"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 7 marzo 2020

René Guénon, Studi sull'Induismo - I - Âtmâ-Gîtâ

René Guénon
Studi sull'Induismo

I - Âtmâ-Gîtâ[1]

Nel nostro libro più recente abbiamo accennato a un significato interiore della Bhagavad-Gîtâ, la quale, quando sia intesa secondo tale punto di vista, prende il nome di Âtmâ-Gîtâ[2]; poiché ci sono state chieste alcune spiegazioni in proposito, pensiamo che non sia privo d’interesse darle in questa occasione.
La Bhagavad-Gîtâ, la quale come si sa è un episodio staccato del Mahâbhârata[3], è stata così spesso tradotta nelle lingue occidentali che tutti dovrebbero conoscerla bene; sennonché le cose non stanno realmente così, e questo, a dire il vero, perché nessuna delle traduzioni testimonia di una vera comprensione. Il suo stesso titolo viene generalmente reso in modo un po’ inesatto come il «Canto del Beato», e ciò mentre in realtà il senso principale di Bhagavad è «glorioso» e «venerabile»; di questa parola esiste anche il senso di «felice», ma esso è del tutto secondario, e a ogni buon conto si adatta piuttosto male al caso in questione[4]. In effetti, Bhagavat è un attributo che si applica a tutti gli aspetti divini, così come a esseri che siano considerati degni di particolare venerazione[5]; l’idea di felicità, la quale del resto è, in fondo, di ordine del tutto individuale e umano, non si ritrova contenuta necessariamente in esso. In particolare, nulla di stupefacente vi è nel fatto che un simile attributo sia conferito a Krishna, il quale non soltanto è un personaggio venerabile, ma, inoltre, in quanto ottavo avatâra di Vishnu, corrisponde realmente a un aspetto divino; sennonché, nella fattispecie, vi è anche qualcosa di più.
Per comprendere di cosa si tratti, occorre ricordarsi che i due punti di vista vishnuita e shivaita, corrispondenti a due grandi vie appropriate a esseri di natura diversa, assumono rispettivamente, quale supporto per elevarsi al Principio supremo, uno dei due aspetti divini, in qualche modo complementari, ai quali essi devono le loro denominazioni rispettive, e traspongono questo aspetto in modo tale da identificarlo al Principio stesso, inteso senza nessuna restrizione e al di là di qualsiasi determinazione o specificazione. È per questa ragione che gli Shaiva chiamano il Principio supremo Mahâdêva, o Mahêshwara, epiteto che è propriamente un equivalente di Shiva, mentre i Vaishnava gli danno, analogamente, qualcuno dei nomi di Vishnu, come Nârâyana o Bhagavat, quest’ultimo epiteto essendo soprattutto usato da una certa frazione che per tal ragione porta il nome di Bhâgavata. Tutte queste cose non sono tali, però, da comportare alcun elemento di contraddizione: i nomi sono molteplici come le vie a cui si riferiscono, ma tali vie conducono tutte, più o meno direttamente, verso lo stesso obiettivo; la dottrina indù non conosce nulla che sia simile all’esclusivismo occidentale, per il quale una sola e stessa via dovrebbe adattarsi ugualmente a tutti gli esseri, senza tenere in nessun conto le differenze di natura che esistono fra questi ultimi.
Sarà ora più facile comprendere come Bhagavat, fatto così identico al Principio supremo, altro non sia con ciò stesso che l’Âtmâ incondizionato; e ciò è vero in tutti i casi, sia che l’Âtmâ venga considerato nell’ordine «macrocosmico» oppure nell’ordine «microcosmico», secondo che se ne voglia fare l’applicazione da punti di vista diversi; non possiamo evidentemente pensare di ripetere qui tutti gli sviluppi che già abbiamo dato a questo argomento in altri lavori[6]. Quella che ora ci interessa più direttamente è l’applicazione che possiamo chiamare «microcosmica», vale a dire quella che è fatta a ciascun essere considerato in particolare; sotto questo aspetto, Krishna e Arjuna rappresentano rispettivamente il «Sé» e l’«io», la personalità e l’individualità, le quali sono Âtmâ incondizionato e jîvâtmâ. L’insegnamento che Krishna dà ad Arjuna è, secondo questo punto di vista interiore, l’intuizione intellettuale, sovrarazionale, attraverso la quale il «Sé» comunica se stesso all’«io», quando questi sia «qualificato» e preparato in modo tale che simile comunicazione possa effettivamente stabilirsi.
