René Guénon
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta
7. Buddhi o l’intelletto superiore
Il primo grado della manifestazione di Âtmâ, intendendo questa parola nel senso già precisato nel capitolo precedente, è l’intelletto superiore (Buddhi), che, come abbiamo visto sopra, è chiamato anche Mahat o il «grande principio»: è il secondo dei venticinque principi del Sânhhya, dunque la prima di tutte le produzioni di Prakriti.
Questo principio è ancora d’ordine universale, poiché è informale; tuttavia, non bisogna dimenticare che appartiene già alla manifestazione, per cui procede da Prakriti, in quanto ogni manifestazione, di qualunque grado la si consideri, presuppone necessariamente questi due termini correlativi e complementari, Purusha e Prakriti, l’«essenza» e la «sostanza». Ciò nondimeno, Buddhi oltrepassa il dominio, non soltanto dell’individualità umana, ma di ogni stato individuale, qualunque esso sia, e questo giustifica il suo nome di Mahat; essa non è dunque mai individualizzata in realtà, e soltanto allo stadio seguente noi troveremo l’individualità attuata, con la coscienza particolare (o meglio «particolaristica») dell’«io».
Buddhi, considerata in rapporto all’individualità umana o a ogni altro stato individuale, ne è dunque il principio immediato, ma trascendente, come, dal punto di vista dell’Esistenza universale, la manifestazione informale lo è per quella formale; e allo stesso tempo essa è ciò che si potrebbe chiamare l’espressione della personalità nella manifestazione, dunque ciò che unifica l’essere attraverso la molteplicità indefinita dei suoi stati individuali (poiché lo stato umano, in tutta la sua estensione, è soltanto uno fra questi stati). In altre parole, se si considera il «Sé» (Âtmâ) o la personalità come il Sole spirituale[1] che brilla al centro dell’essere totale, Buddhi sarà il raggio direttamente emanato da questo Sole e che illumina nella sua interezza lo stato individuale che dobbiamo più specialmente esaminare e allo stesso tempo lo collega agli altri stati individuali dello stesso essere, o anche, più generalmente, a tutti i suoi stati manifestati (individuali e non-individuali) e, al di là di questi, al centro stesso. È bene d’altronde notare, senza troppo indugiarvi per non allontanarci dal tema della nostra esposizione, che, data l’unità fondamentale dell’essere in tutti i suoi stati, si deve considerare il centro di ogni stato, nel quale questo raggio spirituale si proietta, come identificato virtualmente, se non effettivamente, con il centro dell’essere totale; perciò qualunque stato, lo stato umano come pure ogni altro, può essere preso come base per realizzare l’«Identità Suprema». È precisamente in questo senso e in virtù di questa identificazione che si può dire, come abbiamo fatto fin dal primo momento, che Purusha stesso risiede al centro dell’individualità umana, vale a dire nel punto dove l’intersezione del raggio spirituale con le possibilità vitali determina l’«anima vivente» (jîvâtmâ).[2]
D’altra parte, Buddhi, come tutto ciò che proviene dallo sviluppo delle potenzialità di Prakriti, partecipa dei tre guna; perciò, considerata sotto l’aspetto della conoscenza distintiva (vijnâna), essa è concepita come ternaria e, nell’ordine dell’Esistenza universale, è allora identificata alla Trimûrti divina: «Mahat viene a essere concepito distintamente come tre Dei (nel senso di tre aspetti della Luce intelligibile, perché tale è propriamente il significato del termine sanscrito Dêva, di cui, del resto, la parola “Dio” è etimologicamente l’esatto equivalente),[3] per influenza dei tre guna, poiché è una sola manifestazione (mûrti) in tre Dei. Nell’Universale, esso è la Divinità (Îshwara, non in Sé, ma nei suoi tre aspetti principali di Brahmâ, Vishnu e Shiva, che costituiscono la Trimûrti o “triplice manifestazione”); ma, considerato distributivamente (nell’aspetto, d’altronde puramente contingente, della “separatività”), appartiene (senza peraltro essere esso stesso individualizzato) agli esseri individuali (ai quali comunica la possibilità di partecipare agli attributi divini, vale a dire alla natura stessa dell’Essere Universale, principio di ogni esistenza)».[4] È facile vedere che Buddhi è qui considerata nei suoi rispettivi rapporti con i primi due dei tre Purusha di cui si parla nella Bhagavad-Gîtâ: nell’ordine «macrocosmico», infatti, quello che è designato come «immutabile» è Îshwara stesso, di cui la Trimûrti è l’espressione in modo manifestato (si tratta, beninteso, della manifestazione informale, poiché qui non c’è nulla di individuale); e si dice che l’altro Purusha è «ripartito fra tutti gli esseri». Ugualmente, nell’ordine «microcosmico», Buddhi può essere nello stesso tempo considerata in rapporto alla personalità (Âtmâ) e in rapporto all’«anima vivente» (jîvâtmâ), quest’ultima non essendo d’altronde che il riflesso della personalità nello stato individuale umano, riflesso che non può esistere senza l’intermediazione di Buddhi: si ricordi, a questo proposito, il simbolo del sole e della sua immagine riflessa nell’acqua; Buddhi è, l’abbiamo già detto, il raggio che determina la formazione dell’immagine e che, allo stesso tempo, la ricollega alla sorgente luminosa.
