René Guénon
Iniziazione e realizzazione spirituale
XXIII - Lavoro iniziatico collettivo e «presenza» spirituale
Esistono forme iniziatiche in cui, per la loro stessa
costituzione, il lavoro collettivo occupa un posto in certo qual modo
preponderante; con ciò non vogliamo affatto affermare che esso possa
sostituirsi al lavoro personale e puramente interiore di ciascuno, o
dispensarne in una maniera qualunque, bensì che esso, in casi del genere,
rappresenta un elemento del tutto essenziale mentre altrove può essere molto
ridotto o anche del tutto inesistente.
Il caso in questione è in particolare quello delle iniziazioni che attualmente sussistono in Occidente; e indubbiamente, ad un grado più o meno accentuato, è caratteristico delle iniziazioni di mestiere in generale, ovunque le si incontri, in quanto, nella fattispecie, si tratta di qualcosa che sembra essere inerente alla loro stessa natura. A ciò si riferisce, per esempio, un fatto come quello cui facevamo allusione in un recente studio di argomento massonico[1], cioè di una «comunicazione» che non può essere effettuata se non con il concorso di tre persone, per cui nessuna di esse, da sola, è dotata del necessario potere a questo riguardo; analogamente, nello stesso ordine di idee, possiamo citare la condizione della presenza di un certo numero minimo di assistenti, sette per esempio, affinché una iniziazione possa valevolmente aver luogo, mentre ci sono altre iniziazioni, come frequentemente succede specie in India, ove la trasmissione viene operata semplicemente da maestro a discepolo senza il concorso di altre persone. Va da sé, che una tal differenza di modalità deve implicare conseguenze altrettanto diverse per tutto l’insieme dell’ulteriore lavoro iniziatico; e, fra queste differenze, ci pare soprattutto interessante esaminare più da vicino quelle che riguardano la funzione del Guru o di ciò che ne fa le veci.
Il caso in questione è in particolare quello delle iniziazioni che attualmente sussistono in Occidente; e indubbiamente, ad un grado più o meno accentuato, è caratteristico delle iniziazioni di mestiere in generale, ovunque le si incontri, in quanto, nella fattispecie, si tratta di qualcosa che sembra essere inerente alla loro stessa natura. A ciò si riferisce, per esempio, un fatto come quello cui facevamo allusione in un recente studio di argomento massonico[1], cioè di una «comunicazione» che non può essere effettuata se non con il concorso di tre persone, per cui nessuna di esse, da sola, è dotata del necessario potere a questo riguardo; analogamente, nello stesso ordine di idee, possiamo citare la condizione della presenza di un certo numero minimo di assistenti, sette per esempio, affinché una iniziazione possa valevolmente aver luogo, mentre ci sono altre iniziazioni, come frequentemente succede specie in India, ove la trasmissione viene operata semplicemente da maestro a discepolo senza il concorso di altre persone. Va da sé, che una tal differenza di modalità deve implicare conseguenze altrettanto diverse per tutto l’insieme dell’ulteriore lavoro iniziatico; e, fra queste differenze, ci pare soprattutto interessante esaminare più da vicino quelle che riguardano la funzione del Guru o di ciò che ne fa le veci.
Nel caso di trasmissione iniziatica effettuata da una sola
persona, la funzione di Guru nei
confronti dell’iniziato è assicurata per ciò stesso da tale persona; poco
importa qui che le sue qualificazioni a questo proposito siano più o meno
complete e, come di fatto spesso succede, che esso non sia capace di condurre
il suo discepolo se non fino a tale o tal altro stadio ben determinato; il
principio è nondimeno sempre lo stesso: il Guru
è presente al punto di partenza e non può esservi alcun dubbio sulla sua
identità. Nell’altro caso invece, le cose si presentano in modo molto meno
semplice e meno evidente, ed è legittimo chiedersi dove si trova in realtà il Guru; senza dubbio ogni «maestro»,
quando istruisce un «apprendista», può sempre farne le veci in un certo senso
ed in una certa misura, ma in una forma tuttavia molto relativa, in quanto, se
quegli che effettua la trasmissione iniziatica è in effetti solo un Upaguru, a maggior ragione lo saranno
tutti gli altri; d’altronde non si rileva niente che nella fattispecie
assomigli alla relazione esclusiva tra un discepolo ed un Guru unico, condizione questa indispensabile affinché si possa
impiegare tale termine nel suo vero significato. In effetti non pare che in
iniziazioni del genere ci siano mai stati, per essere esatti, dei Maestri
spirituali che esercitassero la loro funzione in modo continuo; se ce ne sono
stati, cosa che evidentemente non si può escludere[2],
si dev’essere trattato di casi più o meno eccezionali, tant’è vero che la loro
presenza non appare come un elemento costante e necessario nella particolare
costituzione delle forme iniziatiche in questione. E tuttavia occorre che ci
sia, nonostante tutto, qualche cosa che ne faccia le veci; per cui ci si deve
chiedere da chi o da che cosa questa funzione sia effettivamente svolta in casi
del genere.