Sarà opportuno osservare, poiché ciò riveste la più grande importanza per l’argomento di cui stiamo trattando, che Krishna e Arjuna vengono rappresentati a bordo di uno stesso cocchio; questo carro è il «veicolo» dell’essere preso in considerazione nel suo stato di manifestazione; e mentre Arjuna combatte, Krishna guida il cocchio senza combattere, senza, cioè, essere egli stesso coinvolto nell’azione. Di fatto, la battaglia di cui si tratta simboleggia l’azione, in maniera del tutto generale, sotto una forma appropriata alla natura e alla funzione degli Ksatriya, ai quali il libro è più specialmente destinato[7]; il campo di battaglia (Kshêtra) è la sfera dell’azione nella quale l’individuo sviluppa le sue possibilità; e tale azione non tocca assolutamente l’essere principiale, permanente e immutabile, ma concerne soltanto l’«anima vivente» individuale (jîvâtmâ). I due che sono a bordo dello stesso cocchio rappresentano perciò la stessa cosa che è rappresentata dai due uccelli di cui si parla nelle Upanishad: «Due uccelli, compagni inseparabilmente uniti, risiedono su uno stesso albero; uno di essi mangia il frutto dell’albero, l’altro guarda senza mangiare»[8]. Anche qui, in un simbolismo diverso per rappresentare l’azione, il primo dei due uccelli è jîvâtmâ, e il secondo è Âtmâ incondizionato; la stessa cosa si può dire dei «due che sono entrati nella caverna», di cui si parla in un altro testo[9]; e se i due sono sempre strettamente uniti, la ragione ne è che essi in verità sono uno solo nei confronti della realtà assoluta, perché jîvâtmâ si distingue da Âtmâ soltanto in modo illusorio.
Per esprimere questa unione, e per esprimerla precisamente in rapporto diretto con l’Âtmâ-Gîtâ, esiste inoltre un termine che è particolarmente interessante: si tratta del termine Naranârâyana. È noto che Nârâyana, «Colui che cammina (o che è portato) sulle acque», è uno dei nomi di Vishnu, attribuito per trasposizione a Paramâtmâ, ovvero al Principio supremo, come dicevamo in precedenza; le acque rappresentano in questo caso le possibilità formali o individuali[10]. D’altra parte, nara o nri è l’uomo, l’essere individuale in quanto appartenente alla specie umana; sarebbe il caso di far notare la stretta relazione che esiste tra questa parola e il termine nâra, che denomina le acque, sennonché questo ci allontanerebbe troppo dal nostro argomento[11]. Conseguentemente, Nara e Nârâyana sono rispettivamente l’individuale e l’Universale, l’«io» e il «Sé», lo stato manifestato di un essere e il suo principio non manifestato; ed essi sono riuniti indissolubilmente nell’insieme Nara-nârâyana, del quale talvolta si parla come di due asceti che risiedono sull’Himâlaya, ciò che ricorda più in particolare l’ultimo dei testi delle Upanishad da noi menzionati poco fa, testo nel quale i «due che sono entrati nella caverna» vengono indicati allo stesso tempo come se «abitassero sulla cima più alta»[12]. È anche detto che, in questo insieme, Nara è Arjuna, e Nârâyana è Krishna; sono i due che sono saliti sullo stesso cocchio, e si tratta sempre, con l’uno o con l’altro nome, e quali che siano le forme simboliche usate, di jîvâtmâ e di Paramâtmâ.
Queste indicazioni permetteranno di capire qual è il significato interiore della Bhagavad-Gîtâ, significato nei confronti del quale tutti gli altri significati sono tutto sommato soltanto applicazioni più o meno contingenti. Questo è vero in particolare per il significato sociale, all’interno del quale le funzioni della contemplazione e dell’azione, le quali si riferiscono rispettivamente al sovraindividuale e all’individuale, sono considerate quelle del Brâhmano e dello Ksatriya rispettivamente[13]. È detto che il Brâhmano è il tipo degli esseri fissi o immutabili (sthâvara), e che lo Ksatriya è il tipo degli esseri mobili o mutevoli (jangama)[14]; si può vedere senza difficoltà l’analogia esistente tra queste due classi di esseri, da una parte, e dall’altra la personalità immutabile e l’individualità soggetta al cambiamento; e ciò mostra in modo immediato il legame esistente tra questo significato e quello precedente. Si vede, inoltre, che anche là dove si tratti in modo specifico dello Ksatriya, questi, dal momento che l’azione è la sua funzione propria, può essere assunto a simboleggiare l’individualità intesa in qualsivoglia maniera, individualità che è anch’essa necessariamente coinvolta nell’azione in ragione delle condizioni stesse della sua esistenza, mentre il Brâhmano, in ragione della sua funzione di contemplazione o di pura conoscenza, rappresenta gli stati superiori dell’essere[15]; cosicché si potrebbe dire che qualsiasi essere ha in sé sia il Brâhmano sia lo Ksatriya, ma con una predominanza dell’una o dell’altra delle due nature secondo che le sue tendenze lo portino principalmente dalla parte della contemplazione o dalla parte dell’azione. Si capisce così che la portata dell’insegnamento contenuto nella Bhagavad-Gîtâ è lontano dal limitarsi agli Ksatriya intesi in senso proprio, anche se la forma sotto cui quest’insegnamento è esposto si adatta a loro in modo particolare; e se gli Occidentali, nei quali la natura dello Ksatriya si incontra molto più frequentemente che non quella del Brâhmano, dovessero ritornare alla comprensione delle idee tradizionali, una forma come questa è senza dubbio quella che gli sarebbe più immediatamente accessibile.



