"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 31 marzo 2020

René Guénon, Studi sull'Induismo - III - Kundalinî-Yoga

René Guénon
Studi sull'Induismo

III - Kundalinî-Yoga[1]

In diverse riprese si è già parlato su queste pagine degli studi di Arthur Avalon (sir John Woodroffe), dedicati a uno degli aspetti più mal conosciuti delle dottrine indù; quello che viene chiamato «tantrismo», in quanto si fonda sui trattati indicati sotto la dizione generica di tantra, e che è d’altronde molto più ampio e molto meno nettamente delimitato di quanto generalmente si creda, è infatti stato quasi sempre trascurato dagli orientalisti, i quali se ne sono tenuti lontani sia per la difficoltà di capirlo sia per certi pregiudizi; pregiudizi che d’altronde non sono se non una diretta conseguenza della loro incomprensione.
Uno dei principali lavori di Arthur Avalon, dal titolo The Serpent Power, è stato ripubblicato di recente[2]; non ci ripromettiamo di farne qui un’analisi, che sarebbe quasi impossibile e inoltre poco interessante (sarebbe meglio, per quelli fra i nostri lettori che conoscono l’inglese, riferirsi al volume vero e proprio, del quale riusciremmo solo a dare un’idea incompleta), ma di precisare invece il vero significato del suo contenuto, senza però obbligarci a seguire l’ordine nel quale gli argomenti sono in esso esposti[3].
Per cominciare, diremo subito che non possiamo trovarci totalmente d’accordo con l’autore sul significato fondamentale da attribuire al termine yoga, il quale, essendo letteralmente quello di «unione», non potrebbe esser capito se non fosse essenzialmente applicato al fine supremo di qualsiasi «realizzazione»; a questa considerazione Arthur Avalon oppone che non si può parlare di unione se non tra due esseri distinti, e che jîvâtmâ non è di fatto distinto da Paramâtmâ. Ciò è perfettamente giusto, ma benché l’individuo non si distingua di fatto dall’Universale se non in modo illusorio, occorre non dimenticare che è dall’individuo che parte necessariamente qualsiasi «realizzazione» (questa parola non avrebbe altrimenti nessuna ragion d’essere) e che, dal suo punto di vista, la realizzazione presenta l’apparenza di una «unione», anche se, a dire il vero, essa non è affatto qualcosa «che dev’essere effettuato», ma soltanto una presa di coscienza di «ciò che è», vale a dire dell’«Identità suprema». Un termine come yoga esprime perciò l’aspetto che le cose assumono quando siano viste dal lato della manifestazione, aspetto che è evidentemente illusorio allo stesso titolo della manifestazione stessa; ma questo accade in modo inevitabile per tutte le forme di linguaggio, giacché esse appartengono alla sfera della manifestazione individuale, e basta esserne avvertiti per non essere indotti in errore dalla loro imperfezione, né essere tentati di vedere in ciò l’espressione di un reale «dualismo». È soltanto secondariamente e per estensione che la parola yoga può poi essere applicata all’insieme dei mezzi diversi messi in opera per ottenere la «realizzazione», mezzi che sono solo preparatori e ai quali il nome «unione», in qualsiasi modo si intenda, non potrebbe propriamente convenire; ma queste considerazioni non infirmano minimamente l’esposizione di cui parliamo, giacché, quando il termine «yoga» è preceduto da un qualificativo, per modo che se ne distinguano più sorta, è chiaramente evidente che esso è usato per indicare i mezzi, i quali soli sono molteplici, mentre il fine è necessariamente uno, e sempre lo stesso, in tutti i casi.
