l’ordinatore interno (antar-yâmî, che stando al centro stesso dell’essere governa e controlla tutte le facoltà corrispondenti ai suoi diversi stati, anche se Egli stesso resta “non-agente” nella pienezza della Sua attività principiale);[11] Egli è la sorgente (yoni, matrice o radice primordiale, e allo stesso tempo principio o causa prima) di tutto (quello che esiste in qualsiasi modo), Egli è l’origine (prabhava, per il Suo espandersi nella moltitudine indefinita delle Sue possibilità) e la fine (apyaya, per il Suo ripiegarsi nell’unità di Se stesso)[12] dell’universalità degli esseri (essendo Egli stesso l’Essere Universale)».[13]
Come ci si può immediatamente rendere conto, in questo stato il veicolo di Âtmâ è il kârana-sharîra, dato che esso è l’ânandamaya-kosha; e, quantunque se ne parli analogicamente come di un veicolo o di un involucro, non è affatto veramente distinto dallo stesso Âtmâ, poiché ormai siamo di là dalla distinzione. La Beatitudine è fatta di tutte le possibilità di Âtmâ, si potrebbe dire che ne sia la somma stessa; e se Âtmâ, in quanto Prâjna, gode di questa Beatitudine come del dominio che gli è proprio, è perché essa, in realtà, non è altro che la pienezza del suo essere, come abbiamo già accennato in precedenza. È uno stato essenzialmente informale e sopra-individuale; non può dunque in alcun modo trattarsi di uno stato «psichico» o «psicologico», come alcuni orientalisti hanno creduto. Ciò che è propriamente «psichico», infatti, è lo stato sottile; e nel fare questa assimilazione prendiamo la parola «psichico» nel suo senso primitivo, quello che aveva per gli antichi, senza preoccuparci delle diverse accezioni molto più specialistiche che le sono state attribuite in seguito, con le quali non potrebbe nemmeno più riferirsi all’intero stato sottile. La psicologia degli Occidentali moderni infatti non concerne che una parte ristrettissima dell’individualità umana, in cui il «mentale» è in relazione immediata con la modalità corporea, dati i metodi che usa, essa è incapace di spingersi oltre e in ogni caso l’oggetto stesso che si propone, ossia lo studio esclusivo dei fenomeni mentali, la limita rigorosamente al dominio dell’individualità, sicché lo stato di cui ora si tratta sfugge necessariamente alle sue indagini, e si potrebbe anche dire che le è doppiamente inaccessibile, in primo luogo perché questo stato è al di là del «mentale» o del pensiero discorsivo e differenziato, e poi perché è anche al di là di qualunque «fenomeno», vale a dire al di là di ogni manifestazione formale.
Questo stato di indifferenziazione, nel quale l’intera conoscenza, ivi compresa quella degli altri stati, è accentrata sinteticamente nell’unità essenziale e fondamentale dell’essere, è lo stato non-manifestato o «non-sviluppato» (avyakta), principio e causa (kârana) di tutta la manifestazione, a partire dal quale essa si sviluppa nella molteplicità dei suoi diversi stati, e più particolarmente, per quel che concerne l’essere umano, nei suoi stati sottile e grossolano. Questo non-manifestato, concepito come radice del manifestato (vyakta) che ne è soltanto l’effetto (kârya), è identificato, sotto questo aspetto, con Mûla-Prakriti, la «Natura primordiale»; in realtà, esso è insieme Purusha e Prakriti, poiché li contiene entrambi nella sua stessa indifferenziazione, essendo causa nel senso completo della parola, vale a dire allo stesso tempo «causa efficiente» e «causa materiale», per usare la terminologia ordinaria, alla quale peraltro preferiremmo di gran lunga le espressioni «causa essenziale» e «causa sostanziale», poiché questi due aspetti complementari della causalità si riferiscono appunto rispettivamente all’«essenza» e alla «sostanza», quali le abbiamo definite in precedenza. Se quindi, in questo terzo stato, Âtmâ è al di là della distinzione fra Purusha e Prakriti, o fra i due poli della manifestazione, è perché esso non è più nell’esistenza condizionata, bensì al grado dell’Essere puro; tuttavia dobbiamo includervi inoltre Purusha e Prakriti, che sono ancora non-manifestati, e anche, in un certo senso, come vedremo fra poco, gli stati informali della manifestazione, che abbiamo già dovuto riferire all’Universale, poiché in verità sono degli stati sopra-individuali dell’essere; d’altronde, ricordiamolo ancora, tutti gli stati manifestati sono contenuti, in principio e sinteticamente, nell’Essere non-manifestato.
