"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

martedì 20 novembre 2018

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 9. Gli involucri del «Sé»; i cinque vâyu o funzioni vitali

René Guénon 
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

9. Gli involucri del «Sé»; i cinque vâyu o funzioni vitali

Secondo il Vêdânta, Purusha o Âtmâ, manifestandosi come jîvâtmâ nella forma vivente dell’essere individuale, si riveste di una serie di «involucri» (kosha) o «veicoli» successivi, che rappresentano altrettante fasi della sua manifestazione, e che sarebbe però completamente erroneo assimilare a dei «corpi», perché soltanto l’ultima fase è di ordine corporeo.
Va d’altronde osservato che non si può rigorosamente affermare che Âtmâ sia in realtà contenuto in questi involucri, perché, per la sua stessa natura, non è suscettibile di alcuna limitazione, né è in alcun modo condizionato da qualsivoglia stato di manifestazione.[1]
Il primo involucro (ânandamaya-kosha, in cui la particella maya significa «che è fatto di» o «che consiste» nella cosa designata dalla parola a cui è unita) non è che l’insieme di tutte le possibilità di manifestazione che Âtmâ racchiude in Sé, nella sua «permanente attualità», allo stato principiale e indifferenziato. È detto «fatto di Beatitudine» (Ânanda), perché il «Sé», in questo stato primordiale, gode della pienezza del proprio essere; tale involucro non è nulla di veramente distinto dal «Sé», è superiore all’esistenza condizionata, che lo presuppone, e si colloca al grado dell’Essere puro: perciò è ritenuto caratteristico di Îshwara.[2] Siamo dunque nell’ordine informale; ma soltanto quando lo si considera in rapporto alla manifestazione formale, e nella misura in cui contiene il principio di quest’ultima, è possibile affermare che questo involucro è la forma principiale o causale (kârana-sharîra), ciò da cui la forma sarà manifestata e attualizzata negli stadi successivi.
Il secondo involucro (vijnânamaya-kosha) è costituito dalla Luce (in senso intelligibile) direttamente riflessa della Conoscenza integrale e universale (Jnâna, la particella vi implicando il modo distintivo);[3] esso è composto delle cinque «essenze elementari» (tanmâtra), «concepibili», ma non «percettibili», nel loro stato sottile; e consiste nella congiunzione dell’intelletto superiore (Buddhi) con le facoltà principiali di percezione che procedono rispettivamente dai cinque tanmâtra, e il cui sviluppo esteriore costituirà i cinque sensi nell’individualità corporea.[4] Il terzo involucro (manomaya-kosha), nel quale il senso interno (manas) è unito con il precedente involucro, implica in particolar modo la coscienza mentale[5] o facoltà pensante, che, come abbiamo detto precedentemente, è di ordine esclusivamente individuale e formale, e il cui sviluppo procede dall’irradiarsi in modo riflesso dell’intelletto superiore in uno stato individuale determinato, che è qui lo stato umano. Il quarto involucro (prânamaya-kosha) comprende le facoltà che procedono dal «soffio vitale» (prâna), cioè i cinque vâyu (modalità di questo prâna), nonché le facoltà di azione e di sensazione (queste ultime esistevano già principialmente nei due precedenti involucri come facoltà puramente «concettive», quando, d’altra parte, era fuori discussione che ci potesse essere alcuna specie d’azione, e nemmeno di percezione esteriore). L’insieme di questi tre involucri (vijnânamaya, manomaya e prânamaya) costituisce la forma sottile (sûkshma-sharîra o linga-sharîra), in opposizione a quella grossolana o corporea (sthûla-sharîra); ritroviamo qui dunque la distinzione fra i due modi di manifestazione formale di cui già più volte abbiamo parlato.