Il genere di yoga di cui qui si tratta si riconduce a quello che è chiamato Laya-Yoga, e consiste essenzialmente in un processo di «dissoluzione» (laya), vale a dire di riassorbimento, nel non manifestato, dei diversi elementi costitutivi della manifestazione individuale, riassorbimento che si effettua gradualmente secondo un ordine che è rigorosamente l’inverso di quello della produzione (srishti), o sviluppo (prapancha) della manifestazione[4]. Gli elementi, o principi, di cui si tratta, sono i tattwa, che lo Sânkhya enumera quali produzioni di Prakriti sotto l’influenza di Purusha: essi sono il «senso interno», cioè il «mentale» (Manas), unito alla coscienza individuale (ahankâra) e attraverso quest’ultima all’intelletto (Buddhi o Mahat); i cinque tanmâtra, o essenze elementari sottili; le cinque facoltà di sensazione (jnânêndrya) e le cinque facoltà d’azione (karmêndrya)[5]; infine, i cinque bhûta, o elementi corporei[6]. Ciascun bhûta, con il tanmâtra al quale corrisponde e le facoltà di sensazione e di azione che da questo procedono, viene riassorbito in quello che lo precede immediatamente secondo l’ordine di produzione, in modo tale che l’ordine di riassorbimento è il seguente: 1. la terra (prithvî), con la qualità olfattiva (gandha), il senso dell’odorato (ghrâna) e la facoltà di locomozione (pâda); 2. l’acqua (ap), con la qualità sapida (rasa), il senso del gusto (rasana) e la facoltà di prensione (pâni); 3. il fuoco (tejas), con la qualità visiva (rûpa), il senso della vista (chakshus) e la facoltà di escrezione (pâyu); 4. l’aria (vâyu), con la qualità tattile (sparsha), il senso del tatto (twach) e la facoltà di generazione (upastha); 5. l’etere (âkasha), con la qualità sonora (shabda), il senso dell’udito (shrotra) e la facoltà della parola (vâch); e infine, nell’ultimo stadio, il tutto è riassorbito nel «senso interno» (manas), e tutta la manifestazione individuale si trova così ridotta al suo primo termine, e in qualche modo concentrata in un punto al di là del quale l’essere passa in un’altra sfera. Saranno dunque questi i sei gradi preparatori che dovrà attraversare successivamente colui che segue la via di «dissoluzione», affrancandosi in tal modo gradualmente dalle diverse condizioni limitative dell’individualità, prima di raggiungere lo stato sovraindividuale nel quale potrà essere realizzata, nella Coscienza pura (Chit), totale e informale, l’unione effettiva con il Sé supremo (Paramâtmâ), unione il cui risultato immediato è la «Liberazione» (Moksha).
Per ben comprendere quel che segue è importante non perdere mai di vista la nozione dell’analogia costitutiva del «Macrocosmo» e del «Microcosmo», in virtù della quale tutto quel che esiste nell’Universo si ritrova anche in un certo modo nell’uomo, cosa che il Vishwasâra Tantra esprime in questi termini: «Ciò che è qui è là, quel che non è qui non c’è da nessuna parte» (Yad ihâsti tad anyatra, yan nêhâstri na tat kwachit). Bisogna aggiungere che, a motivo della corrispondenza esistente fra tutti gli stati dell’esistenza, ciascuno di essi contiene in sé, in un certo modo, quasi un riflesso di tutti gli altri, ciò che permette di «situare», ad esempio, nel campo della manifestazione grossolana, sia essa presa in considerazione nell’insieme cosmico o nel corpo umano, «regioni» corrispondenti a modalità diverse della manifestazione sottile, così come a tutta una gerarchia di «mondi» che rappresentano altrettanti gradi differenti nell’esistenza universale.
Ciò detto, è facile concepire come ci siano nell’essere umano dei «centri» che corrispondono rispettivamente a ciascuno dei gruppi di tattwa da noi enumerati, centri che, anche se appartengono essenzialmente alla forma sottile (sûkshma-sharîra), possono in un certo senso essere «localizzati» nella forma corporea o grossolana (sthûla-skarîra) o, per dir meglio, essere messi in rapporto con le diverse parti di quest’ultima; tali «localizzazioni» non sono in realtà se non un modo per esprimere corrispondenze come quelle di cui abbiamo appena parlato, le quali comportano invero, in modo molto reale, un legame particolare tra un certo centro sottile e una determinata porzione dell’organismo corporeo. È per tale motivo che i sei centri in questione sono riferiti alle divisioni della colonna vertebrale, chiamata Mêru-danda in quanto costituente l’asse del corpo umano, così come, dal punto di vista «macrocosmico», il Mêru è l’«asse del mondo»[7]: i cinque primi, in senso ascendente, corrispondono rispettivamente alle regioni coccigea, sacrale, lombare, dorsale e cervicale, e il sesto alla parte encefalica del sistema nervoso centrale; ma deve essere ben chiaro che questi «centri» non sono centri nervosi nel senso fisiologico della parola e che non bisogna confonderli con i diversi plessi, come qualcuno ha voluto fare (il che è del resto in formale contraddizione con la loro «localizzazione» all’interno della colonna vertebrale), poiché non si tratta di una identità, ma soltanto di una relazione fra due sfere distinte di manifestazione, relazione che è d’altronde sufficientemente giustificata dal fatto che è precisamente attraverso il sistema nervoso che si stabilisce uno dei legami più diretti tra lo stato corporeo e lo stato sottile[8].
