"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

sabato 21 marzo 2020

René Guénon, Studi sull'Induismo - II - Lo spirito dell’India

René Guénon
Studi sull'Induismo

II - Lo spirito dell’India[1]

L’opposizione tra Oriente e Occidente, ricondotta ai suoi termini più semplici, in fondo è identica a quella che spesso ci si compiace di stabilire tra la contemplazione e l’azione.
Su questo argomento ci siamo già espressi in molte occasioni, esaminando i diversi punti di vista da cui ci si può porre nel prendere in considerazione i rapporti di questi due termini: si tratta veramente di due contrari, o non piuttosto di due complementari, o, meglio ancora, tra l’uno e l’altro non ci sarà forse in realtà una relazione, non di coordinazione, ma di subordinazione? La cosa migliore che possiamo fare sarà perciò di riassumere molto rapidamente queste osservazioni, indispensabili per chi voglia comprendere lo spinto dell’Oriente in generale e quello dell’India in particolare.
Il punto di vista che consiste nell’opporre in modo puro e semplice l’una all’altra la contemplazione e l’azione è il più esteriore e il più superficiale di tutti. Nelle apparenze, l’opposizione di fatto esiste, ma non può assolutamente essere irriducibile; del resto, questo si potrebbe dire di tutti i contrari, i quali cessano di essere tali non appena ci si innalzi al di sopra di un certo livello, che è quello nel quale l’opposizione ha tutta la sua realtà. Chi dice opposizione o contrasto, dice con ciò stesso disarmonia o squilibrio, vale a dire qualcosa che non può esistere se non da un punto di vista particolare e limitato; nell’insieme delle cose l’equilibrio è fatto della somma di tutti gli squilibri, e tutti i disordini parziali concorrono, volenti o nolenti, all’ordine totale.
Considerando la contemplazione e l’azione come complementari, ci si pone da un punto di vista già più profondo e più vero del precedente, poiché grazie a esso l’opposizione si trova conciliata e risolta, in quanto i suoi due termini si equilibrano in qualche modo l’uno con l’altro. Si tratterebbe allora di due elementi ugualmente necessari, che si completano e si sostengono reciprocamente, e costituiscono la duplice attività, interiore ed esteriore, di uno stesso essere, sia questi ciascun uomo preso in particolare, o l’umanità intesa collettivamente. Tale concezione è certamente più armoniosa e più soddisfacente della prima; tuttavia, a sposarla in modo esclusivo, si sarebbe tentati, in virtù della correlazione così stabilita, di porre sullo stesso piano la contemplazione e l’azione, cosicché non ci sarebbe che da sforzarsi di mantenere il più possibile in pari la bilancia tra di loro, senza mai porsi la questione di una qualsiasi superiorità dell’una rispetto all’altra. Ora, di fatto tale questione si è sempre posta, e per ciò che riguarda l’antitesi tra l’Oriente e l’Occidente, possiamo dire che essa consiste precisamente nel fatto che l’Oriente sostiene la superiorità della contemplazione, mentre l’Occidente, e in particolare l’Occidente moderno, afferma al contrario la superiorità dell’azione sulla contemplazione. In questo caso non si tratta più di punti di vista ciascuno dei quali possa avere la sua ragione d’essere ed essere accettato per lo meno come espressione di una verità relativa; siccome un rapporto di subordinazione è irreversibile, le due concezioni in presenza sono realmente contraddittorie, perciò esclusive l’una dell’altra, per modo che sono necessariamente l’una vera e l’altra falsa. Occorre perciò scegliere, e forse la necessità di questa scelta non si è mai imposta con altrettanta forza e urgenza quanto nelle circostanze attuali; è anzi probabile che essa si imponga ancora di più in un prossimo avvenire.
In quelli fra i nostri lavori ai quali abbiamo accennato all’inizio[2], abbiamo esposto che la contemplazione è superiore all’azione, così come ciò che è immutabile è superiore al cambiamento.
