"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

domenica 15 marzo 2020

Maitreyī, Shrî Karapatra Swami: La lampada della Conoscenza non-duale. Advaita Bodha Dîpikâ

Maitreyī
Recensione: Shrî Karapatra Swami: La lampada della Conoscenza non-duale. Advaita Bodha Dîpikâ

Traduzione dal sanscrito di Giorgio Conte, Saggio introduttivo di Marco Marino, Torino, Harmonia Mundi, 2016. ISBN 978-88-99743-03-9. Pp. 181.


Abbiamo colto l’occasione di recensire questa traduzione annotata e prefata dell’Advaita Bodha Dīpikā in concomitanza con la pubblicazione a puntate su questo Sito della traduzione del Śaṃkara Siddhānta di Śrī Śrī Svāmī Satcidānandendra Sarasvatī Mahārāja inteso a correggere gli errori del mūlāvidyāvāda. Infatti, alcune posizioni di Svāmī Kārapātra coincidono con quelle della ‘dottrina della avidyā radicale’, distanti dalla dottrina śaṃkariana.

La lampada della Conoscenza non-duale è un testo incompleto, in quanto all’originale mancavano gli ultimi quattro capitoli, a suo tempo pubblicato a puntate sulla Rivista di Studi Tradizionali di Torino (1985-1991, nn. 62-72). Per evitare malintesi informiamo i lettori che l’autore non è certamente il celebre Dharma Saṃrāṭ, Svāmī Hariharānanda Sarasvatī Kārapātrijī, ben noto a Śrī Ramaṇa Maharṣi nonché ai Jagadguru di Śṛṅgeri. Infatti, abbiamo chiesto informazioni al Kārapātri āśrama di Kāśī (Benares), che ripubblica le opere del Guru e ne detiene i copyright, e al Jagadguru Śaṃkarācārya Svarūpānanda Sarasvatī Mahāsvāmījī, che è stato suo gurubhāī, ma l’Advaita Bodha Dīpikā è risultato del tutto sconosciuto. Perciò Svāmī Kārapātra deve essere un quasi omonimo alquanto sconosciuto, poiché nessuno a Śṛṅgeri e Kāṅcipuram ha saputo identificarlo. Probabilmente fu un saṃnyāsin del sud dell’India vissuto prima del XIX secolo. Il testo di cui ci occupiamo segue il modello upaniṣadico e degli Upadeśa Sāhasrī, basato sulle domande che il discepolo rivolge al proprio maestro sui temi fondamentali dell’Advaita Vedānta. Si tratta di una esposizione che presenta tratti di grande interesse e di elevata dottrina śaṃkariana, alternati ad affermazioni contraddittorie, a cadute di livello o a posizioni decisamente contrarie all’insegnamento del puro Advaita, tra cui segnaliamo: l’identificazione tra jīvātman e l’aham individuale; la confusione tra Yoga e Vedānta sia nella dottrina sia nel metodo; l’artificiosa distinzione tra conoscenza (jñāna) e realizzazione (sākṣātkāra); una concezione della via della conoscenza compiuta a tappe, come fosse una via del non-Supremo; l’esistenza reale del ‘vuoto’; e, infine, la teoria della mūlāvidyā. L’impressione è che l’Advaita Bodha Dīpikā possa essere stato alterato in un secondo tempo con l’inserimento di affermazioni e punti di vista erronei. Dando per scontato che le parti chiaramente corrette possano essere immediatamente riconosciute dal lettore, ci soffermiamo a commentare alcuni tra i molti passaggi incoerenti o decisamente sbagliati.

