"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 24 gennaio 2019

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 15. Lo stato incondizionato di Âtmâ

René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

15. Lo stato incondizionato di Âtmâ

«Veglia, sogno, sonno profondo, e ciò che è oltre, sono i quattro stati di Âtmâ; il più grande (mahattara) è il Quarto (Turîya). Nei primi tre sta Brahma con uno dei Suoi piedi; nell’ultimo, ha tre piedi».[1]
Così, le proporzioni precedentemente stabilite da un certo punto di vista, da un altro punto di vista si trovano invertite: dei quattro «piedi» (pâda) di Âtmâ, i primi tre in base alla distinzione degli stati ne valgono uno soltanto per importanza metafisica, e da solo l’ultimo ne vale tre, nella stessa prospettiva. Se Brahma non fosse «senza parti» (akhanda), si potrebbe dire che soltanto un quarto di Esso è nell’Essere (comprendendovi tutto ciò che ne dipende, vale a dire la manifestazione universale di cui è il principio), mentre gli altri Suoi tre quarti sono al di là dell’Essere.[2] Questi tre quarti si possono concepire così: 1) la totalità delle possibilità di manifestazione in quanto non si manifestano, dunque allo stato assolutamente permanente e incondizionato, come tutto ciò che appartiene al «Quarto» (se esse invece si manifestano, appartengono ai primi due stati; e, in quanto «manifestabili», al terzo, principiale rispetto ai precedenti); 2) la totalità delle possibilità di non-manifestazione (di cui parliamo al plurale solo per analogia, poiché sono evidentemente al di là della molteplicità, e anche dell’unità); 3) infine, il Principio Supremo di queste e di quelle, la Possibilità Universale, totale, infinita, assoluta.[3]
«I Saggi pensano che il Quarto (Chaturtha),[4] che non ha conoscenza né degli oggetti interni né di quelli esterni (in modo distintivo e analitico), né insieme di questi e di quelli (considerati sinteticamente e principialmente), e che non è (nemmeno) un insieme sintetico di Conoscenza integrale, non essendo né conoscente né non-conoscente, è invisibile (adrishta, e ugualmente non-percettibile da qualsiasi facoltà), non-agente (avyavahârya, nella Sua immutabile identità), incomprensibile (agrâhya, poiché tutto comprende), indefinibile (alakshana, poiché illimitato), impensabile (achintya, poiché non può essere rivestito di alcuna forma), indescrivibile (avyapadêshya, non potendo essere qualificato da attributi o determinazioni particolari), è l’unica essenza fondamentale (pratyaya-sâra) del “Sé” (Âtmâ, presente in tutti gli stati), senza alcuna traccia di sviluppo della manifestazione (prapancha-upashama, e di conseguenza assolutamente e totalmente liberato dalle condizioni peculiari di qualunque modalità d’esistenza), pienezza di Pace e di Beatitudine, senza dualità: Esso è Âtmâ (al di fuori e indipendentemente da ogni condizione), (così) Esso dev’essere conosciuto».[5]
Si noterà che tutto ciò che concerne questo stato incondizionato di Âtmâ è espresso in forma negativa; il motivo è facile da capire, perché, nel linguaggio, ogni affermazione diretta è necessariamente un’affermazione particolare e determinata, l’affermazione di qualche cosa a esclusione di qualcos’altro che così limita ciò rispetto a cui si fa l’affermazione.[6] Ogni determinazione è una limitazione, dunque una negazione;[7] di conseguenza la vera affermazione è la negazione di una determinazione, e i termini apparentemente negativi che incontriamo qui sono, nel loro reale significato, eminentemente affermativi. D’altronde, la parola «infinito», che ha una forma simile, esprime la negazione di ogni limite, sicché equivale all’affermazione totale e assoluta, che comprende o racchiude tutte le affermazioni particolari, ma che non è alcuna di esse a esclusione delle altre, proprio perché le implica tutte ugualmente e «non-distintivamente»; così la Possibilità Universale comprende assolutamente tutte le possibilità. Tutto ciò che si può esprimere in forma affermativa è necessariamente racchiuso nel dominio dell’Essere, poiché l’Essere è la prima affermazione o la prima determinazione, quella da cui procedono tutte le altre, come l’unità è il primo dei numeri, da cui tutti derivano; ma qui siamo nella «non-dualità», e non più nell’unità, o, in altre parole, siamo al di là dell’Essere, appunto perché siamo al di là di ogni determinazione, anche principiale.[8]