L’azione, la quale è soltanto una modificazione transitoria e momentanea dell’essere, non può avere in sé il proprio principio e la propria ragion sufficiente; se essa non si ricollega a un principio che sia di là dal suo dominio contingente, essa non è che pura illusione; e tale principio, dal quale essa trae tutta la realtà di cui è capace, e la sua esistenza e la sua possibilità, può solo trovarsi nella contemplazione, o, se si preferisce, nella conoscenza. Del pari il cambiamento, nella sua accezione più generale, è inintelligibile e contraddittorio, vale a dire impossibile, senza un principio da cui proceda, il quale, proprio perché è il suo principio, non può essergli soggetto, ed è dunque necessariamente immutabile; ed è questa la ragione per cui, nell’antichità occidentale, Aristotele aveva affermato la necessità del «motore immobile» d’ogni cosa. È evidente che l’azione appartiene al mondo del cambiamento, del «divenire»; solo la conoscenza permette di uscire da questo mondo e dalle limitazioni che gli sono inerenti, e, quando raggiunga l’immutabile, possiede essa stessa l’immutabilità, giacché ogni conoscenza è essenzialmente identificazione con il proprio oggetto. Precisamente questo ignorano gli Occidentali moderni, i quali, in fatto di conoscenza, non considerano più che una conoscenza razionale e discorsiva, perciò indiretta e imperfetta, una conoscenza che potrebbe essere detta «di riflesso»; conoscenza inferiore che essi, inoltre, sempre più apprezzano soltanto nella misura in cui possa servire per scopi pratici; coinvolti nell’azione al punto di negare tutto ciò che la oltrepassa, essi non si accorgono che questa azione, di conseguenza, degenera, per mancanza di principio, in un’agitazione tanto sterile quanto vana.
Nell’organizzazione sociale dell’India, la quale altro non è che un’applicazione della dottrina metafisica all’ordine umano, i rapporti della conoscenza con l’azione sono rappresentati dai rapporti delle due prime caste, i Brâhmani e gli Ksatriya, dei quali esse sono rispettivamente le funzioni proprie. È detto che il Brâhmano è il tipo degli esseri stabili, e che lo Ksatriya è il tipo degli esseri mobili, o mutevoli; di conseguenza tutti gli esseri di questo mondo, secondo la loro natura, sono principalmente in relazione o con l’uno o con l’altro, poiché vi è una corrispondenza perfetta tra l’ordine cosmico e quello umano. Ciò non significa. beninteso, che l’azione sia preclusa al Brâhmano, o che la conoscenza sia preclusa allo Ksatriya; ciò significa piuttosto che esse non convengono loro, in qualche modo, se non per accidens e non essenzialmente; lo swadharma, la legge propria della casta, in conformità con la natura dell’essere che le appartiene, è nella conoscenza per il Brâhmano, nell’azione per lo Ksatriya. Per conseguenza, il Brâhmano è superiore allo Ksatriya, così come la conoscenza è superiore all’azione; in altri termini, l’autorità spirituale è superiore al potere temporale, ed è riconoscendo la sua subordinazione nei confronti della prima che quest’ultimo sarà legittimo, vale a dire che sarà veramente ciò che deve essere; in caso contrario, separandosi cioè dal suo principio, esso non potrà esercitarsi se non in modo disordinato, e andrà fatalmente incontro alla propria perdita.
