Śrī Śrī Satcidānandendra Sarasvatī Svāmījī
L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’avidyā - Avidyā Śaṃkara Siddhānta
Maitreyī, Prefazione del Curatore
Maitreyī, Prefazione del Curatore
Tra le numerose opere di Parama Pūjya Satcidānandendra Sarasvatī Svāmījī, il testo intitolato Śaṃkara Siddhānta[1] si distingue per lo scopo mirato a fare chiarezza tra le dottrine delle scuole post-śaṃkariane[2] e quelle ascrivibili con certezza a Śaṃkarācārya Bhagavatpāda.
Si tratta della sintesi che scrisse in lingua kannada di un suo più antico e più ampio trattato in sanscrito sul tema della mūlāvidyā[3]. In seguito, D.B. Gangolli tradusse in inglese questa versione abregée in favore dei lettori indiani che non conoscono sanscrito e kannada[4]. L’argomento è stato un filo conduttore soggiacente a tutte le opere di Svāmījī, ma qui si presenta come oggetto cardine d’esame. Indubbiamente si tratta di un trattato di non facile approccio anche perché molto spesso è argomentato secondo le ferree regole della logica tradizionale Nyāya, tuttavia sempre a servizio della visione intuitiva, e per l’uso abbondante di termini tecnici, la cui traduzione abbiamo mantenuto il più possibile aderente all’originale sanscrito. Ciò nonostante, abbiamo ritenuto utile sia per noi stessi sia per il lettore maturo del Sito Veda Vyāsa Maṇḍala, affrontare e pubblicare un’opera tanto specifica da apparire un esercizio dialettico complesso, e che invece è inteso a raddrizzare alcune posizioni dottrinali devianti o cadute di livello che hanno inquinato certi ambienti di Advaita Vedānta. Con questo non intendiamo indicare solamente il Neo-Vedānta “olistico” o accademico[5], ma persino cerchie autenticamente collegate alla advitīya paramparā, che però si sono formate non direttamente sulle opere di Śaṃkara, ma attraverso i sub-commentari prodotti nel corso dei secoli da parte di ācārya e sādhaka che hanno ritenuto opportuno ampliare e correggere l’originale dottrina. Come si trae dalla lettura del testo qui presentato, le conseguenze di tali innovazioni hanno provocato l’insorgere di teorie in parte o del tutto contrarie all’insegnamento śaṃkariano. Le dottrine che appaiono parzialmente contrarie potrebbero talvolta trovare una giustificazione nell’uso didattico rivolto a un determinato discepolo, in una circostanza speciale, per esempio come adhyāropa. Tuttavia, in assenza dell’intervento diretto di un maestro che sottolinei la ragione per tale uso improprio, una semplice lettura senza discriminazione può indurre a gravi errori.
Spesso i discepoli di una particolare paramparā sono portati ad accettare per rispetto e devozione tali tesi ambigue e facilmente male interpretabili solamente perché appaiono negli scritti di venerati ācārya del passato, noti per la loro sapienza e santità. Seguendo il nostro lavoro di traduzione e annotazione, il successore di Svāmī Satcidānandendra Mahārāja, autore della Premessa che segue, ha ritenuto che i suoi discepoli d’estrazione occidentale fossero sufficientemente distaccati da questo atteggiamento devozionale e che perciò potessero rendere pubblico anche in lingua italiana la severa presa di posizione esposta nel trattato.
Come si vedrà, alcune delle tesi dei post-śaṃkariani presentano, però, errori dottrinali gravi, che portano ad affermazioni contrarie alla śruti e ai commenti autentici di Śaṃkara, che sono tradizionalmente solo i Bhāṣya alle dieci maggiori Upaniṣad, ai Brahma Sūtra, alla Bhagavad Gītā e l’Upadeśa Sāhasrī[6]. L’errore principale, da cui dipendono gli altri gravi falli, è il concetto di mūlāvidyā, l’ignoranza-radice, considerata eterna, causa materiale, incomprensibile in quanto tale e parte della natura essenziale dell’Assoluto. Questa teoria è in netto contrasto con la dottrina advaita per cui solo la conoscenza-coscienza è eterna, priva di causa, incontrastata, vera natura dell’Assoluto. Vale a dire che l’ignoranza in quanto tale è inesistente; si tratta solo di conoscenza erronea. Dall’accettazione del mūlāvidyāvāda derivano anche i concetti di uno stato o corpo causale (kāraṇa avasthā o kāraṇa śarīra); il considerare suṣupti solo in quanto stato d’ignoranza; l’obiettiva esistenza di Māyā-Prakṛti-Śakti; l’insufficienza del jñāna per la realizzazione di Brahman-Ātman; la distinzione tra una conoscenza teorica e una effettiva; la necessità della ripetizione della conoscenza o dell’adozione di tecniche yogiche quali dharaṇa e dhyāna per, infine, concludere la via del Vedānta con il ‘samādhi’; l’ostacolo alla conoscenza rappresentato dal corpo, per cui sarebbe necessaria la videha mukti. Queste e molte altre deviazioni che sono qui affrontate e smentite da Svāmījī, śruti e opere śaṃkariane alla mano, con ineccepibile logica al servizio dell’intuizione metafisica.
