"…la dottrina è infallibile, è a causa del fatto che essa è un’espressione della verità, la quale, in se stessa, è assolutamente indipendente dagli individui che la ricevono e che la comprendono. La garanzia della dottrina risiede in definitiva nel suo carattere «non-umano»". René Guénon, Considerazioni sull’iniziazione, cap. "Sull’infallibilità tradizionale"

giovedì 15 novembre 2018

René Guénon, L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta - 8. Manas o il senso interno; le dieci facoltà esterne di sensazione e di azione

René Guénon 
L’uomo e il suo divenire secondo il Vêdânta

8. Manas o il senso interno; le dieci facoltà esterne di sensazione e di azione

Dopo la coscienza individuale (ahankâra), l’enumerazione dei tattwa del Sânkhya comprende, nello stesso gruppo delle «produzioni produttive», i cinque tanmâtra, determinazioni elementari sottili, dunque incorporee e non percettibili esteriormente; i tanmâtra sono i principi rispettivi da cui derivano direttamente i cinque bhûta o elementi corporei e sensibili, e che trovano espressione in modo ben definito nelle condizioni stesse dell’esistenza individuale al grado dove si colloca lo stato umano. 
La parola tanmâtra indica letteralmente un’«assegnazione» (mâtra, «misura, determinazione») che delimita l’ambito proprio di una data qualità (tad o tat, pronome neutro, «quello», qui usato nel senso di «quiddità», come l’arabo dhât)[1] nell’Esistenza universale; ma non è questo il luogo per sviluppare più ampiamente tale punto. Diremo soltanto che i cinque tanmâtra sono chiamati di solito con i nomi delle qualità sensibili: auditiva o sonora (shabda), tangibile (sparsha), visibile (rûpa, nel duplice significato di «forma» e di «colore»), sapida (rasa), olfattiva (gandha); ma queste qualità, dato che saranno effettivamente manifestate nell’ordine sensibile soltanto dai bhûta, non possono essere qui considerate che allo stato principiale e «non-sviluppato»; il rapporto fra i tanmâtra e i bhûta è pressoché analogo a quello fra l’«essenza» e la «sostanza», sarebbe quindi perfettamente giustificato dare ai tanmâtra il nome di «essenze elementari».[2] I cinque bhûta sono, nell’ordine della loro produzione o della loro manifestazione (che corrisponde a quello già indicato per i tanmâtra, poiché a ogni elemento è propria una qualità sensibile), l’Etere (Âkâsha), l’Aria (Vâyu), il Fuoco (Têjas), l’Acqua (Ap) e la Terra (Prithvî o Prithivî); tutta la manifestazione grossolana o corporea è formata da questi elementi.
Fra i tanmâtra e i bhûta, a costituire con questi ultimi il gruppo delle «produzioni improduttive», vi sono undici facoltà distinte, propriamente individuali, che procedono da ahankâra e partecipano tutte contemporaneamente dei cinque tanmâtra. Di queste undici facoltà, dieci sono esterne: cinque di sensazione e cinque di azione; l’undicesima, la cui natura partecipa allo stesso tempo di queste e di quelle, è il senso interno o la facoltà mentale (manas), unita direttamente alla coscienza (ahankâra).[3] Con questo manas va messo in relazione il pensiero individuale di ordine formale (e vi includiamo tanto la ragione quanto la memoria e l’immaginazione),[4] che non inerisce in alcun modo all’intelletto trascendente (Buddhi), le cui attribuzioni sono essenzialmente informali. A questo proposito facciamo rilevare che anche per Aristotele l’intelletto puro è di ordine trascendente e ha per oggetto la conoscenza dei principi universali; questa conoscenza, nient’affatto discorsiva, è ottenuta direttamente e immediatamente dall’intuizione intellettuale, la quale, aggiungiamo subito per evitare confusioni, non ha alcun punto in comune con la pretesa «intuizione», di ordine unicamente sensitivo e vitale, così in voga nelle teorie nettamente antimetafisiche di certi filosofi contemporanei.
Per quanto riguarda lo sviluppo delle differenti facoltà dell’uomo individuale, sarà sufficiente riportare ciò che sull’argomento insegnano i Brahma-Sûtra: «L’intelletto, il senso interno e le facoltà di sensazione e di azione sono sviluppati (nella manifestazione) e riassorbiti (nel non-manifestato) in un ordine simile (ma, per il riassorbimento, in senso inverso che per lo sviluppo),[5] ordine che è sempre quello degli elementi da cui procedono queste facoltà per la loro costituzione[6] (tranne tuttavia l’intelletto, che è sviluppato, nell’ordine informale, prima di ogni principio formale o propriamente individuale). Quanto a Purusha (o Âtmâ), la sua emanazione (essendo considerato come la personalità di un essere) non è una nascita (neanche nell’accezione più estesa della parola)[7] né una produzione (che determini un punto d’inizio per la sua esistenza effettiva, come per tutto ciò che proviene da Prakriti). Non si può infatti attribuirgli alcuna limitazione (a opera di qualche particolare condizione d’esistenza), poiché, essendo identico al Brahma Supremo, partecipa alla Sua essenza infinita[8] (il che implica il possesso degli attributi divini, per lo meno virtualmente, e anche attualmente nella misura in cui questa partecipazione è realizzata effettivamente nell’“Identità Suprema”, senza parlare di tutto ciò che è di là da ogni attribuzione, poiché qui si tratta del Brahma Supremo, che è nirguna, non soltanto di Brahma saguna, vale a dire di Îshwara).[9] Esso è attivo, ma solo principialmente (è dunque “non-agente”),[10] poiché questa attività (kartritwa) non gli è né essenziale né inerente, bensì eventuale e contingente (relativa soltanto ai suoi stati di manifestazione). Come il carpentiere, che ha in mano l’ascia e gli altri suoi utensili, li mette poi da parte e gode della tranquillità e del riposo, così questo Âtmâ, in unione con i suoi strumenti (per mezzo dei quali le sue facoltà principiali sono espresse e sviluppate in ciascuno dei suoi stati di manifestazione, e che quindi non sono altro che queste facoltà manifestate con i loro rispettivi organi), è attivo (quantunque questa attività non ne alteri l’intima natura) e, quando li abbandona, gode del riposo e della tranquillità (nel “non-agire”, da cui, in Sé, non è mai uscito)».[11]