Alla stessa stregua, i «canali» sottili (nâdî) non sono né nervi né vasi sanguigni; essi sono, si potrebbe dire, le «linee direzionali seguite dalle forze vitali». Di questi «canali» i tre principali sono sushumnâ, che occupa la posizione centrale, idâ e pingalâ, le due nâdî di sinistra e di destra, la prima femminile o negativa, la seconda maschile o positiva; le due ultime corrispondono di conseguenza a una «polarizzazione» delle correnti vitali. Sushumnâ è «situata» all’interno dell’asse cerebro-spinale, e si prolunga fino all’orifizio corrispondente alla corona del capo (Brahma-randhra); idâ e pingalâ si trovano all’esterno di questo asse, attorno al quale si intersecano in una sorta di doppia rotazione elicoidale per raggiungere rispettivamente le due narici di sinistra e di destra, e sono in tal modo in rapporto con la respirazione alternata dall’una all’altra narice[9]. I «centri» di cui abbiamo parlato sono situati lungo il percorso di sushumnâ, e, più esattamente, al suo interno (in quanto essa è descritta come se contenesse altri due «canali» concentrici e più tenui, che ricevono i nomi di vajrâ e chitrâ)[10]; e poiché sushumnâ è «localizzata» nel canale midollare, è chiaramente evidente che non può trattarsi in alcun modo di organi corporei.
Tali centri sono chiamati «ruote» (chakra), e vengono descritti come «loti» (padma), ognuno dei quali ha un determinato numero di petali (che si irraggiano nell’intervallo compreso tra vajrâ e chitrâ, ossia all’interno della prima ed intorno alla seconda). I sei chakra sono: mûlâdhâra, alla base della colonna vertebrale; swadhisthâna, che corrisponde alla regione addominale; manipûra, che corrisponde alla regione ombelicale; anâhata, che corrisponde alla regione del cuore; vishuddha, che corrisponde alla regione della gola; âjnâ, che corrisponde alla regione situata tra i due occhi, vale a dire al «terzo occhio»; infine, alla sommità del capo, intorno al Brahma-randhra, vi è un settimo «loto», sahasrâra o «loto dal mille petali», il quale non viene compreso nel numero dei chakra perché, come si vedrà in seguito, si riferisce, in quanto «centro di coscienza», a uno stato che è al di là dei limiti dell’individualità[11]. Seguendo le descrizioni indicate per la meditazione (dhyâna), ogni «loto» porta nel pericarpo lo yantra, o simbolo geometrico del bhûta corrispondente, nel quale si trova il bîja-mantra di quest’ultimo, sorretto dal suo «veicolo» simbolico (vâhana); costì risiede pure una «deità» (dêvâta), accompagnata da una Shakti particolare. Le «deità» che presiedono al sei chakra, e che altro non sono se non le «forme di coscienza» attraverso le quali l’essere passa negli stati corrispondenti, sono rispettivamente, in ordine ascendente, Brahmâ, Vishnu, Rudra, Isha, Sadâshiva e Shambhu, i quali hanno inoltre, secondo un punto di vista «macrocosmico», le loro «dimore» nei sei «mondi» (loka) gerarchicamente sovrapposti: Bhûrloka, Bhuvaloka, Swarloka, Janaloka, Tapoloka e Maharloka; a Sahasrâra presiede Paramashiva, la cui dimora è il Satyaloka; sicché tutti questi mondi hanno una loro corrispondenza nei «centri di coscienza» dell’essere umano, secondo il principio analogico da noi precedentemente indicato. Infine, ognuno dei petali dei diversi «loti» porta una lettera dell’alfabeto sanscrito, o forse sarebbe più esatto dire che i petali sono costituiti dalle lettere stesse[12]; sarebbe però di poca utilità scendere ora più nei particolari dell’argomento, e i complementi necessari troveranno una più adatta collocazione nella seconda parte dello studio, quando avremo detto cos’è Kundalinî, della quale non abbiamo finora ancora parlato.
Kundalinî è un aspetto della Shakti intesa come forza cosmica: si potrebbe dire che essa è questa forza stessa in quanto risiede nell’essere umano, nel quale agisce come forza vitale; e il nome Kundalinî significa che essa viene rappresentata arrotolata su se stessa al modo di un serpente; le sue manifestazioni più generali si effettuano del resto sotto la forma di un movimento a spirale che si sviluppa a partire da un punto centrale che ne è il «polo»[13]. L’«arrotolamento» simboleggia uno stato di riposo, quello di una energia «statica» dalla quale derivano tutte le forme di attività manifestata; in altri termini, tutte le forze vitali più o meno differenziate che sono in costante azione nell’individualità umana, nella sua duplice modalità sottile e corporea, non sono che aspetti secondari di questa Shakti, la quale in sé, come Kundalinî, permane immobile nel «centro-radice» (mûlâdhâra), in quanto fondamento e sostegno di tutta la manifestazione individuale. Quando essa è «risvegliata», si srotola e si muove in direzione ascendente, riassorbendo in se stessa le differenti Shakti secondarie a mano a mano che attraversa i diversi centri di cui abbiamo parlato in precedenza, per unirsi infine a Paramashiva nel «loto dai mille petali» (sahasrâra).