Svāmī Prakāśānandendra Sarasvatī Mahārāja, Premessa[7]
Parama Pūjya Svāmī Satcidānandendra Mahārājajī, in alcune sue opere, afferma che l’ignoranza (avidyā) è solo conoscenza errata. L’ignoranza assoluta e senza inizio (anādi) di per sé non può esistere, come non hanno alcuna esistenza il vuoto, l’impossibile e l’irreale. Da questa premessa indiscutibile, Svāmījī parte con una critica serrata alla teoria dell’ignoranza radicale, detta mūlāvidyāvāda, basandosi sulla śruti, sui commenti (Bhāṣya) di Śaṃkara Bhagavatpāda e sulla sua personale intuizione universale[8]. La teoria di cui è oggetto questo trattato, tra le altre cose, sostiene che esiste realmente una ignoranza che non ha inizio (anādi), ma che può essere distrutta dalla conoscenza. Ma come ragionevolmente si può accettare la distruzione di mūlāvidyā se è anādi? Secondo i post-śaṃkariani, avidyā è bhavarūpa, esistente per natura. Come bhavarūpa avidyā potrà essere distrutta? Ciò che esiste realmente non può essere distrutto dalla conoscenza. Come una cosa reale può essere distrutta dalla conoscenza? La conoscenza solo rivela un fatto, una realtà. Se tu non capisci, questa tua ignoranza verrà corretta dalla conoscenza. Perciò la conoscenza non rimuove né distrugge qualcosa che realmente è. Da questa obiezione, i post-śaṃkariani cercano di difendersi spiegando come può essere distrutta mūlāvidyā prendendo l’esempio dai naiyāyika. Per questi ultimi, prāgabhāva, è la ‘precedente non esistenza’, o meglio, la ‘precedente assenza di esistenza’. Prima che una cosa nasca o sia prodotta, quella cosa è assente. Quindi l’assenza precedente sarà distrutta dalla nascita, ossia dalla presenza. L’assenza del libro è cancellata dalla presenza del libro. L’errore dei mūlāvidyāvādin è che essi sostengono l’esistenza reale dell’ignoranza (bhavāvidyā). Quindi bhavāvidyā, per loro, è una cosa esistente, ma portano a loro sostegno un esempio di una cosa non esistente.
In secondo luogo, se non esiste cosa c’è da distruggere? Per i naiyāyika l’assenza precedente è qualcosa di sostanziale. Per i naiyāyika l’assenza è qualcosa di positivo, non è semplicemente assenza. Perciò è come correggere un errore facendone un altro. Comunque sia, l’assenza è una immaginazione; non esiste. Quindi, come si fa a distruggere un’assenza precedente se non esiste? Anche se fosse accettato, lì c’è un’assenza. Un altro difetto di questa argomentazione è che la precedente assenza scompare, come nell’esempio dell’argilla e del vaso. La precedente assenza del vaso è distrutta dalla sua creazione: ma questo è karma. Quindi è un’azione: la precedente assenza è distrutta dal karma. Ma qui stai portando soltanto conoscenza; la conoscenza, come può distruggere? Accettiamo pure che il karma distrugga la precedente assenza. Cioè il karma può distruggere un oggetto, perché il karma può trasformare, può far cambiare. Ma il jñāna cambia qualcosa? Il jñāna rivela un fatto, non porta cambiamento. Essi sostengono che avidyā è una cosa reale che scompare con il jñāna: ma il jñāna né cambia né modifica né distrugge. Il jñāna non può creare qualcosa di nuovo né distruggere qualcosa di esistente. Solo rivela quello che è, e se c’è una errata comprensione, allora la corregge. Altro errore è che la precedente assenza è distrutta dalla creazione del vaso. Perché una cosa è parlare di assenza, ma tu invece vuoi trattare di una cosa reale. Quindi è una situazione completamente diversa. Come si è detto, la produzione del vaso è un’azione. L’azione può modificare e distruggere; ma qui stiamo trattando di jñāna. Se sei logico, come puoi correggere una cosa illogica con un altro errore? Aggiungi errore a errore. La conoscenza dimostra solo che non hai capito bene, che devi correggere.