Agli Ksatriya appartiene normalmente tutta la potenza esteriore, giacché il campo dell’azione è il mondo esteriore; ma tale potenza non è nulla senza un principio interiore, puramente spirituale, principio incarnato dall’autorità dei Brâhmani, e nel quale essa trova la sua sola garanzia valida. In cambio di questa garanzia, gli Ksatriya devono, con l’aiuto della forza di cui dispongono, assicurare ai Brâhmani il mezzo per compiere in pace, al riparo dal disordine e dall’agitazione, la loro funzione propria di conoscenza e di insegnamento; è quel che si rappresenta con la raffigurazione di Skanda, il Signore della guerra, che protegge la meditazione di Ganêsha, Signore della conoscenza. Sono questi i rapporti regolari dell’autorità spirituale con il potere temporale; se essi fossero dappertutto e sempre osservati, nessun conflitto potrebbe mai insorgere tra l’una e l’altro, perché ciascuno occuperebbe il posto che deve convenirgli in virtù della gerarchia delle funzioni e degli esseri. gerarchia che è rigorosamente conforme alla natura delle cose. Si vede come la posizione che è affidata agli Ksatriya, e di conseguenza all’azione, quantunque subordinata, sia molto lontano dall’essere trascurabile, dal momento che comprende tutto il potere esteriore, insieme militare, amministrativo e giudiziario, che è sintetizzato nella funzione regale. I Brâhmani non devono esercitare se non un’autorità invisibile, la quale, in quanto tale, può essere ignorata dalla gente comune, ma è tuttavia il principio di ogni potere visibile; tale autorità è come il polo attorno al quale tutte le cose ruotano, l’asse fisso intorno a cui il mondo compie la sua rivoluzione, il centro immutabile che dirige e regola il movimento cosmico senza partecipare a esso; ed è questo che rappresenta l’antico simbolo dello swastika, il quale è, per tal ragione, uno degli attributi di Ganêsha.
È opportuno aggiungere che il posto da attribuire all’azione sarà, nelle applicazioni, più o meno grande secondo le circostanze; accade, di fatto, dei popoli come degli individui, e mentre la natura di alcuni è soprattutto contemplativa, quella di altri è soprattutto attiva. Senza dubbio non esiste paese nel quale l’attitudine alla contemplazione sia così diffusa e così generalmente sviluppata quanto in India; ed è per ciò che quest’ultima può essere considerata la rappresentante per eccellenza dello spirito orientale. Per contro, fra i popoli occidentali, è cosa ben certa che quella che predomina nella gran maggioranza degli uomini è l’attitudine all’azione, ed è altresì certo che, quand’anche tale tendenza non fosse così esagerata e deviata com’è al presente, essa esisterebbe tuttavia, di sorta che la contemplazione non potrebbe quivi essere se non il retaggio di un’élite molto più ristretta. Ciò sarebbe tuttavia sufficiente perché tutto rientri nell’ordine, poiché la potenza spirituale, esattamente all’opposto della forza materiale, non è assolutamente fondata sul numero; sennonché, attualmente, gli Occidentali sono veramente solo uomini senza casta, giacché nessuno di essi occupa il posto e la funzione che converrebbero alla sua natura. Questo disordine si sta inoltre estendendo con rapidità – di questo non bisogna fingere di non accorgersi –, e sembra invadere perfino l’Oriente, anche se lo tocca ancora soltanto in modo assai superficiale e molto più limitato di quanto possano immaginare coloro che, conoscendo solo gli Orientali più o meno occidentalizzati, non sospettano la poca importanza che costoro hanno in realtà.
A ogni buon conto, non è men vero che si tratta di un pericolo che rischia di aggravarsi, per lo meno in modo transitorio; il «pericolo occidentale» non è un’espressione vana, e l’Occidente, che ne è la prima vittima, sembra voler trascinare l’umanità intera nella rovina da cui è minacciato per sua propria colpa.