In Se stesso, Âtmâ non è dunque né manifestato (vyakta), né non-manifestato (avyakta), per lo meno se si considera il non-manifestato soltanto come il principio immediato del manifestato (ciò che si riferisce allo stato di Prâjna); ma Esso è insieme il principio del manifestato e del non-manifestato (benché questo Principio Supremo possa d’altronde anche esser detto non-manifestato in un senso superiore, non fosse altro che per affermare con ciò la Sua Immutabilità assoluta e l’impossibilità di caratterizzarLo con alcuna attribuzione positiva). «Lui (il Brahma Supremo, al quale Âtmâ incondizionato è identico), l’occhio non Lo raggiunge,[9] né la parola, né il “mentale”;[10] noi non Lo riconosciamo (come comprensibile da altri che Se stesso), perciò non sappiamo come insegnarne la natura (con una qualunque descrizione). Egli è superiore a ciò che è conosciuto (distintivamente, o all’Universo manifestato), ed è anche al di là di ciò che non è conosciuto (distintivamente, o dell’Universo non-manifestato, uno con l’Essere puro);[11] questo è l’insegnamento che abbiamo ricevuto dagli antichi Saggi. Si deve considerare come Brahma (nella Sua Infinità) Ciò che non è manifestato dalla parola (né da altra cosa), ma da cui la parola è manifestata (così come lo sono tutte le cose), e non Ciò che è considerato (in quanto oggetto di meditazione) come “questo” (un essere individuale o un mondo manifestato, secondo che il punto di vista si riferisca al “microcosmo” o al “macrocosmo”) o “quello” (Îshwara o l’Essere Universale stesso, al di fuori di ogni individualizzazione e di ogni manifestazione)».[12]
Shankarâchârya aggiunge a questo passo il seguente commento: «Un discepolo che ha seguito attentamente l’esposizione della natura di Brahma, potrebbe essere indotto a pensare di conoscerLo perfettamente (almeno teoricamente); nondimeno, malgrado le ragioni che egli può in apparenza avere di pensare così, tale opinione è errata. Infatti, il significato accertato di tutti i testi concernenti il Vêdânta è che il “Sé” di ogni essere che possiede la Conoscenza è identico a Brahma (poiché questa conoscenza stessa realizza l’“Identità Suprema”). Ora, è possibile una conoscenza distintiva e definita di ogni cosa che sia suscettibile di diventare oggetto di conoscenza; ma non è così di Ciò che non può diventare un tale oggetto. Ciò è Brahma, poiché Esso è il Conoscitore (totale), e il Conoscitore può conoscere le altre cose (che racchiude tutte nella Sua infinita comprensione, identica alla Possibilità Universale), ma non può farsi Esso stesso oggetto della propria Conoscenza (poiché, nella Sua identità, che non risulta da alcuna identificazione, non è neppure possibile distinguere principialmente, come nella condizione di Prâjna, un soggetto e un oggetto che però sono “la stessa cosa”, né Esso può cessare d’essere Se stesso, “tutto-conoscente”, per diventare “tutto-conosciuto”, che sarebbe un altro Se stesso), così come il fuoco può bruciare altre cose, ma non può bruciare se stesso (poiché la sua natura essenziale è indivisibile, così come, analogicamente, Brahma è “senza dualità”).[13] D’altra parte, non si può nemmeno dire che Brahma possa essere oggetto di conoscenza per altri da Sé, perché al di fuori di Lui non esiste alcun conoscente (poiché ogni conoscenza, anche relativa, è sempre una partecipazione della Conoscenza assoluta e suprema)».[14]
Perciò un poco più avanti il testo dice: «Se tu pensi di conoscere bene (Brahma), ciò che conosci della Sua natura è in realtà poca cosa; perciò devi ancora considerare Brahma più attentamente. (La risposta è questa): Non penso di conoscerLo; con ciò voglio dire che non Lo conosco bene (in modo distinto, come potrei conoscere un oggetto suscettibile di essere descritto o definito); eppure Lo conosco (secondo l’insegnamento che ho ricevuto sulla Sua natura). Chiunque fra noi comprenda queste parole (nel loro vero significato): “Non Lo conosco, eppure Lo conosco”, quegli in verità Lo conosce. Da chi pensa che Brahma sia non-compreso (da una qualunque facoltà), Brahma è compreso (poiché, con la Conoscenza di Brahma, egli è diventato realmente ed effettivamente identico a Brahma stesso); ma chi pensa che Brahma sia compreso (da qualche facoltà sensibile o mentale), non Lo conosce affatto. Brahma (in Se stesso, nella Sua essenza incomunicabile) è ignoto a coloro che Lo conoscono (alla maniera di un qualsiasi oggetto di conoscenza, che si tratti di un essere particolare o dell’Essere Universale), ed è conosciuto da coloro che non Lo conoscono (come “questo” o “quello”)».[15]