Si usa dire che la conoscenza rimuove l’avidyā perché non c’è una parola per esprimere ‘correzione’; al suo posto si usa bādha, abolizione, rimozione. Vanifichi l’errore precedente, che pensavi fosse vero, conoscendo realmente il fatto. Capisci che il precedente errore era un errore e non la verità, come nell’esempio della corda e del serpente. Nella luce tenue, la corda è presa per un serpente e quando porti un lume, cosa succede alla precedente convinzione? Il serpente è riconosciuto un errore. Quando capisci che il serpente non esisteva, capisci che il pensiero del serpente era sbagliato. Per questa correzione si usa la parola bādha. Ma la parola usata più comunemente è avidyā nivṛtti. Nivṛtti è una parola tecnica. La traducono letteralmente come rimozione, ma questo è il suo significato nella lingua comune. Nel linguaggio vedāntico, non significa esattamente rimozione. Quando porti la luce e capisci la corda stai forse rimuovendo il serpente? Cioè, rimuovere l’errore è usato in senso figurato. Rimuovere, in questo caso, significa correggere l’errore. Cosa significa correzione? Che stai guardando la corda da un altro punto di vista. Tra te e la corda c’è oscurità e distanza. E queste due condizioni interferiscono e fanno vedere la corda come un serpente. Quindi rimuovi l’oscurità e la distanza portando un lume e avvicinandoti. Rimuovendo la distanza cerca di vedere dal punto di vista della corda. Se guardi dal punto di vista della corda, non esiste né distanza né oscurità. Oscurità e distanza sono un punto di vista, un punto di vista in cui oscurità e distanza interferiscono. Rimuovi l’interferenza e va’ al punto di vista della corda. Quando fai questo, il serpente non esiste perché hai spostato il tuo punto di vista. È come il sole che appare sorgere e tramontare finché tu lo consideri dal punto di vista della terra. Come puoi correggere questo fraintendimento? Devi spostare la tua visione dalla terra al sole. Quindi, da quel punto d’osservazione, il sole non si muove né sorge né tramonta. Stai spostando la tua localizzazione dalla terra al sole. Così il fraintendimento viene corretto. Quindi non c’è una rimozione, ma un cambiamento di punto di vista, un cambio di prospettiva. Avidyā è un punto di vista sbagliato; spostati dall’angolatura sbagliata e va’ a quella giusta. Questo spostamento del punto di osservazione è jñāna. Jñāna solo rivela un fatto. Per quello si dice che jñāna non è karma. È solo vedere da un altro punto di vista, non è fare qualcosa. Il modo di vedere non vuol dire rimuovere qualcosa. Però in generale si traduce avidyā nivṛtti come rimozione dell’ignoranza. Nella letteratura sanscrita nivṛtti vuol dire rimozione, ma qui se ne fa un uso vedāntico che è in senso figurato, come anche per bādha, che più propriamente significa spostamento di punto di vista. Perciò si può anche tradurre come ‘render falso’. Il sanscrito dei letterati non ha lo stesso significato e uso del sanscrito vedāntico. Per quanto uno conosca bene il sanscrito letterario, di Kālīdāsa per esempio, se non ne conosce l’uso vedāntico non può tradurre questi nostri testi. Naśa, distruzione, può essere usato come bādha. Ma la parola distruzione è troppo forte e darebbe l’idea che l’oscurità sia qualcosa di solido che viene fatto a pezzi. Invece l’oscurità non è una cosa, è assenza di luce. Avidyā naśa ha lo stesso senso di avidyā bādha o avidyā nivṛtti. L’oscurità, per caso, è simile alla nebbia che il sole fa scomparire lentamente? No, la nebbia è una sostanza, non è come la tenebra. Forse la luce scioglie poco a poco la tenebra e la trasforma, come fa con la nebbia? Distruzione