D’altra parte, in questo stato, i diversi oggetti della manifestazione, anche quelli della manifestazione individuale, esterni e interni, non sono affatto distrutti, ma sussistono in modo principiale, essendo unificati appunto perché non più concepiti sotto l’aspetto secondario e contingente della distinzione; essi si ritrovano necessariamente fra le possibilità del «Sé», che, essendo cosciente della propria permanenza nell’«eterno presente», rimane di per sé cosciente di tutte queste possibilità, considerate «non-distintivamente» nella Conoscenza integrale.[4] Se fosse altrimenti, e se gli oggetti della manifestazione non sussistessero in questo modo, principialmente (supposizione d’altronde di per sé impossibile poiché questi oggetti sarebbero allora un puro niente, che non potrebbe esistere in alcuna maniera, neppure in modo illusorio), non vi potrebbe essere un ritorno dallo stato di sonno profondo agli stati di sogno e di veglia, poiché tutta la manifestazione formale sarebbe allora irrimediabilmente distrutta per l’essere non appena esso entrasse nel sonno profondo; ora, un tale ritorno è invece sempre possibile e si produce effettivamente, almeno per l’essere che non è attualmente «liberato», vale a dire definitivamente svincolato dalle condizioni dell’esistenza individuale.
La parola Chit non deve essere intesa, come prima il suo derivato chitta, nel senso ristretto di pensiero individuale e formale (questa determinazione restrittiva, che implica una modificazione mediante riflesso, è infatti espressa nel derivato dal suffisso ta, che è la terminazione del participio passivo), bensì in senso universale, come Coscienza totale del «Sé», considerata in rapporto al suo unico oggetto, che è Ânanda o la Beatitudine.[5] Questo oggetto, pur costituendo allora in qualche modo l’involucro del «Sé» (ânandamaya-kosha), come dianzi abbiamo spiegato, è identico al soggetto stesso, che è Sat o l’Essere puro, e non ne è affatto veramente distinto, né può esserlo, in effetti, là dove non esiste più alcuna distinzione reale[6]. Così questi tre, Sat, Chit e Ânanda (generalmente riuniti in Sachchidânanda),[7] sono assolutamente un unico e medesimo essere, e questo «uno» è Âtmâ, considerato al di fuori e al di là di tutte le condizioni particolari che determinano ciascuno dei suoi diversi stati di manifestazione.
Nello stato di Prâjna, che è anche talvolta designato con il nome di samprasâda o «serenità»,[8] la Luce intelligibile è colta direttamente, in ciò che costituisce l’intuizione intellettuale, e non più di riflesso, attraverso il «mentale» (manas), come negli stati individuali. Abbiamo precedentemente riferito l’espressione «intuizione intellettuale» a Buddhi, facoltà di conoscenza sopra-razionale e sopra-individuale, quantunque già manifestata; sotto questo aspetto, è necessario dunque, in certo modo, includere Buddhi nello stato di Prâjna, che comprenderà così tutto ciò che è al di là dell’esistenza individuale. Dobbiamo allora considerare nell’Essere una nuova triade, costituita da Purusha, Prakriti e Buddhi, vale a dire dai due poli della manifestazione, «essenza» e «sostanza», e dalla prima produzione di Prakriti per influsso di Purusha, produzione che è la manifestazione informale. Bisogna aggiungere, peraltro, che questa triade rappresenta solamente ciò che si potrebbe chiamare l’«esteriorità» dell’Essere, e quindi non coincide affatto con l’altra triade principiale che abbiamo considerato e che si riferisce invero all’«interiorità» dell’Essere, di cui tale triade sarebbe piuttosto una prima particolarizzazione distintiva;[9] è evidente che, parlando qui di «esteriore» e di «interiore», noi usiamo un linguaggio puramente analogico, fondato su un simbolismo spaziale, e