«Le diverse facoltà di sensazione e di azione (designate dalla parola prâna in un’accezione secondaria) sono undici: cinque di sensazione (buddhîndriya o jnânêndriya, mezzi o strumenti di conoscenza nel loro ambito particolare), cinque d’azione (karmêndriya) e il senso interno (manas). Là dove se ne trova specificato un numero maggiore (tredici), il termine indriya è usato nel suo senso più ampio e comprensivo, distinguendo nel manas, per la pluralità delle sue funzioni, l’intelletto (non in sé e nell’ordine trascendente, ma come determinazione particolare in rapporto all’individuo), la coscienza individuale (ahankâra, da cui il manas non può essere separato) e il senso interno propriamente detto (quello che i filosofi scolastici chiamano “sensorium commune”). Là dove è menzionato un numero minore (sette, di solito), la stessa parola è usata in un’accezione più ristretta: così, si parla di sette organi di senso, con riferimento ai due occhi, ai due orecchi, alle narici e alla bocca o alla lingua (perciò in questo caso si tratta soltanto delle sette aperture o orifizi della testa). Le undici facoltà summenzionate (sebbene designate nel loro insieme con la parola prâna) non sono (come i cinque vâyu, di cui parleremo) semplici modificazioni del mukhyaprâna o dell’atto vitale principale (la respirazione, con l’assimilazione che ne risulta), ma principi distinti (dal punto di vista particolare dell’individualità umana)».[12]
Il termine prâna, nella sua accezione più abituale, significa propriamente «soffio vitale»; ma, in alcuni testi vedici, ciò che viene così designato è, in senso universale, identificato con lo stesso Brahma, come quando si dice che nel sonno profondo (sushupti) tutte le facoltà sono riassorbite nel prâna, poiché, «mentre un uomo dorme senza sognare, il suo principio spirituale (Âtmâ, considerato in rapporto a lui) è tutt’uno con Brahma»,[13] questo stato essendo al di là della distinzione, dunque veramente sopra-individuale: perciò la parola swapiti, «dorme», è interpretata come swam apîto bhavati, «è entrato nel proprio (“Sé”)».[14]
Quanto alla parola indriya, essa significa propriamente «potere», che è anche il senso primario della parola «facoltà»; ma, per estensione, il suo significato, come già abbiamo accennato, comprende allo stesso tempo la facoltà e il suo organo corporeo, il cui insieme si ritiene costituisca uno strumento di conoscenza (buddhi o jnâna, parole prese qui nella loro accezione più vasta) oppure di azione (karma), e che così sono designati dalla stessa parola. I cinque strumenti di sensazione sono: gli orecchi o l’udito (shrotra), la pelle o il tatto (twach), gli occhi o la vista (chakshus), la lingua o il gusto (rasana), il naso o l’odorato (ghrâna), poiché sono enumerati secondo l’ordine di sviluppo dei sensi, che è quello degli elementi (bhûta) corrispondenti; ma, per esporre dettagliatamente questa corrispondenza, sarebbe necessaria una trattazione completa delle condizioni dell’esistenza corporea, ciò che qui non possiamo fare. I cinque strumenti d’azione sono: gli organi di escrezione (pâyu), gli organi generatori (upastha), le mani (pâni), i piedi (pâda) e infine la voce o l’organo della parola (vâch),[15] che è il decimo nell’enumerazione. Il manas dev’essere considerato l’undicesimo, dato che svolge per sua natura una duplice funzione, in quanto serve allo stesso tempo alla sensazione e all’azione e, di conseguenza, partecipa alle proprietà degli uni e degli altri strumenti, che accentra in certo modo in se stesso.[16]
Per il Sânkhya, queste facoltà, con i loro organi rispettivi, sono, distinguendo tre principi nel manas, i tredici strumenti della conoscenza nell’ambito dell’individualità umana (poiché l’azione non ha il suo fine in se stessa, ma solo in relazione alla conoscenza): tre interni e dieci esterni, paragonati a tre sentinelle e a dieci porte (il carattere cosciente essendo inerente ai primi, ma non ai secondi, se li si considera distintamente). Un senso corporeo percepisce e un organo d’azione esegue (l’uno è in certo senso una «entrata», l’altro una «uscita»: sono due fasi successive e complementari, di cui la prima è un movimento centripeto e la seconda centrifugo); fra i due, il senso interno (manas) esamina; la coscienza (ahankâra) fa l’applicazione individuale, vale a dire l’assimilazione della percezione all’«io», di cui essa ormai fa parte a titolo di modificazione secondaria; infine, l’intelletto puro (Buddhi) traspone nell’Universale i dati delle facoltà precedenti.