  1.  “… il mutevole jīva non può essere il Testimone e non potendo essere il Sé-Testimone, questa mutevole entità non può essere Brahma. L’espressione «io sono il Brahman» corrisponde quindi a un’impossibilità.” (pp. 149-150) Ciò è in totale contraddizione con Śaṃkara, che a questo proposito afferma: “Questo è anche un esempio di come, nel caso del jīvātman, che appare indistinguibile dai condizionamenti che gli sono associati, come il corpo ecc., la conoscenza discriminante [neti neti], proveniente dall’apprendimento della śruti, lo distingue dal corpo. Il risultato di quella conoscenza discriminante è la realizzazione della propria vera natura.” (Brahma Sūtra Śaṃkara Bhāṣya, I.3.19); “Se il jīvātman fosse differente dal Brahman Supremo, le affermazioni scritturali come “tu sei Quello” sarebbero contraddette” (BSŚBh IV.3.14).
  2. È vero che il testo sacro rivela la verità «tu sei Qello»; ma la conoscenza diretta non risulta dal suo semplice ascolto [śrāvaṇa]. In assenza della «ricerca» del Sé la conoscenza rimane pur sempre indiretta. Affinché tale conoscenza venga realizzata è necessario impegnarsi nella «riflessione» (manana) (p.110) “Saggio figliolo, mediante la ricerca (vichâra) avete ottenuto la conoscenza diretta del Sé, ma ai fini della realizzazione dovete continuare a impegnarvi nella meditazione [nididhyāsana]” (p. 144). Śaṃkara invece dichiara: “È come quando Brahmā rimosse l’ignoranza di Rāma con queste semplici parole “Tu non sei il figlio di Daśaratha, tu sei Viṣṇu”. Egli non fece riferimento ad alcuna azione che Rāma dovesse compiere per risvegliare la sua natura come Viṣṇu. A Rāma bastò soltanto ascoltare quelle parole” (Upadeśa Sāhasrī, XVIII.100). “Come accade a chi arriva a riconoscere se stesso come decimo semplicemente udendo le parole “tu sei il decimo”, così succede a colui che riesce a conoscere il suo proprio Sé come il Testimone dell’intelletto e delle sue modificazioni, semplicemente ascoltando il mahāvākya ‘tu sei Quello’” (Upadeśa Sāhasrī, XVIII.176). E ancora: “nello stesso istante in cui si comprende lo scopo dell’aforisma (vākyārtha [mahāvākya]), tutto è compiuto” (Muṇḍaka Upaniṣad Śaṃkara Bhāṣya, I.1,6).
  3. D. [discepolo]: Attenendomi al vostro insegnamento, ho indagato all’interno dei cinque involucri, li ho rifiutati in quanto «non-Sé» e non ho trovato infine che il vuoto. Dov’è dunque il Sé? M. [maestro]: …analogamente, solo se c’è uno spettatore del vuoto, si può dire di non vedere nulla, è perché c’è solo il Sé e nient’altro al di fuori di Esso” (p. 123). Śaṃkara semplicemente afferma che chi usa il “neti neti” per rimuovere l’anātman senza partire dall’intuizione del Testimone arriverebbe al puro vuoto come i buddhisti: “Se su questo argomento tu sostenessi che si deve usare esclusivamente la negazione, il “neti neti”, per il fatto che si tratta d’un metodo basato in tutto e per tutto sull’autorità della śruti, risponderemmo che in questo caso alla fine arriveresti solo al puro vuoto, poiché non avresti preso per nulla in considerazione l’intuizione dell’esistenza del Testimone” (Upadeśa Sāhasrī, XVIII.125), essendo lo spettatore del vuoto privo d’ogni senso.
  4. “[…] al momento dell’abbandono del corpo da parte del «liberato in vita» (jîvan-mukti [sic]); essa [la perdita dell’aspetto informale della mente] non può avvenire quando egli è vivente” (p. 159). Śaṃkara, invece, nega espressamente la videha mukti: “La frase ‘Tu sei Quello’ non può assolutamente essere interpretata in modo distorto come ‘dopo che sarai morto, diventerai Quello’. La śruti insegna che proprio nell’attimo in cui sorge l’Ātma jñāna sorge anche l’unità di ogni cosa nel Sé (sarvātmatva), in base alla sentenza: ‘Quando il saggio Vāmadeva conobbe questa realtà (tattva), proprio in quel momento conobbe ‘Io sono in verità Manu e anche il sole’.” (BSŚBh III.3.32).