La natura di Kundalinî viene descritta a un tempo come luminosa (jyotirmayî) e sonora (shabdamayî o mantramayî); è noto che la «luminosità» è considerata caratteristica propria dello stato sottile, ed è d’altra parte noto anche il ruolo primordiale del suono nel processo cosmogonico; molto ci sarebbe da dire, inoltre, sulla stretta relazione esistente tra suono e luce[14]. Non possiamo dilungarci qui sulla teoria estremamente complessa del suono (shabda) e delle sue diverse modalità (para o non manifestata, pashyanti e madhyamâ, l’una e l’altra appartenenti all’ordine sottile, e infine vaikhari, che è la parola articolata), teoria sulla quale si fonda tutta la scienza del mantra (mantra-vidyâ); faremo tuttavia notare che è con essa che si spiega, non solo la presenza dei bija-mantra degli elementi all’interno dei «loti», ma anche quella delle lettere sui loro petali. Dev’essere ben compreso, in effetti, che qui non si tratta delle lettere in quanto caratteri scritti, né dei suoni articolati che percepisce l’orecchio; queste lettere sono considerate essere i bija-mantra, o «nomi naturali», di tutte le attività (kriya) in connessione con il tattwa del centro corrispondente, o come le espressioni, in suono grossolano (vaikharî-shabda), dei suoni sottili prodotti dalle forze che costituiscono queste attività.
Finché Kundalinî permane in stato di riposo, essa risiede nel mûlâdhâra-chakra, il quale è, come abbiamo detto, il centro «localizzato» alla base della colonna vertebrale, ed è la radice (mûla) di sushumnâ e di tutte le nâdî.Quivi è il triangolo (trikona) chiamato Traipura[15], il quale è la sede della Shakti (shakti-pîtha); questa è arrotolata tre volte e mezzo[16] attorno al linga simbolico di Shiva, denominato Swayambhu e la sua testa ricopre il Brahma-dwâra, ossia l’entrata di sushumnâ[17]. Ci sono altri due linga, il primo (Bâna) nell’anâhata chakra, il secondo (Itara) nell’âjnâ chakra; essi corrispondono ai principali «nodi vitali» (granthi), il cui attraversamento costituisce quelli che potrebbero dirsi i «punti critici» nel processo di Kundalinî-Yoga[18]; infine, c’è un quarto linga (Para) in sahasrâra, «dimora» di Paramashiva.
Quando Kundalinî viene «risvegliata» per mezzo di pratiche appropriate, pratiche nella cui descrizione non ci addentreremo, essa penetra all’interno di sushumnâ, e nel corso della sua ascensione «fora», attraversandoli successivamente, i diversi «loti», i quali si schiudono sbocciando al suo passaggio; e, a mano a mano che tocca in questo modo ciascun centro, essa riassorbe in se stessa, come già abbiamo detto, i diversi principi della manifestazione individuale che sono collegati in particolare con tale centro, i quali, riportati così allo stato potenziale, sono con essa trascinati nel suo movimento verso il centro superiore. Sono, questi, altrettanti stadi del Laya-Yoga: a ognuno di questi stadi è fatto corrispondere anche l’ottenimento di determinati «poteri» (siddhi) speciali, sennonché è opportuno notare che la cosa essenziale non è assolutamente l’ottenimento di tali poteri, anzi, su questo fatto non si attirerà mai troppo l’attenzione degli Occidentali, giacché la loro tendenza generale è di attribuire a questo genere di cose, come del resto a tutto ciò che è «fenomeno», un’importanza che esse non hanno, né possono in realtà avere. Come l’autore fa osservare con assoluta ragione, lo yogî (o, per parlare in modo più esatto, quegli che è sulla strada per diventarlo) non aspira al possesso di nessuno stato condizionato, quand’anche fosse uno stato superiore o «celeste», per elevato che esso possa essere, ma unicamente alla «Liberazione»; a maggior ragione egli non può essere attirato da «poteri» la cui fruizione si situa totalmente nella sfera della manifestazione più esteriore. Colui che ricerca tali «poteri» per se stessi e di essi fa lo scopo del suo sviluppo, invece di vedere in essi non altro che semplici risultati accidentali, non sarà mai un vero yogî, giacché essi costituiranno per lui degli ostacoli insuperabili, i quali gli impediranno di continuare a seguire la via ascendente fino al suo termine finale; tutta la sua «realizzazione» non consisterà perciò mai se non in talune estensioni dell’individualità umana, risultato il cui valore è rigorosamente nullo nei confronti della meta suprema. Normalmente, i «poteri» di cui si tratta devono essere considerati soltanto come segni indicanti che l’essere ha effettivamente raggiunto questo o quello stadio; si tratta, se si vuole, di un mezzo esteriore di controllo; ma ciò che realmente importa, in qualunque stadio, è un determinato stato di «coscienza», rappresentato, come abbiamo detto, da una «deità» (dêvâta) alla quale l’essere si identifica in tale grado di «realizzazione»; e questi stessi stati hanno soltanto il valore di una preparazione graduale all’«unione» suprema, la quale non ha in rapporto a essi nessuna misura comune, giacché comune misura non può esserci tra ciò che è condizionato e ciò che condizionato non è.