Tale pericolo è quello dell’azione disordinata, perché priva del suo principio; simile azione, in se stessa è un puro nulla, e non può condurre che a una catastrofe. Tuttavia – si potrà forse dire –, se una cosa del genere esiste, è perché un tale disordine deve alla fine rientrare nell’ordine universale, del quale è uno degli elementi alla stessa stregua di tutto il resto; e, da un punto di vista superiore, ciò è rigorosamente vero. Tutti gli esseri, lo sappiano o no, dipendono interamente dal loro principio per tutto ciò che sono; anche l’azione disordinata è possibile soltanto in virtù del principio di ogni azione, ma, dal momento che è incosciente di tale principio, poiché non riconosce la dipendenza in cui è nei suoi confronti, essa è senza regola e senza efficacia positiva, e, se così ci si può esprimere, essa non possiede che il più basso grado di realtà, quello che è più vicino alla pura e semplice illusione, precisamente perché è il più lontano possibile dal principio, nel quale solo risiede la realtà assoluta. Dal punto di vista del principio non c’è che l’ordine; sennonché dal punto di vista delle contingenze il disordine esiste, e, per quel che riguarda l’umanità terrestre, ci troviamo in un’epoca in cui il disordine sembra trionfare.
Ci si può chiedere perché le cose stiano così, e la dottrina indù, con la teoria dei cicli cosmici, fornisce una risposta per simile domanda. Siamo nel Kali-Yuga, nell’età oscura in cui la spiritualità è ridotta al suo minimo, in conseguenza delle leggi stesse dello sviluppo del ciclo umano, le quali inducono una sorta di materializzazione progressiva nel corso dei suoi diversi periodi, dei quali questo è l’ultimo; con l’espressione «ciclo umano» intendiamo qui unicamente la durata di un Manvantara. Verso la fine di quest’epoca tutto è confuso, le caste sono mescolate, la famiglia stessa non esiste più; non è questo esattamente quel che vediamo intorno a noi? Dobbiamo concludere da ciò che effettivamente il ciclo attuale stia arrivando alla fine, e che presto vedremo spuntare l’aurora di un nuovo Manvantara? Si potrebbe essere tentati di crederlo, soprattutto se si pensa alla velocità crescente con cui precipitano gli avvenimenti; ma forse il disordine non ha ancora raggiunto il suo punto estremo, forse l’umanità deve discendere ancora più in basso, negli eccessi di una civiltà tutta materiale, prima di poter risalire verso il principio e verso le realtà spirituali e divine. Del resto poco importa: che sia un po’ prima o un po’ dopo, questo sviluppo discendente che gli Occidentali moderni chiamano «progresso» troverà il suo limite, e allora l’«età oscura» vedrà la sua fine; comparirà allora il Kalkin-avatâra, quegli che è montato sul cavallo bianco, che porta sul capo un triplice diadema, segno della sovranità nei tre mondi, e brandisce una spada fiammeggiante come la coda di una cometa; allora il mondo del disordine e dell’errore sarà distrutto e, per la potenza purificatrice e rigeneratrice di Agni, tutte le cose saranno ristabilite e restaurate nell’integralità del loro stato primordiale, giacché la fine del ciclo attuale è nello stesso tempo l’inizio del ciclo futuro. Coloro che sanno che le cose devono stare così non possono, fosse pure in mezzo alla peggior confusione, perdere la loro immutabile serenità; per quanto sgradevole sia vivere in un’epoca di torbidi e di oscurità quasi generale, essi non possono esserne toccati nel fondo di se stessi, ed è questo che costituisce la forza dell’élite vera. Senza dubbio, se l’oscurità deve andare estendendosi sempre di più, tale élite potrà, anche in Oriente, essere ridotta a un numero esiguo; ma è sufficiente che alcuni conservino integralmente la vera conoscenza, perché siano pronti, quando i tempi saranno conclusi, a salvare tutto ciò che potrà ancora essere salvato del mondo attuale, e che diventerà il germe del mondo futuro.