vuol dire trasformare in piccoli pezzi, come si fa con un libro. Come il fuoco trasforma il legno. Si conclude allora che l’oscurità è solo mancanza di luce. Invece i post-śaṃkariani sostengono che l’oscurità è una sostanza. Come una sottile coltre che copre gli oggetti. Questo perché cercano di dimostrare che avidyā è qualcosa di sostanziale. Quando si fanno deduzioni, in India si usa produrre un esempio. Per provare che avidyā è qualcosa di sostanziale avrebbero bisogno di un esempio, che però non c’è. Non c’è un esempio calzante per affermare che la conoscenza distrugge l’ignoranza. Quindi sostengono che l’oscurità è questo sottile strato sostanziale che la luce distrugge. Devono sostenere che l’oscurità non è solo mancanza di luce, ma che è una sostanza. La nebbia e la luce coesistono per un certo periodo, finché i raggi del sole non riescono a farla evaporare. È come una sorta di lotta tra luce e nebbia. Essi sostengono che accada qualcosa di simile tra luce e tenebra. Bhava avidyā (l’esistenza dell’ignoranza) come può coesistere con la conoscenza anche dopo l’insorgere di quest’ultima? C’è una sorta di lotta finché avidyā è eliminata? Ma avidyā come può coesistere con jñāna? Essi dicono che è così perché avidyā è bhavarūpa cioè āvaraṇa (copertura) paragonabile alla nebbia. Così esse convivono come la luce e la nebbia. Ma come possono la conoscenza-luce e l’ignoranza-oscurità convivere? Allora, anche dopo l’insorgere della conoscenza ovvero della luce, l’oscurità continua? Dunque si suppone che anche dopo l’insorgere della luce, l’oscurità continui e che la luce rimuova gradualmente l’oscurità. Questo è un errore che consiste nel supporre che la luce sia capace di rimuovere. Quindi bisogna ripensare alla natura dell’oscurità e della luce: sono o non sono opposte l’una all’altra? Nella Pañcapādikā, attribuita a Padmapāda[9], considerato discepolo diretto di Śaṃkara, si afferma apertamente che non c’è nulla che possa impedire la coesistenza della luce e dell’oscurità. Quindi vidyā e avidyā possono coesistere. Svāmījī afferma che, in questo caso, qualche errore si sarebbe verificato già con i primi discepoli di Śaṃkara. Chi sostiene questa coesistenza non può essere discepolo di Śaṃkara. O forse proviene da un’altra tradizione advaita. Ci sono, anche oggi, diverse correnti advaita come quelle di Ramaṇa Mahāṛṣi, Rāmakṛṣṇa, Dayānanda ecc. Nel caso dei mūlāvidyāvādin, la loro teoria va contro le chiare affermazioni di Śaṃkara. Śaṃkara afferma che conoscenza e oscurità non possono coesistere. La “rimozione” dell’ignoranza coincide con l’insorgere della conoscenza. L’insorgere della conoscenza significa proprio la “rimozione” dell’ignoranza. Non ci sono due fasi. Non c’è la fase dell’insorgere della conoscenza e quella della “rimozione” dell’ignoranza[10]. Non è graduale, perché in tal caso ci sarebbe un minimo tempo di coesistenza. Questa affermazione è ripetutamente presente negli insegnamenti di Śaṃkara. Chi si riconosce nella Pañcapādikā è in contraddizione con Śaṃkara. La successiva tradizione dei post-śaṃkariani difende proprio queste affermazioni. Ci sono dei difetti logici come quello per cui anche dopo l’arrivo della conoscenza l’ignoranza continui. Il primo difetto è la natura della conoscenza: dove c’è conoscenza l’ignoranza non può esistere, come dove c’è luce non può esistere oscurità. Il secondo difetto è supporre che anche dopo l’insorgere della conoscenza, l’ignoranza continui a essere presente. Ma se è incapace di rimuovere l’ignoranza, la natura della mutua opposizione è sbagliata. Il jñāna ajñāna virodha, contraddizione tra conoscenza e