che non può applicarsi letteralmente all’Essere puro. D’altronde, la triade Sachchidânanda, che è coestensiva all’Essere, si esprime ancora, nell’ordine della manifestazione informale, in quella che viene distinta all’interno di Buddhi e di cui abbiamo già parlato: il Matsya-Purâna, che allora citammo, dichiara che «nell’Universale, Mahat (o Buddhi) è Îshwara»; e Prâjna è anche Îshwara, a cui propriamente appartiene il kârana-sharîra. Si può aggiungere altresì che la Trimûrti o «triplice manifestazione» è soltanto l’«esteriorità» di Îshwara, che, in Sé, è indipendente da ogni manifestazione, di cui è il principio, poiché è l’Essere stesso; tutto quello che abbiamo detto di Îshwara, tanto in Sé, quanto in rapporto alla manifestazione, possiamo ugualmente dirlo di Prâjna che con esso è identificato. Così, al di fuori del punto di vista particolare della manifestazione e dei diversi stati condizionati che da esso dipendono in questa manifestazione, l’intelletto non è affatto differente da Âtmâ, che deve essere considerato come «ciò che conosce se stesso mediante se stesso», poiché allora non vi è più alcuna realtà veramente distinta da esso, tutto essendo compreso nelle sue stesse possibilità; ed è appunto in questa «Conoscenza di Sé» che risiede propriamente la Beatitudine.
«Questo (Prâjna) è il Signore (Îshwara) di tutto (sarva, parola che implica qui, nella sua estensione universale, l’insieme dei “tre mondi”, cioè di tutti gli stati di manifestazione sinteticamente compresi nel loro principio); Egli è onnisciente (poiché tutto Gli è presente nella Conoscenza integrale, ed Egli conosce direttamente tutti gli effetti nella causa principiale totale, che non è in alcun modo distinta da Lui);[10] Egli è l’ordinatore interno (antar-yâmî, che stando al centro stesso dell’essere governa e controlla tutte le facoltà corrispondenti ai suoi diversi stati, anche se Egli stesso resta “non-agente” nella pienezza della Sua attività principiale);[11] Egli è la sorgente (yoni, matrice o radice primordiale, e allo stesso tempo principio o causa prima) di tutto (quello che esiste in qualsiasi modo), Egli è l’origine (prabhava, per il Suo espandersi nella moltitudine indefinita delle Sue possibilità) e la fine (apyaya, per il Suo ripiegarsi nell’unità di Se stesso)[12] dell’universalità degli esseri (essendo Egli stesso l’Essere Universale)».[13]
[1] «Tutto è uno, dice ugualmente il Taoismo; durante il sonno, l’anima non distratta si immerge in questa unità; durante la veglia, distratta, essa distingue diversi esseri» (Tchoang-tseu, cap. II; trad. di Padre Wieger, p. 215).
[2] «Concentrare tutta la propria energia intellettuale come in una massa» afferma anche la dottrina taoista, intendendo la stessa cosa (Tchoang-tseu, cap. IV; trad. di Padre Wieger, p. 233). Prajnâna o la Conoscenza integrale si oppone qui a vijnâna o alla conoscenza distintiva, che, applicandosi specialmente al dominio individuale o formale, caratterizza i due stati precedenti; vijnânamaya-kosha è il primo degli «involucri» di cui si riveste Âtmâ penetrando nel «mondo dei nomi e delle forme», vale a dire manifestandosi come jîvâtmâ.
[3] Mândûkya Upanishad, shruti 5.
[4] È proprio questo ciò che permette di trasporre metafisicamente la dottrina teologica della «resurrezione dei morti», nonché la concezione del «corpo di gloria»; quest’ultimo, del resto, non è affatto un corpo nel senso proprio della parola, ma ne è la «trasformazione» (o la «trasfigurazione»), vale a dire la trasposizione fuori della forma e delle altre condizioni dell’esistenza individuale, o, in altre parole, è la «realizzazione» della possibilità permanente e immutabile di cui il corpo non è che l’espressione transitoria in modo manifestato.