Questo ruolo di conservazione dello spirito tradizionale, con tutto quel che comporta in realtà quando sia inteso nel suo senso più profondo, è soltanto l’Oriente che può attualmente sostenerlo; non vogliamo dire l’intero Oriente, poiché sfortunatamente il disordine che proviene dall’Occidente può intaccarlo in alcuni dei suoi elementi; è però soltanto in Oriente che permane una vera élite, nella quale lo spirito tradizionale si ritrovi in tutta la sua vitalità. Da altre parti, ciò che ne rimane è ridotto a forme esteriori il cui significato è ormai da molto tempo quasi completamente incompreso, e se qualcosa dell’Occidente può essere salvato, ciò non sarà possibile se non con l’aiuto dell’Oriente; sennonché, perché questo aiuto possa essere efficace, occorrerà che esso trovi un punto d’appoggio nel mondo occidentale, e queste sono possibilità sulle quali sarebbe attualmente ben difficile parlare con qualche precisione.
Comunque sia, l’India ha in un certo senso, nell’insieme dell’Oriente, una situazione privilegiata sotto l’aspetto che stiamo prendendo in considerazione, e la ragione di ciò consiste nel fatto che, senza lo spirito tradizionale, l’India non sarebbe più nulla. In effetti, l’unità indù (si noti che non diciamo l’unità indiana) non è un’unità né di razza né di lingua, essa è esclusivamente un’unità di tradizione. Sono Indù tutti coloro che aderiscono effettivamente a tale tradizione, e soltanto quelli. Questo spiega quel che dicevamo in precedenza circa l’attitudine alla contemplazione, più generale in India che da ogni altra parte: di fatto, la partecipazione alla tradizione non è pienamente effettiva se non nella misura in cui essa comporta la comprensione della dottrina, e quest’ultima consiste prima di tutto nella conoscenza metafisica, perché è nella sfera metafisica pura che si trova il principio dal quale tutto il resto deriva. Per questo l’India si presenta come più particolarmente destinata a sostenere fino alla fine la supremazia della contemplazione sull’azione, a opporre con la sua élite una barriera insormontabile contro l’invasione dello spirito occidentale moderno, a conservare intatta, in seno a un mondo agitato da cambiamenti incessanti, la coscienza del permanente, dell’immutabile e dell’eterno.
Occorre però capir bene che immutabile è il solo principio, e che le applicazioni alle quali esso dà luogo in tutti i campi possono, e debbono, variare secondo le circostanze e secondo le epoche, giacché, mentre il principio è assoluto, le applicazioni sono relative e contingenti come il mondo al quale si riferiscono.
La tradizione permette adattamenti indefinitamente molteplici e diversi nelle loro modalità; ma tutti questi adattamenti, quando siano fatti rigorosamente secondo lo spirito tradizionale, non sono altro che lo sviluppo normale di alcune delle conseguenze che sono eternamente contenute nel principio; in qualsiasi caso, non si tratta perciò che di rendere esplicito ciò che fino ad allora era implicito, e così il fondo, la sostanza stessa della dottrina, rimane sempre identico sotto tutte le differenze di forma esteriori. Le applicazioni possono essere di molti tipi; sono applicazioni, in particolare, non soltanto le istituzioni sociali, alle quali abbiamo già accennato, ma anche le scienze, quando esse siano veramente quel che devono essere; e questo fa vedere la differenza essenziale che esiste tra la concezione delle scienze tradizionali e quella di scienze come quelle che sono state costituite dallo spirito occidentale moderno. Mentre le prime acquisiscono tutto il loro valore dall’essere ricollegate alla dottrina metafisica, le seconde, con il pretesto dell’indipendenza, sono strettamente rinchiuse in se stesse e la sola cosa che possano pretendere è di spingere sempre più lontano, ma senza uscire dalla loro sfera limitata né di farne indietreggiare i confini di un passo, un’analisi che potrebbe proseguire in tal modo indefinitamente senza che si sia mai andati più avanti nella vera conoscenza delle cose. È forse a causa di