ignoranza, sarebbe sbagliato. Se la luce non può rimuovere l’oscurità, se la conoscenza non può rimuovere l’ignoranza, che cosa potrà rimuovere l’ignoranza? In tal caso la conoscenza dovrebbe lottare. Questa lotta cos’è, è conoscenza o è karma? Per cui la conoscenza dovrebbe essere ripetuta. Ma la ripetizione è karma. Quindi secondo loro, jñāna non può rimuovere ajñāna, ma la sua ripetizione, che è una azione, può rimuovere l’ignoranza. Allora i fondamenti dell’Advaita sono stravolti. Comunque, Śaṃkara è chiarissimo nelle sue affermazioni. Se la conoscenza, dopo il suo insorgere, deve combattere contro l’ajñāna, se ne deduce che la conoscenza non è in grado di affrontare e vincere l’ignoranza. Un ulteriore problema è che in tal caso sarebbe l’azione a rimuovere l’ignoranza. Perciò sarebbe necessaria la ripetizione del jñāna. Invece la dottrina è che conoscenza e ignoranza sono incompatibili (jñāna ajñāna virodha). Nel XVIII capitolo dell’Upadeśa Sāhasrī, Śaṃkara prende il jñāna ajñāna virodha come principale opposizione a questa teoria. Per decine di śloka si discute sul questo punto per cui la conoscenza, quando insorge, rimuove l’ignoranza. Questo è quanto. L’oppositore del Vedānta (pūrvapakṣin) sostiene che la conoscenza non può rimuovere l’ignoranza anche dopo il suo insorgere.
Su questo punto si sono formate due scuole. Per la prima, la conoscenza che insorge con il Vedānta non riesce a rimuovere subito l’ignoranza e quindi è necessaria la sua ripetizione per rimuoverla. La seconda scuola dice che con il Vedānta insorge la conoscenza; questa, però non riesce a rimuovere l’ignoranza. Quindi si fa ricorso alla meditazione (upāsanā), per fare emergere una seconda conoscenza in grado di rimuovere l’ignoranza. È come la gallina che fa l’uovo e poi lo cova e ne nasce il pollo. Ci sono dunque due livelli di nascita: la prima è quella dell’uovo e la seconda la nascita del pollo. Nella prima scuola c’è una graduale scomparsa dell’ignoranza che all’inizio convive con la conoscenza. Nella seconda ci sono i due livelli di jñāna. Però nel XVIII capitolo dell’Upadeśa Sāhasrī[11] si confutano entrambe. Queste teorie sono contro ogni logica e contro l’esperienza. Questo è quanto sostiene Svāmījī. Chi legge le opere di Svāmījī diffonde la sua conoscenza e altri sono indotti a leggerne i libri e a correggersi.
Noi per sei anni abbiamo studiato mūlāvidyā e per due l’abbiamo insegnata. Svāmījī ci ha permesso di cambiare punto di osservazione e di riconoscere che, in verità, la conoscenza per sua natura è opposta all’ignoranza. L’insorgere è la stessa ‘rimozione’. L’insorgere e la rimozione non sono due gradini e nemmeno si possono definire simultanei: sono uno. Perché se dici simultanei, intendi due. Se fossero due azioni, allora potrebbero essere simultanee. Se qualcuno viene a chiedere di una persona e tu rispondi che è fuori casa, non è necessario aggiungere che “non è a casa”. Essere fuori e non essere in casa sono la stessa cosa. Che sia andato fuori e che non sia a casa, non sono due eventi, è uno solo. Lo stesso fatto lo descrivi in due modi diversi. Se si dovessero affrontare faccia a faccia conoscenza e ignoranza, quale garanzia ci sarebbe per la vittoria della conoscenza? L’oscurità può essere così forte da vincere la luce? Se la luce dovesse retrocedere, anche la conoscenza potrebbe essere sconfitta. “D’altronde è stato stabilmente affermato che ogni dualità scompare non appena la Realtà ultima è conosciuta.” [12]
[1] Yallambaḷase Subramaṇya Śarma (nome che portava Svāmījī prima di assumere il saṃnyāsa), Śaṃkara Siddhānta, Holenarsipur, Adhyātma Prakāśa Kryālāya, 1940.