A questo interrogativo si potrebbe esser tentati di
rispondere che qui è la collettività stessa, come insieme dell’organizzazione
iniziatica presa in esame, a svolgere la funzione di Guru; in effetti, questa risposta può essere suggerita abbastanza
naturalmente dall’osservazione da noi fatta in precedenza sull’importanza
preponderante che viene allora attribuita al lavoro collettivo, e tuttavia,
benché non si possa dire che tale risposta sia completamente falsa, essa è
perlomeno decisamente insufficiente. È opportuno precisare d’altronde, che
quando parliamo della collettività in questo senso, non la intendiamo
unicamente come riunione di individui considerati nella loro sola modalità
corporea, alla stregua di un gruppo. profano qualsiasi; ciò che soprattutto
abbiamo in vista è l’«entità psichica», a cui taluni hanno molto impropriamente
dato il nome «eggregoro». Vogliamo ricordare quanto abbiamo già detto a questo
proposito[3]:
il «collettivo», come tale, non può in alcun modo superare il dominio
individuale, poiché in definitiva non è che la risultante delle individualità che
lo compongono, né per conseguenza può andare al di là del dominio psichico;
orbene, tutto ciò che è soltanto psichico non può avere alcun rapporto
effettivo e diretto con l’iniziazione, poiché questa, nella sua essenza,
consiste nella trasmissione di un’influenza spirituale destinata ugualmente a
produrre effetti d’ordine spirituale, quindi trascendenti in rapporto
all’individualità; bisogna evidentemente concluderne che tutto quanto può
rendere effettiva l’azione a tutta prima virtuale di questa influenza, deve
necessariamente avere un carattere sopraindividuale, e di conseguenza
sopracollettivo, se così si può dire. Del resto è fuori questione che non è
come individuo umano che il Guru
propriamente detto esercita la sua funzione, ma in quanto rappresenta qualcosa
di sopraindividuale di cui, nello svolgimento di questa funzione, la sua
individualità non è in realtà se non il supporto; affinché i due casi si
possano paragonare occorre dunque che ciò che qui è assimilabile al Guru sia, non la collettività in se
stessa, ma il principio trascendente cui essa serve da supporto, e il quale
solo le conferisce un carattere veramente iniziatico. Si tratta dunque di
qualcosa che si può definire come una «presenza» spirituale, nel senso più
ristretto della parola, la quale agisce proprio nel corso e per mezzo del
lavoro collettivo; ed è la natura di tale «presenza» che, pur non avendo
minimamente la pretesa di trattare la questione in tutti i suoi aspetti, ci resta
da spiegare un po’ più per esteso.
Nella Kabbala ebraica è detto che quando i saggi si
intrattengono sui misteri divini, la Shekinah
si trova fra loro; analogamente, anche in una forma iniziatica in cui il lavoro
collettivo non sembra di solito essere un elemento essenziale, una «presenza»
spirituale non è meno nettamente affermata qualora tale lavoro abbia luogo, e
si può affermare che questa «presenza» si manifesta in qualunque modo
all’intersezione delle «linee di forza» che vanno dall’uno all’altro di coloro
che vi partecipano, quasi la «discesa» di essa venisse sollecitata direttamente
dalla risultante collettiva che si produce in questo punto determinato, e che
le fornisce un adeguato supporto. Non insisteremo oltre su questo lato forse un
po’ troppo «tecnico» della questione; aggiungeremo solo, che qui si tratta
particolarmente del lavoro di iniziati già pervenuti ad un grado avanzato di
sviluppo spirituale, contrariamente a quanto ha luogo in quelle organizzazioni
in cui il lavoro collettivo rappresenta la modalità abituale e normale fin
dall’inizio; ma, beninteso, questa differenza non modifica minimamente il
principio della «presenza» spirituale.