[1] Art. pubblicato nella rivista «Le Voile d’Isis», marzo 1930. [N.d.T.]
[2] Autorité spirituelle et Pouvoir temporel (trad. it.: Autorità spirituale e Potere temporale, cap. V, Milano, Luni editrice, 1995).
[3] Ricordiamo che i due Itihâsa, vale a dire il Ramâyâna e il Mahâbhârata, i quali fanno parte della Smriti e hanno di conseguenza il carattere di scritti tradizionali, sono cosa del tutto diversa da quel semplici «poemi epici», in senso profano e «letterario», che gli Occidentali vogliono in genere vedervi.
[4] C’è una certa parentela, che può prestarsi a confusione, tra i radicali bhaj e bhuj; quest’ultimo, il cui senso originario è quello di «mangiare», esprime soprattutto le idee di fruizione, di possesso, di felicità; per converso, con il primo e con i suoi derivati, quali bhâga e soprattutto bhakti, le idee predominanti che si esprimono sono quelle di venerazione, di rispetto, di devozione o di attaccamento.
[5]
[6] Rimandiamo principalmente, a questo proposito e per tutto ciò che seguirà, alle considerazioni da noi esposte ne L’Homme et son devenir selon le Vêdânta (trad. it.: L’Uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta, Milano, Adelphi).
[7] Si può osservare che questo significato è pure, nel modo più esatto, quello della concezione islamica della «guerra santa» (jihâd); l’applicazione sociale ed esteriore è in questo caso soltanto secondaria, e ciò che lo mostra bene è il fatto che essa costituisce solo la «piccola guerra santa» (jihâd seghîr), mentre la «grande guerra santa» (jihâd kebîr) è d’ordine puramente interiore e spirituale.
[8] Mundaka Upanishad, 3° Mundaka, 1° Khanda, shruti 1; Shwêtâshwatara Upanishad, 4° Adhyâya, shruti 6.
[9] Katha Upanishad, 1° Adhyâya, 3° Valli, shruti 1. La «caverna» non è altro che la cavità del cuore, la quale rappresenta il luogo dell’unione dell’individuale con l’Universale, o dell’«io» con il «Sé».
[10] Nella tradizione cristiana, il fatto che Cristo cammini sulle acque ha un significato che si riconduce allo stesso simbolismo.
[11] È probabile che per i Greci il nome di Nereo e delle Nereidi, ninfe delle acque, non fosse senza rapporto con il sanscrito Nârâ.
[12] C’è in questo un’indicazione dei rapporti simbolici della caverna con la montagna; abbiamo avuto occasione di accennare a essi nel nostro Le Roi du Monde (trad. it.: Il Re del Mondo, Milano, Adelphi).
[13] Questo punto di vista è stato da noi sviluppato soprattutto in Autorité spirituelle et Pouvoir temporel, ed. cit.
[14] L’insieme degli esseri è talvolta indicato con il termine composto sthâva-rajangama.
[15] È questa la ragione per cui si parla del Brâhmano come di un Dêva sulla terra, tenendo conto che i Dêva corrispondono agli stati sovraindividuali o informali (quantunque ancora manifestati); questa denominazione, rigorosamente giusta, non sembra essere mai stata capita dagli Occidentali.

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