È proprio in virtù del duplice rapporto da noi indicato, e di questa funzione di tramite fra la personalità e l’individualità, che, malgrado l’inevitabile inadeguatezza di tali espressioni, si può considerare l’intelletto come qualcosa che in un certo senso passa dallo stato di potenza universale allo stato individualizzato, senza però smettere veramente di essere quello che era, e soltanto a causa della sua intersezione con il dominio particolare di certe condizioni d’esistenza da cui è definita l’individualità considerata; esso produce allora, come risultante di questa intersezione, la coscienza individuale (ahankâra), implicita nell’«anima vivente» (jîvâtmâ), alla quale è inerente. Come abbiamo già accennato, questa coscienza, che è il terzo principio del Sânkhya, dà nascita alla nozione dell’«io» (aham, da cui il nome di ahankâra, letteralmente «ciò che fa l’io»), poiché ha la funzione specifica di imporre la convinzione dell’individualità (abhimâna), cioè appunto la nozione che «io sono» affetto dagli oggetti esterni (bâhya) e interni (abhyantara), che sono rispettivamente gli oggetti di percezione (pratyaksha) e di contemplazione (dhyâna); l’insieme di questi oggetti è designato con la parola idam, «questo», quando è così concepito in opposizione ad aham, ovvero all’«io», opposizione tutta relativa del resto e molto differente da quella che i filosofi moderni pretendono di stabilire fra «soggetto» e «oggetto», o fra lo «spirito» e le «cose». Così la coscienza individuale procede immediatamente, ma a titolo di semplice modalità «condizionale», dal principio intellettuale e, a sua volta, produce tutti gli altri principi o elementi particolari dell’individualità umana, di cui ora ci occuperemo.
[1] Per il senso da attribuire a questa espressione, rinviamo all’osservazione già fatta a proposito dello «Spirito Universale».
[2] È evidente che qui intendiamo parlare non di un punto matematico, ma di ciò che si potrebbe chiamare analogicamente un punto metafisico, senza tuttavia che una tale espressione debba evocare l’idea della monade leibniziana, poiché jîvâtmâ non è che una manifestazione particolare e contingente di Âtmâ, e la sua esistenza separata è propriamente illusoria. Il simbolismo geometrico al quale ci riferiamo sarà d’altronde esposto in un altro studio con tutti gli sviluppi di cui è suscettibile.
[3] Se si attribuisse al termine «Dio» il senso che ha assunto in seguito nelle lingue occidentali, il plurale sarebbe un nonsenso, sia dal punto di vista indù che da quello giudaico-cristiano e islamico, poiché questa parola, come abbiamo fatto rilevare in precedenza, potrebbe allora applicarsi solo ed esclusivamente a Îshwara nella sua indivisibile unità, che è quella dell’Essere Universale, quale che sia la molteplicità degli aspetti che vi si possono ravvisare in maniera secondaria.
[4] Matsya-Purâna. Si noterà che Buddhi non è senza rapporti col Logos alessandrino.
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