Le cinque funzioni o azioni vitali sono chiamate vâyu, quantunque non siano propriamente aria o vento (che è il senso generale della parola vâyu o vâta, dalla radice verbale , «andare, muoversi», che abitualmente designa l’elemento aria, di cui la mobilità è una delle proprietà caratteristiche),[6] tanto più che si riferiscono allo stato sottile, non a quello corporeo; ma, come abbiamo detto, esse sono modalità del «soffio vitale» (prâna, o più generalmente ana),[7] considerato principalmente in rapporto alla respirazione. Queste funzioni sono: 1) l’aspirazione, vale a dire la respirazione considerata come ascendente nella sua fase iniziale (prâna, nel senso più stretto della parola), che attira gli elementi non ancora individualizzati dall’ambiente cosmico, per farli partecipare, mediante l’assimilazione, alla coscienza individuale; 2) l’inspirazione considerata come discendente in una fase successiva (apâna) con la quale questi elementi penetrano nell’individualità; 3) una fase intermedia fra le due precedenti (vyâna), che da una parte consiste nell’insieme delle azioni e reazioni reciproche prodotte dal contatto fra l’individuo e gli elementi ambientali e, dall’altra, nei diversi movimenti vitali che ne risultano, a cui nell’organismo corporeo corrisponde la circolazione sanguigna; 4) l’espirazione (udâna), che proietta il soffio, trasformandolo, di là dai limiti dell’individualità ristretta (cioè ridotta alle sole modalità che sono comunemente sviluppate in tutti gli uomini), nel dominio delle possibilità dell’individualità estesa, considerata nella sua interezza;[8] 5) la digestione, o l’assimilazione sostanziale intima (samâna), con cui gli elementi assorbiti divengono parte integrante dell’individualità.[9] Si specifica chiaramente che non si tratta di una semplice operazione di uno o più organi corporei; è facile rendersi conto, infatti, che tutto ciò non va compreso soltanto con riferimento alle funzioni fisiologiche analogicamente corrispondenti, ma anche con riferimento all’assimilazione vitale nel senso più ampio.
La forma corporea o grossolana (sthûla-sharîra) è il quinto e ultimo involucro, quello che corrisponde, per lo stato umano, al modo di manifestazione più esteriore; è l’involucro alimentare (annamaya-kosha), composto dei cinque elementi sensibili (bhûta), partendo dai quali sono costituiti tutti i corpi. Tale involucro assimila gli elementi composti che ha ricevuto dal cibo (anna, parola derivata dalla radice verbale ad, «mangiare»),[10] secernendo le parti più fini, che restano nella circolazione organica, ed eliminando per escrezione o rigettando le più grossolane, tranne quelle depositate nelle ossa. Come risultato di questa assimilazione, le sostanze terrose diventano la carne, quelle acquee il sangue, quelle ignee il grasso, il midollo e il sistema nervoso (materia fosforica); infatti, benché tutte le sostanze corporee siano costituite dall’unione dei cinque elementi, ve ne sono alcune in cui predomina la natura di un elemento particolare.[11]
Ogni essere organico che risieda in una forma corporea di questo tipo, possiede, a un grado di sviluppo più o meno completo, le undici facoltà individuali di cui abbiamo precedentemente parlato e, come abbiamo parimenti visto, queste facoltà sono manifestate nella forma dell’essere per mezzo degli undici organi corrispondenti (avayava, designazione che è del resto usata anche per lo stato sottile, ma soltanto per analogia con quello grossolano). Secondo Shankarâchârya[12] occorre distinguere tre classi di esseri organici in base al loro modo di riprodursi: 1) i vivipari jîvaja o yonija, o ancora jarâyuja), come l’uomo e i mammiferi; 2) gli ovipari (ândaja), come gli uccelli, i rettili, i pesci, gli insetti; 3) i germinipari (udbhijja), che comprendono allo stesso tempo gli animali inferiori e i vegetali: i primi, mobili, nascono principalmente nell’acqua, mentre i secondi, che sono fissi, nascono di solito dalla terra; tuttavia, secondo alcuni passi del Vêda, il cibo (anna), ossia ciò che è vegetale (oshadhi), viene anch’esso dall’acqua, poiché è la pioggia (varsha) che rende fertile la terra.[13]