[1] Crediamo opportuno far notare che i termini tat e dhât sono foneticamente identici fra loro e con la parola inglese that, che ha lo stesso significato.
[2] In un senso che si avvicina molto a questo modo di intendere i tanmâtra, Fabre d’Olivet, nella sua interpretazione del Genesi (La Langue hébraïque restituée), usa l’espressione «elementizzazione intelligibile».
[3] Sulla produzione di questi diversi principi dal punto di vista «macrocosmico», cfr. Mânava-Dharma-Shâstra (Legge di Manu), 1° Adhyâya, shloka 14-20.
[4] Indubbiamente bisogna intendere in questo senso ciò che dice Aristotele: «l’uomo (in quanto individuo) non pensa mai senza immagini», vale a dire senza forme.
[5] Ricordiamo che non si tratta in alcun modo di un ordine di successione temporale.
[6] Può trattarsi allo stesso tempo dei tanmâtra e dei bhûta, secondo che gli indriya siano considerati allo stato sottile o a quello grossolano, cioè come facoltà o come organi.
[7] Si possono, infatti, chiamare «nascita» e «morte» il principio e la fine di un ciclo qualunque, vale a dire dell’esistenza in uno qualsiasi degli stati di manifestazione, e non solamente in quello umano; come spiegheremo più avanti, il passaggio da uno stato a un altro è allora allo stesso tempo una morte e una nascita, secondo che lo si consideri in rapporto allo stato antecedente o a quello conseguente.
[8] La parola «essenza», quando la si applica così, analogicamente, non è più il correlativo di «sostanza»; d’altronde, ciò che ha un qualunque correlativo non può essere infinito. Parimenti, la parola «natura», riferita all’Essere Universale o anche a ciò che è di là dall’Essere, perde interamente il suo senso proprio ed etimologico, insieme all’idea di «divenire» che vi è implicita.
[9] Il possesso degli attributi divini è chiamato in sanscrito aishwarya, poiché è una vera e propria «connaturalità» con Îshwara.
[10] Aristotele ha avuto ragione a insistere anche su questo punto, che il primo motore delle cose (o il principio del movimento) dev’essere immobile; ciò equivale a dire, in altre parole, che il principio di ogni azione dev’essere «non-agente».
[11] Brahma-Sûtra, 2° Adhyâya, 3° Pâda, sûtra 15-17, 33-40.
[12] Brahma-Sûtra, 2° Adhyâya, 4° Pâda, sûtra 1-7.
[13] Commento di Shankarâchârya ai Brahma-Sûtra, 3° Adhyâya, 2° Pâda, sûtra 7.
[14] Chhândogya Upanishad, 6° Prapâthaka, 8° Khanda, shruti 1. È inutile dire che si tratta di una interpretazione ricavata con i procedimenti del Nirukta, non di una derivazione etimologica.
[15] Il termine vâch è identico al latino vox.
[16] Mânava-Dharma-Shâstra, 2° Adhyâya, shloka, 89-92.

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