Non ripeteremo l’enumerazione, già da noi data nella prima parte del nostro studio, dei centri che corrispondono ai cinque bhûta e delle loro rispettive «localizzazioni»[19]; essi si riferiscono ai differenti gradi della manifestazione corporea, e nel passaggio dall’uno all’altro ciascun gruppo di tattwa è «dissolto» nel gruppo immediatamente superiore, il più grossolano riassorbendosi sempre nel più sottile (sthulânâm sûkshme layah). Per ultimo viene l’âjnâ chakra, nel quale sono i tattwa sottili di ordine «mentale», e nel cui pericarpo è il monosillabo sacro Om; questo centro riceve tale denominazione perché è quivi che è ricevuto dall’alto (vale a dire dalla sfera sovraindividuale) il comando (âjnâ) del Guru interiore, il quale è Paramashiva, che è in realtà identico al «Sé»[20]. La «localizzazione» di questo chakra è in relazione diretta con il «terzo occhio», il quale è l’«occhio della Conoscenza» (Jnâna chakshus); il centro cerebrale che vi corrisponde è la ghiandola pineale, la quale certo non è la «sede dell’anima», secondo la concezione veramente assurda di Cartesio, ma ha nondimeno un ruolo particolarmente importante in quanto organo di connessione con le modalità extracorporee dell’essere umano. Come abbiamo spiegato in altra sede, la funzione del «terzo occhio» si riferisce essenzialmente al «senso dell’eternità» e alla restaurazione dello «stato primordiale» (del quale abbiamo anche segnalato in diverse occasioni il rapporto con Hamsa, sotto la cui forma si afferma che Paramashiva si manifesti in questo centro); lo stadio di «realizzazione» corrispondente all’âjnâ chakra comporta perciò la perfezione dello stato umano, e in esso è il punto di contatto con gli stati superiori, ai quali si riferisce tutto quel che si trova di là da tale stadio[21].
Al di sopra di âjnâ vi sono due chakra secondari chiamati mana e soma[22]; e nel pericarpo di sahasrâra vi è un altro «loto» con dodici petali, il quale contiene il triangolo supremo Kâmakalâ, «dimora» della Shakti[23]. Shabdabrahma, ossia lo stato «causale» e non manifesto del suono (shabda), è rappresentato da Kâmakalâ, che è la «radice» (mûla) di tutti i mantra, e ha la sua corrispondenza inferiore (che può considerarsi come il suo riflesso in rapporto con la manifestazione grossolana) nel triangolo Traipura di mûlâdhâra. Non possiamo pensare di entrare nel dettaglio delle descrizioni estremamente complesse che vengono date di questi diversi centri per la meditazione, le quali si riferiscono per la loro maggior parte alla mantra-vidyâ, né all’enumerazione delle differenti Shakti specifiche che hanno le loro «sedi» tra âjnâ e sahasrâra. Infine, sahasrâra è chiamato Shivasthâna, in quanto è la residenza di Paramashiva, in unione con la suprema Nirvâna Shakti, o «madre dei tre mondi»; essa è la «dimora della beatitudine», in cui il «Sé» (Âtmâ) è realizzato. Quegli che conosce veramente e pienamente sahasrâra è affrancato dalla «trasmigrazione» (samsâra) poiché ha infranto, a motivo di questa conoscenza stessa, tutti i vincoli che lo mantenevano legato a essa, e ha raggiunto di conseguenza lo stato di jîvan-mukta.