[2] Con post-śaṃkariani si intendono coloro che non si rifanno direttamente all’opera di Śaṃkara, ma che seguono i suoi sub-commentatori (vyākhyānakāra), dichiarandosi così seguaci delle correnti (prasthāna) che prendono il nome dai loro sub-commentari: Pañcapādikā, Vivaraṇa e Bhāmatī. Gli advaita vedāntin che hanno continuato a seguire fedelmente l’autentica dottrina di Śaṃkara sono qui definiti semplicemente come ‘śaṃkariani’.
[3] Yallambaḷase Subramaṇya Śarma, Mūlāvidyānirāsaḥ athavā Śaṅkara Hṛidayam, Bangalore, Adhyātma Prakāśa Kryālāya, 2009 (I ed. Bangalore, 1930)
[4] Swāmi Satchidānandendra Saraswati, The pristine pure Advaita Philosophy of Ādi Śaṅkara (Śaṃkara Siddhānta), Holenarsipur, Adhyātma Prakāśa Kryālāya, 1996. Il giornalista di Bombay D.B. Gangolli, pur non essendo suo discepolo, fu un entusiasta devoto di Svāmījī. Purtroppo, nonostante la sincerità e la buona volontà dimostrata, la sua traduzione è di lettura difficoltosa, sia per la qualità del suo inglese sia per la sua poca comprensione del Vedānta. Per affrontare le parti più complesse del testo, che non sono certo rare, si siamo avvalsi dell’autorevole consulenza e dell’insondabile pazienza di Śrī Śrī Prakāśānandendra Sarasvatī Svāmījī.
[5] Sia il Neo-Vedānta sia gli ambienti accademici, compresi quelli indiani, sono caratterizzati dal pregiudizio darwiniano. Perciò tutte le alterazioni e correzioni della dottrina di Śaṃkara da parte dei post-śaṃkariani sono accettate come un’evoluzione e un perfezionamento del pensiero originale. Al contrario, è evidente che rappresentano un notevole abbassamento di livello intellettuale, con una crescente tendenza alla speculazione filosofica e all’uso sempre più indiscriminato di una logica sofistica.
[6] Come dichiara lo Svāmī Satcidānandendra, tutte le altre numerose opere attribuite a Śaṃkara sono di dubbia attribuzione. Tra queste, alcune certamente non rispecchiano la dottrina advitīya originale in punti importanti e quindi non possono essere ritenute autentiche; tra queste il Viveka Cūdāmaṇi, il Dṛg Dṛṣya Viveka, l’Ātma Bodha ecc.
[7] La Premessa fa parte di una upadeśa che Śrī Śrī Prakāśānandendra Svāmījī ci ha dedicato sull’argomento. Queste è la ragione della forma discorsiva in cui si presenta e che noi abbiamo voluto mantenere.
[8] Si basa inoltre sull’autorità dell’Upadeśa Sāhasrī, opera incontestabilmente di Śaṃkara. Alcuni dei testi che non sono di Śaṃkara, ma che spesso gli sono attribuiti, in certe parti trattano correttamente la sua dottrina. Se si prescinde dai punti in cui si sostiene mūlāvidyā, sono ottimi testi. Il Dṛg Dṛṣya Viveka non è certamente di Śaṃkara: la dottrina vi è alterata e anche la lingua è diversa. Anche il Viveka Cūdāmaṇi, in alcune parti è ottima. Questi testi sviluppano talora correttamente alcune affermazioni che Śaṃkara ha trattato in forma breve. Ma il Dṛg Dṛṣya Viveka e il Viveka Cūdāmaṇi non sono esattamente sulle stesse posizioni. Infatti entrambi includono nel Vedānta il concetto yogico di samādhi, di cui il Dṛg Dṛṣya Viveka fa un’esposizione dettagliata. Quindi l’idea di samādhi è stata diffusa in certi ambienti adavaita da questi testi non autentici.
[9] Svāmījī nel testo qui di seguito pubblicato esprime forti dubbi che la Pañcapādikā sia realmente di Padmapāda, adducendo diverse prove a favore delle sue riserve.
[10] Questo “rimuove” anche l’idea che il Vedānta contempli l’esistenza di una conoscenza virtuale e di una effettiva.
[11] Pubblicato nei capitoli 14-24 in: G. G. Filippi, Il Serpente e la Corda, vol. II, Milano, Ekatos ed., 2019.
Pubblicato da Edizioni Ekatos:
Svāmī Satchidānandendra Sarasvatī, L’autentica dottrina di Śaṃkara sull’ignoranza – Avidyā Śaṃkara Siddhānta
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