[1] Maitri Upanishad, 7° Prapâthaka, shruti 11.
[2] Pâda significa «piede» e anche «quarto».
[3] Analogamente, considerando i primi tre stati, il cui insieme costituisce il dominio dell’Essere, si potrebbe dire anche che i primi due non rappresentano che una terza parte dell’Essere, poiché contengono soltanto la manifestazione formale, mentre il terzo ne rappresenta da solo i due terzi, perché comprende allo stesso tempo la manifestazione informale e l’Essere non-manifestato. È essenziale notare che soltanto le possibilità di manifestazione rientrano nel dominio dell’Essere, pur considerato in tutta la sua universalità.
[4] Le due parole Chaturtha e Turîya hanno lo stesso significato e si applicano nello stesso modo al medesimo stato: Yad vai Chaturtham tat Turîyam, «di certo quel che è Chaturtha, è Turîya» (Brihad-Âranyaka Upanishad, 5° Adhyâya, 14° Brâhmana, shruti 3).
[5] Mândûkya Upanishad, shruti 7.
[6] Per la stessa ragione questo stato, non potendo essere caratterizzato in alcun modo, è chiamato semplicemente il «Quarto»; ma questa spiegazione, pur evidente, è sfuggita agli orientalisti. A tale proposito, possiamo citare un curioso esempio della loro incomprensione: Oltramare ha creduto che il nome «Quarto» indicasse che si trattava soltanto di una «costruzione logica», e questo perché gli ricordava «la quarta dimensione dei matematici»; ecco un accostamento per lo meno inatteso, che sarebbe indubbiamente difficile giustificare seriamente.
[7] Spinoza stesso l’ha espressamente riconosciuto: Omnis determinatio negatio est; ma è appena necessario aggiungere che l’applicazione che egli ne fa ricorda piuttosto l’indeterminazione di Prakriti che quella di Âtmâ nel suo stato incondizionato.
[8] Noi ci poniamo qui dal punto di vista puramente metafisico, ma dobbiamo aggiungere che queste considerazioni possono anche applicarsi al punto di vista teologico; sebbene quest’ultimo di solito si mantenga nei limiti dell’Essere, alcuni riconoscono che la «teologia negativa» è l’unica teologia rigorosa, vale a dire che soltanto gli attributi di forma negativa convengono veramente a Dio. Cfr. san Dionigi Areopagita, De Mystica Theologia, i cui due ultimi capitoli si avvicinano in modo notevole, anche nelle espressioni, al testo che abbiamo citato.
[9] Parimenti, il Qorân dice parlando di Allâh: «Gli sguardi non possono raggiungerLo». «Il Principio non è raggiunto né dalla vista né dall’udito» (Tchoang-tseu, cap. XXII; trad. di Padre Wieger, p. 397).
[10] L’occhio rappresenta qui le facoltà di sensazione e la parola quelle di azione; si è visto precedentemente che il manas, per la sua natura e le sue funzioni, partecipa delle une e delle altre. Brahma non può essere raggiunto da alcuna facoltà individuale: non può essere percepito dai sensi come gli oggetti grossolani, né concepito dal pensiero come gli oggetti sottili, non può essere espresso in modo sensibile dalle parole, né in modo ideale dalle immagini mentali.
[11] Cfr. il passo già citato della Bhagavad-Gîtâ (XV, 18), secondo il quale Paramâtmâ «è al di là del distruttibile e anche dell’indistruttibile»; il distruttibile è il manifestato e l’indistruttibile è il non-manifestato, inteso nel modo che abbiamo spiegato.
[12] Kêna Upanishad, 1° Khanda, shruti 3-5. Ciò che viene detto riguardo alla parola (vâch) è poi ripetuto nelle shruti 6-9, in termini identici, per il «mentale» (manas), l’occhio (chakshus), l’udito (shrotra) e il «soffio vitale» (prâna).
[13] Cfr. Brihad-Âranyaka Upanishad, 4° Adhyâya, 5° Brâhmana, shruti 14: «Come potrebbe il Conoscitore (totale) essere conosciuto?».
[14] Anche qui possiamo stabilire un accostamento con una frase del Trattato dell’Unità (Risâlatu-l-Ahadiyah) di Mohyîddîn Ibn Arabî: «Nulla, assolutamente nulla esiste, eccetto Lui (Allâh), ma Egli comprende la propria esistenza senza (tuttavia) che questa comprensione esista in un modo qualunque».
[15] Kêna Upanishad, 2° Khanda, shruti 1-3. Ecco un testo taoista del tutto identico: «L’Infinito ha detto: non conosco il Principio; questa è una risposta profonda. L’Inazione ha detto: io conosco il Principio; questa è una risposta superficiale. L’Infinito ha avuto ragione nel dire che non sapeva nulla dell’essenza del Principio; l’Inazione ha potuto dire che Lo conosceva, quanto alle Sue manifestazioni esteriori... Non conoscerLo è infatti conoscerLo (nella Sua essenza); conoscerLo (nelle Sue manifestazioni) è non conoscerLo (quale è in realtà). Ma come comprendere che è non conoscendoLo che Lo si conosce? – Ecco come, dice lo Stato primordiale. Il Principio non può essere udito; ciò che si ode non è Esso. Il Principio non può essere visto; ciò che si vede non è Esso. Il Principio non può essere enunciato; ciò che si enuncia non è Esso... Il Principio, non potendo essere immaginato, non può nemmeno essere descritto. Colui che pone domande sul Principio, e colui che vi risponde, ambedue dimostrano di ignorare che cosa sia il Principio. Del Principio non si può domandare né rispondere che cosa Esso sia» (Tchoang-tseu, cap. XXII; trad. di Padre Wieger, pp. 397-99).

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