  5. Ciò si ottiene mediante l’ininterrotta pratica del nirvikalpa samâdhi” (p. 141) Śaṃkara, al contrario, nega ogni utilità a una attività susseguente il raggiungimento della conoscenza: “Quando con śrāvaṇa, manana e nididhyāsana sorge la conoscenza del Sé, allora si conosce tutto.” (Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, II. 4. 5) “Quando la conoscenza che scaturisce da “tu sei Quello” è ottenuta in questo modo, come si può sostenere che non sia di per sé una fonte valida di conoscenza e che perciò ci sarebbe la necessità di realizzarla per mezzo di un’ulteriore azione?” (Upadeśa Sāhasrī, XVIII.199).
  6. Māyā è senza causa, perché non è il prodotto di qualcosa che la precede: essa risiede in Brahma senza inizio. Prima della manifestazione non poteva esserci una causa per la manifestazione di Māyā, eppure essa si manifesta di per sé” (p. 37) Ma altrove il testo si contraddice clamorosamente: “In Esso [Brahman] non vi è nulla che rassomigli a Māyā e ai suoi effetti” (p. 45), in pieno accordo con la dottrina di Śaṃkara.
È comprensibile che Svāmī Kārapātra, o chi per lui, cada in queste affermazioni lontane dal puro Advaita, poiché le sue fonti autorevoli più spesso citate sono lo Yoga Vāsiṣṭha, opera medievale fortemente influenzata da Buddhismo e Yoga, e Vidyāraṇya, di cui alcune tesi hanno dato origine a un filone di mūlāvidyāvāda, com’è dimostrato dai titoli dei capitoli mancanti dell’Adavita Bodha Dīpikā: Jīvan mukti, Videha Mukti, Savikalpa Samādhi e Nirvikalpa Samādhi. A parte il primo, gli altri tre titoli indicano tendenze anti-śaṃkariane.
Non sarà per quello che sono spariti?
Per quel che riguarda la traduzione e note del sig. Giorgio Conte, dobbiamo rilevare alcuni punti essenziali. Anzitutto dubitiamo fortemente che il testo sia stato tradotto dal sanscrito, come annunciato nella prefazione alla prima pubblicazione presso la Rivista di Studi Tradizionali (1985, n. 62-63), puntualmente ripresa nel colophon di questa edizione di Harmonia Mundi. Esiste infatti una traduzione in inglese: Advaita Bodha Deepika (Sri Ramanananda Saraswathi ed. by, Tiruvannamalai, Sri Ramanasramam, 2002, I ed. 1951). L’editore anonimo di questa traduzione inglese, nella prefazione afferma che il testo era particolarmente caro a Śrī Ramaṇa Maharṣi, tanto da sovrintenderne la traduzione. Curiosamente la prima edizione apparve un anno dopo che il celebre Maharṣi aveva lasciato il corpo. Vi è un altro particolare sospetto che riguarda la situazione dell’ambiente dell’āśrama dopo la scomparsa di Śrī Ramaṇa: tra le varie edizioni dell’Adavita Bodha Dīpikā che sono state pubblicate dallo Sri Ramanasramam, una la attribuisce a Svāmī Hariharānanda Sarasvatī Kārapātrijī e un’altra addrittura a Śaṃkara! Le versioni manoscritte sanscrite, tamil e telugu risultano, invece, irreperibili.
I nostri dubbi sulla traduzione dal sanscrito sono motivati dal riscontro di ripetuti errori elementari quali, per esempio, la confusione sui generi dei nomi (per es.: la manana, p. 84 e la nidhidhyâsana (sic), p. 168, entrambi maschili). Abbiamo rilevato anche alcune traduzioni errate, come jada per ‘intelligente’ e ajada per non-intelligente (p. 51) che ne rovesciano il significato. Ciò avviene spesso nei primi capitoli, mentre la loro menzione appare corretta nella seconda metà. Inoltre, le traduzioni di diversi termini tecnici non sono accettabili: adhyāropa tradotto con ‘falsa attribuzione’ (che invece corrisponde ad adhyāsa) invece di ‘assunzione volontaria di una falsa attribuzione’; nididhyāsana con meditazione (che è invece espresso da upāsana o dhyāna) quando il suo significato vedantico è ‘attenzione contemplativa’. Segnaliamo anche l’uso di jīva laddove nel testo inglese appare aham o ego. Quest’ultimo non è errore dappoco, poiché se il jīva appare come aham a causa dell’ignoranza, in realtà si tratta sempre dell’Ātman. Rimanendo nell’ambito della traduzione si riscontra la forzatura di tradurre vāsanā (latenza) con potenzialità, all’uso di “stati superiori