Quanto precede può essere accostato alle parole del Cristo:
«Quando due o tre saranno riuniti in nome mio, io sarò in mezzo ad essi»; e
questo accostamento colpisce in modo particolare quando si pensi alla stretta
relazione esistente fra il Messia e la Shekinah[4].
È vero che, secondo l’interpretazione corrente, ciò riguarderebbe solo la
preghiera; ma per legittima che sia questa applicazione nell’ordine exoterico,
non v’è ragione alcuna per limitarsi esclusivamente ad esso, e per non
considerare anche un altro significato più profondo il quale, appunto per ciò,
sarà vero a fortiori; o perlomeno non
si può vedere in ciò altra ragione che la limitazione del punto di vista
exoterico in se stesso, per coloro che non possono o non vogliono superarlo.
Dobbiamo inoltre richiamare particolarmente l’attenzione sull’espressione «in
nome mio» tanto frequente nel Vangelo, in quanto sembra che attualmente la si
intenda soltanto più in un senso molto sminuito o addirittura passi quasi
inavvertita; quasi nessuno in effetti si rende conto di ciò ch’essa implichi in
realtà, tradizionalmente, sotto i due aspetti dottrinale e rituale. Su
quest’ultimo argomento abbiamo già avuto occasione di parlare un poco in
diverse occasioni e forse ci ritorneremo ancora; per il momento vogliamo solo
indicare qui una conseguenza molto importante dal punto di vista da cui ci
siamo posti: gli è che, a rigore, il lavoro di un’organizzazione iniziatica
deve sempre essere compiuto «in nome» del principio spirituale da cui essa
procede e che in qualche modo essa è destinata a manifestare nel nostro mondo[5].
Questo principio può essere più o meno «specializzato», conformemente alle
modalità proprie a ciascuna organizzazione iniziatica; ma essendo di natura
puramente spirituale, come evidentemente richiede il fine stesso di ogni
iniziazione, è sempre in definitiva l’espressione di un aspetto divino, ed è
appunto un’emanazione diretta di questo a costituire quella «presenza» che
ispira e guida il lavoro iniziatico collettivo, affinché questo possa produrre
dei risultati effettivi nella misura delle capacità di ciascuno di quelli che
vi prendono parte.
[1]
Vedere Parole perdue et mots substitués
nel numero di dicembre 1948 della rivista Études
Traditionelles. [Questo articolo è stato pubblicato nel n. 8 della Rivista di Studi Tradizionali – N. d.
T.]
[2]
Dovette necessariamente essercene, almeno all’origine vera e propria di ogni
forma iniziatica, essi soli avendo le qualità per realizzare «l’adattamento»
richiesto dal suo costituirsi.
[3]
Vedere cap. VI: Influenze spirituali ed
«eggregori».
[4]
Si sostiene talora che esisterebbe una variante a questo testo, che riporta
soltanto «tre» in luogo di «due o tre», e taluni cercano di interpretare questi
tre come il corpo, l’anima e lo spirito; si tratterebbe quindi della
concentrazione e dell’unificazione di tutti gli elementi dell’essere nel lavoro
interiore, necessaria affinché si operi la «discesa» dell’influenza spirituale
al centro di questo essere. Tale interpretazione è certamente plausibile e,
indipendentemente dal problema di sapere esattamente quale sia il testo più
corretto, esprime in se stessa una verità incontestabile, ma in ogni caso non
esclude quella che riguarda il lavoro collettivo; soltanto, se il numero tre
fosse realmente specificato, bisognerebbe ammettere che esso rappresenta allora
un minimo richiesto per l’efficacia di questo lavoro, come effettivamente
avviene in certe forme iniziatiche.
[5]
Qualsiasi formula rituale non corrispondente a quanto stiamo dicendo qui, non
può rappresentare, se viene sostituita ad essa, se non un affievolimento dovuto
a misconoscenza o ad ignoranza più o meno completa di quel che è veramente il
«nome», ed implica di conseguenza una certa degenerazione dell’organizzazione
iniziatica, poiché questa sostituzione dimostra che essa non è più pienamente
cosciente della reale natura della relazione che l’unisce al suo principio
spirituale.
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