[5] Lo stato di sonno profondo è stato definito «inconscio» da alcuni orientalisti, che sembrano persino tentati di identificarlo con l’«Inconscio» di qualche filosofo tedesco, quale Hartmann; questo errore dipende senza dubbio dal fatto che essi riescono a concepire la coscienza soltanto come individuale e «psicologica», ma non per questo il loro errore ci appare meno inspiegabile, poiché non vediamo in che modo possano comprendere, con una simile interpretazione, parole come Chit, Prajnâna e Prâjna.
[6] Le parole «soggetto» e «oggetto», nel senso in cui noi le usiamo qui, non possono dare adito ad alcun equivoco: il soggetto è «colui che conosce», l’oggetto è «ciò che è conosciuto», e il loro rapporto è la conoscenza stessa. Tuttavia, nella filosofia moderna, il significato di queste parole, e soprattutto quello dei loro derivati «soggettivo» e «oggettivo», è mutato a tal punto che hanno ricevuto accezioni quasi diametralmente opposte, e alcuni filosofi le hanno intese indistintamente in sensi molto differenti; perciò il loro uso presenta spesso inconvenienti gravi per la chiarezza e, in molti casi, è preferibile astenersi dall’usarle, per quanto è possibile.
[7] In arabo gli equivalenti di questi tre termini sono: l’Intelligenza (El-Aql), l’Intelligente (El-Âqil) e l’Intelligibile (El-Maqûl); la prima è la Coscienza universale (Chit), il secondo ne è il soggetto (Sat) e il terzo ne è l’oggetto (Ânanda), i tre non essendo che una cosa sola nell’Essere «che conosce Se stesso tramite Se stesso».
[8] Brihad-Âranyaka Upanishad, 4° Adhyâya, 3° Brâhmana, shruti 15; cfr. Brahma-Sûtra, 1° Adhyâya, 3° Pâda, sûtra 8. Si veda anche ciò che diremo più avanti sul significato della parola Nirvâna.
[9] Si potrebbe dire, con le riserve che abbiamo fatto sull’uso di queste parole, che Purusha è il polo «soggettivo» della manifestazione, e Prakriti ne è il polo «oggettivo»; Buddhi corrisponde allora naturalmente alla conoscenza che è come una risultante del soggetto e dell’oggetto, o il loro «atto comune», per usare un linguaggio aristotelico. Tuttavia, è importante rilevare che, nell’ordine dell’Esistenza universale, è Prakriti che «concepisce» le sue produzioni sotto l’influenza «non-agente» di Purusha, mentre, nell’ordine delle esistenze individuali, il soggetto conosce, al contrario, per azione dell’oggetto; l’analogia è dunque qui invertita, come nei casi incontrati precedentemente. Infine, se si considera l’intelligenza come inerente al soggetto (quantunque la sua «attualità» presupponga la presenza di due termini complementari), si dovrà dire che l’Intelletto universale è essenzialmente attivo, mentre l’intelligenza individuale è passiva, per lo meno relativamente (pur essendo allo stesso tempo, sotto un altro aspetto, anche attiva), come del resto è implicito nel suo carattere di «riflesso»; anche queste considerazioni concordano interamente con le teorie di Aristotele.
[10] Gli effetti sono «eminentemente» nella causa, come dicono i filosofi scolastici, e sono perciò costitutivi della sua stessa natura, poiché nulla può essere negli effetti che prima non sia stato nella causa; così la causa prima, conoscendo se stessa, conosce tutti gli effetti, vale a dire tutte le cose, in modo assolutamente immediato e «non-distintivo».
[11] Questo «ordinatore interno» è identico al «Rettore Universale» di cui si parla in un testo taoista da noi citato in una nota precedente. La tradizione estremo-orientale dice anche che «l’Attività del Cielo è non-agente»; nella sua terminologia, il Cielo (Tien) corrisponde a Purusha (considerato ai diversi gradi che abbiamo indicato precedentemente), e la Terra (Ti) a Prakriti; non si tratta dunque di ciò che si è obbligati a tradurre con questi stessi termini nell’enumerazione degli elementi del Tribhuvana indù.
[12] Ciò è riferibile, nell’ordine cosmico, alle due fasi di «espirazione» e di «aspirazione» individuabili in ciascun ciclo; qui però si tratta della totalità dei cicli o degli stati che costituiscono la manifestazione universale.
[13] Mândûkya Upanishad, shruti 6.
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