dell’essere” per avasthā o loka, “informale” per arūpa (per esempio nell’infelice espressione ‘mente informale’), “non-manifestato” per avyakṛta (che si riferisce esclusivamente alla Prakṛti), con l’evidente scopo di allineare questo testo al linguaggio di René Guénon. Nei rimandi in nota, più delle Upaniṣad o dei testi autentici di Śaṃkara, si predilige citare per ogni dove Guénon che, nonostante gli indubbi meriti del suo L’Homme et son Devenir, non può essere considerato una autorità riconosciuta dalla tradizione Advaita. Per sua stessa ammissione, si appoggiò indifferentemente all’Advaita Vedānta di Śaṃkara, al Viśiṣṭādvaita di Rāmānuja e al Sāṃkhya, indubbiamente più prossimi alla prospettiva della sua via iniziatica. Inoltre, seguendo le inclinazioni di Svāmī Kārapātra, il sig. Giorgio Conte cita come fonte sicura il Viveka Cūdāmaṇi, il Dṛg Dṛṣya Viveka, attribuendoli a Śaṃkara, e il Vedāntasāra di Sadānanda Yogendra, autore che seguì Vidyāraṇya nel mischiare Vedānta e Yoga. Le citazioni da queste opere sanscrite talvolta sono corrette, mentre altre volte sono portate a sostegno di tesi non propriamente advitīya, in conformità con le loro posizioni post-śaṃkariane. Nelle note, nonostante tutto, si deve ammettere che il traduttore dimostra una preparazione sull’argomento abbastanza rara in Occidente.
Riguardo alla prefazione, dobbiamo annotare diverse confusioni dovute alla poca confidenza del sig. Marco Marino con la tradizione hindū e particolarmente con la sua metafisica. Anche in questo caso si nota la presenza continua di riferimenti all’opera di René Guénon, questa volta anche con citazioni riguardanti altre tradizioni come l’Islam e il Buddhismo, in generale o specificatamente zen, poco pertinenti o addirittura lontane dall’argomento trattato. Si ritrova la distinzione tra conoscenza teorica, virtuale ed effettiva, tipica della conoscenza non suprema (aparavidyā), che non ha alcun riscontro nell’Advaita, laddove ciò che non è conoscenza (jñāna) è solamente ignoranza (ajñāna). Si ritrovano mescolate a termini tecnici advitīya, espressioni buddhiste o yogiche, come dhamma, ‘sûniyatâ’ ([sic] śūnyatā), parinirvāṇa, upāsanā, dhāraṇa e dhyāna, varie categorie di samādhi, o concezioni islamiche come ‘Identità Suprema’ (l’unicità dell’esistenza) o ‘Stazione Suprema’ (il Brahmaloka), che nulla hanno a che fare con l’Advaita Vedānta. Il prefatore ancora insiste sull’indispensabilità della conoscenza teorica, citando Guénon (p. XVI), affermazione che è smentita nello stesso testo prefato: “Nessuna conoscenza degli Shastra è richiesta per la conoscenza del Sé” (p. 72); per poi concludere incoerentemente che il mezzo più importante per raggiungere tale conoscenza è la concentrazione (p. XVII; lo yogico dhāraṇa?). Sulla medesima lunghezza d’onda è la menzione di una serie di maestri, citati come appartenessero alla medesima trasmissione iniziatica (paramparā) o alla medesima corrente dottrinale (prasthāna). Infatti, Maṇḍana Miśra, Vācaspati Miśra, Prakāśātman, pur essendo nella stessa paramparā śaṃkariana, non hanno seguito lo Śaṃkara prasthāna; Padmapāda (se con lui s’intende l’autore della Pañcapādikā) e Rāmakṛṣṇa Paramhaṃsa non appartenevano alla medesima paramparā. Quest’ultimo seguiva una via di bhakti tantrica, mentre quel Padmapāda era probabilmente un bedhabedhavādin. Quanto a Śrī Ramaṇa Maharṣi, egli non fu ricollegato ad alcun maestro e perciò, pur essendo un puro advaitin, non può essere definito propriamente un vedāntin.
Il libro è comunque degno di essere letto e persino utile per certi versi ai cercatori del vicāra śaṃkariano, mentre potrebbe indurre in fraintendimenti ed errori i lettori con preparazione esclusivamente libresca. A questi raccomandiamo una attenta lettura del Avidyā Śaṃkara Siddhānta che stiamo pubblicando su questo Sito, al fine di premunirsi dagli errori che abbiamo evidenziato.

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