***
Termineremo questo studio con un’osservazione, che crediamo non sia ancora mai stata fatta da nessun’altra parte, sulla concordanza dei centri di cui si è qui parlato, con le Sephiroth della Kabbala, le quali, di fatto, devono necessariamente avere, come tutte le cose, la loro corrispondenza nell’essere umano. Un’obiezione potrebbe essere che le Sephiroth sono dieci, mentre i sei chakra più sahasrâra fanno soltanto sette; sennonché questa obiezione cade se si osserva che, nella disposizione dell’«albero sephirotico», vi sono tre coppie poste simmetricamente sulle «colonne» di destra e di sinistra, per modo che l’insieme delle Sephiroth si suddivide soltanto su sette livelli diversi; tenendo conto delle loro proiezioni sull’asse centrale, o «colonna di mezzo», la quale corrisponde a sushumnâ (le due colonne laterali sono in rapporto con idâ e pingalâ), ci si trova perciò ricondotti al settenario[24].
Partendo dall’alto, non si incontra inizialmente nessuna difficoltà per quel che riguarda l’accostamento di sahasrâra, «localizzato» al livello della corona del capo, con la Sephirah suprema, Kether, il cui nome significa precisamente «corona». Viene poi l’insieme di Hokmah e Binah, che deve corrispondere ad âjnâ, la cui dualità potrebbe addirittura essere rappresentata dai due petali di questo «loto»; del resto, essi danno come «risultante» Daath, ossia la «Conoscenza», e abbiamo visto che la «localizzazione» di âjnâ si riferisce anche all’«occhio della Conoscenza»[25]. La coppia seguente, vale a dire Hesed e Geburah, può, seguendo un simbolismo assai generale riguardante gli attributi di «Misericordia» e di «Giustizia», esser posta, nell’uomo, in relazione con le due braccia[26]; queste due Sephiroth si localizzeranno perciò al livello delle due spalle, e di conseguenza a quello della regione gutturale, venendo così a corrispondere a Vishuddha[27]. Quanto a Thiphereth, la sua posizione centrale si riferisce chiaramente al cuore, e ciò comporta immediatamente una sua corrispondenza con anâhata. La coppia Netsah e Hod si posizionerà alle anche, punto d’attacco delle membra inferiori, così come quello di Hesed e Geburah è posizionato alle spalle, punto d’attacco delle membra superiori; ora, le anche sono situate al livello della regione ombelicale, perciò di manipûra. E infine, per quanto riguarda le due ultime Sephiroth, sembra che si debba tener conto di una inversione, poiché Iesod, secondo il significato stesso del suo nome, è il «fondamento», il che corrisponde esattamente a mûlâdhâra. Occorrerebbe perciò accostare Malkuth a swâdhisthâna, cosa che sembra del resto essere giustificata dal significato dei nomi rispettivi, giacché Malkuth è il «Regno» e swâdhisthâna significa letteralmente la «dimora propria» della Shakti.
Nonostante la lunghezza della nostra esposizione, con essa abbiamo soltanto tracciato un abbozzo di alcuni aspetti di un argomento che è veramente inesauribile, sperando solo con ciò di aver potuto fornire qualche delucidazione utile per coloro che vorranno spingerne lo studio più lontano.



[1] Pubblicato in «Le Voile d’Isis», ottobre e novembre 1933. [N.d.T.]
[2] The Serpent Power, 3a edizione riveduta, Ganesh e Cie., Madras. Il volume comprende la traduzione di due testi, Shatchakra nirûpana e Pâdukâ-panchaka, preceduta da una lunga e importante introduzione: il nostro studio si riferisce al contenuto di quest’ultima.
[3] Su molti punti non possiamo far meglio che rimandare il lettore al nostro studio L’Homme et son devenir selon le Vêdânta, per spiegazioni che ci è impossibile riprodurre in un articolo, e che per conseguenza dobbiamo supporre già conosciute.
[4] Ci rammarichiamo che l’autore si serva frequentemente, e in particolare per tradurre srishti, della parola «creazione», la quale, come abbiamo spesso spiegato, non è adeguata al punto di vista della dottrina indù; sappiamo purtroppo bene a quante difficoltà dia luogo la necessità di servirsi di una terminologia occidentale, la più inadatta possibile per ciò che si tratta di esprimere; pensiamo tuttavia che tale parola sia fra quelle che si possono evitare con facilità, e di fatto noi stessi non ce ne siamo mai serviti. Mentre siamo in materia di questioni terminologiche, segnaleremo anche l’improprietà consistente nel tradurre samâdhi con «estasi»; l’uso di questa parola è tanto più inopportuno in quanto essa è normalmente impiegata, nel linguaggio occidentale, con riferimento a stati mistici, ossia a cose che sono di ordine del tutto diverso e con le quali è di importanza essenziale che si eviti ogni confusione: del resto, essa significa etimologicamente «uscire da se stessi» (il che è di fatto appropriato per gli stati mistici), mentre il termine samâdhi indica, propriamente, al contrario, «un rientrare» dell’essere nel suo proprio Sé.