un’oscura sensazione di questa impotenza che i moderni sono giunti a preferire la ricerca al sapere, o è semplicemente perché simile ricerca senza un termine soddisfa il loro bisogno di un’agitazione incessante che vuol essere il fine di se stessa? Cosa potrebbero farsene gli Orientali di quelle scienze vane che l’Occidente ha la pretesa di portargli, quando posseggono altre scienze, incomparabilmente più reali e più vaste, e che il più piccolo sforzo di concentrazione intellettuale fa loro sapere ben più di tutte queste vedute frammentarie e disperse, di questo ammasso caotico di fatti e di nozioni legati fra di loro soltanto da ipotesi più o meno fantasiose, edificate con pena solo per esser subito abbattute e sostituite da altre non meglio fondate? E non si vengano a vantare oltre misura, credendo con ciò di compensare tutti i loro difetti, le applicazioni industriali e tecniche a cui queste scienze hanno dato vita; nessuno ha l’idea di contestare che esse abbiano almeno questa utilità pratica, quando il loro valore speculativo è così illusorio, ma è questa una cosa a cui l’Oriente non potrà mai interessarsi veramente, ed esso stima troppo poco questi vantaggi soltanto materiali per sacrificar loro il suo spirito, giacché sa qual è l’immensa superiorità che ha il punto di vista della contemplazione su quello dell’azione, e come tutte le cose che passano non siano se non nulla nei confronti dell’eterno.
La vera India, per noi, non è perciò quell’India più o meno modernizzata, vale a dire occidentalizzata, che sognano alcuni giovani indiani allevati nelle Università d’Europa o d’America, i quali, per fieri che siano del sapere tutto esteriore che hanno così acquisito, dal punto di vista orientale non sono tuttavia che dei perfetti ignoranti, e che, a onta delle loro pretese, costituiscono tutto il contrario di un’élite intellettuale nel senso che intendiamo noi. L’India vera è quella che rimane sempre fedele all’insegnamento che la sua élite si trasmette attraverso i secoli; è quella che conserva integralmente il deposito di una tradizione la cui sorgente si situa più in alto e più lontano dell’umanità; è l’India di Manu e dei Rishi, l’India di Shrî Râma e di Shrî Krishna. Sappiamo che essa non fu sempre il paese che viene ora indicato con questo nome; è anche fuor di dubbio che, dopo la sede artica primitiva di cui parla il Vêda essa assunse successivamente molte collocazioni geografiche diverse; forse ne assumerà ancora altre, ma ciò importa poco, perché essa è sempre là dov’è la dimora di quella grande tradizione la cui conservazione fra gli uomini è la sua missione e la sua ragion d’essere. Attraverso la catena ininterrotta dei suoi Saggi, dei suoi Guru e dei suoi Yogî, essa si mantiene, nel corso di tutte le vicissitudini del mondo esteriore, salda come il Mêru; essa durerà finché durerà il Sanâtana Dharma (espressione che si potrebbe tradurre con Lex perennis, per quanto esattamente lo possa permettere una lingua occidentale), e non cesserà mai di contemplare ogni cosa, con l’occhio frontale di Shiva, nella serena immutabilità dell’eterno presente. Tutti gli sforzi ostili non potranno che infrangersi alla fine contro la sola forza della verità, così come le nubi si dissipano davanti al sole, quand’anche siano riuscite ad oscurarlo momentaneamente ai nostri sguardi. L’azione distruttrice del tempo lascia sussistere solo ciò che è superiore al tempo; essa divorerà tutti coloro che hanno limitato il loro orizzonte al mondo del cambiamento e posto tutta la realtà nel divenire, coloro che del contingente e del transitorio si sono fatti una religione. giacché «colui che sacrifica a un dio, di questo dio diventerà il nutrimento»; ma che potrà contro coloro che portano in sé la coscienza dell’eternità?



[1] Pubblicato in «Le Monde Nouveau», giugno 1930. [N.d.T.]
[2] Oriente e Occidente, Milano, Luni Editrice, 1993; La Crisi del Mondo moderno, Roma, Edizioni Mediterranee; Autorità spirituale e Potere temporale, cit.

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