[1] Nella Taittirîya Upanishad, 2a Valli, 8° Anuvâka, shruti 1, e 3a Valli, 10° Anuvâka, shruti 5, i nomi dei diversi involucri sono riferiti direttamente al «Sé», secondo lo stato di manifestazione in rapporto a cui esso è considerato.
[2] Mentre le altre designazioni (quelle dei quattro involucri seguenti) possono essere considerate come caratterizzanti jîvâtmâ, quella di ânandamaya conviene non solamente a Îshwara, ma, per trasposizione, anche allo stesso Paramâtmâ o al Brahma Supremo; perciò nella Taittirîya Upanishad, 2a Valli, 5° Anuvâka, shruti 1, si dice: «Differente da quello che consiste in conoscenza distintiva (vijnânamaya) è l’altro Sé interiore (anyo’ntara Âtmâ) che consiste in Beatitudine (ânandamaya)». Cfr. Brahma-Sûtra, 1° Adhyâya, 1° Pâda, sûtra 12-19.
[3] La parola sanscrita Jnâna ha la stessa radice del greco Γνωσις, radice che d’altronde è anche quella della parola «conoscenza» (da co-gnoscere), e che esprime un’idea di «produzione» o di «generazione», poiché l’essere «diviene» ciò che conosce e si realizza appunto tramite questa conoscenza.
[4] Il termine sharîra si applica propriamente a partire da questo secondo involucro, soprattutto se si dà a questa parola, interpretata con i metodi del Nirukta, il senso di «dipendente dai sei (principi)», vale a dire da Buddhi (o da ahankâra, che ne deriva direttamente e che è il primo principio di ordine individuale) e dai cinque tanmâtra (Mânava-Dharma-Shâstra, l° Adhyâya, shloka 17).
[5] Con questa espressione intendiamo qualche cosa di più, come determinazione, della coscienza individuale pura e semplice: si potrebbe dire che è il risultato dell’unione del manas con ahankâra.
[6] A questo proposito, si potrà far riferimento a quanto abbiamo detto in una nota precedente in merito ai diversi usi della parola ebraica Ruahh, che corrisponde abbastanza esattamente al sanscrito vâyu.
[7] La radice an si ritrova con lo stesso senso nel greco άνεμος, «soffio» o «vento», e nel latino anima, il cui significato vero e originario è «soffio vitale».
[8] Occorre notare che in francese expirer [«espirare, spirare»] indica allo stesso tempo «espellere il soffio» (nella respirazione) e «morire» (limitatamente alla parte corporea dell’individualità umana); questi due sensi sono entrambi in rapporto con l’udâna qui in discussione.
[9] Brahma-Sûtra, 2° Adhyâya, 4° Pâda, sûtra 8-13. Cfr. Chhândogya Upanishad, 5° Prapâthaka, 19°-23° Khanda; Maitri Upanishad, 2° Prapâthaka, shruti 6.
[10] È la radice del latino edere, e anche, quantunque in una forma più alterata, dell’inglese eat e del tedesco essen.
[11] Brahma-Sûtra, 2° Adhyâya, 4° Pâda, sûtra 21. Cfr. Chhândogya Upanishad, 6° Prapâthaka, 5° Khanda, shruti 1-3.
[12] Commento ai Brahma-Sûtra, 3° Adhyâya, 1° Pâda, sûtra 10 e 21. Cfr. Chhândogya Upanishad, 6° Prapâthaka, 3° Khanda, shruti l; Aitarêya Upanishad, 5° Khanda, shruti 3. Quest’ultimo testo, oltre alle tre classi di esseri viventi enumerate negli altri, ne menziona una quarta: quella degli esseri nati dal calore umido (swêdaja); ma tale classe può essere inclusa in quella dei germinipari.
[13] Si veda specialmente la Chhândogya Upanishad, 1° Prapâthaka, 1° Khanda, shruti 2: «I vegetali sono l’essenza (rasa) dell’acqua»; 5° Prapâthaka, 6° Khanda, shruti 2, e 7° Prapâthaka, 4° Khanda, shruti 2: anna proviene o procede da varsha. La parola rasa letteralmente significa «linfa», e abbiamo visto sopra che significa anche «gusto» o «sapore»; del resto, anche in francese, le parole sève, «linfa», e saveur, «sapore», hanno la stessa radice (sap), che è nello stesso tempo quella di savoir (in latino sapere), per l’analogia che esiste fra l’assimilazione nutritiva nell’ordine corporeo e quella cognitiva negli ordini intellettuale e mentale. Occorre inoltre far rilevare che la parola anna designa qualche volta lo stesso elemento terra, che è l’ultimo nell’ordine dello sviluppo e deriva anch’esso dall’elemento acqua, il quale lo precede immediatamente (Chhândogya Upanishad, 6° Prapâthaka, 2° Khanda, shruti 4).

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