[5] Il termine indriya designa sia una facoltà, sia l’organismo che a essa corrisponde, ma è preferibile tradurlo genericamente con «facoltà», innanzitutto perché ciò è conforme al suo senso primario, che è quello di «potere», e poi anche perché la considerazione della facoltà è in questo caso più essenziale di quella dell’organo corporeo, a motivo della preminenza della manifestazione sottile rispetto alla manifestazione grossolana.
[6] Non riusciamo a capire molto bene l’obiezione fatta dall’autore contro l’uso, a indicare i bhûta, della parola «elementi», che è il termine tradizionale dell’antica fisica; non è il caso di preoccuparsi del disuso in cui tale accezione è caduta nei moderni, per i quali, d’altronde, è divenuta analogamente estranea qualsiasi concezione propriamente «cosmologica».
[7] Desta una certa sorpresa il fatto che l’autore non abbia segnalato il rapporto esistente tra ciò e il simbolismo della canna brâhmanica (Brama-danda), e questo ancor più in quanto egli fa a più riprese allusione all’equivalente simbolismo del caduceo.
[8] L’autore fa molto giustamente notare quanto siano sbagliate le interpretazioni che gli Occidentali avanzano abitualmente, i quali confondono i due ordini di manifestazione, e vogliono di conseguenza ricondurre tutte queste cose a un punto di vista puramente anatomico e fisiologico: gli orientalisti, i quali non conoscono nessuna scienza tradizionale, credono che si tratti solo di una descrizione più o meno fantasiosa di determinati organi corporei; gli occultisti, dal canto loro, per quanto ammettano l’esistenza distinta di un organismo sottile, immaginano quest’ultimo come una sorta di «doppio» del corpo, soggetto alle sue stesse condizioni, e ciò è quasi altrettanto inesatto e non può che portare similmente a rappresentazioni grossolanamente materializzate; a quest’ultimo proposito, l’autore fa vedere, arrivando ad alcuni particolari, quanto le concezioni dei teosofisti, in special modo, siano lontane dalla vera dottrina indù.
[9] Nel simbolo del caduceo la bacchetta centrale corrisponde a sushumnâ e i due serpenti a idâ e pingalâ; queste ultime due sono talvolta anche rappresentate, sulla canna brâhmanica, dalla traccia di due linee elicoidali che si arrotolano in senso inverso l’una dall’altra, in guisa tale da intersecarsi all’altezza di ciascuno dei nodi che raffigurano i diversi centri. Nelle corrispondenze cosmiche idâ è riferita alla Luna, pingalâ al Sole, e sushumnâ al principio igneo; è interessante notare la relazione che ciò presenta con le «Tre Grandi Luci» del simbolismo massonico.
[10] Si dice anche che sushumnâ corrisponde per sua natura al fuoco, Vajrâ al Sole e Chitrâ alla Luna; la parte interna di quest’ultima, che forma il condotto più centrale, è chiamata Brahma-nâdî.
[11] I sette nodi della canna brâhmanica simboleggiano i sette «loti»; nel caduceo, invece, sembra che la sfera terminale debba essere riferita solo ad âjnâ, e le due ali che l’accompagnano sono allora identiche ai due petali di questo «loto».
[12] Il numero dei petali è: 4 per mûlâdhâra, 6 per swâdhistâna, 10 per manipûra, 12 per anâhata, 16 per vishuddha, 2 per âjnâ, per un totale di 50, numero che è anche quello delle lettere dell’alfabeto sanscrito; in sahasrâra si ritrovano tutte le lettere, e ognuna di esse vi è ripetuta 20 volte (50´20=1000).
[13] Si veda quel che abbiamo detto riguardo alla spirale ne Il simbolismo della Croce, Milano, Rusconi, 1973; ricordiamo anche la figura del serpente arrotolato intorno all’«Uovo del mondo» (Brahmânda), e quella dell’omphalos, del quale ritroveremo precisamente l’equivalente tra poco.
[14] Su questo punto ricorderemo soltanto, a titolo di concordanza particolarmente impressionante, l’accostamento che all’inizio del Vangelo di S. Giovanni viene fatto tra i termini Verbum, Lux e Vita, accostamento che, precisiamo, per essere pienamente compreso deve essere riferito al mondo di Hiranyagarbha.
[15] Il triangolo, in quanto yantra della Shakti, è sempre tracciato con la base in alto e il vertice in basso; sarebbe facile farne vedere la concordanza con molti altri simboli del principio femminile.
[16] Indicheremo di sfuggita un’analogia tra questi tre giri e mezzo della posizione arrotolata di Kundalinî e i tre giorni e mezzo durante i quali, secondo diverse tradizioni, lo spirito permane legato al corpo dopo la morte, periodo che significa il tempo necessario per lo «snodarsi» della forza vitale, rimasta in stato «non-risvegliato» nel caso dell’uomo comune. Un giorno rappresenta una rivoluzione ciclica, corrispondente a un giro della spirale; e poiché il processo di riassorbimento è sempre l’inverso di quello della manifestazione, tale «svolgersi» è considerato riassumere in certo qual senso l’intera vita dell’individuo, ma riepilogata risalendo il corso degli avvenimenti che l’hanno costituita; non è quasi il caso di ricordare che questi dati, mal capiti, troppo spesso hanno dato luogo a ogni sorta di interpretazioni fantasiose.
[17] Il mandala, o yantra, dell’elemento Prithvî è un quadrato, il quale corrisponde in quanto figura piana al cubo, la cui forma simboleggia le idee di «fondamento» e di «stabilità»; si potrebbe dire, per adottare il linguaggio della tradizione islamica, che si è qui di fronte a una corrispondenza con la «pietra nera», equivalente del linga indù, come pure dell’omphalos, il quale è, come abbiamo esposto in altra sede, uno dei simboli del «centro del Mondo».
[18] Questi tre linga si riferiscono anche alle diverse dislocazioni, a seconda dello stato di sviluppo dell’essere, del Luz o «nocciolo d’immortalità», del quale abbiamo parlato ne Le Roi du Monde (trad. cit.).
[19] È opportuno osservare che anâhata, riferito alla regione del cuore, deve essere distinto dal «loto del cuore», di otto petali, dimora di Purusha; quest’ultimo è «situato» dentro il cuore stesso, inteso come «centro vitale» dell’individualità.
[20] Tale comando corrisponde al «mandato del Cielo» della tradizione estremo-orientale; sotto un altro profilo, la denominazione âjnâ chakra potrebbe in arabo essere esattamente resa con maqâm el-amr, e ciò indicherebbe che si tratta del riflesso diretto, nell’essere umano, del «mondo» chiamato âlam el-amr, così come, dal punto di vista «macrocosmico», questo riflesso si situa, nel nostro stato di esistenza, nel luogo centrale del «Paradiso terrestre»; si potrebbero inoltre dedurre da qui precise considerazioni sulla modalità delle manifestazioni «angeliche» nei confronti dell’uomo, ma questo esorbiterebbe completamente dall’argomento che stiamo trattando.
[21] La visione del «terzo occhio», grazie alla quale l’essere si affranca dalla condizione temporale (e che non ha nulla in comune con la «chiaroveggenza» degli occultisti e dei teosofisti), è legata intimamente alla funzione «profetica»; a ciò fa allusione la parola sanscrita rishi, che significa propriamente «veggente» e ha l’esatto equivalente nell’ebraico roèh, antica denominazione dei profeti, sostituita più tardi dalla parola nâbi (ossia «quegli che parla per ispirazione»). Segnaliamo inoltre, senza insistervi particolarmente, che ciò che esponiamo in questa nota e nella precedente è in rapporto con l’interpretazione esoterica della Sûrat El-Qadr, la quale tratta della «discesa» del Qorân.
[22] Questi due chakra vengono rappresentati come «loti» di 6 e di 16 petali rispettivamente.
[23] Una delle ragioni per le quali la Shakti è simboleggiata dal triangolo è la triplicità della sua manifestazione in quanto Volontà (Ichchhâ), Azione (Kriyâ) e Conoscenza (Jnâna).
[24] Si noterà la similitudine del simbolismo dell’«albero sephirotico» con quello del caduceo, secondo quel che abbiamo indicato in precedenza; secondo un’altra prospettiva, i diversi «canali» che ricollegano le Sephiroth fra loro non mancano di presentare analogie con le nâdî (ciò, ovviamente, per quel che riguarda l’applicazione particolare che ne può esser fatta all’essere umano).
[25] La dualità di Hokmah e Binah può d’altronde essere posta in relazione simbolica con i due occhi destro e sinistro, corrispondenze «microcosmiche» del Sole e della Luna.
[26] Si veda ciò che abbiamo detto, ne Le Roi du Monde, sul simbolismo delle due mani, precisamente in relazione con la Shekinah (della quale ricorderemo di sfuggita il rapporto con la Shakti indù) e con l’«albero sephirotico».
[27] È pure all’altezza delle due spalle che si tengono, secondo la tradizione islamica, i due angeli incaricati di registrare rispettivamente le azioni buone e quelle cattive dell’uomo, rappresentando inoltre gli attributi divini della «Misericordia» e della «Giustizia». Faremo ancora notare, a tal proposito, che si potrebbe anche «situare», in modo analogo, nell’essere umano, la figura simbolica della «bilancia», di cui si parla nella Siphra de-Tseniutha.

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